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Autore: AMYpond88    11/04/2023    2 recensioni
Suguru lo sogna ormai ogni notte.
Non ha idea di chi sia lui... anche se dopo così tanti giorni inizia a pensare di conoscerlo.
A volte è un adulto, un suo coetaneo, a volte solo un ragazzino... anche piuttosto petulante.
A volte sembra in pericolo, a volte è Il pericolo.
Ma questa volta il ragazzo con i capelli bianchi pare davvero nei guai...
Genere: Angst, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Okkotsu Yuta
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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"Ti ricordi lo scorso Mitama Matsuri?"
"Sì, avevi uno yukata splendido! Ma non è la sera che quello stupido ti ha baciata?"
Le due ragazzine quasi lo urtano e nemmeno se ne accorgono, troppo concentrante a parlare fitto fitto tra loro, le frasi che non riescono a trovare una conclusione, soffocate da una risata o da un gridolino.
Le loro parole però, si lasciano qualcosa dietro.
Il ricordo delle luci, dei profumi, dei suoni del festival estivo.
Una frase sussurrata, come se fosse un segreto.

"Posso baciarti, Suguru?"

La voce che saltella nel chiuso del suo cervello è dannatamente simile a quella dell'uomo che ha di fronte.
È solo stranamente timida, più spensierata e giovane.
Arriva, forse torna, portando a braccetto un ricordo che si fa strada nella sua memoria, pigro e lento come una sera d'estate.
Di lanterne e bancarelle, di stoffe colorate e di uno yukata blu come il cielo di luglio.
Di una mano che avvolge il suo polso e lo trascina via, di dita affusolate che si intrecciano alle sue, di corse, di un angolo di prato sotto il cielo di Tokyo.
È il ricordo di capelli bianchi che gli solleticano il viso.
Di profumo di shampoo alle mandorle, fresco nella calura della sera, del canto dei grilli che riempie l'aria pregna dell'odore di takoyaki.
Di un ragazzo con le guance rosse per la corsa, bagnate d'oro dalla luce delle lanterne.

"Non sono mai stato al Mitama Matsuri, sai?"

"Sei così bello..."

"Posso baciarti, Suguru?"

La cantilena meccanica dall'autoparlante avvisa dell'arrivo del treno al binario e Suguru sbatte le palpebre una, due, tre volte, mentre il ricordo perde forma, con lo scoppio gentile di una bolla di sapone.
O sarebbe meglio dire di un fuoco d'artificio, lasciando dietro di sè scintille che ancora continuano a brillare nella sua testa.
Tipo farfalle nello stomaco? A trent'anni?, si chiede un pochino indignato con se stesso.
Si domanda anche chi in Giappone non sia mai capitato almeno una volta al Mitama Matsuri.
Lui c'è stato ovviamente. Ogni estate, da bambino.
Anche quando tutto ha iniziato ad andare male, anche dopo che i suoi hanno cominciato a guardarlo come se qualcosa in lui non quadrasse.
Quelle sere di luglio erano momenti felici, quando la visita al tempio li portava tutti in città.
Il loro angolo di provincia rimaneva alle spalle e con esso i compagni di classe, le loro occhiate, i mormorii dei vicini sul 'figlio strano dei Geto'.
Ricorda anche il primo da solo con Nanako e Mimiko, poco più che bambine, tutte fiere nei loro yukata, leggermente impacciate mentre correvano tra una bancarella e l'altra con ai piedi i geta nuovi, così diversi dalla scarpe da ginnastica che erano già solite indossare.
Ma tra tutti quei ricordi, come si incastra quello che gli è appena corso alla mente?
Non è mai stato ad un festival con il ragazzo che ha di fronte.
Non avrebbe potuto. Fino al giorno prima, l'altro era solo una presenza strana nei suoi sogni.
Perché è così chiaro, allora?
Perché si intreccia a quello di Nanako che lo tira per una mano a vedere uno yukata blu, che lei e la sorella avevano adocchiato per lui?
È tutto lì, nella sua mente. E mentre le loro voci si confondono, teme di star perdendo la testa.

"Possiamo pettinarti noi, vero Ni-Chan?"

"Hai capelli così belli, Geto Sama..."

"Posso baciarti, Suguru?"

"Ehi, stai bene?"
Una voce reale, o almeno spera che lo sia e non si riveli l'ennesimo parto della sua mente, richiama la sua attenzione.
Il fischio del treno in arrivo sul binario gli conferma che sì, quella è la realtà.
E in carne ed ossa è anche la versione di Satoru Gojo che ha davanti e che lo sta guardando come se fosse totalmente pazzo.
Una parte del suo cervello, quella che ancora funziona, gli fa notare che sarebbe carino, dopo aver fatto la figura dello stronzo con lui il giorno prima, non fare anche quella dell'idiota.
"Sì, solo un po' di stanchezza...", cerca di ricomporsi.
"Grazie", aggiunge, abbassando lo sguardo sul piccolo Megumi e rivolgendo un sorriso al suo allievo.
"Fushiguro Kun, pronto per andare in classe?"
Il bambino annuisce con fare scocciato, prima di nascondersi dietro alle gambe del tutore.
Suguru mantiene il suo sorriso calmo, ben attento a non invadere i confini che il piccolo ha costruito attorno a sé.
Si trattiene a malapena dall'alzare gli occhi al cielo, anzi forse non si limita affatto, vedendo Gojo fare l'esatto opposto. Il ragazzo si gira a guardare verso i suoi talloni, ridacchiando mentre prende Megumi tra le braccia per stanarlo dal suo nascondiglio.
Con una mossa che deve essergli abituale, rapida e fluida, se lo aggancia ad un fianco.
"Ehi, non fare il maleducato...", aggiunge, pizzicando il naso del piccolo.
Megumi quasi soffia, strappando ad entrambi un sorriso.
Privato del suo nascondiglio, il bambino borbotta una o due frasi, prima di agganciare il mento alla spalla dell'adulto, nascondendo il viso.
"Fare lo scontroso non ti renderà certo più affascinante, Scimmietta", lo riprende Gojo.
Il tono però è dolce e l'insegnante deve trattenersi dal far diventare il suo sorriso troppo ampio.
Ascolta il bambino brontolare un 'non sono una scimmietta', mentre continua ad impegnarsi nel suo tentativo poco riuscito di sparire nella giacca del tutore.
Poi, lo sguardo di Gojo si sposta su di lui e Suguru deve fare uno sforzo per rimanere focalizzato sulle sue parole.
"Perdonalo, Geto Sensei...", sbuffa, sistemandosi meglio il piccolo Fushiguro addosso.
E più piano, quasi mimando le parole, in modo che solo lui possa sentire: "nottata difficile".
"Non preoccuparti, Gojo San".
Gojo San... è strano chiamarlo così, sembra sbagliato.
È come se dovesse sputare fuori le parole.
Anche l'altro sembra stranito, quasi stupito dall'uso dell'onorifico e dalla formalità di Suguru.

Il silenzio si fa imbarazzante finchè Gojo non lo interrompe (e chi se non lui), con un 'quasi scordavo', masticato tra i denti.
Si fruga in tasca e gli allunga un biglietto da visita.
"Ieri mi sono dimenticato, questo è il mio numero... "
Suguru cerca di frenare la mano, ma quella già si è sporta a prendere il biglietto.
Qui non c'entrano gli strani scherzi che l'arto sembra divertirsi a fargli ormai quasi quotidianamente, ora è solo lui che è un idiota.
Vorrebbe correre ai ripari, dire che non può accettarlo, non sarebbe professionale, ma le parole gli rimangono incastrate da qualche parte tra lo stomaco e la gola.
Regala all'uomo dai capelli bianchi un vantaggio che l'altro non esita a cogliere.
"Dai, oggi non sono nemmeno vestito come un quindicenne".
Gojo mette su un sorriso gentile. Sembra flirtare con lui, la voce più bassa di un'ottava o due.
Mentre parla si sfila gli occhiali, infilandoli nella tasca del cappotto.
Colpo basso. Colpo estremamente basso, pensa Suguru, mentre non può fare a meno di rimanere stordito dall'azzurro insensato degli occhi di Satoru.

Non fare l'idiota, si schernisce, imbarazzato dai suoi stessi pensieri, decidendo di soffocarli, partendo al contrattacco.
"Beh, sì... oggi sembri quasi un adulto", ribatte, soddisfatto di quanto la sua voce suoni tranquilla.
La risposta è un'espressione tanto offesa da essere al limite del teatrale, con tanto di mano al petto.
Gli occhi di Satoru però sorridono tutto il tempo, complici.
Sembra quando torna il sole, si trova a pensare Suguru, sbattendo le palpebre immediatamente dopo, nel tentativo di liberarsi di quell'idea.
"Occasione particolare?", chiede fingendo indifferenza, lasciando però correre lo sguardo sulla figura dell'altro.
Si sofferma un po' troppo, ne è consapevole. Si giustifica ricordandosi improvvisamente di avere un debole per cappotti lunghi e dolcevita neri come quelli indossati da Gojo.
"Semplice lavoro", risponde l'altro uomo, probabilmente fingendo di non aver notato la sua occhiata.
"Scherzavo comunque, il biglietto è quello di Utahime Iori, una amica speciale di Megumi..."
Fa cenno al cartoncino che Geto non si è accorto di tenere tra le sue mani.
Quando diamine l'ho preso?, si chiede.
È un idiota, conclude per la seconda volta in nemmeno dieci minuti. Pensava di essere diventato pazzo, invece si è anche instupidito, a quanto pare Gojo gli fa quell'effetto.
Gli sarebbe bastato guardare il biglietto da visita, per leggere il nome della donna, con a fianco la qualifica 'Psicologa infantile'.
Alza lo sguardo incredulo verso Gojo e come unica spiegazione al siparietto appena vissuto, riceve un sorriso tronfio e un occhiolino.
Si gratta la fronte con indice e medio, gesto che si trova a fare quando ha una scelta da prendere.
In quel momento davvero non sa se ha più voglia di tirare un pugno in faccia al ragazzo o... nulla, vuole solo davvero tirargli un gancio destro su quel viso angelico che l'altro si ritrova.
Il fatto che l'altro abbia un bambino in braccio e che siano in un luogo pubblico, lo fa optare per una soluzione differente.
Questo e l'alta probabilità che un occhio nero finirebbe per renderlo solo schifosamente più attraente.
Niente cazzotto, quindi. Opta per grattarsi la nuca, ricambiando il sorriso.

Il treno si decide ad arrivare e lui si trova a guardare il convoglio avvicinarsi come un'ancora di salvezza.
Non può fare a meno di chiedersi, da quando in Giappone i treni ci mettano tanto a palesarsi.
Proprio oggi, le ferrovie hanno deciso di combattere gli stereotipi?
Proprio mentre sta cercando una scusa per salire su un vagone diverso da quello del suo allievo e del suo tutore, Gojo riprende a parlare, facendolo sobbalzare.
"Comunque se ti servisse anche il mio, è sullo zainetto di Megumi".
Potrebbe far finta di non aver sentito, ma il suo corpo (infame) lo tradisce ancora una volta e lui si ritrova a far cenno di 'sì' con la nuca.
"Satoru", aggiunge l'uomo, salendo sul vagone. "Niente onorifici, solo Satoru".
"Puoi chiamarmi Suguru", risponde dopo qualche istante.
A ribattere, resta la voce meccanica dall'autoparlante della stazione.
Imbambolato sul binario, ci mette qualche secondo a rendersi conto che dovrà aspettare il prossimo treno.

*

"Iori, io ho un lavoro", specifica, sbuffando in modo teatrale mentre si leva la giacca. Fa davvero troppo caldo in quella stanza.
"Che non è nemmeno vicinissimo al tuo studio...", aggiunge, con un certo fastidio.
Appoggia il palmo della mano alla scrivania per darsi un minimo di equilibrio, mentre riprende a muovere i fianchi.
"Non è che puoi chiamarmi ogni volta che la madre di un ragazzino ti fa girare le scatole..."
L'altra mano va a coprire la bocca di Utahime, che sta diventando davvero troppo rumorosa per essere le due di pomeriggio.
Ci manca che la stagista della donna entri e becchi la sua mentore sperimentare nuovi fantasiosi usi per la scrivania dell'ufficio.
Tipo starci piegata sopra. Con lui dietro.
Senza contare che è quasi certo che la ragazza abbia una cotta per lui. Miwa? Si chiama Miwa, giusto?
Iori però sembra non gradire il tentativo di evitarle una figuraccia, vista la morsicata che tira alle sue dita.
"Ahi!", grida, stupendosi di quanto la sua voce suoni stridula, mentre ritira la mano come scottato.
"Allora cerca di fare meno casino", sussurra direttamente nel suo orecchio, assicurandosi di suonare più minaccioso di un sedicenne alle prime armi.
Pianta una sculacciata sulla natica della donna, tanto per rimarcare il concetto.
Oltre che per vendicarsi per la morsicata.
È distratto. Ad essere sincero ha anche una certa fretta.
Dannato lui e la mascolinità tossica che evidentemente ha interiorizzato e che  lo rende incapace di dire di 'no' quando gli viene proposto del sesso.
Sente la camicia appiccicata addosso. È come se ogni grammo di filato scavasse piccoli solchi fastidiosi nella sua epidermide.
Sta scopando Utahime, ma a fottere lui è la sua emicrania.
Come se avesse un tarlo a pizzicargli il cervello.
Con una parte della mente registra che fuori sta cominciando a piovere.
Corre con lo sguardo alla finestra dello studio, catturando uno spicchio di cielo grigio.
Chiude gli occhi, cercando di scacciare la sensazione di fastidio, concentrandosi sul suono delle prima gocce contro il vetro.
Il suo corpo si muove in automatico, spinge i fianchi senza pensare, mosso dall'istinto e dalla memoria muscolare, mentre la sua mente finalmente si rilassa.
Il picchiettare della pioggia si fa ad ogni istante più intenso, quasi silenzia i rumori della città.
Si fa strada nella sua testa, fino ad aprire la porta ad un ricordo, quello di una pioggia diversa.
Una pioggia che non batte sui palazzi, ma cade sui gradini in legno di una veranda, sulle foglie degli aceri di un giardino che ancora non si è tinto dei colori dell'autunno.

"...Satoru"

"Satoru, tutto bene?"

Sbatte le palpebre. Confuso.
La notte in bianco a quanto pare si fa sentire più del previsto.
Riprende fiato. Fa scendere Utahime dalla scrivania, per sedercela sopra e infilarsi tra le sue gambe.
"Sì, certo, perché non ti piace?", chiede con il tono più provocatorio che riesce a fare.
Vuole liberarsi della sensazione di tristezza che gli attanaglia lo stomaco il più velocemente possibile.
"A me sì, ma sto cominciando a chiedermi se sta piacendo a te..."
Iori lo guarda con una vaga preoccupazione nello sguardo.
È decisamente tranquilla, per la posizione in cui si trovava fino a qualche minuto prima, Satoru gliene dà atto.
È anche drammaticamente loquace.
La cosa lo punge anche un po' sul vivo, deve ammetterlo.
Secondo la sua esperienza, a questo punto la sua dialettica dovrebbe essere poco più che un pasticcio incoerente.
"Vuoi ricordarti una dannata volta che sono una psicologa?", continua lei.
"Infantile", sottolinea Gojo, prima di mordere la pelle bianca del collo.
"E non osare darmi del bambino ora, Hime".
La donna sta per ribattere, ma qualsisi frase stia per dire, muore sul gemito che non riesce a trattenere, mentre lui assesta una spinta più convinta delle altre.

La pioggia continua a battere, quasi un sussurro costante nella sua mente.
Porta rumori, suoni, colori che sembrano venire da lontano.
E visi, uno in particolare.
E voci, una più forte delle altre.

"Il grande Satoru Gojo mi ha degnato di una visita?"

"Cosa?", chiede stordito ad Utahime, che persa nel suo piacere manco lo ascolta.
Ma la voce non è la sua. Non era nemmeno quella di una donna.
La conosce, però. È quella che sente ormai di continuo, una notte dopo l'altra.
Anche se mai così tagliente, così fredda, a malapena ingentilita da una maschera di finta condiscendenza.
Non importa, lo attira comunque.
Satoru si lascia andare, scivolare, correndo dal presente al ricordo.
Nella sua testa si dipinge chiara l'immagine di un uomo dai capelli neri sciolti sulle spalle, tanto lunghi da arrivare fino ai reni.
Lo sguardo perso, incatenato alla pioggia d'agosto.
Non lo guarda mentre parla, scandendo le parole lentamente. Il tono cantilenante e strafottente, non riesce a cancellare la tristezza che cerca di nascondere.
Suguru è deluso. Per questo non lo degna del suo sguardo, Satoru lo sa.
Legge la sua rabbia, la vede nelle dita chiuse a pugno dell'uomo, tanto strette da far sbiancare le nocche.
Le parole possono mentire, il corpo no.

"Satoru hai detto qualcosa?"
Le voce di Utahime risuona lontana, distante come un'eco.
Quella di Suguru, invece, scava nel profondo.
In una parte del suo cervello, Gojo prova a ritrovare un po' di razionalità.
Cerca di tenere a mente che quello è un ricordo non suo, per un istante ne è consapevole, ma sente comunque che gli appartiene così intimamente, da non riuscire a staccarsene.
È come dondolare, un andirivieni assurdo, fino a non comprendere quale sia la realtà.
Sceglie. Sceglie di permettere che il profumo della pioggia riempia le sue narici.
Ed è realmente lì, a vivere quella strana epifania nella pelle di qualcun'altro che è anche la sua.
Dimentica tutto, dimentica il traffico di Tokyo e il mal di testa, il lavoro e il sesso.
È davvero lì, a godere di ogni istante che può concedersi a bere l'immagine di quello che sa essere Suguru.
Non il suo Suguru, se così può definire l'insegnante che ha incontrato sul binario quella mattina.
Questo è il Suguru di un altro Satoru, lo sa. Lo sente, ma non gli importa.
Non può fare a meno di guardarlo. Sembra un quadro, a piedi nudi su una veranda dal pavimento in legno, con un kimono leggero che gli scivola addosso e la pioggia che gli bagna il viso.
È così bello da spezzargli il cuore, ma ciò non lo rende meno pericoloso.
È freddo, corrotto, spezzato.
Calmo della pace che si trova nell'occhio di un ciclone o nell'elettricità che attraversa l'aria prima della tempesta.

"Non ti vedo da mesi..."
È appena un sussurro, sputato fuori, a denti stretti, ma quelle parole sono veleno sulla pelle di Gojo.
Lo sa, di meritare quella rabbia. Lo sa, perché la conosce bene. Quella di Suguru è la stessa che lacera lui.
Ma è anche consapevole di non poter fare altro, di non poter dare altro all'uomo di fronte a lui.
Solo pochi, frettolosi attimi, spesso ridotti ad amplessi disperati, a sfuriate altrettanto laceranti o a silenzi assordanti. È tutto quello che lo stregone più forte ha da dare all'amore della sua vita, alla sua maledizione.
Sa bene che sono le loro scelte ad averli portati a questo.
Vorrebbe abbracciarlo, portarlo indietro. Portare indietro i giorni per lui. Amarlo.
Non può.
Non in quel tempo, né in quel luogo.
In quell'istante si accontenterebbe anche di meno, gli basterebbe che lo guardasse, che lo degnasse di uno sguardo.
L'uomo lo fa e lui si ricorda che dovrebbe fare attenzione a quello che desidera, perché se Suguru ormai è più maledizione che uomo, il dolore nei suoi occhi è dannatamente umano.

"Vattene Satoru..."

"Satoru, fermati..."

Questa volta la voce è quella di Utahime. È chiara, reale, vicina.
Blocca ogni movimento, ogni muscolo, terrorizzato dall'aver fatto qualcosa di sbagliato.
Sbatte le palpebre, tornando al presente.
Una mano di Iori è sulla sua guancia, lo sguardo della donna ora è davvero preoccupato.
"Satoru... stai piangendo?"
Come un automa sposta la mano dell'amica dal suo viso, sfiorando la propria pelle.
Trovarla bagnata non lo stupisce nemmeno.

Nei minuti che seguono, in qualche modo, riesce a seppellire nel profondo gli occhi pieni di dolore di Suguru Geto.
O almeno, quello di un Suguru Geto diverso, più problematico di quello in cui è incappato lui. O almeno spera.
"Ehi, aiutami con la zip, si è incastrata..."
Smette di litigare con i polsini della sua camicia, per dedicarsi alla cerniera della gonna della donna.
"Allora...", esordisce lei, tastando le acque con modi insolitamente cauti.
Lo sta trattando come se fosse un suo paziente, un qualche ragazzino odioso e viziato. Satoru lo odia.
"Non stai per psicanalizzarmi...", premette, mettendo le mani avanti.
Almeno metaforicamente, nella realtà non può farlo, è troppo impegnato a litigare con quella dannata cerniera.
Non è stata tanto difficile da slacciare, pensa, sbuffando via un ciuffo di capelli dagli occhi.
Utahime lo ignora, proseguendo nei suoi tentativi di aprire un dialogo su quanto appena successo, girandogli intorno come fa quotidianamente con bambini particolarmente poco inclini a dialogare.
"Per tanto che mi dispiaccia perdermi il mio orgasmo settimanale..."
Satoru sgrana gli occhi, spera seriamente non esordisca così anche con i suoi piccoli pazienti. Perlomeno non con Megumi.
Con lui funziona però, se ne accorge tardi, quando ormai è caduto nella trappola della donna.
Prima di rendersene conto, abbandona il suo mutismo e scatta sulla difensiva.
"I tuoi orgasmi, so contare Hime".
La donna ruota gli occhi, senza prestargli attenzione.
"In ogni caso, magari hai bisogno di parlare un po'?"
Ripensa alle ultime ventiquattro ore. All'ultimo mese e ai sogni assurdi che ora paiono voler invadere anche la vita reale.
Forse è davvero il caso di affrontare il problema.
"Hai appuntamenti la prossima ora?", chiede. Al segno di diniego di Iori, si lascia cadere sulla poltroncina dedicata ai pazienti, distendendo le gambe sul tappeto decorato con facce di animaletti. Si mette comodo, sarà un'ora lunga.
"Sta notte ho avuto un incubo..."


Un altro posto, un altro momento


Yutaa, Yutaa, Yutaaa

Il cuore gli rimbomba nelle orecchie, al ritmo dei suoi stessi passi.
Lo scricchiolio delle assi del pavimento sotto i suoi piedi è l'unico rumore nel silenzio assoluto dei corridoii dell'Istituto di Arti Occulte.
Almeno, l'unico udibile da altri.

Yutaaa, Yutaaaa, Yutaaaa

Okkotsu si ferma, sistema meglio la katana al suo fianco. Solitamente la porta sulla schiena, ma dopo quanto è successo, con i fatti di Shibuya, le vittime, Satoru Gojo sigillato, si appiglia a qualsiasi cosa gli possa dare sicurezza.
E ora ne ha bisogno anche lì, anche nel primo posto che è riuscito a chiamare casa.
Lì, dove imparando a proteggere, si è sentito protetto. E tutto grazie al Sensei.

Yutaaa, Yutaaaa, Yutaaaa
"Rika..."
La sua risposta è appena un sussurro, sospirato piano mentre accarezza con le dita l'anello che porta al collo. È sufficiente perché alle sue spalle si manifesti la maledizione.
L'energia di Rika è al solito ad un tempo rassicurante e spaventosa, come solo un abisso può esserlo.
Famigliare, conosciuta, tanto quanto lo è la sensazione dei filamenti dell'anima della ragazza ormai tessuti nella sua.
Eppure Rika è ancora capace di terrorizzare ed annichilire anche lui, quando prende la forma della sua peggior paura: quella di non saper più distinguere dove inizia l'uomo e dove finisce la maledizione.
È lo stesso timore che prova in momenti come questi, quando non capisce nemmeno se quella che sente ribollire, è la rabbia di Rika o la sua.
Geto Suguru a furia di ingoiare maledizioni, era a poco da trasformarsi in una di esse, quando lo ha affrontato.
Finirà anche lui così?
Cosa lo rende in grado di tenere controllata La Regina delle maledizioni, senza pagarne il prezzo?
Imprigionata, non può fare a meno di pensare, sentendo la colpa pesargli nello stomaco come un macigno.
"Rika, non in questa forma per favore". L'artiglio che preme contro il suo fianco si ritira, lasciando una piccola mano che in pochi secondi si aggrappa alla sua.
L'entità davanti a lui quasi non gli arriva al petto.
"Rika ama Yuta, vuole proteggere Yuta", recita la maledizione dalla voce e dall'aspetto di bambina.
"E anche gli amici di Yuta", aggiunge, dopo un attimo di esitazione, dandogli l'impressione di averlo detto unicamente per fargli piacere.
"Ma Yuta ora ha paura, Rika lo sente", conclude, stringendo appena la mano del ragazzo.
"Gli altri non devono rendersene conto, vero?", risponde lui, chinandosi all'altezza della bambina.
"Rika, il prof ha detto di proteggerli", aggiunge. "Possiamo farlo solo noi e lo faremo a qualsiasi costo"

"Shake..."
Fermo sullo stipite della porta, Yuta rimane congelato a guardare una delle conseguenze dei fatti di Shibuya.
Seduto sul letto, avvolto nelle bende, Toge gli pare così piccolo.
Le fasce sono coperte dai caratteri che formano sigilli, posti per evitare che l'energia maledetta dell'attacco di Sukuna faccia più danni di quanti ne abbia già fatti.
Quello è il massimo che erano riusciti a fare.
Il viso del ragazzo è pallido, i marchi del clan Inumaki risaltano sulla pelle bianca, così come le occhiaie scure.
Okkotsu si sente sprofondare.
"Ehi... come stai?", sussurra, avvicinandosi cauto.
L'altro fa spallucce, poi lancia un'occhiata al moncherino del braccio.
"Scusami, domanda stupida...", riprende Yuta, "Sono un idiota"
"Okaka!"
Toge scuote la testa, prima di indicargli con la mano rimasta, lo spazio vuoto al suo fianco.
Con occhi bassi, obbedisce e si lascia cadere sulle coperte.
Tiene lo sguardo fisso sulle sue stesse mani, lasciate abbandonate in grembo.
Non riesce a guardare le ferite del compagno. Soprattutto, non può non pensare che avrebbe potuto far qualcosa per evitare tutto questo.
"Tuna mayo..."
Inumaki pare leggere i suoi pensieri, il tono pieno di rimprovero, mentre cerca di capire cosa stia pensando.
'È assurdo, Toge è quello che usa il linguaggio maledetto, ma il più incomprensibile dei due sei tu', aveva detto un giorno Panda, guardandoli insieme.
Yuta ricorda come Maki avesse riso, mentre Toge confermava entusiasta con una serie pressoché infinita di 'Shake, Shake'.
Gli mancano quei giorni. Soprattutto ora.
Intreccia le dita con quelle dell'altro ragazzo, portandosele alle labbra e baciandole con tutta la delicatezza che conosce.
Rika si tende, scalpita. Yuta avverte tutta la gelosia, infantile, della maledizione.
Stranamente la sua irrequietezza non lo smuove più di tanto, è un discorso che hanno già affrontato.
L'occhiata di Toge invece gli suggerisce tutto il fastidio del suo ragazzo ad essere trattato con i guanti di velluto.
Prova tenerezza e amore, per entrambi, ma in qualche modo non è riuscito a proteggere nessuno dei due.

"Io avrei potuto fermare Itadori..."
"Sukuna", si corregge, davanti allo sguardo pieno di rimprovero di Inumaki.
"Lo so che non è colpa di Yuji, non lo biasimo, ma..."
Le parole gli muoiono in gola. È stanco, stanco, stanco.
Non crede di essere pronto a quello che sa di dover fare.
"Io... avrei dovuto essere con voi", sussurra scuotendo il capo.
"Okaka...", risponde l'altro, con un tono di rimprovero nella voce che spinge Yuta ad alzare lo sguardo.
"il Sensei mi aveva avvertito che qualcosa non andava..."
"Takana..."
Okkotsu sa esattamente cosa intende e per la prima volta da quando ha messo piede in quella stanza, scoppia a ridere.
"Sì, è stato il solito idiota", concorda, sentendosi un po' in colpa, non riuscendo a nascondere l'affetto per il suo insegnante.
Non riesce a biasimare del tutto Gojo per essersi lasciato ingannare. Non lo biasimerebbe nemmeno se avesse smesso di voler combattere, dopo...
"Ma non riesco a pensare a cosa ha passato, Geto era il suo migliore amico..."
Inumaki sbatte la testa contro la sua guancia, attirando la sua attenzione. Gira il viso verso di lui, sfiora con un bacio le sue labbra, stranamente libere, senza lottare per una volta contro colli alti o sciarpe.
Ignora indispettito il borbottio di Rika, appuntandosi mentalmente di rifarle un bel discorso su quanto Toge sia importante per loro.
Si lascia andare ad un altro bacio, più profondo, cercando di non pensare a quanto Inumaki sembri piccolo e fragile tra le sue braccia.
Non sa quando potranno rivedersi, quindi si prende ancora un attimo, per posare la fronte contro quella del compagno.
"Ucciderò Kenjaku, porterò indietro il prof Gojo..."

"Lo prometto".




Mitama Matsuri, o "Festival delle lanterne", si svolge a metà luglio al Santuario Yasukuni di Tokyo. Durante i quattro giorni della festa, le bancarelle di cibo tradizionali offrono i loro piatti lungo il vicolo principale del tempio ai partecipanti solitamente vestiti con lo yukata, kimono tradizionale in cotone leggero.



Ops, ma cos'è questo ultimo paragrafo dall'universo canonico?
Chi scrive che sente la mancanza di Yuta? Anche, molto, decisamente, ma non solo.
Credo che i lettori attenti del manga, possano trovare nascosta (nemmeno tanto) il momento che ha fatto nascere questa storia. Ovviamente, la chiave di lettura verrà chiarita prima o poi. Ma non voglio spoilerare nulla, per ora beccatevi questa specie di, boh, multiverso?
Comunque, tornando al capitolo, chiedo scusa al fantasma di Joyce per un uso così bieco della sua epifania (un po' è quello che si rischia, quando le tue scelte di scrittore obbligano generazioni di studenti a leggere The Dubliners). In particolare, la parte su Suguru in veranda non doveva esserci, anzi, doveva essere la parte "leggera" del capitolo, con il buon Gojo che si faceva i fatti suoi con la sua "amica con benefici" e veniva distratto dal pensiero di Geto.
Poi che è successo? È successo che ho visto una fan art stupenda ( https://pin.it/2QC8Xdv ) e sentito a ripetizione "Snake eyes" dei Mumford and sons.
Ora che avete tutti gli strumenti per godere a pieno dell'angst partorito dalla mia mente, sperando di non metterci più due mesi per un capitolo, mando un abbraccio.

Amy
   
 
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