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Autore: Cunegonda109    21/04/2023    8 recensioni
«Se fuggire fosse la soluzione, io sarei fuggito da te tanto tempo fa, Oscar... È inutile fuggire, Oscar, credimi!»
Mi sono sempre chiesta come facesse André a esserne tanto sicuro. Ho immaginato, quindi, che in passato almeno una volta abbia provato ad allontanarsi (se non altro temporaneamente) da Oscar. Questa storia nasce per raccontare quell’esperienza.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Marron Glacé, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III
 

Lo osservò allontanarsi in sella ad Alexandre, seguendolo con lo sguardo fin dove le era dato di vedere. Non si era più voltato indietro. Le parve un segno ominoso, sicché le spiacque non aver ricambiato il suo augurio di buon viaggio, ora che nella mente affioravano in modo scomposto gli scenari più nefasti.
Da che aveva memoria era sempre stata pessimista, le era stato insegnato così. Destinata a un futuro da ufficiale militare, s’era ritenuto fosse opportuno istruire precocemente Oscar alla pratica stoica della praemeditatio futurorum malorum, perché potesse prevedere pericoli e situazioni avverse e mantenersi lucida e distaccata in frangenti nei quali lo spirito e l’intelletto sprovveduti sarebbero naturalmente preda di sorpresa e scoramento. Eppure, non v’era traccia della freddezza analitica richiesta dall’esercizio a cui era avvezza in quel suo immaginare sul cammino del proprio attendente insidie d’ogni tipo, finanche le più improbabili. Vi era, piuttosto, il carico di una coltre d’angoscia, che le era calata addosso nell’istante in cui s’era dovuta rassegnare all’inoppugnabilità della partenza di André.

Si spiegò quel turbamento profondo imputandolo alla consapevolezza che il viaggiare da soli renda più esposti e vulnerabili alle mire dei malintenzionati e che André, benché abile nell’uso della spada, perdeva d’efficacia ogni qual volta si trattasse di incrociare le lame per difendere la propria incolumità, troppo concentrato a badare a non mettere davvero a repentaglio quella dell’avversario. Mille volte gli aveva rimproverato quell’esitazione, che un giorno avrebbe potuto costargli molto cara, ma non c’era mai stato verso di convincerlo a combattere, alla bisogna, anche con l’espressa intenzione di ferire, non solo per disarmare. Ché quello era fatto così: mite, sensibile, assennato, senza una stilla di crudeltà in corpo e incapace di nuocere ad anima viva. Incapace, lo sapeva bene, pure di serbare rancore.

In piedi presso il proprio letto, con la mano sinistra avvolta per sostenersi a una delle colonne intagliate del baldacchino e la destra stretta a pugno contro la fronte, in quella che era la sua emblematica posa cogitabonda, si macerava in tali pensieri, quando una cameriera bussò per chiederle disposizioni riguardo al pranzo. Nonostante non avesse particolarmente appetito, diede ordine che le fosse portato nei propri appartamenti e che fosse la governante in persona a servirglielo.
Non trascorsero che pochi minuti e Marie Grandier si materializzò con l’usuale solerzia, recando le vivande su un vassoio, che poggiò sull’ottomana di broccato scarlatto posizionata davanti al camino spento del salottino privato di Oscar, per poi preparare la mise en place sul tavolino vicino. La giovane la osservò con attenzione, notando che l’altra non sembrava tradire alcuna apprensione e che nulla pareva impensierirla, se non il rischio di farsi sfuggire – Dio ce ne liberi! – un men che perfetto allineamento delle posate.

Quella intuì d’essere minuziosamente scrutata e, con la confidenza che le era naturale nei riguardi della “sua bambina”, la anticipò: «È inutile che tu mi faccia domande, Oscar. Non potrei rispondere: gliel’ho promesso…»
«Perché?», con tono più deluso che contrariato.
«Per lui è importante», rispose semplicemente l’anziana, che notò l’espressione crucciata della giovane donna farsi ancora più densa a quelle parole. Quindi, con voce rassicurante, fiutando che quella si stesse arrovellando tra ipotesi fosche o che gettavano ombre sull’onorabilità del nipote, senza indugio aggiunse: «Non c’è nulla di cui ti debba preoccupare, cara. Tu sai che non ho mai preso le sue parti e gli ho sempre chiesto conto non solo dei suoi errori...»
«Sì, so bene che spesso l’hai punito anche per colpe che erano mie…», la interruppe Oscar, come a voler ammettere il pungolo di una vena di rimorso.
«Perché lo meritava! Ho sempre preteso che ricordasse quali sono il suo posto e i suoi doveri in questa casa!», rivendicò con decisione la governante.
«E, di grazia, perché questa volta non ti indispone che il mio attendente sia partito senza nemmeno informarmi della sua destinazione né della ragione del viaggio, dunque?», domandò con autentica curiosità Oscar.
«Vedi, cara, noi siamo servi, è vero, ma ci sono cose che vanno oltre le condizioni della propria nascita… forme di rispetto che non sono seconde all’ossequio che si deve al padrone… io… non è insolenza: ha disposto così anche il buon Dio… e… oh, basta! Di più non posso dirti, abbi pazienza…», replicò Marie, allargando le braccia a sottolineare l’impotenza a condividere informazioni e, nei fatti, infittendo più che diradando l’enigma.
Oscar sospirò, esausta dei ripetuti tentativi infruttuosi di provare a scardinare l’indefessa reticenza prima del nipote e poi della nonna, e, quantunque il desiderio di sapere non fosse domato, accolse la sconfitta: «Va bene… so che non avresti approvato la sua decisione, se non si fosse trattato di una cosa importante e decorosa…»
«Rispetterò il vostro riserbo», concesse infine, rinunciando a insistere oltre e abbandonandosi sulla poltrona davanti al tavolino imbandito.
La governante allora le si avvicinò con un sorriso affettuoso, che dalle labbra guizzò di tenerezza fin dietro alle lenti degli occhiali, e le fece scivolare una carezza sui capelli. «Non dubitare della sua lealtà», fu la sua richiesta finale, che suonò affidabile come una garanzia.
 
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Per quasi dieci anni, pensò André mentre in groppa ad Alexandre sotto i raggi perpendicolari del sole cavalcava in maniche di camicia diretto a sud-ovest, seguendo il percorso che per giorni aveva studiato sulle mappe, il più delle volte che aveva varcato il cancello di palazzo Jarjayes si era incamminato nel senso opposto[1], verso Versailles o Parigi, tenendo diligentemente dietro a Oscar, come si conveniva al proprio ruolo.
Non appena si fosse inoltrato più in là dell’abitato di Voisins le Bretonneux, si sarebbe trovato in un territorio che gli era del tutto sconosciuto, eppure sapeva che quell’itinerario non era estraneo ai Grandier, che lo avevano più volte percorso in un senso e nell’altro e negli stati d’animo più vari.

Mentre la strada si spiegava sotto gli zoccoli del morello, s’immaginò sua nonna, oltre quattro decenni prima, giovane vedova con nel grembo un figlio che sarebbe nato postumo e avrebbe sofferto la propria condizione di orfano senza neppure riuscire a figurarsi il volto di un padre mai conosciuto e di cui, a dispetto di ciò, avvertiva urticante la nostalgia. Da Noyal a Parigi su una vettura di posta, indirizzata dal curato del villaggio al convento delle Orsoline con una lettera di raccomandazione nella tasca del misero mantello, perché – le aveva spiegato il religioso – le suore l’avrebbero certamente accolta e assistita nel parto e non avrebbero avuto difficoltà a trovarle impiego presso una famiglia nobile o borghese, che fosse alla ricerca di una balia. Quel figlio che tanto la preoccupava, giacché – com’ella gli aveva confessato tra le lacrime poco dopo la tumulazione del marito – non sapeva come avrebbe fatto a sostentarlo, non avendo sostanze, era, a detta di père Gravet, lo strumento attraverso il quale la Provvidenza si sarebbe manifestata. E così era stato davvero e tanta era la riconoscenza di Marie Grandier nei confronti del curato, che il bambino dato alla luce lo aveva voluto battezzare col nome di quello: Yves.

Nei diciott’anni successivi nessuno della famiglia era mai tornato a Noyal, finché il giovane Yves non decise che, se anche non avrebbe mai potuto conoscere il padre, avrebbe potuto vedere i luoghi in cui questi era nato e vissuto e visitarne la tomba e, per poco che fosse, sarebbe stato qualcosa in più dei soli racconti della madre. Perciò chiese una licenza a Monsieur Leblanc, maître charpentier dal quale, poco più che bambino, era andato ad apprendere i segreti dell’ebanisteria e che se lo era poi tenuto in bottega, e si mise in viaggio.
A Noyal – il piccolo André amava farsi raccontare questa storia – si era recato immediatamente alla parrocchia di Saint Martin de Tour[2], l’unica chiesa del villaggio, nella speranza di trovarvi ancora il vecchio curato suo omonimo, che aveva amministrato al padre e alla madre tutti i sacramenti e li aveva conosciuti da che erano in fasce. Ma quello, gli dissero, era morto quattro anni addietro. Scoraggiato, ché l’unico parente del padre ancora in vita era un secondo cugino stabilitosi ormai da oltre trent’anni a Châteaubriant, se n’era andato in giro per i campi, alla ricerca almeno di qualche fiore da deporre sulla tomba del genitore. E lì, in una vigna, aveva notato una fanciulla intenta al lavoro, un po’ in disparte rispetto agli altri contadini, che lo aveva colpito per i capelli neri, dello stesso colore dell’uva che cresceva orgogliosamente tornita sui filari. E se ne era stato per un po’ a osservarla, irretito dal riverbero del sole su quella chioma corvina fittamente intrecciata; finché quella non se n’era avveduta e, vistosamente arrossita, s’era affrettata a ricongiungersi ai compagni.
L’aveva poi ritrovata alcune ore più tardi, mentre egli si richiudeva alle spalle il cancello del piccolo cimitero parrocchiale e quella si ritirava dalla recita dei Vespri e da allora per ogni sera del proprio soggiorno a Noyal aveva diligentemente atteso davanti alla chiesa, finché il penultimo giorno non le aveva rivolto un saluto e quello dopo ancora le si era avvicinato chiedendole come si chiamasse.
Era dunque rientrato a Parigi con la sola idea di congedarsi da Monsieur Leblanc e andare a trovare la madre a palazzo Jarjayes, per comunicarle la decisone di trasferirsi a Noyal dove, le spiegò, con i soldi risparmiati negli anni di lavoro come servo prima e falegname poi, avrebbe potuto aprire una propria bottega e, chissà, perfino edificare una casa con un piccolo podere. Sistematosi in maniera confacente, avrebbe quindi avuto facoltà di chiedere la mano della graziosa Anne dai capelli di pece.

Sei mesi più tardi era stata una Marie raggiante a domandare una licenza per poter prendere parte alle nozze del figlio e un anno e mezzo dopo il matrimonio, mentre l’autunno del 1754 iniziava a scalpitare, aveva percorso ancora quella strada col cuore colmo di gioia per fare la conoscenza del suo primo nipote. Un bambino che si rivelò essere estremamente quieto ed estremamente affamato, cui era stato dato nome André, in onore del suo compianto marito.

Tuttavia, i viaggi lievi verso Noyal si erano esauriti presto e il cimitero parrocchiale s’era prontamente impinguato di altri Grandier…

L’ultima volta che sua nonna era rientrata in Bretagna era stato per seppellire la giovane nuora e prendere con sé il nipote, ormai orfano di entrambi i genitori, che la generosità del generale Jarjayes aveva accettato di accogliere in casa propria, forse anche per un antico affetto nei confronti del defunto fratello di latte.

Non ricordava alcunché di quel paesaggio André, che tanti anni prima tutto il percorso da Illiers[3] a palazzo Jarjayes l’aveva passato a fissare alternativamente la nonna, che lo osservava con pena e apprensione, e i propri piedi, che gli parevano così strani infilati in quelle scarpe nere con la fibbia e quelle calze immacolate. Nella locanda di Illiers in cui avevano trascorso la notte precedente, la mattina era stato rivestito di tutto punto ed era stato informato che da allora quella sarebbe stata la sua livrea e gli era stato raccomandato di aver cura di non sporcarsi e non rovinarla. Gli era stato spiegato che avrebbe dovuto imparare a camminare senza fare rumore coi tacchi e a sistemarsi da solo il fiocco della camicia, in modo che non fosse gualcito e apparisse perfettamente simmetrico, perché la nonna aveva una casa da mandare avanti e non avrebbe avuto il tempo di aiutarlo tutti i giorni a vestirsi. Con tono imperativo la progenitrice gli aveva altresì ingiunto che coi padroni avrebbe dovuto parlare solo se interpellato e sempre a voce bassa, badando di non alzare gli occhi per incrociarne lo sguardo e dando loro rigorosamente del voi, inchinandosi rispettosamente ogni volta tanto all’atto del saluto quanto a quello del congedo.
Rammentò d’essersi sentito sopraffatto da tutte quelle prescrizioni, giacché fino ad allora aveva passato le giornate a lavorare nei campi insieme alla madre e le serate in casa, mentre quella era china sui rammendi, a giocare per terra col cavallino di legno intagliatogli pazientemente dal padre. E aveva speso le lunghe ore di luce dell’estate ad arrampicarsi sul melo nell’aia e, in qualunque stagione, quelle appena dopo l’alba a badare alle galline, stupendosi ogni volta di come, se le si accarezzava sulla testa e sul dorso, quelle stringevano gli occhi beate come usano fare i gatti.

Era certo di non aver più nulla di quel bambino selvatico, adesso che, oltre al fiocco della camicia, era in grado di sistemarsi alla perfezione anche il nastro dei capelli e, da quando aveva preso a indossarlo, pure lo jabot. Aveva imparato a leggere, a scrivere, l’aritmetica e la geometria e, condizione rara tra chi non fosse un aristocratico né un sacerdote, grazie alla magnanimità del Generale, conosceva perfino il latino. Sapeva recitare un trimetro giambico, incedere con dignità, giocare agli scacchi, danzare con grazia, cavalcare in modo signorile, conversare con spigliatezza e gustare il vino con competenza. Era capace di usare con destrezza le armi bianche e di caricare ad occhi chiusi una pistola, così come di muoversi a proprio agio all’interno e nei giardini della reggia, essendo ammesso addirittura alla presenza degli stessi sovrani. Aveva appreso le astuzie per disciplinare la propria chioma, naturalmente ondulata e indocile, il gusto del vestire con essenziale ma ineccepibile eleganza e come stare a tavola secondo il galateo.

Giorno dopo giorno s’era ingentilito passando nel setaccio di ambienti, occasioni e frequentazioni che l’avevano rapidamente mondato di ogni primitiva grossolanità.

Per quanto potesse imparare, affannarsi e affinarsi, però, c’era sempre che restava un roturier e, quand’anche non fosse rimasto per tutta la vita un servo, ugualmente non sarebbe mai stato libero di poter amare lei, neppure se Oscar avesse infine scoperto di ricambiarlo. O, quantomeno, non avrebbe potuto reclamarla alla luce del sole, ché in quel caso sarebbe toccato loro solo un amore furtivo. E c’era che André Grandier avrebbe sofferto quella dissimulazione più di quanto non patisse quella vigente, la quale, se non altro, non la esponeva al rischio d’insozzarsi di scandalo. E tutta la faccenda cogli anni era arrivata a sembrargli un impossibile rompicapo, in cui a quel punto non distingueva neppure cosa fosse meglio desiderare, se continuare ad amarla da lontano con vana disperazione o poterla avere per sé nella gabbia della clandestinità. Pertanto ultimamente aveva smesso perfino di pregare, piegato dall’incertezza di non saper più quale delle due fosse la grazia più innocua da implorare.

Non capì se fosse stato per il troppo sole o i troppi pensieri, ma a un certo punto di questo rimuginare gli venne un gran mal di capo e, poiché s’era quasi al tramonto e pure Alexandre era stanco, decise di cercare un posto nel quale potessero entrambi riposare.

Incontrarono la prima locanda che erano in prossimità di Chartres. Senza cerimonie, André chiese una stanza, pagò in anticipo, sistemò il cavallo e si ritirò, rifiutando la cena che gli era stata magnificata. Si lavò il viso e le mani con l’acqua fresca fornitagli per la propria toeletta, consumò svogliatamente un po’ del pane e del formaggio della nonna, quindi si mise rapido a letto sfilandosi solo gli stivali. Giacché era sveglio da prima dell’alba e fiaccato dal caldo e dal viaggio, non gli ci volle molto per cadere addormentato e fece uno strano sogno, che al risveglio avrebbe ricordato solo in parte e non avrebbe saputo come interpretare: se stesso adulto, completamente solo nella casa di Noyal, a cercare di scaldarsi vicino a un braciere morente, senza che ci fosse modo di ravvivarlo, mentre il vento impetuoso sferzava le imposte minacciando di divellerle.
 
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Quella mattina Oscar si era svegliata ancor più inquieta del giorno precedente. Partire da sola con Rosalie non l’allettava, ma tutto era già stato disposto e inoltre non le andava di deludere la sua giovane protetta, che si era mostrata, invece, entusiasta all’idea.
Si chiese come avrebbe fatto a evitare che la poverina dovesse pentirsi del proprio improvvido slancio e finisse per annoiarsi nelle lunghe giornate con lei a Fécamp, giacché il colonnello Jarjayes non era davvero un soggetto di gran compagnia e, oltre a proporle allenamenti con le armi, cavalcate, letture e sessioni di studio, non avrebbe proprio saputo come altro intrattenerla.
Non era brava a raccontare storie divertenti, lei, né a inventare giochi estemporanei. Non era neppure capace di scoprire gli aneddoti e i pettegolezzi locali, visto che abitualmente tutti la trattavano con distaccata formalità e deferenza. Tutto il contrario di André, il quale non aveva difficoltà a riempire il tempo con arguzie, che scatenavano immancabilmente ilarità perfino nel biondo ufficiale, e con diversivi di varia natura e che, con quei suoi modi garbati ma al contempo cordiali e deliziosamente faceti, ispirava immediatamente la fiducia di chiunque e in forza di ciò veniva messo a parte con naturalezza di notizie e confidenze perfino dagli sconosciuti.

Era certa che anche Rosalie avesse condiviso con lui cose delle quali Oscar non era a conoscenza, ché tante erano le volte in cui li aveva trovati insieme in cucina o nei giardini del palazzo, intenti a dirsi chissà che, e ogni volta, dopo, la fanciulla le era sembrata più serena e più sollevata.
 
Del resto, anche l’algido comandante delle Guardie reali di Versailles non era immune a quell’effetto benefico. Nel corso degli anni erano state innumerevoli le occasioni nelle quali, quando una nuvola nera sembrava esserle lievitata inopinata sul capo, spesso senza che per lei stessa fosse possibile afferrarne il perché, quello pareva invece comprendere ogni cosa a colpo d’occhio e con poche e ponderate parole era capace di sgonfiare la minaccia ripristinando il sereno.

Si domandò se anche negli ultimi tempi André avesse intuito i suoi turbamenti e cosa ne avesse dedotto e se fossero solo la discrezione e la prudenza, prevalendo in quel frangente sull’affetto, a impedirgli di prendersi qualunque libertà, perché – c’era da riconoscerlo – quella situazione era oltremodo scivolosa e fuori dai canoni. Benché fosse sempre così acuto e saggio e privo di superflue riverenze, infatti, cosa mai avrebbe potuto dire per confortare una che secondo le aspettative non avrebbe nemmeno dovuto essere donna e, a dispetto dell’educazione ricevuta e del proprio ruolo, s’era invece innamorata? E, quel che era peggio, innamorata dell’amante della regina alla quale aveva giurato fedeltà e devozione? Cosa, che non l’avrebbe spinta a trincerarsi ancor di più dietro una cortina di silenzio compunto, castigato imbarazzo e velenoso diniego?

Nell’intimo, tuttavia, aleggiava confusamente la percezione di non essere fino in fondo trasparente con se stessa in proposito.

Se fosse stata incondizionatamente onesta, Oscar François de Jarjayes avrebbe dovuto riconoscere che le parole di lui, in realtà, c’erano state e non di consolazione, ma dirompenti! Solo che quello, forse incerto di quanto l’altra potesse sopportare, aveva scelto la via della precauzione e le aveva ammantate di una veste impersonale, così che spettasse a lei di decidere se riceverle o meno, se comprenderle o meno. Insolitamente pavida, Oscar aveva optato per una lentezza di mente che non le apparteneva, ma che aveva il pregio di tenere al riparo da difficoltose ammissioni e sconvolgenti prese di coscienza.
Se fosse stata incondizionatamente onesta, avrebbe dovuto rievocare un tardo pomeriggio di primavera di qualche mese addietro, poco prima che Fersen s’imbarcasse volontario per una guerra che gli era estranea combattuta sull’altra sponda dell’Atlantico, quando André, accarezzando una mela, il volto scolpito di ombre magenta dalla luce del tramonto che ne esaltava il profilo forbito, s’era arrischiato a proferire verità audaci, che non si sapeva se raccontassero dello svedese, di lei o di se stesso e che, proprio in virtù di quella studiata ambiguità, le erano state quasi facili da schivare.

C'è gente che ama una persona per tutta la vita senza che questa persona lo sappia…

Quella mattina, senza che le riuscisse di afferrarla, una scomoda intuizione la stuzzicava come un prurito impertinente, che prenda laddove è impossibile da soli raggiungerlo e grattarlo via. Incapace di fare altrimenti, Oscar scelse ancora di svicolare, rimandando sine die il confronto con le ombre che lentamente si coagulavano ai confini della coscienza e concluse che, a conti fatti, era una fortuna non avere il proprio attendente con sé per un po’ e così poter sorbire con agio almeno qualche sorso di quella languida malinconia che le procurava il pensiero di Fersen, che André, se avesse trascorso la licenza con lei, avrebbe certamente avvertito e si sarebbe prodigato per fugare.
 
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Onora il padre e la madre.

L’ha comandato nostro Signore, André. Nelle poche regole che ha fissato per noi, questa non è certo tra le meno importanti! Viene perfino prima dell’ammonimento a non uccidere! Ricordalo sempre, André…

Glielo aveva sentito ripetere così tante volte che il rispetto che si deve ai propri genitori è secondo solo al timore di Dio e supera anche l’ossequio dovuto al padrone, che non l’aveva mai nemmeno sfiorato l’idea che la nonna potesse opporsi alla sua decisione, purché avesse l’accortezza di scegliere un momento nel quale la sua presenza non fosse indispensabile. E quella, in effetti, non solo l’aveva incoraggiato, ma gli aveva perfino offerto ripetutamente del denaro.

I soldi a te possono servire, André… presto – volesse il Cielo! – potresti desiderare di prendere moglie e allora ne avresti bisogno… e, in ogni caso, anche se non fosse per questo, tu sei giovane e i fatti della vita sono imprevedibili e non si sa mai quando si può averne all’improvviso necessità… Io, invece, alla mia età cosa vuoi che me ne faccia?

Ma il nipote si era intestardito e a ogni offerta le aveva ripetuto puntuale che quella spesa gli spettava, e quasi gli era parso di vedere un bagliore di orgoglio sul volto della nonna nel saperlo così fermo nel proprio proposito. Avrebbe onorato suo padre, così come questi aveva fatto col proprio, e lo stesso riguardo l’avrebbe usato nei confronti di sua madre.

Per il quarto comandamento, André, non fa differenza che i genitori siano in vita o defunti…

Così gli aveva insegnato diverse maniere per poterlo rispettare, benché fosse orfano. Ogni anno, per esempio, faceva celebrare messe in suffragio delle anime di suo padre e sua madre, cui immancabilmente anche André doveva assistere. Finché, quando a suo giudizio il nipote s’era fatto abbastanza grande, aveva lasciato a lui l’incombenza di richiederle, perché non perdesse quell’abitudine dopo che anche lei fosse venuta a mancare. E ancora ogni sera, nonostante fosse ormai sulla soglia dei venticinque anni, nel dargli la buonanotte prima di ritirarsi, gli rammentava di recitare un Requiem aeternam per loro.

Con i propri racconti negli anni la nonna aveva tenuto viva la memoria, tramandando fatti e date, descrivendo caratteristiche e abitudini e ricostruendo per lui il tempo che lo aveva preceduto, perché – diceva – anche ricordare è una forma rispetto.
Un pomeriggio di quando André aveva circa dodici anni, mentre l’aiutava a rigovernare la dispensa, erano finiti a parlare di Noyal e, tra un aneddoto e l’altro, Marie gli aveva confessato con vergogna il rimorso di non essere mai più tornata a visitare i loro defunti. Quindi, con uguale disappunto, anche quello di non aver avuto il tempo e i mezzi per poter far porre più che due semplici croci di legno sulle tombe dei genitori di suo nipote. Da lì gli aveva poi raccontato con fierezza che, invece, suo figlio Yves, poco dopo essersi stabilito a Noyal, aveva commissionato una lapide per il nonno di cui André portava il nome.

Quello di suo padre gli era parso un gesto ammirevole, degno di un uomo retto e riguardoso, e subito si era ripromesso che un giorno avrebbe fatto altrettanto. Aveva dunque raccolto con discrezione informazioni sul probabile ammontare della spesa e pian piano si era dedicato segretamente a mettere da parte la somma sufficiente.
Già da diversi anni stimava d’essere in possesso del denaro che sarebbe stato necessario per pagare le pietre e il lavoro dello scalpellino e anche di quello che sarebbe servito per far fronte al costo del viaggio. Ormai aspettava solo l’occasione più adatta.

In quel giugno 1779, considerando che in autunno sarebbero stati vent’anni esatti dalla morte del genitore e che alla fine dell’estate avrebbe accumulato un compleanno in più di quanti quello ne avesse mai vissuti, decise che fosse infine arrivato il momento.

C’era poi un’ulteriore ragione, forse la più pressante.

Proprio a quella pensava mentre cavalcava Alexandre, lasciandosi alle spalle Chartres in una mattina che, nonostante le pennellate rosate dell’alba si fossero solo da poco raffreddate d’azzurro, già si preannunciava ancor più assolata del giorno precedente.
In fondo, da qualche parte nei recessi della mente, quel pensiero l’aveva sempre accompagnato. Un po’ perché, ad eccezione di sua nonna, pareva che i Grandier non fossero destinati a incanutire e dovessero necessariamente prendere anzitempo commiato dalla vita. Un po’ perché esisteva una sola donna con la quale avrebbe desiderato costruire una famiglia e quella, ammesso che una famiglia potesse rientrare nel novero delle possibilità che le erano state appositamente apparecchiate, per lui era in ogni caso una donna proibita.
Da che Oscar s’era innamorata del Conte svedese, poi, quello sfocato presentimento era divenuto assai simile a una abbacinante certezza: André sarebbe stato il vicolo cieco in cui si sarebbe esaurito quel ramo della famiglia Grandier. E allora l’idea che in quel cimitero in Bretagna non sarebbe rimasto nulla – neppure i nomi! – di due giovani che s’erano amati senza riserve in uno scampolo di tempo troppo esiguo perché fosse appena sufficiente e che, quando sarebbe arrivata anche la sua ora, di loro nessuno avrebbe più ricordato nemmeno ch’erano esistiti, gli era parsa intollerabile. Così aveva rotto gli indugi e, appena era stato reso noto quale fosse il periodo di congedo che spettava a Oscar, aveva preso a studiare le mappe e a pianificare i dettagli del viaggio.

Ora se ne andava verso Noyal a compiere il proprio dovere di figlio. E a cercare risposte, in un’estate neonata che aveva appuntito l’assillo degli interrogativi riguardo al senso della propria vita, fino ad allora spesa a farsi trascinare impotente dall’impeto rovinoso dell’amore che provava per lei, che forse nemmeno l’aveva mai considerato un uomo. Giorno dopo giorno, in questa corrente furiosa era finita travolta ogni altra prospettiva, ogni opportunità di plasmare la propria esistenza, per lo meno nei limiti di quanto gli consentisse la sua condizione sociale. C’era da capire, soprattutto, quanto ancora si potesse resistere a tirare avanti a quel modo, da asceta nel corpo e da dannato nel cuore. E come far fronte alla convinzione che avvertiva affiorare e che in parte lo sgomentava per il fatto di riferirsi a una misura impossibile da quantificare, ché essa irrefutabilmente sfuggiva all’idea circoscritta e ordinaria del tempo assimilandosi a quella conturbante e terribile dell’infinito.





N.d.A. Ogni mistero è infine svelato, almeno per i lettori. Spero di non aver deluso nessuno e che anche il passato che mi sono inventata per André e i suoi antenati risulti credibile.
Grazie, come sempre, a chi ha letto e leggerà e a chi vorrà lasciarmi le proprie impressioni.
 
[1] Nella mia storia palazzo Jarjayes si trova a sud-ovest di Versailles (e, dunque, anche di Parigi), da qualche parte nei pressi di Guyancourt. Il motivo di ciò è puramente "pratico": Jossigny sarebbe stata una località troppo lontana ed è dalla parte sbagliata rispetto a quello che serviva a me.
[2] La parrocchia esiste davvero ed è l’unica che ci sia a Noyal-sur-Brutz, ma dalle mie ricerche la chiesa parrocchiale risulta edificata nel XIX secolo. Ho, comunque, deciso di non badare all’anacronismo, immaginando che possa essere sorta su un nucleo più antico. Inoltre, mi piaceva l’idea che la chiesa del villaggio natale di André fosse dedicata al santo che condivise il proprio mantello con un mendicante, non essendo André stesso estraneo alla pratica di porgere mantelli ai bisognosi…
[3] Il comune di Illiers, che si trova davvero sull’itinerario tra Guyancourt e Noyal-sur-Brutz, è la località a cui è ispirato il paese immaginario di Combray di cui narra Proust ne La Recherche e per questo nel 1971 è stato ribattezzato Illiers-Combray.
   
 
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