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Autore: _Frame_    14/05/2023    0 recensioni
[Pre-Canon]
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Valentina Milani è una ragazza come tante, una su un milione. Una inguaribile pigrona, golosa di pasta e gelato, solare e chiacchierona, anche se un po’ frivola, appassionata di meccanica e di motociclette, e affezionata ai suoi due migliori amici d’infanzia. Nata e vissuta nel piccolo paese di Portorosso, circondata dalle solite strade, le solite facce, il solito mare, le solite tradizioni, le solite leggende sui Mostri Marini, ha sempre sperato in una qualche novità in grado di stravolgere la sua vita e di strapparla a una quotidianità che ormai le calza sempre più stretta.
L’arrivo in paese di un giovane straniero potrebbe esaudire questo suo desiderio e cambiare per sempre non solo il corso della sua vita, ma anche l’intera visione del mondo che l’ha sempre circondata.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
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Lauretta mia – Atto II

 

 

Valentina affrettò il passo per saltellare davanti alla vetrina del panificio, eccitata a tal punto da sentire i piedi volare, guidati dal battito del cuore così caldo e libero da farla sentire più leggera e vaporosa di una bianca nuvoletta estiva che galleggia nell’infinito azzurro del cielo. «Ecco, ecco, vedi: questa invece è la panetteria dove ho cominciato a lavorare.» Non era ancora stanca di parlare nonostante le labbra in fiamme e il prurito che le grattava la gola. «Quella dove lavoravo prima di venire a fare la cameriera al Gabbiano.» Si appiccicò alla vetrina senza però premere le mani sul vetro. Si spostò di lato, sbirciò all’interno piegando le spalle in avanti e aguzzando la vista attraverso la penombra del locale che era ormai chiuso e deserto, considerato che si era già fatto pomeriggio inoltrato.

Valentina portò una mano davanti alla fronte, respinse il riflesso del sole che batteva sul vetro e che luccicava sulle grate dove erano riposte le ceste delle pagnotte, delle focacce, delle rosette, e delle ciambelline al forno. «Ooh» sospirò, atterrata da un’improvvisa stretta di delusione. «Ma non vendono più i cornetti alla crema? Che peccato, erano così buoni. In effetti è tanto che non passo di qui anche solo per fare un saluto.»

Pure Bruno si affacciò, affiancandola, e diede anche lui una sbirciata all’interno della panetteria. Compì un passetto indietro e alzò lo sguardo verso l’insegna verniciata su una tavola di legno laccato. «Questa è la panetteria che hai rischiato di mandare in fallimento a forza di pasticciare con gli impasti?»

«Esatto» esclamò Valentina. «Proprio quel – ehi!» S’immusonì e gli scoccò un grugno offeso.

Bruno alzò le mani e rattrappì le spalle. «Sei stata tu a dirmi che è andata così.»

Il grugno di Valentina non resse a lungo. Le guance si sgonfiarono in una risata chiocciante, e lei scosse la testa dimenticandosi in fretta del confronto. «Sì, lo so che sono stata io a dirtelo per… ooh!» Valentina andò a punzecchiare Bruno con una serie di sgomitate, gli strizzò un occhiolino d’intesa. «Ma allora ti ricordi sul serio quello che racconto

Bruno flesse un sopracciglio. «Non dovrei?»

A malincuore, Valentina scosse la testa e spinse all’indietro il nastrino che le si era sciupato fra i capelli. «Tutti prima o poi si stufano di sentirmi parlare» confessò. «Tutti tranne Sara e Massimo, ovvio. E anche papà.» E ora anche Bruno si era unito alla cerchia. Lui che non la zittiva mai, che non si guardava attorno sperando in una via di fuga per mettere in salvo le orecchie, e che era disposto a seguirla dovunque lei lo guidasse senza mai sbuffare o lamentarsi. Anzi, sembrava rilassarsi passeggiandole affianco, ancor più rispetto a quando lavorava in mezzo agli altri braccianti o a quando sedeva da solo al tavolo dell’osteria.

Forse anche lui si sente al sicuro sapendo di avere affianco qualcuno che non lo giudica, dopotutto.

«Ma ti avevo già assicurato che con me non c’è bisogno di fingerti qualcuna che non sei.» Bruno tornò ad affacciarsi alla panetteria, sbirciò all’interno della vetrina riparandosi anche lui la fronte dal riflesso del sole. Si soffermò sulle forme di pane e di paste glassate che erano esposte affianco ai sacchi della farina, ai cubetti di lievito, e ai pacchetti di taralli. La fine e minuscola piega di un sorriso gli incurvò le labbra. «Sembra tutto delizioso.» Chiuse gli occhi. Annusò allungandosi verso il lucernario rimasto socchiuso, attratto dal profumo degli impasti tiepidi, dello zucchero caramellato, e delle spolverate di sale e rosmarino. «E c’è anche un buon profumo.»

Valentina sorrise. «Sì, è vero» sorrise. «Il profumo è una delle cose che mi piaceva di più del lavorare qui, in effetti.» Raccolse la catenina della sua collana e la arricciò attorno all’indice. «Quello e il poter mangiare tutto il pane che volevo, naturalmente.» Compì ancora qualche passo davanti alla vetrina, indugiò con lo sguardo sulle corone di grano che decoravano il bancone, sui girasoli e sui papaveri finti che coloravano le ceste del pane. «Ma alzarsi sempre alle quattro di mattina dopo un po’ cominciava a diventare davvero troppo stancante, per me che non sono affatto una mattiniera. E forse era per quello che lavoravo così male. In un certo senso è stato un bene che io poi abbia smesso e che sia venuta a lavorare al Gabbiano. E poi, ehi…» Tornò a sgomitare Bruno, a trillare una risatina di complicità. «Senza il mio lavoro all’osteria forse non sarebbe stato così facile per noi due fare amicizia.»

Bruno alzò le spalle. «Forse è vero, sì.» Camminò al di fuori dell’ombra proiettata dalla tenda della panetteria, scese i tre gradini che lo riportarono sulla via principale, schivò i rametti di una giovane piantina di ulivo che cresceva fuori dalla bottega del salumiere, e indicò a Valentina la stradina che curvava e che si restringeva fra le mura delle case. «Per di qua, giusto?»

«Sì, sì.» Valentina corse ad affiancarlo, si spolverò le frange della gonna, e giunse le mani dietro la schiena, inseguita dallo schiocco dei sandaletti che battevano la pietra. «Ti porto fino in cima a – salve, Signor Oreste!» Si allungò a sventolare un saluto sorridente al Signor Oreste che si era appena affacciato dalla terrazza di casa. «Grazie per la marmellata, era squisita!»

Il Signor Oreste sbatacchiò le palpebre, stordito come se gli fosse arrivato il sole negli occhi. «C-ciao, Tina.» L’acqua versata dal suo annaffiatoio traboccò dal vaso delle povere orchidee, attraversò le grate della terrazza, e piovigginò in strada facendo brontolare il garzone dell’enoteca che era appena uscito a dare una spazzata al marciapiede.

Più Valentina e Bruno si addentravano nel centro del paese, più i mormorii aumentavano, occhiate oblique volavano nella loro direzione, le tendine dei bar si schiudevano per far sbucare sguardi incuriositi, ombre si affacciavano alle finestre per spiare quell’innocua passeggiata allietata dal sole domenicale.

Due pescatori di ritorno dal porto bisbigliarono fra di loro reggendo i rotoli di reti sulle spalle. L’edicolante che era uscito dalla bottega non staccò gli occhi da Bruno e Valentina fino a che loro non svoltarono l’angolo. Pure la Signora Agnese si ritrovò ammutolita come uno stoccafisso, stecchita davanti ai cordoni del bucato proprio mentre stava finendo di appendere un lenzuolo.

Una parte di Valentina se ne infischiava altamente, lasciando che quelle occhiate le rimbalzassero addosso come fa la pioggia sulla tela dell’ombrello. Dall’altra parte accolse quegli sguardi con un sorriso deliziato. Il petto le si gonfiò di un’emozione eccitante, al pensiero di rendersi partecipe di un pettegolezzo così innocente eppure così scandaloso.

Ciò che davvero le faceva scoppiare il cuore di entusiasmo era la consapevolezza che tutta Portorosso la stesse vedendo assieme a Bruno. Quegli sguardi strabuzzati avevano lo stesso dolce e piccante sapore di una piccola ma meritata rivincita.

Bene, pensò. Che lo sappiano. Che lo vengano a sapere tutti, persino il Papa, per quel che mi riguarda. Che sappiano tutti che c’è qualcuno che mi fa sorridere in questo modo e che è felice di starmi affianco dopo tutti questi anni di rifiuti da parte di un paesino che avrebbe sempre dovuto essere la mia grande famiglia.

E così Valentina continuò a portarsi Bruno a zonzo, e per un po’ entrambi passeggiarono per Portorosso come una coppietta di animali esotici da cui tutti prendono le distanze, scambiandosi sguardi intimoriti ma anche bisbigli affascinati. Prima o poi si sarebbero stufati, ne era certa. E non era su quei vecchi bacucchi che Valentina voleva rivolgere le sue attenzioni, in quella giornata tanto speciale.

«Da qui in poi c’è un po’ di salita» disse Valentina, «su per questa stradina.» Accelerò il passo facendo sventolare il verde della gonna attorno alle ginocchia. Nella fretta, il suo braccio sfiorò la camicia di Bruno, la stoffa pulita e profumata di sapone. Bastò quel contatto per farle salire un caldo brivido di benessere lungo la schiena. «Ma vedrai, una volta che arriviamo in cima la ricompensa sarà enorme.»

«Ri…» Bruno flesse il capo, stropicciò la fronte, e si grattò la nuca. «Ricompensa?»

Valentina squittì una risata che splendeva della gioia più sgargiante. Gli fece cenno col mento per farsi inseguire. «Vieni!»

Sfilarono sotto l’ombra delle tende, dei balconi, e degli ombrelloni fuori dai bar, attraversarono il profumo della frittura di pesce, delle piante appena annaffiate, e del Chinotto appena stappato. Dinnanzi a loro, il verdeggiare del colle curvava al di sopra dei tetti color pastello e incontrava l’azzurro un po’ polveroso del cielo di metà pomeriggio.

Valentina allungò il braccio a indicare l’immediata curva di strada in salita di cui non si scorgeva ancora la fine. «Per di qua di solito passano le processioni, sai, tipo quando c’è l’Immacolata o la Via Crucis, e si va dalla piazza fino in cima al monte. Quando le facciamo di sera è davvero il massimo perché ci sono tutte le candeline sparse per la strada, ed è davvero suggestivo, sembra di camminare attraverso un fiume di lucciole. Oh, ecco, vedi…» Sorpassato il piccolo cavalcavia sopra cui scorrevano le rotaie della stazione, furono accolti dal verde più aperto e brillante dei colli che si erano spalancati come ali. «Quaggiù invece cominciano i campi di vigne. La nostra uva è buonissima, sai, d’autunno è davvero un’impresa trattenersi dall’abbuffarsi mentre si vendemmia e – ah!» Valentina batté le mani, attraversò la strada senza nemmeno guardare a destra e a sinistra, si aggrappò a una piccola transenna che dava sul pendio per mettersi poi in punta di piedi e volgere l’indice al paesaggio. «E guarda, guarda.» Puntò un piccolo casolare di pietra e mattoni ombreggiato dal colle dei vigneti e ombreggiato dalle aiuole di rose bianche. «Laggiù c’è la mia vecchia scuola. Il giardino è sempre aperto, infatti noi ragazzini ci andavamo a giocare sempre anche di sabato e di domenica. Hanno sempre detto che avrebbero costruito un campo da calcio vero, con le porte, e le linee per terra e tutto, ma alla fine non è mai successo, e così quando si voleva giocare decentemente si andava sempre in piazza.» Smontò dalla transenna e si diede una sistemata alla gonna stropicciata. «A te piace giocare a calcio?»

Bruno si sporse a sua volta dalla curva. Individuò la scuola con sguardo attento e affascinato. «Uhm.» Tornò a guardarsi attorno, si strofinò le mani sui pantaloni e scosse la testa, di nuovo rattrappito nel suo guscio di timidezza. «Non molto, in realtà.»

Valentina ne fu sorpresa. «No?» Non si era mai sentito di qualcuno a cui non piacesse giocare a calcio. «A me invece piace tantissimo. Ma agli altri bambini si arrabbiavano sempre quando io volevo giocare con loro perché dicevano che non passavo mai i tiri, che ero troppo violenta, e che non vale prendere a calci il portiere quando ormai ha parato per rubargli la palla dalle mani. Forse un po’ è vero.» Rise, e la sua fu la risata dolce e soleggiata che solo i ricordi di infanzia sanno posare sulle labbra di una ragazza ancora così giovane. «Ma per fortuna ci sono tanti altri giochi. Il mio preferito era quello di salire sulle radici o sui rami degli alberi e far finta che fossero motociclette. Poi mi caricavo dietro Sara e Massimo e mi immaginavo di portarmeli in giro per il mondo. Oh, eccoci.»

Riprendendo a passeggiare, avevano raggiunto la curva più ampia del colle, quella che si apriva sulla luce terrosa del pomeriggio che scaldava la pietra e le mura delle botteghe. Una luce verdeggiata dagli alberi più folti e dai cortili che maculavano gli spazi fra le casette più distanziate fra loro. Li accolse un profumo più fresco rispetto a quello che si respirava nel centro del paese. Un profumo di ulivi e di piantine di limoni, del vento salmastro esalato dal respiro del mare.

«Vedi lassù?» Valentina saltellò e indicò la cima mozza della Torre Antica appena sbucata dietro i comignoli. «Quella è la Torre Antica, la si vede già da qui. Quando arriviamo in cima, poi – perché ridi?»

Bruno si premette la mano sulla bocca, si piegò in avanti per forzare un tossito che coprisse la sua risata. «Scusa, scusa» sghignazzò. «Non è per…» Scostò i riccioli cascati sulla fronte, risollevò il capo. Dopo aver riso, i suoi occhi scuri e umidi erano diamanti grezzi estrapolati dal terriccio. «È che sembra che tu abbia una storia per ogni sasso di Portorosso.»

Valentina si concesse il tempo di un battito per superare il guizzo di emozione trasmesso dal contatto con quegli occhi. Sorrise, come scaldata da una tenera carezza inaspettata. «Ma te l’ho detto che sono una vera esperta, no? Anche se non mi sembra un gran vanto, voglio dire, conoscere tutto di una città così piccola e insignificante.»

«Per me non è insignificante» replicò Bruno. «Poi, dal modo in cui ne parli, si sente che ci sei sinceramente affezionata.»

Le sopracciglia di Valentina compirono uno scatto verso l’alto. «Sul serio?»

Bruno annuì.

«Oh.» Valentina si posò la mano sulle labbra e rise, arrossendo. «Non l’avrei mai detto, sai.»

La loro passeggiata in salita incrociò la discesa di un gruppo di compaesani che si dirigevano verso il centro del paese, con ogni probabilità verso la piazza. Li guidava la corsa di un furgoncino Ape che Valentina e Bruno schivarono saltando sul marciapiede. Il furgoncino sgasò tossendo qualche bolla di fumo, fece sporgere il ragazzo accucciato nel portapacchi che poi fece cenno al guidatore di andare avanti.

Dietro di loro, seguiva un altro piccolo gruppetto di uomini e donne. Alcuni sorreggevano delle impalcature sulle spalle, travi e panche ripiegate, e altri ancora spingevano carriole contenenti damigiane, pile di piastre da cucina, tovaglie arrotolate, lanterne a olio e rotoli di luminarie. Due donne in fondo al gruppo biascicarono qualche protesta, una slanciò la mano verso l’Ape corsa giù dal tornante del colle, e l’altra mollò il manico della sua carriola per aggiustare il fazzoletto annodato alla matassa di capelli grigi.

Bruno si girò per inseguirli con lo sguardo, prima che il gruppetto si dileguasse giù per il colle. «Stanno già preparando la vendemmia?» domandò. «Non è un po’ presto?»

«Veramente» disse Valentina, tornando a rimbalzare dal marciapiede sulla strada, «non stanno preparando la vendemmia, ma la sagra.»

«Sagra?» Una scintilla di curiosità accese gli occhi di Bruno. «Quale sagra?»

«La Sagra del Basilico» rispose Valentina. «Quella della prossima settimana.» Allungò il passo come se stesse già trotterellando fra i profumi dei chioschi, i vapori delle fritture, e le note musicali strimpellate dall’orchestrina. «È la nostra festa preferita, forse ancora più di Ferragosto, anche perché questa dura ben quattro giorni, da giovedì a domenica, e non si festeggia solo qui a Portorosso, ma anche nelle altre quattro delle Cinque Terre. La parte più bella è sempre la domenica, perché la sera sparano i fuochi d’artificio da tutte le città sulla costa, e tutto il cielo e il mare sono illuminati.» Sporgendo lo sguardo dal tornante della salita, la vista del paese rimpicciolito e così distante le scaricò una lieve vertigine lungo le gambe. Valentina dovette alzare la mano per ripararsi da un lampo di sole che, specchiandosi nella pozza di mare trattenuta dall’abbraccio del porto, era rimbalzato fino a lei. «E poi viene un sacco di gente da tutta la Riviera. Una volta sì che era la Sagra della Vendemmia. Poi però negli anni abbiamo deciso di anticiparla ed è diventata la Sagra del Basilico. No, ecco, ho cambiato idea. La parte più bella non sono i fuochi d’artificio, ma tutto quello che si prepara da mangiare.»

Bruno soffiò una risatina. «Tutto a base di basilico, immagino.»

«Non solo, no.» Valentina elencò sulle punte delle dita. «Ci sarà anche il chiosco delle frittelle e delle noccioline candite. Poi la grigliata di pesce, e di quella ce ne sarà tanta. Oh, e anche le patate fritte al rosmarino, quelle sono proprio il massimo. Te le farò assaggiare, te le preparano proprio davanti agli occhi.»

«Mi stai ufficialmente invitando?»

«Magari è così. Allora…» Valentina distese un sorriso sornione, assottigliò lo spazio fra le ciglia luccicanti. «Ci verrai?»

Bruno però non sembrò abboccare all’amo di quello sguardo. Non ancora. «Stento a credere che sia tu a invitare me.» Si infilò le mani nelle tasche della camicia, guardò altrove. «E che i ragazzi non facciano la fila per invitare te.»

Quel commento avrebbe dovuto lusingare Valentina, e invece le rovesciò addosso solo un getto di umida e fredda tristezza. Una tristezza fin troppo familiare. «Te l’ho detto.» Raccolse una ciocca profumata, anche se crespa, e la arricciò di qua e di là. «I miei appuntamenti finiscono sempre nel disastro. I ragazzi mi confondono, proprio non li capisco. Anzi: non riesco a capire cosa loro si aspettano da me.» Sventolò la ciocca dietro la spalla. «Mi fanno un sacco di complimenti e mi guardano tutti ammaliati perché dicono che ho dei begli occhi, poi però, quando si tratta di vedere anche tutto il resto di me, mi piantano in asso con la stessa velocità con cui mi sono ronzati attorno.»

«Be’…» Il tono di Bruno si ammorbidì. «Effettivamente hai dei bellissimi occhi.» E lui trasalì come se avesse calpestato un riccio a piedi nudi. «Cioè…» Piegò il capo contro la spalla, si nascose arruffando i riccioli, poi però prese coraggio e sollevò la mano con cui si era coperto. Gli occhi come due pozze scosse dal lancio di un sassolino. Un sorriso sincero ma imbarazzato a tremolargli sulle guance diventate di un cupo color mattone. «Sono troppo scontato?»

Valentina rise di gusto, facendo luccicare il verde dei suoi bellissimi occhi, e scosse la testa. «Per niente.» Nonostante fosse una frase che si era sentita rivolgere un’infinità di volte, era la prima volta che la faceva sentire così sazia e appagata. Ancora meglio di un’abbuffata di pasta o di gelato. «Ti ringrazio per il complimento, comunque.»

Bruno alzò le spalle come se si fosse trattata di una scaramuccia da poco. «Chissà quante volte te l’avranno detto.»

«Ma nessuno mi è mai sembrato sincero come te. E comunque…» Valentina intrecciò le dita dietro la schiena. Fu lei ad avvicinare il passo a quello di Bruno. «Anche io stento a credere che tu sia così libero di gironzolare assieme a una ragazza senza avere un’orda di ammiratrici alle calcagna.»

Bruno tornò a gettare lo sguardo ai suoi piedi, a nascondersi sotto i riccioli rovesciati davanti agli occhi. Strinse le labbra, tossì, «Non ho mai avuto una ragazza», e si strofinò la nuca.

«No?» Valentina si sorprese – ma nemmeno troppo – di sentirsi sollevata davanti a quella confessione. Fu un peso che si sciolse dal petto. Valentina pensò che, nell’apprendere il contrario, quel peso si sarebbe indurito come una brace e avrebbe bruciato come un tizzone ardente. «Anche io stento a crederci.»

«Ti giuro che è la verità» confessò Bruno. «Forse perché sono un po’ troppo riservato.» Di nuovo una brusca alzata di spalle. «O perché non so mai cosa dire. Forse perché parlo poco o perché non ho mai qualcosa di realmente interessante da dire, quindi preferisco starmene zitto. Ma in realtà nessuna ragazza si è mai interessata a me, prima d’ora.» Tornò a rinfilarsi le mani in tasca, strusciò le suole sulla strada di pietra. «Forse è anche perché sanno che non ne varrebbe la pena, dato che giro di continuo, e che spendo tanto tempo a lavorare.»

«Ma per me ne vale la pena eccome» disse Valentina. «Vedi? Magari anche loro ti giudicano solo superficialmente.»

«E forse hanno anche ragione. Non so se ci sarebbe poi molto altro da apprezzare su di me.» Bruno sollevò una spallina della camicia che gli cadeva larga, rigirò il colletto sbottonato sotto cui le lingue di sole s’infilavano per baciargli la pelle scura. «Non che io faccia molto per rendermi un po’ più simpatico di quello che sono.»

«Guarda che con me non devi sforzarti di essere più simpatico di quello che già sei, lo giuro.» Valentina lo dichiarò senza il minimo dubbio. «E poi, se devi sforzarti di essere qualcuno che non sei, allora forse è segno che quella persona non ti accetta per quello che sei veramente e che non siete fatti l’uno per l’altra. Non so se ne varrebbe la pena.»

«Dai l’impressione di saperla lunga a proposito.»

«In realtà anche io lo sto imparando da poco.» Valentina si scansò per schivare il braccio di una pianta grassa che aveva rischiato di pungerle la stoffa del vestito. «Forse riesco a capirti perché il tuo è un po’ l’opposto del mio problema, se ci pensi. Se le ragazze ti evitano perché sei timido e perché parli troppo poco, io ai ragazzi smetto di piacere perché parlo fin troppo. Dicono che sono logorroica. Secondo te io sono logorroica?»

«Sì.»

«Cosa?»

Bruno alzò le mani, scattò all’indietro rimbalzando sullo spigolo di una casa e lì rimase. La faccia strabuzzata dall’incertezza e dall’imbarazzo. «Mi hai chiesto tu di dirtelo, io ti ho solo detto la verità.»

Valentina però non se la prese. Anzi, si mise a ridere. «Ma Santo Cielo.» Si spalmò una manata sulla faccia, grugnì un sospiro esasperato. «Vedi, ecco perché hai così poco successo con le ragazze» lo bacchettò. «Noi signorine amiamo essere trattate con garbo e delicatezza, e a volte è meglio una piccola e innocua bugia rispetto a una brutale verità.»

Bruno socchiuse una palpebra e alzò il sopracciglio. «Cos’avrei dovuto dirti, allora?»

«Avresti dovuto girarci un pochino attorno, per esempio.» Valentina sventolò l’indice e salì sulle punte dei sandali per compiere una giravolta attorno a Bruno. «Dire qualcosa del tipo: ma no, Tina, che dici? Non sei per niente logorroica, Tina. È un piacere ascoltarti, Tina. Conversare con te è una vera delizia per il mio udito

«Solo perché sei logorroica non significa che non mi piaccia ascoltarti e chiacchierare con te.»

Valentina ricadde sulle suole, «Oh», atterrata dal tonfo al cuore che l’aveva ammaliata e stordita. Sgranò gli occhioni luccicanti. La spolverata di rossore risalì le guance lentigginose, la radice del naso, e poi dietro il collo, avvolgendola in un caldo abbraccio.

Questo sì che è inaspettato.

Percorsero ancora un tratto di salita che si alternava fra la lunga strada di pietra e qualche gradino da scavalcare nelle curve più ripide, quelle abbracciate dal fianco del monte stritolato da una rete di contenimento attraverso cui cresceva l’edera e la sterpaglia selvatica. L’altezza della Torre Antica si avvicinava al di là delle cime degli alberi che, riversi sulla strada, ne frastagliavano l’immobile profilo di pietra.

Le case non erano poi così insonnolite come ci si sarebbe aspettato da una domenica pomeriggio accaldata come quella. Una signora uscì a carezzare un gattino pezzato che era salito sul balcone, gli riempì la ciotola con gli avanzi di frattaglie di cui il suo grembiule era ancora sporco. Due anziani signori chiacchieravano sulla soglia di casa, entrambi accomodati su seggiole di paglia, mentre sorseggiavano vino bianco e gesticolavano irrompendo di tanto in tanto in qualche fragorosa risata. Due bimbi giocavano sul terrazzo, seduti, facendo avanzare eserciti di soldatini e facendoli scontrare sotto i fortini issati sui panni del bucato.

La brezza soffiò, fece dondolare le lenzuola messe ad asciugare e fece ruotare un segnavento a forma di pesce. La vegetazione s’inchinò. Le foglie verdi, come scaglie, fecero danzare e svolazzare mille sfumature da cui si sparpagliarono i piumini di polline e i petali rosa degli oleandri.

Quella che li raggiunse e che solleticò loro le narici fu una zaffata di salsedine risalita dalla distesa di mare che ora si spalancava verso l’infinita vastità dell’orizzonte, dove le nuvolette sfumavano e venivano inghiottite dalla scura linea d’acqua.

Incapace di tenere troppo a lungo lo sguardo distante da Bruno – e di inghiottire la parlantina che le bruciava in fondo alla lingua –, Valentina tornò all’attacco sfoggiando il suo notorio ghigno da marpiona. «E così non hai mai avuto una ragazza, eh? Che strano…» Attraversò i capelli con le punte delle dita, rigirò il nastrino fra i polpastrelli, guardò verso il mare alleggerendo il tono di voce e fingendo un vago disinteresse. «E io che pensavo che con tutti i posti che hai girato, con tutti i paesi in cui sei vissuto… dai l’impressione di essere uno che seduce una ragazza a ogni viaggio.»

Lo sguardo di Bruno si aprì alla luce, e lui rivolse a Valentina un minuscolo sorriso piacevolmente sorpreso di aver ricevuto quella confessione. «Sul serio?»

«Ovvio» annuì lei. «Sai, una specie di vagabondo rubacuori. Uno che ti conquista solo per poi andarsene lasciandoti il cuore infranto…» Si strinse una mano al petto e allungò l’altro braccio verso il cielo, come ad afferrare una delle nuvolette che pascolavano nell’azzurro. «Che salta sul treno in corsa seminando alle sue spalle un’orda di ragazze in lacrime che sventolano i fazzoletti e che strillano: nooo!» Si schiacciò il dorso della mano sulla fronte e rovesciò il capo all’indietro, lasciando che il viso le si squagliasse in un’espressione disperata. «Torna da me, Bruno, torna da me!»

«Ti assicuro che non esiste nulla di più lontano dalla realtà.»

«Ma prima o poi avrai incontrato almeno qualcuna che ti piace, no?»

Bruno stropicciò le labbra in una smorfia e grattò le unghie sui fondi delle tasche dentro cui aveva infilato le mani. «Non ho girato poi così tanto.» Anche lui guardò verso il mare. Si lasciò carezzare dal vento che gli spazzolò i riccioli lontano dagli occhi. «Ho cominciato a lavorare quando avevo quindici o sedici anni, e poi non ho fatto altro che spostarmi senza mai avere il tempo di legarmi davvero a un qualche paese o a una qualche città.» Alzò le spalle. «E adesso…»

«Già» fece Valentina. «Ecco una cosa che ho sempre voluto chiederti. Bruno…» Si bloccò in mezzo alla strada e si girò a guardarlo. A guardarlo dritto in quegli occhi scuri e carichi di misteri remoti e bui come l’oceano aperto. «Quanti anni hai?»

La bocca di Bruno si macchiò di un sorriso intrigato. «Io?» La superò sfiorandole la spalla, accelerò il passo molleggiando un po’ sulle ginocchia, e nascose la faccia di chi stava cominciando a spassarsela, di chi era in procinto di cominciare a giocare come i bambini che poco prima aveva visto divertirsi sulla loro terrazza. «Secondo te quanti ne ho?»

«A istinto?»

«A istinto.»

«Uhm.» Valentina lo inseguì. Si strofinò il mento, si accigliò, e di nuovo si soffermò su quel viso così dolce, seppur spigoloso. Un viso ancora sgrezzato nei quali gli occhi scuri assorbivano ogni ombra e ogni riflesso di luce. La folta zazzera di riccioli color cioccolato. Gli abiti che cadevano larghi. Il fisico asciutto che sembrava il carapace di un insetto appena sgusciato fuori dal suo bozzolo e che non aveva ancora imparato a spiegare le ali e a prendere il volo. Proprio la posa che si trascinano dietro i ragazzini che crescono troppo in fretta, le spalle ingobbite dal peso di un’età adulta caduta sulla schiena all’improvviso, da una notte all’altra. «A occhio ne dimostri sedici» confessò. «Ma se dici di aver cominciato a lavorare quando avevi quindici anni allora devi averne sicuramente di più.»

Bruno strinse le labbra e inghiottì una risatina. «Sedici?» Si toccò la faccia, risalì lo zigomo su cui era visibile il segno bianco di qualche taglietto. Forse ferite del lavoro o della rasatura. «Non so se prenderlo come un complimento o meno.»

«Non ti abbattere.» Valentina lo consolò picchiettandogli una serie di pacche sulla spalla. «So perfettamente cosa provi. Anche a me dicono sempre che dimostro meno anni di quelli che ho.»

«Dovresti esserne contenta» rispose lui. «Significa che avrai una vita lunga e che invecchierai lentamente.»

«Se lo dici tu ci credo.» Valentina sospirò e le sue spalle si afflosciarono. Un gesto da cui trasudò una grigia amarezza. «Ma non è lo stesso facile farsi prendere sul serio dalla gente quando tutti ti considerano poco più di una bambina. Ah. Io comunque ne ho venti.» Alzò due dita e chiuse l’altra mano a formare uno zero. «Venti tondi tondi.»

«È un bel numero.»

«E tu, allora?» Di nuovo Valentina lo incitò con una spallata. «Tu quanti ne hai?»

Bruno sollevò le sopracciglia, e lo scatto di quel cipiglio fece traballare una luce di imbarazzo nelle profondità dei suoi occhi larghi e lucidi come gemme levigate. Si strinse nelle spalle, si morsicò il labbro e inspirò dalle narici. «Di…» Allontanò lo sguardo. Avvolse il collo in un massaggio, si grattò la testa, e rispose con un tossito. «Diciannove.»

Valentina allargò un sorriso esultante. «Lo sapevo!» Saltò a pie’ pari, batté le mani e accolse con focoso entusiasmo quella piccola conquista. «Lo sapevo che non potevi essere maggiorenne. Hai un viso così gracile, e dei lineamenti così dolci e asciutti. E sei pure un po’ mingherlino.» Sussultò. Si tappò la bocca e arrossì. «Scusa.»

Bruno scosse la testa. «Fa niente.» Raddrizzò le spalle e rilassò la postura. «In fondo hai ragione.» Di nuovo si diede una grattata alla guancia sbarbata, e attraverso la fronte si dipinse una triste ruga di delusione. «Ma sembro davvero così giovane?»

Valentina annuì. «Però sei parecchio alto. Almeno quando non ti ingobbisci. Magari significa che crescerai ancora, devi solo aspettare. Solo il tuo atteggiamento vissuto ti tradisce un po’.»

Questa volta Bruno rise di gusto, reggendosi la pancia, ma sempre con una mano davanti alla bocca. Un altro modo per nascondersi, pensò Valentina. Come se per lui non fosse legittimo lasciarsi andare.

Represso qualche ultimo singhiozzo di risa, «Vissuto?», Bruno si affrettò a passarsi una nocca sulle ciglia umettate e a darsi una sistemata ai riccioli. «Incredibile» sospirò. «Sono più giovane di te.» Un’ombra di colpevolezza scese a rabbuiargli il volto. «E io che ti ho pure dato della ragazzina…»

«Ragazzina?» domandò Valentina. «Ma quando?» Il ricordo le lampeggiò in testa. «Aah…» Le suscitò una smorfia simile a quella che aveva arricciato proprio quel giorno, quando lei e Bruno si erano ritrovati uno davanti all’altra, circondati dal via vai di gente che come loro lavoravano ai ruderi della piazza, e Bruno le aveva rivolto la parola solo per dirle di levarsi dai piedi. «Il giorno della ristrutturazione, è vero.» Tornando a quel pomeriggio, a respirare l’odore di malta fresca e dell’acqua ferrosa che zampillava nella fontana della piazza, Valentina scoprì che quel ricordo era sì pungente, ma allo stesso tempo nemmeno troppo sgradevole, come il primo morso dato a un cibo piccante.

Bruno la anticipò. «Mi dispiace.» Il suo tono era sincero. Il suo sguardo presente. «Quel giorno sono stato decisamente troppo scorbutico con te.»

Valentina alzò le spalle, si finse più irritata di quello che era. «Scuse accettate. Ma anche io, in effetti…» Arricciò la collanina fra le dita, si mise a giochicchiare con la chiavetta. «È vero che quel giorno ti stavo solo intralciando. E forse…» Abbassò lo sguardo sui sandaletti che avanzavano lungo la strada di pietra, sulla sua ombra fiancheggiata da quella di Bruno. Un bruciore di imbarazzo le arrossò la fronte e le orecchie. «Forse è vero che quel giorno mi ero messa a lavorare ai ruderi della chiesa solo per avere una scusa di starti un po’ vicino.»

Gli occhi di Bruno s’illuminarono, raccolsero una luce di stupore, ma la sua espressione era ancora incrinata di scetticismo. La faccia di chi non riceveva mai dichiarazioni simili, di chi non sapeva se crederci o meno. «Sul serio?»

Valentina annuì. «Mh-mh.» Tenendo la testa così bassa, i capelli le scivolarono sulle guance, nonostante il nastrino che li teneva pettinati all’indietro. «Sei deluso? Ti ho offeso? Scusami, io non…»

«Ma no, no» le rispose Bruno. «Figurati. Nient’affatto. Perché dovrei essere offeso?» Si portò di un passo più vicino a lei. «Ma ti ringrazio comunque per avermelo detto.»

Valentina tirò su la testa. Sciolse la tensione con una risatina ancora tremolante di imbarazzo. «Tanto non avrei potuto fingere di non essere interessata a te ancora a lungo. Per quanto io mi sforzi, non riesco mai a tenere nascoste le mie intenzioni, o i miei pensieri, o quello che provo.»

«Significa che sei una persona sincera» le disse Bruno. «Dovresti apprezzarlo.»

«Ma anche tu sei una persona sincera.» Valentina si sporse a sgomitarlo, allargò il sorriso da guancia a guancia, e ammiccò. «O forse c’è qualche segreto che mi tieni nascosto?»

Gli occhi di Bruno si infossarono in due pozze d’ombra. Le pupille si persero nel vuoto, vacillarono. Il viso perse colore, nonostante fosse irradiato dal cielo soleggiato, e le guance sbiadirono, si chiazzarono di uno smorto colorito cenere che sembrava quello di un poveraccio soffocato dal suo stesso fiato. A Valentina parve quasi di vedere un battito del suo cuore staccarsi dal petto e precipitare ai suoi piedi come un sasso.

Bruno allentò il bavero della camicia, tossicchiò, affondò una pesante manata attraverso i riccioli, nascondendosi dietro quel gesto, e rispose con voce graffiata di disagio. «Ma figurati.» E non aggiunse altro.

Valentina non seppe come interpretare quella reazione, non seppe come raggiungere e penetrare quell’ombra precipitata su Bruno come una nuvola di maltempo, così fece quello che faceva sempre quando non capiva qualcosa: smise di pensarci. «In realtà, sai…» Saltellò a passo svelto, si girò verso una coppia di gattini balzati sul muretto per godersi il sole, e tornò sull’argomento di prima. «Non riesco proprio a essere felice del fatto che la gente mi considera più giovane di quello che sono. So che succede perché, anche se mi sforzo di essere un po’ più adulta di quello che sono, alla fine finisco sempre per comportarmi da ragazzina immatura.»

Bruno – il colorito risanato e lo sguardo di nuovo fermo, anche se sempre un po’ in ombra – non sembrò vederla come una tragedia. «Ognuno ha i suoi tempi, e ognuno ha il suo modo di crescere, un po’ come succede con le piante e con gli alberi. Secondo me non ha senso sforzarsi di sembrare più adulti di quello che si è, o paragonarsi agli altri.» Alzò il mento a indicare la vegetazione circostante. «È un po’ come se un girasole si paragonasse a un abete, o se un ulivo si paragonasse a un papavero.»

«Ooh.» Valentina si riempì il petto di un sospiro meravigliato. «Questa è una cosa che nessuno mi aveva mai detto prima.» In realtà, Bruno le regalava un sacco di frasi carine che non si era mai sentita rivolgere da nessuno. «Ma per te sarebbe facile sembrare un po’ più grande di quello che appari. Forse basterebbe che ti lasciassi crescere un po’ di barba.»

«Ci ho provato.» Bruno si massaggiò le guance lisce, fatta eccezione per qualche taglietto fresco e qualche piccola cicatrice visibile solo quando il sole gli batteva direttamente in faccia. «Ma mi cresce troppo rada e troppo ispida. Mi dà solo fastidio.»

«E i baffi?»

«Lo stesso. Sono troppo sottili e patetici.» Bruno fece roteare gli occhi. «Sembro un pesce-gatto.»

Valentina rise spernacchiando dal naso, come se le fosse andato di traverso un sorso d’acqua. Si tappò la bocca, si arricciò in avanti e rise sganasciandosi, fino a far fuggire i gattini che si erano appollaiati sul muretto.

Pure Bruno ne fu contagiato. Non poté fare a meno di sorriderle. «Ti fa tanto ridere?»

Valentina rise ancora. «Sì.» Le guance tutte rosse, la pancia indurita dagli spasmi irrefrenabili, e gli occhi annacquati di felicità. «Sei proprio buffo quando vuoi.»

«Anche la tua risata è buffa.»

«Sul serio?» Valentina si toccò le labbra, incrociò gli occhi guardandosele con stupore. «Io invece l’ho sempre trovata così sgraziata e sfacciata. È che non posso farci molto, se mi viene da ridere così.»

«È bello sentirti ridere.»

«E per me sarebbe bello vederti con i baffi. E io ho tutto il tempo del mondo per vederteli crescere addosso.» Valentina riprese fiato con un sospiro. Un sospiro che le umettò gli occhi di tristezza. «Almeno, per il tempo che ti fermerai qui.»

Pure a Bruno cadde il sorriso. Pure lui sembrò condividere quel dispiacere. «Già.»

Lo scricchiolare dei loro passi e l’occasionale stridere dei gabbiani frammentò il silenzio che era sceso ad avvolgerli e ad allungare la distanza che separava la loro camminata. Valentina raccolse una frangia della gonna, la sventolò arricciando le dita alla stoffa, e quel lampeggio verde le ridonò il buonumore, distraendola dai brutti pensieri. «Poi, sai…» Perché Valentina non aveva intenzione di rovinarsi un momento speciale come quello pensando al giorno in cui Bruno sarebbe salito sul treno e se ne sarebbe andato da Portorosso. Non ancora. «Quello dei tuoi baffi è un problema che in qualche modo capisco. Li vedi i miei capelli?» Raccolse una ciocca sopravvissuta alla strigliata di quella mattina e gliela mostrò. «Sono piuttosto corti per una ragazza, no? Ma non li lascio crescere di proposito perché sono talmente crespi che finirei per ritrovarmi in testa solo un cespuglio di nodi.» Affondò le punte delle dita fra i capelli, stando attenta a non sciupare il nastrino, e se li scostò dietro la spalla. «Non sai le pene che pativa mia mamma per pettinarmi quando ero piccola. Finivo sempre per piangere e strillare come una disperata perché la spazzola si incastrava di continuo nei nodi, e lei tirava, e io la pregavo di smettere, ma lei insisteva che non potevo uscire di casa in quelle condizioni. Nemmeno i balsami con cui mi imbrattava funzionavano. Poi sono cresciuta, ho cominciato a curarmeli da sola, ma non è che posso fare miracoli. E lei continuava a rimbeccarmi: Tina, pettinati. Tina, tieni bene quei capelli. Tina, sembri una strega, vedi di darti una sistemata. E così a un certo punto mi sono scocciata e li ho tagliati.» Si diede una sonora spolverata alle mani, come Ponzio Pilato davanti alla bacinella d’acqua. «Problema risolto.»

Bruno annuì, sembrò approvare quel gesto. «A volte la soluzione più drastica è la migliore.»

«Vero?» disse Valentina. «Peccato che la mamma dice che sto malissimo con i capelli così corti, ma a me non importa.» Uno sbuffo le imbronciò le guance. «Le mamme a volte sono delle tali rompiscatole.»

Bruno strinse i denti sul labbro inferiore, irrigidì le spalle, e inspirò dal naso. «Già.» Girò il capo, guardò in disparte. «Davvero.»

Valentina non fece in tempo a domandarsi il perché di quella reazione così scostante, di quella sua improvvisa freddezza, che erano già arrivati in cima al Monte Portorosso.

«Oh, ecco la torre.» Valentina precedette Bruno, incalzò una corsa che le fece superare l’ultimo tratto della salita. «Vieni, vieni, andiamo fino a lì!» Giunse alla base della Torre Antica, ne attraversò l’ombra proiettata dalla cima mozza, e si affacciò al paesaggio che scendeva dal piccolo monte e che riempiva la vista abbagliata da un sole che pian piano stava cominciando a calare.

Valentina si riparò gli occhi dalla luce, arricciò il naso solleticato dal venticello salmastro soffiato dal mare, e sorrise alla vista sì familiare ma che comunque era sempre in grado di strapparle un battito di emozione dal petto. Una fotografia che avrebbe potuto ritagliare e conservare per sempre in fondo al suo cuore. La strada di pietra che scendeva dritta e ripida, i raggruppamenti di case che le crescevano attorno come macchioline di fiori color pastello, il verde dei colli frammentati dai filari di viti che non erano ancora mature, il blu del mare lastricato dai riflessi di un sole sempre più largo e vicino all’orizzonte, e più in basso, lucente nella roccia brulla, il serpeggiare della ferrovia che abbracciava il monte e che proseguiva sotto le gallerie della costa.

Il vento soffiava più forte, lì in cima. Scuoteva le chiome dei pruni e degli oleandri e trascinava il profumo della terra nuda, dei campi lavorati, ma anche quello più tiepido e dolciastro proveniente dalle case più vicine che si affacciavano alla strada. Qualcuna aveva le finestre aperte, e da lì aleggiava il vapore della cena che stava già cominciando a bollire sui fornelli e a rosolare nelle padelle oliate con aglio e salvia. Nei cortili, il bianco dei panni messi ad asciugare e il rosso e il viola dei fiorellini che abbellivano i balconi.

Valentina si girò, chiamò a sé Bruno che l’aveva appena raggiunta. «Qui siamo proprio sulla cima del Monte Portorosso. C’è una bella vista, vero?»

Bruno attraversò l’ombra gettata dalla torre, fece strusciare una mano sul muretto di cinta che gli arrivava alla spalla, e anche lui andò ad affacciarsi al panorama che si spalancava dallo spiazzo dove nasceva la seconda stradina, quella che scendeva ripida e che faceva ritorno in paese come un torrente di sole. «Sì.» Bruno raccolse i riccioli che il vento gli aveva sparpagliato sulla fronte, si liberò lo sguardo tenendo la mano accostata alla guancia.

I suoi occhi, bagnati dall’oro del sole, scavalcarono il verde del colle e volsero al mare. Risucchiarono ogni sua striscia di luce, il bianco delle onde, il blu che cominciava a scurirsi, a somigliare a uno specchio nero. L’immensa vastità che si rovesciava al di là dell’orizzonte, per scomparire e riversarsi in chissà quali terre lontane.

Bruno inspirò e trattenne un sorso di fiato che gli fece tremare le labbra. La sua espressione mutò. Si riempì di una nostalgia dolorosa che gli fece lacrimare addosso un’ombra amara e tangibile proprio come un pianto. «Sì, davvero.»

Valentina si accorse di quell’ombra di dolore scesa a stringersi attorno a Bruno nel momento in cui i suoi occhi si erano riempiti dell’immagine del mare. Non sapeva perché fosse successo, ma sapeva di voler rimediare. Voleva allungare il braccio e raccogliergli la mano prima che il mare lo inghiottisse. Così scavò nelle sue memorie, rievocò ricordi felici che sperava potessero rallegrare pure lui, tenendolo a galla. «Sai» raccontò. «Quando eravamo bambini, io Sara e Massimo venivamo a giocare quassù praticamente ogni giorno. Di solito facevamo le gare in bici, e la discesa era sempre la parte più emozionante.» Indicò la via di pietra che, superata la tettoia della prima piccola casetta, precipitava lungo il ripido fianco del colle. «Da qui si fila giù che è una meraviglia. Non serve nemmeno pedalare perché la bici va da sola.»

Bruno corrugò un sopracciglio, perplesso, ma almeno l’ombra sul suo viso si era sciolta e la sua espressione si era distesa, di nuovo in luce. «Mi sembra molto pericoloso.»

«Solo quando ti si rompono i freni.»

«Cosa…»

«Ma non usavamo solo le bici.» Valentina trotterellò fino al muretto di cinta, ci incrociò le braccia sopra e spinse lo sguardo ancora più in là, oltre i comignoli e oltre i recinti dei cortili che fiorivano lungo la pendenza. «Certe volte riuscivamo a recuperare delle cassette di legno, di solito quelle che avanzavano a mio papà in officina o al papà di Massimo in pescheria. Ci agganciavamo le ruote e costruivamo queste specie di piccole automobili in cui si riusciva a stare anche in tre, e con quelle ci buttavamo giù lungo la strada.» Slanciò un braccio verso il cielo. «Era come spiccare il volo! Non sai quante botte ci siamo presi. Ma, come dico sempre io: i lividi scompaiono dopo una settimana, i bei ricordi durano per sempre.»

Bruno ci mise un po’ prima di riuscire a battere le palpebre sgranate. Poi scosse il capo, ma un sorriso gli addolcì la curva delle labbra. «Una frase del genere poteva uscire solo dalla tua bocca.» Anche lui andò a sporgersi dal muretto. Le braccia incrociate e le spalle curve. Tutto il bronzo del sole a brillare sulle sue guance. «Vedi? Lo dicevo che la tua vita è ben più spericolata della mia.» E di nuovo il mare catturò il suo sguardo e lo trascinò lontano, rapendolo proprio come avrebbe fatto il canto di una sirena bella e dannata. Gli occhi di Bruno rabbuiarono, raccolsero le sfumature dei fondali più profondi. Sfumature dipinte dalle onde che durante le tempeste schiaffeggiano la spiaggia, si aggrappano come artigli alla battigia di ciottoli, e che poi tornano indietro, risucchiate dal moto perpetuo che impedisce loro di abbandonare il mare, di staccarsene.

Valentina venne raggiunta da quelle immagini, e quella visione la soffocò, ghiacciandole il petto e bloccandole un nodo di fiato in gola.

Di nuovo Bruno si era perso proprio davanti ai suoi occhi, come se si fosse arreso alla forza del mare e si fosse fatto inghiottire dai suoi abissi, dalle fauci dei suoi scogli aguzzi e dalla brezza salmastra. Valentina non sarebbe mai stata in grado di affondare la mano in acque simili e di riportarlo alla luce. Si diede della sciocca solo per averlo pensato, per aver creduto di essere abbastanza forte.

«Ci sono un mucchio di isole.» Bruno spinse le spalle in avanti, strinse le palpebre. Indicò un punto dell’orizzonte con un’alzata di mento. «E quella laggiù?» chiese. «Anche laggiù c’è una torre.» Il suo sguardo puntava l’Isola del Mare. «È abitata?»

Valentina si stropicciò le palpebre e si riprese dallo stordimento che le aveva sfumato la vista e costretto il fiato nel petto. «Oh» sussultò. «Quella…» Guardando anche lei verso l’isola, socchiudendo le ciglia inondate dall’oro così caldo del sole sempre più basso e vicino al mare, si tuffò in un dolce fiume di ricordi. «Quella è l’Isola del Mare.»

Era così facile da riconoscere, anche da quella distanza. L’isola più grande delle altre, circondata da un arcipelago di piccoli scogli sbriciolati dalla sua costa di ciottoli e arbusti. La lunga pendenza foderata da un tappeto di erba alta, un boschetto di alberi folti e tondeggianti che crescevano proprio sul picco, dove la roccia sprofondava di strapiombo nel mare e dove il rudere della torre vegliava come un guardiano silenzioso.

«Ormai è abbandonata» disse Valentina, «e la torre è solo un rudere. Una volta però era un faro, ma ti parlo davvero di tantissimi anni fa, quando nemmeno i miei genitori erano nati. Papà però ci è tanto affezionato. Dice che è un po’ il simbolo di Portorosso, e quindi delle nostre vite e di tutte le vite che sono venute prima di noi.» Sfilò un piede dal sandaletto per grattarsi la caviglia opposta. Raccolse la collanina scivolata dal colletto dell’abito, la rigirò fra le dita gettando qualche scintilla dalla chiavetta. «Quando ero piccola mi portava spesso a vederla, girando attorno all’isola con la nostra barca. Dice sempre che un giorno la comprerà, quando avrà abbastanza risparmi da parte, e che ristrutturerà la torre per farla tornare a essere un faro.» Alzò le spalle. «Io in realtà non lo capisco.» Mollò la collanina che tornò a rimbalzarle sul petto. «Perché affannarsi così tanto per un’isoletta così piccola e per una torre sgangherata? E poi a cosa servirebbe un faro, qui a Portorosso? Le uniche barche che navigano qui sono quelle da pesca. Non è che dovremmo accogliere navi da carico o navi da crociera.» Rinfilato il piede nel sandaletto, si tenne appoggiata sul muretto con un gomito solo. Spinse le nocche su una guancia e inclinò il capo di lato. «E in realtà a me piace l’idea che la torre resti così, un po’ decadente.» I suoi occhi si incantarono. «Ha un che di misterioso. Se tornasse perfetta poi non sarei più in grado di fantasticarci sopra.»

Bruno le sorrise. Lo sguardo intrigato e di nuovo aperto alla luce. «E quali sarebbero queste fantasie?»

«Be’» rispose Valentina, «tipo che lì attorno ci vivono le sirene, o che sulla torre ci abita uno spiritello che viene fuori solo quando è notte, tipo una specie di custode

«Sirene?» Bruno alzò le sopracciglia e le rivolse un’occhiata giocosa, come quelle che si erano scambiati quando avevano scommesso sulle rispettive età. «Pensavo che qui a Portorosso vivessero solo i mostri marini, non le sirene.»

Valentina stette al gioco, scoppiò in una risata che dapprima somigliò a un tossito e che poi si allungò in un’allegra spernacchiata che le vibrò fra il bianco dei denti, pizzicando sulle guance arrossate di emozione. Ridendo così di colpo, piegata sulla pancia, Valentina urtò il gomito di Bruno con il suo e gli cadde sulla spalla, sprofondando nella bolla del suo profumo, in quell’aroma selvatico di mare, di scorza di agrumi e di spezie.

Bastò un singolo respiro, e ogni singhiozzo di risata si sciolse dalla sua bocca, le lasciò addosso solo la scia di un battito caldo che le gonfiò il petto e le riempì lo sguardo di una luce rinata. Quella vampata di profumo dolce e aspro le fece girare la testa spingendola a voltarsi verso Bruno, a domandarsi cosa potesse racchiudere quel desiderio che insorgeva ogni volta in cui lei provava a raggiungere i suoi occhi così scuri e sfuggevoli, incredibilmente profondi. Gli occhi di Bruno che adesso erano di nuovo rivolti al mare, rapiti da una malinconia straziante, da un amore crudele che avrebbe potuto stringergli le braccia attorno e portarlo via per sempre, dove Valentina non sarebbe mai stata in grado di raggiungerlo.

Un amore che era la cosa più pericolosa. Ancora più pericolosa delle moto e dei ragazzi che guidano le moto.

Sarà per questo che non riesco proprio a toglierti gli occhi di dosso, misterioso straniero?

Quella consapevolezza le donò un battito di coraggio inaspettato. Valentina assecondò quel prurito caldo, si lasciò attrarre da quel desiderio. Spostò il gomito strusciando il braccio sulla pietra polverosa, mosse la mano per raggiungere quella di Bruno, gli sfiorò una nocca incerottata con le punte delle dita, si appese al suo calore, alla piccola scossa che si era strofinata fra la loro pelle.

Bruno posò gli occhi sulla mano di Valentina che aveva raggiunto la sua. Non si sottrasse, ma se ne stupì e se ne meravigliò, come se una farfalla colorata gli fosse volata sul palmo durante una pungente giornata invernale. Alzò lo sguardo andando incontro a quello di Valentina – Valentina si morsicò il labbro e pigolò un mugugno che le rimbalzò nello stomaco –, e il suo viso si distese, ritrovò la sua pace.

Bruno schiuse le dita e le offrì la mano aperta, il palmo rivolto verso l’alto.

Fremente di desiderio, Valentina fece scivolare le dita sulle sue – dita callose e ruvide –, intrecciò le punte delle falangi a quelle incerottate di Bruno, e fu così che i loro occhi si incontrarono, separati solo dal rovescio di sole che grondava loro addosso, riflettendosi nel verde smeraldo delle iridi di Valentina.

Quella luce si raccolse anche negli occhi grigi di Bruno, nelle pozze di ombra racchiuse dai fili delle ciglia.

Una vertigine fece rabbrividire Valentina, le fece capire che in quegli occhi vi era racchiuso un mondo del tutto estraneo a Portorosso, a qualsiasi realtà lei avesse mai conosciuto.

Sentendo il petto bruciare per la mancanza di fiato, Valentina deglutì, e il forte tonfo del cuore la costrinse di nuovo a mordicchiarsi il labbro per non pigolare un gemito che le strinse la bocca dello stomaco, lì dove quel nodo di emozione aveva spanto una pozza calda che era salita a pizzicarle le guance, a tapparle le orecchie, e a farle girare la testa. La sensazione che aveva provato la prima e unica volta in cui aveva assaggiato del vino, buttando giù d’un fiato un bicchiere di rosso durante un pranzo di Natale.

Per riappropriarsi del fiato perduto, per non sentirsi annegare e trascinare verso il basso dalle gambe che si erano fatte molli e dondolanti, Valentina desiderò che si ripetesse quello che era accaduto la notte prima, quando lei era scivolata e crollata fra le braccia di Bruno.

I piedi cominciarono a pungerle, e solo in quel momento Valentina si accorse di essersi tesa sulle punte. Ma il bruciore che le scottava sulle guance e sulla bocca – così vicina a quella di Bruno, così tiepida del suo profumo di aranci e rosmarini – era ancora più forte.

Di nuovo così, lei e Bruno assieme, come se non fosse esistita nessun’altra realtà al mondo, né sulla terra né nel mare. Era un’immagine così viva e tangibile, nella sua mente, che la sentiva galoppare nel sangue e ribollire nel profondo della sua anima impaziente. L’immagine delle labbra di Bruno appese alla sua bocca e il suo respiro a scenderle nel petto, a gonfiarle il cuore e a farlo scalpitare, donandogli vita nuova, risucchiandolo nel perfetto blu dei suoi segreti e dei suoi misteri.

Se solo potessi…

Un lampo grigio schizzò loro addosso – bang! –, rimbalzò sul muretto facendo esplodere lo spigolo di un mattone. Scintille di pietra gli grandinarono addosso – le braccia di Bruno scattarono a proteggere Valentina –, punsero le guance, abbagliarono la vista piovigginando fra le ciglia, e strapparono Valentina al suo sogno, «Ah!», facendole cacciare un gridolino di spavento.

Sulla cima del monte li raggiunse un forte rombo, lo scricchiolare e lo stridere di pneumatici sulla salita di pietra, una vampata di polvere che gli sbuffò addosso un pungente odore di gas di scarico che poi si abbassò, scivolando sul profilo di una camionetta che aveva frenato proprio affianco alla torre. In piedi, sulla pedana del portabagagli, una minacciosa ombra nera strinse su Bruno il suo sguardo infiammato di cattiveria, gli abbaiò addosso con voce tonante, «Ehi, terrone!», mentre la sua mano sporca di terra faceva rimbalzare una pietra sul palmo. Una pietra grossa come il suo pugno e appuntita come quella che aveva appena scagliato.

La nuvola di odio che dall’inizio dell’estate era gravitata su Portorosso si schiuse, denudò il lampeggiare infiammato del temporale, e si preparò a far esplodere la sua letale e malvagia tempesta di fulmini.

   
 
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