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Autore: Chevalier1    20/05/2023    7 recensioni
Nata quasi per caso come una raccolta di one shot, iniziata con i turbamenti di una piccola Oscar alle prese con la scoperta di essere una bambina, è diventata di fatto una serie di notti agitate lungo la cronologia dell'anime.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: André Grandier, Generale Jarjayes, Marron Glacé, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Oscar François de Jarjayes gettò un’occhiata al cartoncino chiaro con lo stemma dell’esercito che aveva lasciato come promemoria sulla ribalta dell’anticamera da cui si accedeva alla sua stanza: conteneva l’invito formale a presentarsi quella stessa sera in uniforme di gala al quartier generale per la cerimonia di conferimento dei nuovi incarichi, si chiuse la porta alle spalle e scese a colazione prendendo un respiro profondo.

L’incontro con il padre, che fin lì aveva più o meno eluso, non poteva più essere rinviato dato che alla cerimonia, che coinvolgeva i più alti gradi di ogni Corpo d’armata, era invitato per ovvie ragioni anche il Generale Jarjayes. Oscar sapeva che scendendo così presto lo avrebbe trovato solo, intento a sorbire il suo caffè, prese coraggio e si preparò ad affrontarlo.

Sulle scale incontrò la governante già indaffarata a far capolino dietro a un enorme cesto di biancheria: «Buongiorno, Marie, tieniti pronta con ago e filo oggi, mi raccomando: tra poco arriveranno le uniformi e se ci fosse qualche imperfezione avrò bisogno del tuo aiuto entro sera. Sarà che la Guardia è la periferia dell’impero, ma la sartoria militare se l’è presa comoda!».

«State tranquilla, madamigella Oscar, non avete cambiato misure in questo mese, le hanno fatte sul modello della precedente non ci saranno problemi».

«Grazie, Nanny, che vita difficile avrei se non ci fossi tu a rassicurarmi!». La canzonò con affetto.

Quando entrò in sala da pranzo trovò il padre seduto alla tavola apparecchiata con una immacolata tovaglia di lino di fiandra, davanti a un forte caffè nero amaro e a una parca fetta di pane imburrato. A differenza di tanti nobili, che amavano circondarsi del superfluo e di ogni sfarzo, - osservò Oscar dentro di sé - suo padre, nei secoli fedele a una delle famiglie reali più scialacquatrici d’Europa, aveva fatto di una sobria, austera, eleganza una regola di vita.

«Buongiorno, padre, posso?», domandò Oscar accennando al posto di fronte a quello di lui.

«Buongiorno, Oscar, accomodati».

Sedette come sulle spine e si dispose ad attendere che le venisse servito il caffè, sperando che giungesse prima degli strali del padre, che invece parlò subito, ma con tono calmo e distaccato, quasi che quel mese lontani gli avesse dato il tempo di far pace con l’idea che “suo figlio” avesse deviato dalla strada segnata.

«Oscar, avrai riflettuto durante la tua lunga assenza, non credi che sia venuto il momento di dare a tuo padre una spiegazione per queste tue dimissioni repentine dalla Guardia reale per andarti a infilare in una caserma di scarso prestigio, diroccata, piena di falle e di problemi?». Lo chiese con freddezza e distacco ma senza astio.

E con calma la figlia gli rispose: «Padre, ci sono momenti, nella vita di una persona adulta, in cui occorre prendere decisioni autonome le cui ragioni strettamente personali non è opportuno condividere con chicchessia, neppure con un padre, nei dettagli: accontentatevi di sapere che nessuna onta, né per causa mia né per causa d’altri, ha macchiato la mia divisa e il nostro casato. Ve lo giuro sul mio onore».

Oscar vide un lampo di stupore negli occhi del Generale, che non era abituato a sentirsi contraddire, subito mutato nella tentazione di replicare con la consueta veemenza autoritaria. Ma fu una tentazione immediatamente repressa. Augustin François de Jarjayes non riusciva a formulare alcuna ipotesi plausibile riguardo a quella richiesta di trasferimento all’apparenza inspiegabile, ma di fronte alla calma inflessibile e determinata di “suo figlio” scelse di non insistere, si disse che forse era meglio non sapere.

«Va bene, Oscar, ti assumerai la responsabilità delle tue scelte, ma sappi che dovrai cavartela da solo. La realtà nella quale ti sei andato a infilare esula dalla mia competenza e dalla mia influenza. Con questo non voglio dire che tu abbia mai chiesto la mia influenza o il mio aiuto in questi anni e questo ti fa onore, come ti posso garantire che non ho mai fatto nulla per spianarti la strada. Se però adesso tu hai deciso che te la vuoi complicare da solo un altro po’, sei padrone di farlo. Ormai del resto i giochi sono fatti. Con permesso, Oscar. Sono d’urgenza atteso a Versailles. La carrozza che ci porterà alla cerimonia di stasera sarà pronta alle 7 davanti al portone principale, ci troveremo lì. È tutto. Buona giornata, Oscar».

Quella freddezza apparente sconcertò Oscar che si era preparata ad affrontare la solita virulenza e finì per acuire il sentimento di solitudine che provava: «Se dovessi fallire non ci sarebbe nessuno a raccogliere i pezzi», pensò mentre rimasta sola finiva un triste caffellatte ormai tiepido, «sarà una sequela di: “Te l’avevamo detto”. E anche la stima di cui parlava Chateubriand si scioglierà come neve al sole».

Quando risalì in stanza trovò ad attenderla due uniformi perfettamente stirate sui manichini. L’ordinaria: giubba blu con spalline bianche, revers dorati, calzoni blu e stivali bianchi. E, accanto, l’alta uniforme: tutta blu con revers di broccato oro e argento, spalline d’argento, fascia di raso grigio perla, stivali lucidi blu come il tricorno, il tutto rifinito di un ampio mantello di velluto color della notte con spalline dorate, assicurato sul davanti da una catenella d’argento. Lo accarezzò domandandosi se sarebbe stata all’altezza di portarlo con onore.

Provò la prima, perfetta: il blu scuro la faceva sembrare ancora più slanciata. Decise di tenerla addosso e di abbreviare l’agonia dell’attesa che la separava dalla sua nuova vita che un po’ desiderava e un po’ temeva, andando a presentarsi con un giorno d’anticipo quando non era ancora attesa al suo nuovo reggimento, intanto che aveva ancora bene a mente il discorso che la notte trascorsa le aveva tolto ore di sonno.

***

Al ritorno si diede la sufficienza per quell’esordio in cui era riuscita a parlare con calma, anche se con una nota forse troppo altera, a non tradire emozioni e a non dare a vedere la desolazione provata davanti alla decadenza dell’ambiente e alla soldataglia male in arnese. Solo quando aveva visto André tra i soldati non era riuscita a dissimulare del tutto il suo stupore, ma era ragionevolmente sicura che quella piccola crepa potesse passare inosservata a degli sconosciuti.

Trovarlo lì, arruolato come soldato semplice, l’aveva dapprima stupita, poi indispettita, infine turbata. Non era in grado di districare il groviglio di sensazioni contrastanti che l’aver scoperto quella presenza le suscitava: non sapeva se sentirsene rassicurata o prevaricata, certa che il solo fatto di averlo lì mandasse all’aria il proposito di fare da sola che da un lato anelava dall’altro la preoccupava. Per quanto strano le potesse sembrare, invece, temeva meno il ripetersi del fattaccio di quella notte sciagurata. Il viaggio in Normandia l’aveva forse irrazionalmente convinta che André avrebbe tenuto fede alla promessa solenne che non l’avrebbe più toccata. A nessuno di questi sentimenti aggrovigliati sapeva dare una spiegazione razionale: stavano lì come un grumo irrequieto che andava su e giù dalle parti della bocca dello stomaco.

Entrò di corsa a palazzo e chiese a Marie con urgenza un bagno caldo. Si lasciò andare qualche minuto nel tepore dell’acqua cercando di rilassarsi e le parve di esserci riuscita, di aver recuperato almeno la parte preponderante della propria presenza di spirito.

Si asciugò e vestì l’alta uniforme. Solo quando fu sul punto di allacciarsi sulle spalle il mantello di velluto diede un’occhiata fugace all’insieme nello specchio e vide un militare elegante e ragionevolmente sicuro di sé. Era lì lì per sentirsi finalmente a suo agio, di nuovo nei suoi panni, quando notò che, ovviamente, non c’era la spilla che indicava il grado e che avrebbe ricevuto alla cerimonia della sera. Il cuore mancò un battito e poi accelerò. Lo stomaco diede un sussulto. Quel particolare mancante l’aveva riprecipitata in uno dei momenti peggiori mai vissuti: l’omologa cerimonia seguita alla nomina a Comandante delle guardie reali.

Non era un mistero che, nei corpi militari, consuetudini di dubbio gusto facessero sì che si sottolineassero gradi e incarichi con riti tribali di iniziazione e di passaggio che un malinteso spirito di Corpo voleva servissero a saggiare la tempra dei nuovi graduati e ad accoglierli nel consesso degli iniziati.

Come con tutte le cose che la singolarità del loro rapporto gli suggeriva di non dire in modo diretto, come avrebbe fatto con un figlio, il generale Jarjayes aveva fatto in modo che Oscar crescesse informata per vie traverse di alcuni incerti del mestiere considerati alla stregua di regole non scritte nella vita militare: del rito della spilla (1), per esempio, aveva appreso, ancora molto giovane assistendo in apparenza casualmente al racconto che si erano scambiati il padre e un suo vecchio commilitone. Rammentavano l’usanza, da parte di alcuni superiori, di appuntare sul petto il distintivo ai nuovi graduati, avendo cura di affondare lo spuntone della spilla oltre lo spessore dei vestiti, arrivando con studiata brutalità a pelle e muscoli, per mettere alla prova la resistenza dei nuovi comandanti, in una situazione talmente ufficiale da indurli a rischiare in caso di minimo cedimento di finire svergognati a vita.

Oscar sapeva che suo padre non approvava quel genere di riti di iniziazione, era un uomo integerrimo, convinto che il coraggio di un ufficiale si misurasse in altri meno futili contesti e che lo spirito di Corpo si alimentasse con l’addestramento rigoroso, con la preparazione, con la fiducia reciproca che ne derivava, non con atti gratuiti di prevaricazione da adolescenti. Se proprio non poteva evitare, assisteva da lontano con riluttanza, coltivando in coscienza la convinzione che praticare vessazioni gratuite nei confronti di un sottoposto finisse per mettere in luce, più che il coraggio di chi subiva, la viltà di chi imponeva così il proprio potere. Sapeva per esperienza che, in battaglia, quando c’erano da mostrare fegato autentico e lealtà specchiata, non erano quelli i primi su cui fare affidamento. «Se uno è vigliacco nel chiuso di una stanza», pensava quando vedeva qualche suo pari esagerare, «a maggior ragione lo sarà sul campo, dove tutti i filtri della buona creanza cadono e si viene fuori come si è davvero». Non aveva mai rifiutato di subire quei riti per non essere percepito come un corpo estraneo, o peggio un pusillanime, ma non aveva mai se non all’inizio partecipato al gioco di praticarli e salendo in grado sempre più li aveva scoraggiati nelle compagnie che comandava, con l’intento di cementare lo spirito di corpo con altri più affidabili mezzi, esempio compreso.

Altri generali, invece, si dimostravano non solo tolleranti ma anche compiacenti quando non proprio aperti sostenitori.

Quando fu nominata Comandante delle guardie reali Oscar François de Jarjayes arrivò alla cerimonia consapevole dell’esistenza di quel rito. Aveva messo in conto di dovervi sottostare e, data la sua singolarità, di trovarsi più esposta rispetto ai colleghi: per via della fisicità che avrebbe reso la prova oggettivamente un poco più dura e ancor più per il fatto che non sarebbe passata inosservata. Sapeva di essere costantemente in discussione e di dover dimostrare sempre di essere all'altezza più degli altri e la circostanza si prestava ad alzare la posta. Chi non gradiva la sua presenza avrebbe potuto approfittarne. Si chiese se avrebbero infierito. Ma pensava solo al dolore fisico, senza dargli troppo peso. Si disse che in un modo o nell'altro avrebbe resistito. Il padre l'aveva allenata a sopportare. Sforzandosi di non lasciarsi condizionare dai racconti esagerati ad arte con cui i commilitoni anziani si divertivano a spaventare i neofiti con particolari truculenti e inventati si era disposta emotivamente ad affrontare quella piccola un po’ crudele violazione. Dopotutto sarebbe durata poco ed era il prezzo da pagare per essere come gli altri, uno di loro. Anche se non poteva negare di sentirsi un po' sola nella propria innegabile diversità e un po' in imbarazzo immaginandosi oggetto di una curiosità un tantino morbosa, per com'era stata educata, considerava un punto d'onore essere trattata come gli altri. Un trattamento di favore l'avrebbe offesa, anche se, come suo padre, riteneva che la sostanza di un soldato andasse messa alla prova in altri frangenti e non le piaceva il clima di prevaricazione che certe pratiche alimentavano.

Lì davanti allo specchio, invece, dovette reprimere un conato di vomito al ricordo del Generale Bouillé in persona che, con in mano quel distintivo, aveva infierito eccome in un modo che lei, forse ingenuamente, non aveva affatto messo in conto: fingendo di non riuscire a infilzare la stoffa era rimasto per un tempo che le era parso infinito a indugiare in un tocco lascivo e degradante, avendo cura di nascondere agli astanti – pezzi grossi di tutti i reggimenti - frapponendosi tra lei e la platea, quell’indugio sconcio teso ferire l’anima, prima di affondare come previsto la spilla in modo da offendere il corpo. I colleghi graduati accanto a lei non potevano vedere, perché obbligati a restare tutti schierati, uno di fianco all’altro, immobili sull’attenti: uno squallido abuso di potere perpetrato davanti a tutti ma di fatto senza testimoni.

Se il ricordo del dolore acuto provocato dalla stilettata - accolta quasi con sollievo purché cessasse il resto -, era finito presto archiviato in un cantuccio della coscienza, alla stregua di uno sgradevole ma passeggero accidente del mestiere; la memoria di quella mano e del suo laido tocco insistito, invece, era rimasta vivida a vita e tornava, con eguale disgusto, ogni volta che si ritrovava davanti il suo superiore gerarchico, autore di quella prevaricazione pubblica, subdola e umiliante.

Aveva ringraziato Iddio che in quella sera lontana il generale Jarjayes fosse in missione con un reggimento e non presente a quella squallida scena: anche se era certa di non aver dato segni esteriori di cedimento né al dolore né al resto, si sentiva morire di imbarazzo e di disgusto al solo pensiero che la parte più volgare di quell’abuso, a lei sola riservata in quanto donna, sarebbe potuta avvenire davanti a suo padre, costretto ad assistervi da spettatore impotente, perché, nei codici di quella società chiusa, qualsivoglia intervento avrebbe disintegrato l’onore militare di lei. Pregò il Padreterno che quell’oscenità non fosse sul punto di ripetersi. Mentre la ripugnanza le chiudeva lo stomaco.

Una volta allacciato il mantello gettò un’altra occhiata al soldato nello specchio, notò che quel ricordo gli aveva dato uno sguardo affilato come una lama: sembrava determinazione e invece era inquietudine.

Il Generale Jarjayes attendeva Oscar fasciato nella propria uniforme di gala bianca con fregi dorati in fondo alle scale. La figlia mentre scendeva notò che il padre si portava con una prestanza invidiabile che gli anni non scalfivano e ringraziò che non avesse bisogno di certi metodi per indurre i suoi soldati alla soggezione.

Dal canto proprio il Generale guardò quell’ufficiale bellissimo venirgli incontro e non poté che ammirarla anche se avrebbe preferito che fosse rimasta nel posto più tranquillo che aveva lasciato.

Salirono in carrozza e parlarono del più e del meno, lasciando da parte le questioni contingenti e profonde che nell’ultimo periodo avevano reso tesi i loro rapporti, ma la consapevolezza di quel rituale, che come un convitato di pietra li accompagnava, lasciava una sensazione di inquietudine sotto la pelle di entrambi.

Il Generale, ignaro del precedente già vissuto, da una parte, benché presupponesse che lei sapesse, si sentiva in dovere di accennare al rischio per non farla arrivare nel malaugurato caso - Dio non volesse! – a fronteggiare in pubblico un dolore inatteso, anche se si ripeteva: con una donna non oseranno. Oltre, il suo rigore personale gli impediva anche di contemplare. Dall’altra parte provava disagio anche solo a evocare davanti a una figlia quella pratica, immaginando che potesse metterla in imbarazzo il fatto che fosse lui a parlarne.

Ma, dato che l’aveva sempre chiamata figlio, s’impose per coerenza – e perché non di tutti i suoi pari grado si fidava - di far vincere il senso del dovere: «Speriamo che a nessuno venga in mente di rovinare la serata riesumando riti barbari», sospirò il Generale con finta noncuranza, per vedere l’effetto che faceva. «Speriamo», rispose lei con altrettanta simulata nonchalance, «ma con le spille in mano a certa gente non si può mai sapere».

Dato che parlavano guardandosi negli occhi, con le tendine aperte alla luce di una enorme luna piena, Oscar lesse nello sguardo del padre una domanda muta carica di preoccupazione: fino a che punto sua figlia sapeva?

Gli rispose a sua volta senza parlare, annuendo grave e abbassando lo sguardo. Il Generale comprese che sapeva per esperienza e l’ombra calata sugli occhi azzurri di lei gli diede la certezza che la violenza non si era risolta tutta nel dolore breve e intenso che anch’egli conosceva per averlo più volte subito. Conosceva anche sua figlia: sapeva che, a maggior ragione davanti a lui che ne aveva forgiato il temperamento, se si fosse trattato solo di una momentanea sofferenza fisica, anche ammettendo che la diversa fisicità l’avesse un poco esacerbata, avrebbe minimizzato spavalda. Quella risposta seria, muta ma eloquente, parlava di altro.

Gli occhi grigi del Generale divennero una fessura d’odio: «Chi?», domandò in un soffio carico di una rabbia sorda.

«È meglio che non lo sappiate, padre, è acqua passata».

«Quante volte?».

«Solo quella».

Il Generale passò da uno sguardo capace di uccidere a freddo a un tremito di comprensione per l’umiliazione patita, ed ebbe uno dei rari gesti empatici della propria vita: d’istinto posò una mano sull’avambraccio di Oscar, come scusandosi, sentendosi indirettamente responsabile di tutto. A dispetto del guanto di lui e degli strati di stoffa di lei, il calore umano di quel gesto passò.

Entrambi nel silenzio carico che era calato scesero a patti con il cielo pregando che l’acqua passata non ritornasse sotto i ponti quella sera.

***

Terminati i convenevoli e i discorsi di rito, debordanti di una retorica troppo pomposa per essere sentita, nel salone austero ma bene illuminato e solennemente arredato la cerimonia ebbe inizio. Quando fu il momento di consegnare i distintivi ai graduati, rigidi sull’attenti davanti al tendone di velluto rosso, Oscar vide Bouillé avvicinarsi al tavolino su cui erano posate le spille appena lucidate e sentì lo stomaco contrarsi, per poi distendersi quando lo vide cedere l’onore al giovane Generale de Chateaubriand, fresco di medaglia al valore militare. A quel punto gettò a suo padre uno sguardo rassicurante, sperando che giungesse a destinazione.

Jean-Claude de Chateaubriand, che era uomo moderno oltreché leale e intelligente, eseguì il suo compito con la massima correttezza, avendo cura di non toccare altro che stoffa, restituendo alla cerimonia l’autentica, sobria, rispettosa, solennità per cui era nata. Dalla tensione che aveva avvertito in tutti sotto le proprie mani, battiti improvvisamente accelerati che non poteva attribuire alla solennità dell’occasione, Chateaubriand aveva maturato la certezza che tutti avessero provato in passato sulla pelle quella sgradevole prevaricazione e che il loro corpo ne serbasse un’istintiva memoria, Oscar François de Jarjayes compresa. Ne provò vergogna come militare e come uomo e prese con sé stesso l’impegno a usare l’avanzamento in carriera per promuovere una diversa cultura. Pregando che non fosse troppo tardi, che fuori di lì un’altra Francia non fosse sul punto di travolgere la nobiltà con tutte le sue tradizioni, senza fare distinzione tra chi lo meritava e chi no.

I sostenitori del sistema, invece, – in maggioranza, tra i presenti – al ricevimento che era seguito, rievocando memorie di gioventù, tra lazzi sguaiati, non mancarono di criticare tra di loro, alzando a bella posta la voce perché tutta la sala sentisse, «il rammollimento delle nuove generazioni», di tacciare di viltà chi non aveva il coraggio di «perpetuare le tradizioni» e di pavidità i nuovi incaricati che non le pretendevano come «un onore dovuto». Tra i bersagli indiretti di quella chiacchiera non c’era solo Chateaubriand, che non si era prestato, ma anche il generale Jarjayes che da anni notoriamente stroncava certe pratiche nei reggimenti affidati al suo diretto comando, spedendo a pulire pitali per settimane chiunque pescasse a rendersene responsabile.

Fu allora che il Generale Jarjayes – che aveva accumulato più di un sasso negli stivali - rivolgendosi a Chateaubriand, si prese a freddo la sua piccola vendetta fingendo di proseguire un discorso già iniziato avendo solo cura di alzare un po’ il tono per farsi sentire più lontano: «Vedete, Chateaubriand, il fatto è che io credo che il coraggio di un generale si misuri dove si rischia qualcosa di più di una goccia di sangue sotto un’uniforme di gala, ma è solo in parte questo il punto. Il problema non è il rituale in sé, ma la gerarchia con la quale lo si applica: io sarei favorevole a che venisse ribaltata. Se proprio si deve, che sia l’ultimo tenente a saggiare così la tempra del suo generale, ovviamente con l’ordine perentorio di non fare sconti: s’avrebbe il vantaggio di stanare, in un colpo solo, generali vigliacchi e sottoposti leccaculi, perdonate il gergo da caserma, ma dato che siamo tra soldati e tutti di lungo corso nessuno si scandalizzerà».

L’osservazione divertì poco i veri destinatari, che si sentirono in causa, e molto Chateaubriand, che non solo condivideva, ma era stato testimone di quando, diversi anni prima, quel rovesciamento per sé il Generale Jarjayes lo aveva chiesto davvero: Chateaubriand era in quel momento il Capitano cui era toccato “l’ingrato compito”.

«Signori ufficiali», aveva spiegato de Jarjayes che in quell’occasione assumeva il comando al posto di un generale ferito in battaglia, davanti a tutti sotto la tenda di un accampamento al confine con l’Austria dove erano stati mandati a sedare dei disordini: «Mi rendo che è una cosa irrituale, ma vi sarei grato se accettaste una piccola modifica formale. Chiedo che a “officiare questo rito” non sia come d’uso il più alto in grado ma il più basso. Capitano Chateaubriand, comprendo che questa richiesta vi possa mettere a disagio, ma non è per vessarvi che ve lo chiedo, anzi: pretendo che non mi facciate sconti, perché domani quando prenderete ordini da me io non ve ne farò. La gerarchia che ci separa farà sì che su un campo di battaglia, quando io darò ordini e voi ne riceverete, la vostra vita sarà nelle mie mani, più di quanto la mia nelle vostre, ma solo perché a un maggiore onore corrispondono maggiori responsabilità. Quel giorno voi dovrete fidarvi delle mie capacità e io della vostra lealtà. Perché questo avvenga voi tutti dovete avere la certezza che io saprei dare, se necessario, una goccia di sangue in più rispetto a quella che chiederò ai miei uomini. Capitano Chateaubriand, è questo che io vi chiedo di aiutarmi a dimostrare qui, adesso, anche se solo con un rito simbolico, conscio che sarà soltanto da domani che sarò misurato dove conta davvero: fate quello che dovete e fatelo senza timidezza, per il mio onore e per la fiducia reciproca di questo reggimento. È un ordine! Eseguitelo dimostrandomi il vostro coraggio e la vostra lealtà».

Chateaubriand fece quello che doveva come doveva e il generale, grato di aver dovuto fare un piccolo sforzo per restare impassibile, ebbe la prova della lealtà del capitano e la fiducia dei suoi uomini.

L’aneddoto era presto corso sulle bocche di tutto l’esercito, ma fu gran cura degli alti papaveri, che quella sera stavano parlando a vanvera davanti a un bicchiere di coraggio e di viltà, insabbiarlo presto. Perché non reggevano il confronto e perché non gradivano l’idea che l’esempio facesse proseliti.

Il resto della notte era proseguito disteso, al “rompete le righe” la formalità si era sciolta, lasciando ciascuno libero di scegliersi i propri commensali per il prosieguo della festa, che, nata sotto sinistri auspici, si era rivelata lunga ma gradevole. Le preoccupazioni condivise e stemperate avevano riavvicinato Oscar e il padre: giunti a casa si salutarono in fondo alle scale che già albeggiava, sperando di recuperare un paio d’ore di sonno.

Mentre saliva le scale Oscar, senza saper bene per quale percorso della mente, tornò a pensare ad André: le tornò in mente la notte che un mese prima li aveva precipitati nel baratro in cui si trovavano e si sorprese a constatare, che, per quanto non voluto e in quanto tale non giusto, quello che si era trovata a provare quella sera nella propria camera da parte di André non era paragonabile, in fatto di repulsione e disgusto, con quanto sperimentato nella cerimonia degenerata di tanti anni prima.

Capì in quel momento che dentro di sé sarebbe stata capace col tempo di perdonare, forse, il gesto fuori misura di André e che, invece, non avrebbe mai potuto perdonare Bouillé. Se era vero che di due aggressioni a lei come donna si era trattato, le sentì soggettivamente, distintamente e profondamente diverse.

Non sapeva ancora come definire quella differenza né se sarebbe mai stata in grado di farlo, ma il fatto stesso che ci fosse e che fosse molto chiara dentro di lei, per qualche ragione a lei ignota la rassicurò e la consegnò a un sonno breve ma finalmente ristoratore.

Il generale invece non trovò pace: quello scambio di sguardi in carrozza gli aveva lasciato una spina nel cuore che non se ne sarebbe andata presto.

(1) La pratica riprende nella sostanza, con licenze narrative per adattarlo al contesto, un rito di iniziazione, a lungo in uso nell’Aeronautica militare statunitense, diventato di dominio pubblico a seguito di una denuncia sulla stampa internazionale e di lì bandito, almeno ufficialmente.

   
 
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