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Autore: Cunegonda109    12/05/2023    8 recensioni
«Se fuggire fosse la soluzione, io sarei fuggito da te tanto tempo fa, Oscar... È inutile fuggire, Oscar, credimi!»
Mi sono sempre chiesta come facesse André a esserne tanto sicuro. Ho immaginato, quindi, che in passato almeno una volta abbia provato ad allontanarsi (se non altro temporaneamente) da Oscar. Questa storia nasce per raccontare quell’esperienza.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Marron Glacé, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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V
 
 
Di nuovo lo stesso sogno della notte trascorsa a Chartres.[1] André Grandier si destò nella stanza estranea e anonima di una locanda a buon mercato di Martigné-Ferchaud con ancora nelle orecchie il sibilo rabbioso del vento e il frastuono degli scuri squassati dalla tempesta. Una sensazione sgradevole gli stringeva lo stomaco, ma decise di non darle peso, ché le molte cose da fare esigevano s’affrettasse ad affrontare la giornata. C’era da andare a Fercé da Monsieur Jouan, lo scalpellino, e da ispezionare la casa e poi aveva desiderio di tornare al cimitero, questa volta non a mani vuote.
 
Prima di sbarbarsi e lavarsi si sporse un momento dalla finestra a respirare un poco dell’aria frizzante del primo mattino. Scrutando in lontananza le cime degli alberi della foresta di Araize si chiese se anche Oscar fosse sveglia, se stesse già sorbendo il tè seduta al tavolo davanti al balcone affacciato sul mare o, magari, se ne stesse fuori appoggiata alla balaustra a guardare l’orizzonte. O se, invece, fosse ancora avvolta nel grato tepore di sonno delle lenzuola, affondata in quel luogo immateriale in cui la ragione cede il passo e l’anima si rivela per immagini. Chissà cosa sognava Oscar, si chiese…
 
Dopo aver atteso alla propria igiene personale ed essersi vestito, André scese nella sala e consumò una frugale colazione, quindi recuperò Alexandre dallo stallaggio e si mise in marcia per percorrere le sei miglia scarse che lo separavano dalla propria destinazione.
A differenza di quello confinante di Noyal, Fercé era un villaggio in cui il lavoro nei campi non era il solo modo per guadagnarsi il pane. Oltre un secolo prima vi era stata creata una vetreria,[2] che era divenuta rinomata in tutta la regione, e attorno a essa negli anni erano spuntate botteghe artigiane di vario genere. Al confine nordorientale dell’abitato s’estendeva il bosco di Javardan, una selva di latifoglie in cui crescevano noci, roveri, frassini e castagni, alberi dispensatori di legni pregiati, che avevano consigliato a Yves Grandier di stabilire a Fercé la propria falegnameria per ridurre l’incomodo e le spese del trasporto della materia prima.

Mentre percorreva la strada che il locandiere gli aveva indicato la sera precedente, André pensava che non aveva mai avuto occasione di vedere la bottega di suo padre. Un bambino della sua età in una falegnameria sarebbe stato d’impaccio oltre che un pericolo per se stesso. Tra seghe, pialle, scalpelli, raspe, sgorbie, punteruoli, morse, martelli e chiodi c’era di che farsi del male sul serio e suo padre non avrebbe certamente potuto badare con uguale solerzia e al lavoro e all’incolumità del figlio, sicché era stato deciso che, finché non fosse cresciuto abbastanza, quello non sarebbe stato posto per lui. E dunque non riusciva nemmeno a immaginare come dovesse essere stata quella bottega di cui le sole cose che aveva conosciuto erano i trucioli, che il genitore raccoglieva per usarli per alimentare il focolare, e la segatura, che gli rimaneva inevitabilmente sui vestiti a fine giornata.
Nei suoi ricordi di bambino c’era anche lo zigrino[3], che Yves Grandier di tanto in tanto portava con sé dopo il lavoro, se c’era da levigare qualche asse degli scuri o della porta di casa. Quando il padre gli aveva spiegato che si trattava d’una pelle di pescecane, il piccolo André era rimasto sbalordito, ché a quel tempo non sapeva nemmeno cosa fosse un tale animale, ma doveva certo trattarsi di una creatura ben strana – forse agghiacciante – per avere una pelle tanto rasposa.
Anni dopo ne aveva visto un’illustrazione su uno dei libri della biblioteca del Generale e non gli era parso un pesce poi così mostruoso, di certo non come quella specie d’ircocervo acquatico che s’era figurato, e allora l’aveva fatto vedere anche a Oscar, raccontandole con un accenno di saccenteria che era grazie a quello se i mobili erano lisci. Ma l’amica non gli aveva creduto, perché – aveva detto – era un’idea affatto bislacca: cosa mai poteva avere a che fare un pesce coi mobili?! E poi lo sapevano tutti che i pesci le spine le avevano dentro, non fuori!

Sorrise tra sé al ricordo dell’Oscar bambina contegnosa e testarda e arrogante ed esasperatamente bisognosa d’affetto, che ogni tanto lo angariava e lo scherniva, ma che lo voleva sempre accanto e a volte aveva di quegli slanci nei suoi confronti, fino alla totale noncuranza di se stessa. E anche dopo, quando le intemperanze del suo carattere s’erano mitigate senza che venisse meno la sua spontanea intransigenza, non aveva mai esitato a mettere a repentaglio perfino la propria vita per difenderlo da chiunque, fosse anche il re in persona… Dio, come si poteva credere che non lo amasse?!
 
Sciocco! Sciocco! Sciocco, André! Sciocco e disperato, che non riesci a rassegnarti all’evidenza che questa sia solo una tua illusione… se ti ama, t’ama come un fratello… bisogna che te ne faccia una ragione al più presto, ché il tempo cola come la cera di una candela accesa e quando lo stoppino è ormai bruciato, c’è poco da recriminare e pretendere che possa ancora fare luce…
 
Giunse a Fercé soprappensiero e furono il tramestio dei carri che portavano la sabbia per la vetreria e il clamore del maglio d’un fabbro a guidarlo nel quartiere in cui sorgevano le botteghe, tutte poco più che capanne di legno, giacché là, per via del bosco, di quello ce n’era in abbondanza, e a costruire in questa maniera si faceva in fretta e con poco denaro. Anche la falegnameria di suo padre era stata così e, poiché se l’era tirata su quasi da solo, gli era costata un’inezia e perciò gli erano rimasti risparmi a sufficienza per potersi permettere una casa di pietra di tre stanze col pollaio e l’aia a Noyal.
 
Lo vedi il legno, André? Lo vedi come si gonfia con l’umido e si ritira e crepa col calore? Il legno è bello… è bello perché è una cosa viva. Non sta fermo mai il legno, cambia nel tempo come le persone. Ed è rigido, ma col vapore si può curvare come si vuole, e se si olia e incera a dovere può durare per secoli, ma se incontra il fuoco svanisce in un momento e non rimane quasi niente…
 
Per sorte beffarda Yves Grandier il legno lo amava: ne amava il profumo e l’aspetto, l’arrendevolezza dell’abete e la cocciutaggine dell’olmo, il colore caldo del mogano e del ciliegio e i nodi che punteggiavano il pino come i piccoli nei sulla pelle invitante della sua Anne. Avrebbe insegnato anche a suo figlio ad amarlo e se lo sarebbe portato con sé in bottega un giorno, perché vi prendesse confidenza e imparasse a trattarlo con tutti i riguardi. E, chissà, un domani avrebbe avuto altri figli e allora dopo un po’ di tempo avrebbe potuto demandare a loro il grosso del lavoro e tenere per sé solo le mansioni minute, l’intaglio e l’intarsio, ché era là che stava davvero l’arte di un ebanista. Quando la vista si fosse infiacchita, avrebbe lasciato agli eredi anche quelle e si sarebbe goduto la soddisfazione d’aver consegnato nelle loro mani i segreti del mestiere.
C’era il legno perfino nei sogni di Yves Granider. Ed era stato grazie a quella materia venerata che aveva sostentato se stesso e il figlioletto e la sposa e sempre per via di quella che nell’autunno del 1759 aveva trovato la sua fine.
 
Chiedendo indicazioni un paio di volte, non fu difficile per André raggiungere la bottega di Monsieur Jouan, che si trovava in mezzo tra quella di un vasaio e quella di un calderaio. Assicurate le redini di Alexandre a uno dei pali del breve porticato che s’affacciava sulla pubblica via, scorse rapidamente le pietre esposte e poi si sporse all’interno del laboratorio, richiamando con un deciso bussare sullo stipite dell’uscio l’attenzione dello scalpellino. Accortosi del cliente in attesa, quello posò gli strumenti sul tavolo da lavoro, abbandonò la pietra mezza sgrezzata, si nettò le mani nel grembiule e s’avvicinò porgendo il buongiorno.
Non fu questione di molto. Spiegato cosa desiderasse, Monsieur Jouan gli aveva fatto strada verso un angolo della bottega che usava come deposito e gli aveva mostrato altre pietre, perché potesse scegliere quelle che preferiva. Con l’aiuto dell’artigiano ne trovò due che, sebbene non identiche, si somigliavano moltissimo per grana e colore, quindi dettò le iscrizioni. Solo il nome e il cognome di ciascuno dei suoi genitori e l’anno di morte, nessun epitaffio e nessun ornamento, ché l’avevano sempre infastidito i fronzoli e le epigrafi, risibili esibizioni vanagloriose stridenti col luogo in cui tutti gli uomini divenendo silenzio si fanno finalmente uguali, a onta delle apparenze.
Aveva pagato la metà della somma in anticipo mentre il resto l’avrebbe saldato alla consegna, che Monsieur Jouan gli aveva assicurato per cinque giorni dopo, e s’erano accordati che il giorno stabilito André sarebbe tornato alla bottega e avrebbe scortato l’artigiano e il suo carro fino al cimitero parrocchiale di Noyal per la posa sulle sepolture. Quindi s’era congedato ed era rimontato in sella ad Alexandre dirigendosi alla volta del villaggio natale, non avendo ormai più scuse per rimandare ulteriormente la visita alla casa, che tanto lo impensieriva.
 
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Quella mattina il colonnello Oscar François de Jarjayes si concesse d’attardarsi raggomitolata tra le lenzuola godendo del soffice conforto del materasso e dei cuscini, che le alleviavano il malessere causato dall’arrivo delle sue regole mensili. Un dolore ritmico le risuonava tra il ventre e le reni e un sentore di nausea la faceva sentire fiacca e sudata. Detestava quel puntuale richiamo al suo essere donna.
Pensò che fin lì la sua femminilità s’era sempre espressa unicamente in forma di fastidio: il seno dolente, i crampi, il soffuso mal di capo, il sangue che minacciava di macchiare in modo imbarazzante l’inclemente candore dei pantaloni della divisa. Una divisa che era sfacciatamente evidente fosse stata disegnata per un uomo…
Ma le aveva sentite, tra i corridoi e nelle sale di Versailles, le dame raccontarsi in uno sciame di risolini soffocati cosa potesse provare un corpo di donna. Ed era tutt’altro che pena.
Un pensiero la solleticò a sorpresa, facendola avvampare. Si chiese come sarebbe stato trovarsi in intimità con Fersen, sentirselo addosso e le sue mani e il suo peso e la sua bocca e l’odore della sua pelle e la sua virilità…
Si diceva fosse un amante favoloso. Ma cos’era, s’interrogava l’illibato ufficiale, a far di un uomo un amante favoloso? Cosa rendeva il Conte così speciale? Era per via della sua avvenenza, certamente notevole? Eppure a volte le era capitato di sentir glorificare anche le gesta di uomini assai meno belli… Dunque non poteva trattarsi di quello. E allora cosa?

Oscar non era ignara della mera meccanica dell’atto, ma l’inesperienza e la scarsa confidenza col proprio corpo le rendevano impossibile immaginare che anche l’amplesso potesse essere un’arte in cui alcuni eccellevano e altri stentavano. In momenti del genere le spiaceva non avere familiarità sufficiente con altre donne, benché potesse dirsi sicura che nemmeno una maggior dimestichezza avrebbe avuto il potere di farle vincere il proprio pudore e spingerla a porre domande audaci. Limitarsi ad ascoltare, tuttavia, sarebbe forse bastato.
 
Non era così che facevano anche gli uomini?
 
Li aveva visti i ragazzi attorno a sé venir cooptati in conversazioni salaci non appena la loro età era diventata propizia, prima come semplici uditori e poi, dopo che i “segreti” appresi erano stati messi in pratica, per lo più in qualche bordello, anche come oratori. Era così alla reggia, dove si formavano a volte capannelli di uomini e fanciulli, tutti rigorosamente di sangue blu, che condividevano sottovoce e tra sguardi ammiccanti d’approvazione le proprie prodezze; ed era così a palazzo Jarjayes, dove i giovanotti della servitù venivano messi al corrente dai più anziani in modo assai meno discreto ed eufemistico.
Più volte aveva scoperto anche André ad assistere a siffatte discussioni, ma non aveva mai avuto il coraggio di chiedergliene conto né di rinfacciarglielo, principalmente perché, una volta divenuta innegabile la loro diversa natura, era stato una sorta di patto silente tra i due che certi argomenti restassero al di fuori del perimetro della loro pur vastissima confidenza. Avrebbe tuttavia quasi potuto giurare che ciò non fosse per appropriato riserbo, quanto per causa del fatto che ciascuno sembrasse maldisposto ad associare una simile sfera di comportamenti ed esperienze all’altro.
 
Ma se Oscar vedeva André in un’ottica di pressoché totale astrazione, che glielo faceva mentalmente collocare in una categoria a sé stante che non era quella del ragazzo, né dell’uomo, né del casto, né del seduttore; André sembrava avere piena contezza che Oscar partecipasse di tutti gli attributi e gli inconvenienti delle donne.
S’era sempre chiesta se fosse la nonna a raccomandargli quei riguardi o fosse la sua poco meno che infallibile capacità d’intuirla in un’occhiata a dettargli ancor più sollecite attenzioni. Quale che fosse la motivazione, di fatto c’era che André sapeva. E improvvisamente, quando arrivavano i giorni della sua periodica indisposizione, a lui prendeva provvidenzialmente voglia di cose quiete: leggere vicino al camino, giocare agli scacchi, starsene seduti all’ombra della vecchia quercia, raccontarle i pettegolezzi di corte e del palazzo accomodati sulle poltrone del salottino turchese…
Non aveva mai avuto bisogno d’affrontare il disagio di dovergli chiedere comprensione o addurre alcuna spiegazione, giacché André, appunto, sapeva. E spontaneamente rallentava il ritmo delle loro giornate e più spesso del solito consigliava di spostarsi col coupé piuttosto che a cavallo e di sorbire bevande calde e con frequenza s’allontanava con una o l’altra scusa, perché non si trovasse costretta a pregarlo di lasciarle un momento privato, che le sarebbe servito a cambiarsi le pezze.

Immaginò che, fosse stato con lei a Fécamp, quel giorno probabilmente avrebbe suggerito di starsene ritirati a leggere Orazio, senza dare alcun segno che fosse per altra ragione se non per proprio personale capriccio. Provò un senso di gratitudine per la premurosa delicatezza dell’amico e per la prima volta da che era partito ne avvertì tangibile e importuna la mancanza.
 
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Come aveva assicurato père Hervé, all’esterno la casa era intatta, forse addirittura meglio di come l’aveva lasciata. Inappuntabili erano il tetto e il muretto a secco che delimitava l’aia e il basso cancello privo di serratura, che suo padre aveva posto a far la guardia all’ingresso con l’unica consegna d’impedire alle galline d’andarsene a zonzo a piacimento, ché altrimenti ogni giorno riacciuffarle e trovarne le uova sarebbe stata una queste del Saint Graal. Parimenti impeccabili erano la porta e gli scuri, evidentemente oliati con regolarità, perché l’umido non li aggredisse. E resisteva ancora perfino il melo, che era potato per bene e carico di frutti, sebbene non ancora maturi. Solo il pollaio era vuoto.
Con lo spirito rinfrancato da questa visione, estrasse la chiave che gli avrebbe svelato il responso sull’interno. Gli costò un poco d’insistenza far scattare il lucchetto intorpidito da quasi due decenni d’inattività, ma l’innata perseveranza di André e una buona dose di male maniere ebbero infine la meglio sulla riluttanza metallica. Disserrato il chiavistello, spinse la porta col cuore in gola. Aprì pure una delle finestre, per fare maggior luce, poi si volse nervoso a esaminare ogni dettaglio della stanza, come a sincerarsi che non mancasse nulla. Non già lì, in quell’ambiente spoglio e polveroso, bensì nella memoria. Voleva trovare conferma di non aver dimenticato, che tutto fosse proprio così come migliaia di volte l’aveva evocato nei suoi ricordi di bambino e di ragazzo lungo il succedersi degli anni. Sospirò sollevato nel constatare che ciascuna presenza gli era familiare e niente sembrasse assente all’appello. Ogni cosa era al proprio posto, come se gli abitanti della casa fossero usciti con l’intenzione di mancare non più di qualche momento e in seguito, per un motivo ignoto, fosse loro sfuggito di mente di tornare.
Osservando il vano penzolare del vecchio paiolo ossidato al centro del focolare estinto, all’improvviso ebbe perfino l’impressione di annusare ancora l’odore perduto della bardatte[4], quasi che fosse rimasto impregnato nelle pareti – quelle di pietra come quelle del cuore – per tutti quegli anni. Gli parve assolutamente celestiale. E l’istante appresso si sentì ridicolo per via di come la memoria riuscisse a cambiare le carte in tavola, facendo sì che nei ricordi felici anche il cattivo tempo sembrasse bello e il tanfo di cavolo cotto risultasse più squisito della fragranza di una torta di mele.
 
Mentre lo sguardo continuava a vagare sui pochi mobili, semplici ma di buona fattura, ancora solidi a dispetto degli anni d’abbandono, pensò che suo padre era stato davvero un ottimo falegname, come gli avevano sempre ripetuto con fiera insistenza la madre e poi la nonna, perché non scordasse mai d’essere figlio di un artigiano capace ed esperto e sentisse l’orgoglio d’essere l’erede di Yves Grandier.
In mezzo alla stanza dominava il tavolo rettangolare. Si avvicinò e d’istinto vi posò la punta delle dita, a ritrovare la consistenza nota del piano scrupolosamente smerigliato da mani abili e minuziose. Sorrise al pensiero che quel gusto per il lavoro ben fatto fosse passato dalla nonna al padre e, come prezioso retaggio familiare, da entrambi fosse giunto a lui. Ciononostante, il sorriso crollò effimero non appena lo sguardo pellegrino si posò sulla propria mano. Una mano grande, sì, ma dal dorso liscio e dalle dita lunghe e fini, le unghie ben pulite e curate e le sole sporadiche asperità nascoste nel palmo, che nessuno avrebbe indovinato – a meno di stringerla – fosse la mano di un servo. Una mano da ragazzo, non la mano da uomo scabra di lavoro e di calli con cui suo padre spezzava il pane seduto a quella tavola. Ché solo questo era André Grandier, a dispetto dei suoi quasi venticinque anni: un ragazzo.
 
Di un ragazzo, si disse, conservava ancora l’indefinitezza e l’acerbità. Tanto nei lineamenti e nel corpo, in cui tutto era polito e composto e non v’era traccia di virile rudezza; come nella vita, in cui nulla aveva fin lì realizzato e non c’era niente che potesse rivendicare come suo. E questo, ammise tra sé, perché il pensiero delle mani di lei, eleganti e letali nel brandire la spada o agili e sicure nel suonare il violino[5], che avrebbe voluto sentire ugualmente diligenti e spigliate su di sé, a tracciargli peccaminosi sentieri sulla pelle nuda e palpitante in un buio costellato di gemiti e sussurri, lo avvinceva a quel destino di disperata attesa. Una stasi in cui era condannato a essere eterno fanciullo, perché tale era quell’amore che incordava le viscere da impedirgli perfino di avere una donna, fosse anche solo per placare, esule in un ventre occasionale rugiadoso e accogliente, il ruggito della carne e finalmente farsi anch’egli uomo.
 
Non che fosse immacolato André Grandier e non avesse mai sfiorato delle forme femminili. C’era stato un tempo, nel cuore dell’adolescenza, in cui il secolo condiscendente e gli impulsi improvvisi e implacabili di un giovane corpo sano e curioso avevano suggerito gesti che gli erano costati più d’un Pater Ave Gloria. Labbra, seni, cosce e fianchi attinti e accarezzati con la malagrazia inconsapevole di un giovanotto in fregola nell’ombra discreta e benevola delle scuderie di Versailles, da cui aveva tratto un piacere monco, frastornante ed evanescente e insieme molto, troppo, imbarazzo. Ché era stato in quel convulso e incompetente baciare e frugare sotto le vesti prima di Florence e poi di Mireille che aveva inaspettatamente smarrito la sicurezza per guardare Oscar negli occhi e, interrogandosi sul perché d’un tratto avvertisse tanta schiacciante vergona davanti all’amica, aveva scovato in sé le tracce inequivocabili dell’amore per lei. E, dunque, da allora non c’erano più stati appuntamenti segreti ed effusioni furtive tra il fieno e i sacchi di biada né in qualunque altro luogo.

Non che pure nel presente – poiché, con buona pace dell’illustre filosofo, anche la carne, oltre al cuore, ha ragioni che la ragione non conosce[6] – non provasse mai desiderio e perfino una brama asfissiante, alle volte, di esaurire l’impellenza del proprio corpo nell’intreccio con un corpo parimenti teso e torrido e traboccante di frenesia. Tuttavia, l’idea di darsi a un’altra gli pareva uno squallido palliativo, il quale non avrebbe fatto che aumentare la dannazione di quell’anelito inappagabile che lo assaliva quando Oscar riusciva, finanche con il più innocente dei gesti, a stanargli l’appetito d’inferno che ogni giorno lottava strenuamente con se stesso per tenere celato. Se avesse conosciuto il recondito calore di una donna, pensava, gli sarebbe stato immensamente più penoso continuare a sopportare di non poter farsi cenere nell’incendio dell’abbraccio con lei. Ed era convinto che avrebbe poi provato orrore di sé per aver svilito il proprio amore, degradandosi per mera urgenza come uno che preferisca alla speranza di far esperienza un giorno della sublime estasi del santo, l’immediata certezza dell’ebbrezza da quattro soldi dell’ubriaco.
 
A interrompere questi pensieri giunsero un vigoroso bussare alla porta rimasta aperta e una voce ben nota, forse solo un poco più ispida di come la ricordasse: «Père Hervé non mentiva! Sei qui… Dio, fatti guardare! A parte quel codino da damerino, ti sei fatto proprio uguale a lui!»
«Monsieur Barbé…», il ricordo dell’altro affiorò con sorpresa in André.
«Oh, cosa sono adesso queste cerimonie? Non mi chiamavi Paul una volta? Ragazzo mio, ti hanno proprio rovinato a Versailles!», lo rimbrottò bonariamente Paul Barbé, ch’era stato l’amico più caro che suo padre avesse a Noyal. «O forse è il latino che ti hanno fatto studiare che ti ha guastato la testa? Non guardarmi così: il prete mi racconta tutto quello che tua nonna gli scrive, cosa credi?»
«Sono davvero felice di incontrarti di nuovo e di trovarti in salute, Paul!», assicurò il giovane Grandier, intimamente lieto di notare che la drastica schiettezza dell’altro non fosse stata ammaestrata dalla maturità.
«Scusa se sono venuto qui a ficcare il naso, ma volevo salutarti e rivedere finalmente questa casa aperta…»
«È merito tuo, non è vero?», chiese André guardandosi intorno in senso allusivo.
«Ho fatto del mio meglio, come richiesto da tua nonna. Finché Dio vorrà, non l’affiderò a nessun altro: tuo padre era come un fratello per me», dichiarò solenne Paul Barbé.
André annuì, poi domandò: «E Arlette? Dimmi, come sta?»
«Da otto anni sta dove stanno i tuoi genitori…», buttò lì l’altro rabbuiandosi.
«Perdonami, Paul, io non immaginavo…»
«Non preoccuparti, André…», sospirò dandogli un buffetto sulla guancia. Poi rianimandosi: «Comunque ci sono anche notizie belle, sai? Ho tre nipoti adesso!»
«Faustine?», intuì il giovane.
«Proprio così! Ha sposato Tanguy Charteau… te lo ricordi Tanguy? Vivono a Villepot, quasi all’ingresso della foresta. Lui fa il taglialegna e... ehi, non fare quella faccia! Dovresti vederlo ora quel soldo di cacio! Se ti dà un ceffone, ti fa arrivare fino a Rougé[7]!», sottolineò con orgoglio di suocero, ché s’era avveduto che l’altro stentava ad adattarsi al pensiero che Tanguy, ch’era sempre stato il più mingherlino tra i coetanei, potesse essersi fatto un tale energumeno.
«E, dunque, adesso sei da solo…», congetturò André.
«Ti sbagli!», ribatté quello con espressione trionfante per aver stupito nuovamente il proprio interlocutore, «Arlette mi ha dato un’altra figlia, un anno dopo che sei partito, e grazie a Dio – almeno finché non si mariterà – c’è Clémence a prendersi cura di me! Devi venire a trovarci, così te la presento… tanto lo so che non hai moglie e non faccio torto a nessuna…»
«Paul, per piacere!», si schermì il giovane, ch’era un poco arrossito.
«Che c’è? Guarda che è molto graziosa, eh, non pensar male! E ha pure dei pretendenti…»
«Non ne dubito e ti prometto che verrò a conoscerla, ma tu non metterti starne idee in testa, siamo intesi? E, soprattutto, non metterne a lei!», gli raccomandò con accento impensierito.
«Oh, quanto la fai lunga! Si tratta solo d’incontrare una bella ragazza, non si discute mica già la dote! Non è che a imparare il latino sei diventato come il prete?», concluse Paul Barbé sghignazzando e alla fine anche André dovette soccombere al riso.
 
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Benché controvoglia, quand’era quasi già metà mattina Oscar aveva infine lasciato la propria stanza. Il senso di malessere le aveva sconsigliato di ingerire alcunché al di fuori di una semplice tazza di tè, che aveva bevuto insieme a Rosalie, sedute come d’abitudine al tavolo davanti al balcone. Il garrito dei gabbiani le era sembrato batterle in testa e la luce insolente del sole d’estate le aveva pizzicato le pupille, ma s’era sforzata di non darlo a vedere, concentrandosi sui vapori che s’innalzavano dalla tazza di porcellana.

Quel giorno Rosalie aveva indossato un abito sobrio di faille ciano con rouches di mussolina bianca attorno alla scollatura e sull’orlo delle maniche, che faceva risaltare il color miele dei suoi capelli e le rendeva l’incarnato ipnoticamente luminoso.
 
Per un istante Oscar aveva provato a figurarsi fasciata in un capo del genere e l’immagine che le si era presentata alla mente era risultata sconsolante. Il petto scarno smarrito tra le volute del tessuto e le pieghe a cannone della gonna affastellate sulla sua figura svelta e androgina e le maniche a lasciarle scoperti gli avambracci su cui gli anni trascorsi a maneggiare le armi avevano portato alla vista una muscolatura allungata, ma soda e ben delineata. Nulla a che vedere con la composta armonia che s’irradiava dalla sua giovane protetta…

Si era chiesta se Rosalie, malgrado fosse ancora fanciulla, si rendesse già conto d’essere tanto graziosa e cosa provasse una donna a sapere d’essere bella, ché la bellezza – aveva pensato Oscar – dava alle donne un oscuro potere aguzzo e ammaliante, che era in grado di vincere la resistenza e corrompere la ragione, di inebriare gli animi sensibili e di signoreggiare su quelli inclini alla concupiscenza.
Per un istante, zittendo lo zelante ufficiale ch’era in lei e che disapprovava quei pensieri frivoli, s’era domandata quanto dovesse essere esaltante la sensazione d’essere guardata come se si fosse stata la prima e unica nel mondo a essere nata donna e si chiese se mai un pensiero tanto folle e devoto sarebbe stato formulato al suo indirizzo…
Non ignorava d’essere avvenente, ma si sentiva in difetto di ciò che rende la bellezza folgorante e viva, quella componente ineffabile che fa la differenza tra l’irrilevante perfezione di un mobile di pregio e il magnetismo trascinante di un’opera d’arte. Le era venuto in mente, allora, l’alone di tristezza che sempre più spesso velava lo sguardo di Maria Antonietta e che le rendeva l’aspetto più dolente, conferendole tuttavia anche una grazia più intensa e più vibrante, e aveva concluso che forse la bellezza risiedesse nelle crepe sulla superficie, nel trasparire di certi contrasti e certe vulnerabilità. Ma quest’ultimo pensiero fu frettolosamente archiviato, poiché il reale problema del colonello Oscar François de Jarjayes, a ben guardare, era la radicata avversione che sentiva nei confronti di ogni propria debolezza.
 
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Non gli fu facile divincolarsi da Paul Barbé, che se lo sarebbe voluto trascinare a casa su due piedi, impaziente di presentargli la più giovane delle sue figlie. Dopo essersi più volte scontrato con la cortese fermezza di André, però, l’uomo aveva infine dovuto demordere, non senza avergli prima strappato la promessa di passare a far loro visita in un paio di giorni al massimo.

Congedato Paul, il giovane Grandier richiuse la casa, annotando mentalmente ciò che avrebbe dovuto procurarsi per darle una ripulita e renderla fruibile, poi slegò Alexandre dal melo a cui lo aveva assicurato, lo condusse fuori dall’aia, montò in sella e lo cavalcò alla volta del fiume, sperando d’essere fortunato e che non fosse troppo tardi.
Ricordava che in più punti lungo le sponde da metà primavera fiorivano i giaggioli acquatici, coi loro steli svettanti e gli aggraziati petali ricurvi d’un giallo squillante. Erano sempre piaciuti molto a sua madre, che pensava trasmettessero allegria e assai probabilmente ignorava fossero anche il simbolo dei re di Francia fin dai tempi dei Merovingi.[8]
Percorse un lungo tratto seguendo il corso d’acqua fin quasi ad arrivare a Villepot e raccolse tutti quelli che gli riuscì di trovare, ma non fu possibile metterne insieme neppure una decina. Perciò deviò verso i campi in cerca di qualcos’altro, ché quei pochi iris li voleva riservare tutti per la mamma, certo che nessuno se ne sarebbe avuto a male se le usava un particolare riguardo. La stagione gli fu complice e gli offrì linaiole, papaveri, denti di leone e anemoni che, sebbene non regali come gli altri fiori, non erano meno belli. Quando si ritenne soddisfatto, tornò verso il centro di Noyal.

Trovò il cimitero nuovamente deserto, come il giorno precedente, giacché in campagna le ore di luce sono preziose e rigorosamente consacrate al lavoro, che non lascia tempo per nient’altro, nemmeno per onorare i defunti, i quali debbono farsi bastare le visite domenicali. Fu lieto di quella rinnovata solitudine, che gli dava modo di attardarsi un poco con i suoi cari senza doversi curare che qualcuno lo osservasse.
Da quando aveva rimesso piede a Noyal, in verità, André non si sentiva perfettamente padrone delle proprie emozioni, nonostante di consueto fosse ammirevolmente abile a dissimularle, e gli sarebbe spiaciuto se qualcuno l’avesse visto, nel caso gli fosse capitato nuovamente di commuoversi. Non già per una questione d’orgoglio virile, quanto per riservatezza.

Depose i fiori sul sepolcro della madre, sperando con tutto il cuore ch’ella si trovasse finalmente in un luogo nel quale l’allegria era eterna e non ci fosse più bisogno dei giaggioli. Quindi passò a separare gli altri per farne due mazzetti, di cui uno andò a interrompere il verde dell’erba che cresceva sopra la tomba di suo padre e l’altro fu appoggiato alla piccola arenaria squadrata alla sua destra. Per un attimo fissandola quasi rise al pensiero d’averla scampata bella, ché se non fosse stato il primogenito e gli fosse toccato di nascere il ventidue di ottobre, invece che il ventisei agosto, il bizzarro nome del santo di Rennes sarebbe stato dato a lui…
 
Eccettuata la nonna, nella sua nuova vita nessuno sapeva che v’era stato un momento, disgraziatamente assai breve, nel quale André Grandier aveva avuto un fratello. Nessuno sapeva e invero non ci sarebbe stato molto da raccontare. Minore di lui di due anni, Modéran[9] era morto ancora lattante e per André, che all’epoca era troppo bambino a sua volta per conservarne memoria, non aveva mai avuto altro aspetto al di fuori di quella lastra di pietra.

Negli anni, tuttavia, sovente s’era chiesto come sarebbe cambiata la sua vita se il fratello fosse vissuto. Forse – aveva talvolta pensato – in due non sarebbero stati accolti dal Generale e la nonna avrebbe lasciato il servizio e si sarebbe ritirata a Noyal per allevarli. Oppure li avrebbe affidati alle cure di Paul e Arlette Barbé, raccomandandoli anche alla proba guida di père Hervé, e premurandosi di far giungere periodicamente il denaro necessario per il loro sostentamento. O sarebbero finiti in orfanotrofio, nella speranza che qualcuno decidesse di adottarli e riscattarli dalle loro miserie.
O magari sarebbero comunque stati portati entrambi a palazzo Jarjayes per essere i compagni di giochi di Oscar. E forse, avendo il fratello con sé, la solitudine avrebbe avuto un morso più sdentato e il rapporto con lei non si sarebbe fatto così viscerale. Oppure Oscar, dopo averlo senza dubbio inizialmente dileggiato per colpa di quell’assurdo nome, con l’andar del tempo avrebbe preferito stare con Modéran…
 
Nei momenti di più profondo avvilimento era arrivato perfino a pensare che fosse il fratello il Grandier che si sarebbe dovuto salvare. Ché quello sì che sarebbe stato in grado un giorno di lasciare il servizio e architettarsi un avvenire con tutti i crismi: un mestiere, una casa, una moglie, dei figli, le mele in autunno e in inverno e le uova nel pollaio ogni giorno. Esattamente come a suo tempo aveva fatto il padre. Invece, con scarsa lungimiranza, s’era deciso che rimanessero al mondo lui e la sua irreparabile inconcludenza…

 
 
 
N.d.A. Non posso che rinnovare i ringraziamenti a chi legge, segue e recensisce questa storia. L’apprezzamento che mi riservate mi onora e mi emoziona profondamente.
Ormai siamo arrivati al quinto capitolo e mi pare evidente che il mio progetto iniziale di scrivere una storia piuttosto agile sia naufragato. A questo punto, penso che ci aggireremo intorno ai dieci capitoli, anche se io continuo a sperare di riuscire a tenermi al di sotto di quel numero.
Anche questa volta ci sono un sacco di note e il testo è più lungo del solito. Spero non me ne vogliate! Non è mia intenzione prendere i lettori in ostaggio... è colpa di André che aveva troppe cose da fare! In mia difesa, posso dire che le varie parti sono ben segnalate e c’è modo di fare qualche pausa qua e là.

Infine, diamo a Cesare quel che è di Cesare: non posso non ringraziare pubblicamente la sempre gentile e perspicace mareggiata, che attraverso le acute osservazioni che mi ha fatto in uno scambio di messaggi di qualche settimana fa mi ha spinta a riflettere su alcune questioni, a rimaneggiare parte del testo, che avevo già scritto in precedenza, e a fare delle aggiunte. Segnatamente, alla sua preziosa influenza si deve tutta la parte relativa alle prime (un po’ goffe) esperienze di André col genere femminile.
 
Ancora grazie a tutti e a presto.
 
[1] Vedi capitolo III.
[2] La vetreria di Fercé sorgeva proprio in mezzo al bosco di Javardan. Fu fondata nel 1654 e operò fino al 1862. Per i curiosi, qui ci sono una serie di informazioni e la mappa della zona: http://www.genverre.com/articles.php?lng=fr&pg=866
[3] Lo zigrino è l’antenato della carta vetrata. Si ricavava dalla cute dell’omonima razza di squalo o di altri selaci (pescicani, razze, torpedini), che è ricoperta di una sorta di granuli molto coriacei ed è, pertanto, abrasiva.
[4] Piatto della tradizione contadina, tipico della Loira Atlantica, costituito da un cavolo (generalmente una verza) ripieno di carne di coniglio e altri ingredienti.
[5] In questo caso, a differenza che per tutto il resto, faccio riferimento al manga, perché a me l’anacronismo di Oscar che suona il pianoforte non è mai andato giù.
[6] “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce” è una famosa massima di Blaise Pascal, tratta dai Pensieri.
[7] Rougé è a più di 8 km da Noyal-sur-Brutz.
[8] Se vi interessa approfondire questo particolare: https://caffebook.it/2019/06/28/l-iris-l-antica-fleur-de-lys/
[9] San Modéran fu vescovo di Rennes (che si trova una cinquantina di km a nord-ovest di Noyal) nell’VIII secolo. In Italia è conosciuto come San Moderanno (o Moderano) ed è il patrono di Berceto (PR), località in cui si era stabilito in qualità di priore della locale abbazia, dopo aver rinunciato alla cattedra di Rennes per dedicarsi a una vita più appartata. Il giorno in cui si festeggia è il 22 ottobre.
   
 
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