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Autore: Zobeyde    21/05/2023    2 recensioni
Prequel de “Gli ultimi maghi”
Sono anni turbolenti per l’Europa: la Belle Époque sta per tramontare, sotto l'incombere di una guerra come non se n’erano mai viste, e nella millenaria città di Arcanta, dove la magia esiste e i suoi abitanti hanno da sempre vissuto al riparo dalla corruzione del mondo, c’è chi non può restare indifferente ai cambiamenti fuori dalle sue mura incantate:
Abigail Blackthorn, in fuga da una gabbia dorata per aiutare chi soffre nelle trincee, dove inaspettatamente troverà amore e dannazione.
Solomon Blake, cinico, ladro, machiavellico, determinato a rendere la magia grande come un tempo, fino al giorno in cui scoprirà che ogni cosa ha un prezzo.
Zora Sejdić, maga decaduta che ha fatto dello spiritismo la propria arma per la scalata al potere. Un’arma però che si rivelerà presto a doppio taglio…
Dal testo:
[…] Vede, ambasciatore, io non credo né negli dei, né negli uomini. Credo che ognuno di noi, presto o tardi, venga chiamato a giocare un ruolo in una partita ben più grande. Deve solo capire qual è il suo. […]
Genere: Angst, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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L’UMILIAZIONE

 
 
Arcanta, maggio 1914
 
 
 
Solomon sentiva che i postumi della sbornia non gli erano passati del tutto.
Un’emicrania martellante continuò a tormentarlo per il resto della mattinata, e di sicuro dover assistere a quella ridicola scenata non aiutava:
«È solo colpa tua!» continuava a strepitare Jorge, con voce abbastanza acuta da trapanare i timpani di Solomon. «Se mi stai appiccicato, è chiaro che mi deconcentro!»
«Non sapresti evocare qualcosa di decente neanche con tutto lo spazio del mondo» ribatté Cillian, furibondo. «Gesticoli come un dannato, ci mancava poco che mi cavassi un occhio!»
«Ripetilo e ti trasformo in un orologio a cucù…!»
«Che sarebbe comunque meno fastidioso di voi!» sbottò a quel punto Solomon, stringendosi la radice del naso.
I due allievi ammutolirono.
L’Arcistregone dell’Ovest staccò la schiena da una delle colonne del porticato che chiudeva il cortile e prese a camminare in mezzo ai suoi studenti, con Wiglaf sulla spalla.
Esaminò i risultati degli incantesimi appena eseguiti, mentre i sei adolescenti attendevano che esprimesse il suo verdetto: se ne stavano impettiti nelle redingote di velluto blu e ricami d’argento della Corte dei Sofisti, di fronte alla fila di zucche che avrebbero dovuto trasfigurare in cocchi da parata.
Peccato che la maggior parte somigliassero a poltiglie rigurgitate da un gatto. Tutte eccetto quella di Marco: la sua aveva direttamente preso fuoco.
«Approssimativo» decretò Solomon. «Dimmi, Jasper, pensi di aver fatto un lavoro accettabile?»
«Non lo so» fece il ragazzo, con un’alzata di spalle. «Forse sì, maestro.»
«Mm, quindi andresti a prendere una ragazza a bordo di questo coso? Tu sì che avrai successo.»
Jasper avvampò. «Ecco, era un incantesimo difficile…»
Gli altri ragazzi sghignazzarono.
«Fossi in voi avrei poco da ridere» li fulminò Solomon. «Tra due settimane sarete chiamati a esibirvi di fronte alla Città, per l’Anniversario della Fondazione: spero che non intendiate presentare questo scempio ai Decani. O peggio, ai vostri genitori.»
I sorrisi evaporarono all’istante dai loro volti, sostituiti da espressioni nervose.
«Gli occhi di tutta Arcanta sono puntati su di voi» li ammonì il maestro, duramente. «La Corte dei Miraggi stupirà tutti con le sue illusioni, gli allievi di Boris Volkov si presenteranno con le solite spacconate acrobatiche e le damigelle della Corte dei Sussurri…be’, a loro basta poco per far parlare di sé.»
A volte si domandava che male avesse fatto per meritarsi una classe del genere: Cilian Abernathy, Caleb Goldbring, Marco Ravenna, Jasper Montague, Jorge Santos e Stephen Marlowe appartenevano ad alcune delle più importanti famiglie di Arcanta, ed erano viziati, arroganti e litigiosi all’inverosimile. Solomon aveva fatto del suo meglio per trasmettere loro la passione per il sapere e affilarne le giovani menti, nella speranza che potessero cambiare la società, ma sembrava che non entrasse nulla in quelle teste vuote, più preoccupate di partecipare al prossimo evento mondano che di ottenere punteggi decenti ai test.
La verità era che non possedevano alcuna ambizione. Nessun estro creativo, nessuna personalità. In fondo, a che serviva? Avrebbero trascorso le loro esistenze tra party e divertimenti, sposato una damina per bene accuratamente selezionata dai genitori, che non avrebbero nemmeno amato, ma su cui avrebbero fatto pressione perché desse loro almeno un erede…
Solomon si massaggiò la tempia, chiedendo almeno al mal di testa un po’ di tregua. «Lucia, ti dispiace dare una dimostrazione?»
L’assistente, rimasta in disparte per tutta la lezione, lasciò la panca su cui era seduta a prendere appunti; era l’unica presenza femminile, e, sebbene fosse l’ultima arrivata, distanziava notevolmente gli allievi per età. Inoltre, non indossava l’uniforme della Corte dei Sofisti, ma una semplice veste nera su cui era cucita all’altezza del cuore una grande S scarlatta.  
S di Sanguemisto. In modo che chiunque ad Arcanta capisse subito cosa era e se ne tenesse alla larga.
Lucia si posizionò di fronte a una grossa zucca, mentre i sei ragazzi la scrutavano imbronciati. Disegnò un ampio cerchio con le braccia e le allargò, come un direttore d’orchestra che esegue una sinfonia. Guidata dai movimenti delle sue mani, la zucca tremò, poi iniziò a crescere in un vorticare di tralci e fogliame; in pochi istanti, si tramutò in un coupé barocco, ricoperto da delicate decorazioni vegetali e foglie d’oro.
Solomon annuì, sentendo finalmente nascere un moto d’orgoglio. «Grazie, Lucia. Un’esecuzione eccellente.»
Lei abbassò le braccia; la sua pelle splendeva dell’energia che l’uso della magia conferiva, mentre cercava di camuffare un sorriso di piacere.
Solomon estrasse l’orologio. Per quel giorno, ne aveva abbastanza. «Ci toccherà ripetere l’argomento Trasmutazione Vegetale. Di nuovo. Per la lezione di domani rileggete attentamente il capitolo dodici di Ars Magna. È tutto, levatevi dai piedi.»
Gli studenti infilarono i grimori nelle borse e lasciarono in fretta il cortile, brontolando.
Lucia affiancò il maestro. «Sono migliorati.»
«Spiritosa.»
«Almeno stavolta non è esploso niente.»
«Sono terribili» disse Solomon, disperato. «Tutti loro. Degli ottusi figli di papà. Esattamente come lo erano i genitori.»
«Non puoi fargliene una colpa se sono stati cresciuti così.»
«E il Decanato continua a trattarci come i suoi fenomeni da baraccone» sibilò lui, scuotendo la testa. «Trasformare zucche in carrozze! Seriamente? A che diamine serve?!»
Sospirò, e con un gesto distratto comandò a giacca, cappello e bastone, che aveva lasciato a fluttuare poco distante, di raggiungerlo. «Facciamo due passi, ho bisogno di prendere aria.»
La Corte dei Sofisti era un elegante palazzo in stile palladiano, composto da peristili e corridoi in marmo bianco abbelliti da affreschi; gli Arcistregoni dell’Ovest che si erano succeduti nei secoli avevano cercato di ispirarsi il più possibile alle accademie dell’Atene classica, culla delle arti, del pensiero filosofico e politico. Peccato che di tutto ciò non fosse rimasto proprio nulla, se non una ridicola caricatura…
“La vita è una commedia, Solomon” gli aveva detto una volta il suo maestro, Absalom Grey. “In cui tutti noi siamo chiamati a recitare una parte”.
La Corte si affacciava su una distesa di giardini all’italiana, un labirinto di siepi potate a forma di creature mitologiche, zampilli d’acqua e alberi che lasciavano risuonare dolci melodie ogni volta che il vento ne scuoteva il fogliame; gentiluomini imparruccati e dame passeggiavano scambiandosi battute e banalità, evitando qualunque argomento con un minimo di spessore.
C’era stato un tempo in cui anche Solomon si era lasciato sedurre dalla Città Nascosta, dai prodigi confezionati apposta per sbalordire e dallo stile di vita dei suoi abitanti, come se nessuna preoccupazione al mondo li affliggesse.
Ma l’illusione era sfumata in fretta, e ormai Solomon non riusciva a vedere altro che marciume attorno a sé, camuffato a regola d’arte da strati di vernice dorata, cipria e falsi sorrisi.
Una coppia sbucò da dietro una siepe tra enfatici scoppi di risa; Solomon sollevò il cappello in segno di saluto, a cui loro replicarono sfoggiando dentature innaturalmente bianche e perfette. «Che la Conoscenza le illumini il cammino, Arcistregone!»
Quando però notaro Lucia, le loro bocche truccate deviarono in una smorfia di disprezzo.  La ragazza si irrigidì, ma fece finta di niente.
Mentre riprendevano il cammino, a Solomon non sfuggì il commento che la donna stava rivolgendo al marito, senza preoccuparsi di essere sentita: «Che faccia tosta ad andarsene in giro così! È un insulto ai veri Cittadini: mi chiedo perché i Decani le permettano di restare.»
La rabbia prese subito il sopravvento. Il motivo in realtà lo conoscevano benissimo. E lo conoscevano anche Solomon e Lucia. Ma era un argomento ancora difficile da sbrogliare per entrambi e preferivano evitarlo.
«Mi dispiace» mormorò lui, dopo un momento. «Vorrei poterle cucire quella maledetta bocca.»
«Non fa niente» replicò Lucia. «Non mi importa cosa pensano.»
«Non sarà sempre così» affermò lo stregone. «Nel nuovo mondo che stiamo costruendo nessuno ti obbligherà a portare quella ridicola S. Non lo permetterò.»
«A proposito.» Lucia si volse a guardarlo. «Come va con il grimorio? Hai già escogitato qualcosa per rubarlo?»
«Ah» fece Solomon. «Ecco…diciamo di sì.»
Il viso di lei si illuminò di entusiasmo. «Ne ero sicura! Allora, come procediamo? Qual è il piano?»
«Lo sto perfezionando.» Ancora non era riuscito a trovare un buon momento per parlarle dei suoi progetti su Isabel Ascanor e non era sicuro di sapere da che parte cominciare. L’unica certezza era che non l’avrebbe presa con altrettanto entusiasmo.  «Stasera mi imbucherò a un ricevimento, cercherò di recuperare informazioni…»
«Interessante. Ci sarà anche lui? Il Bibliotecario?»
«Ci sarà…qualche membro della sua famiglia.»
«Oh» fece lei, sorpresa. «Va bene. Posso esserti utile in qualche modo?»
«Te lo farò sapere.»
Per l'amor del cielo, diglielo e basta! lo spronò una voce impaziente nella testa. Spiegale la situazione, è abbastanza intelligente da capire…!
Si accorse che Lucia lo stava fissando. «Cosa c’è?»
«È che sembri…inquieto.» La ragazza esitò. «È per quello che è successo tra te e tuo padre? Vuoi parlarne...?»
Sollevò una mano per sfiorargli il braccio, un gesto che, nella sua naturalezza, racchiudeva intimi sottintesi. Lui si scostò alla svelta; sulle rive di un laghetto vicino, due maghe addobbate con guardinfante e cappelli piumati li stavano osservando con curiosità, bisbigliandosi qualcosa da dietro i ventagli di pizzo.
La voce di suo padre tornò a ossessionarlo: “La tieni nascosta…il tuo piccolo sporco segreto…”
«Non c’è niente che non vada» rispose Solomon, con più freddezza di quando avesse voluto. «E ti ho già spiegato che non possiamo permetterci atteggiamenti equivoci qui
«Lo so, cercavo solo…»
«Allora sta’ al tuo posto. Io sono l’Arcistregone e tu l’assistente. Tienilo a mente.»
Un’ombra di dolore le attraversò lo sguardo, e Solomon sentì rimordergli la coscienza. «Certo. Le chiedo scusa, maestro.»
Gli offrì una composta riverenza e tornò indietro verso la Corte.
Combattuto, Solomon la guardò andare via, mentre Wiglaf gli tirava i capelli col becco per esprimere la sua disapprovazione.
«Non ti ci mettere anche tu!» sbottò lo stregone. «Muoviamoci, abbiamo cose più importanti a cui pensare.»
 
Il ricevimento in onore della più giovane degli Ascanor si tenne al cigarral di famiglia, nell’anello più esterno della cinta muraria di Arcanta. La proprietà sorgeva in cima a una collina, isolata da ettari di vigneti, mandorli e albicocchi: di giorno vi batteva un feroce sole levantino, mentre dopo il tramonto scivolava in una profumata notte d'estate animata dal canto delle cicale.
Solomon arrivò sul far della sera, per studiare il terreno di caccia. Si appostò in cima al tetto di tegole in terracotta e osservò il variegato viavai di invitati. Come previsto, la tenuta era ben protetta: le mura merlate conferivano al luogo l’aspetto di una fortezza o di un monastero, e il servizio d’ordine era stato affidato ad allievi della Corte delle Lame.
Gli ospiti venivano fatti entrare da un grande portale ad arco, ma non prima di aver superato i controlli da parte delle guardie; i loro abiti erano intessuti di illusioni che cambiavano colore e trame a seconda della luce e tutti avevano i volti mascherati.
Ottimo, pensò Solomon.  Un ballo in maschera. Non potrei chiedere di meglio…
Ma nel momento in cui gli invitati varcavano la soglia, qualsiasi magia avessero gettato su di sé svaniva all’istante, scatenando non poche lamentele. L’arco doveva essere stato affatturato per annullare gli incantesimi.
Non è un problema si disse Solomon, fiducioso. Infilò una mano in tasca e schiuse le dita: la piccola creatura arrotolata sul palmo, una specie di lucertola nera dalle striature rosse, sollevò su di lui due lucidi occhietti assonnati.
«Ciao, piccolino» sogghignò lo stregone. «Presto tornerai nel Bestiario. Ma non prima di aver movimentato un po’ la serata.»
Rimise l’animaletto in tasca e saltò giù dal tetto, poi camminò disinvolto nella direzione opposta al palazzo, finendo a sbattere dritto contro qualcuno. «Sono tremendamente desolato!»
Il mago che aveva travolto - un panzuto uomo in smoking, capelli color zenzero e una maschera di porcellana a forma di coniglio - recuperò alla svelta l’equilibrio. «Non importa, non importa» borbottò. «Buona serata, Cittadino.»
«Buona serata a lei!»
Il mago-coniglio raddrizzò il cilindro sulla testa e se ne andò per la sua strada, canticchiando un allegro motivetto. Solomon lo seguì: la miccia era stata accesa, doveva solo aspettare il botto.
All’entrata, i guerrieri della Corte delle Lame chiesero al mago-coniglio di perquisirlo e l’invitato si prestò docilmente.
«Un momento» fece una delle guardie. «Che cos’ha qui?»
«Prego?» fece il mago.
La giovane guardia fece un gran balzo all’indietro, puntandogli contro la sua alabarda di energia. «Si allontani immediatamente con le mani in vista, Cittadino!»
«Cosa?» si meravigliò il mago-coniglio. «Ma perché? Non ho niente che non va! Ho ricevuto l’invito, guardi…!»
Nel momento in cui allungò la mano verso la giacca, qualcosa gli sgusciò fuori dalla tasca, si arrampicò sull’abito e gli risalì lungo la guancia.
Gli allievi della Corte delle Lame accorsero a circondare il mago. «Ha una Salamandra Incendiaria! Attenti! Può esplodere da un momento all’altro!»
Resosi conto di cosa gli era finito sulla faccia, il mago-coniglio lanciò uno strillo. «Toglietemela di dosso! Qualcuno me la tolga di dosso, maledizione!»
Solomon avrebbe voluto godersi il divertente siparietto, ma aveva impegni più urgenti. Fece apparire sul suo viso una maschera veneziana con piume nere e becco di corvo, dopodiché passò alle spalle delle guardie, troppo occupate a gestire il presunto attentatore per accorgersi di qualcosa. Così è davvero troppo facile.
La corte interna del cigarral scintillava di luci e risuonava della musica e dell’allegro vociare degli invitati. Le tavolate erano abbellite da composizioni di fiori e agrumi, e gli allievi della Corte dei Miraggi intrattenevano gli ospiti con le loro illusioni, popolando il cortile di ninfe danzanti, uccelli dal piumaggio variopinto e draghi che eruttavano fiamme dorate.
In mezzo al piazzale, torreggiava invece la gigantesca scultura di un toro d’oro massiccio, in onore delle origini degli Ascanor e del loro rinomato talento come alchimisti.
Solomon si aggirò tra la folla, annoiato; le conversazioni attorno a lui erano banali, l’intrattenimento mediocre. Si chiese cosa stesse facendo Lucia in quel momento. Forse era ancora in biblioteca? O magari si stava dedicando a una delle sue tele? Oppure stava cercando di insegnare le buone maniere a quell’orco…?
E soprattutto: era ancora arrabbiata con lui?
Si sforzò di non pensarci e versò un bicchiere di sangria, dopodiché si mise alla ricerca del vero motivo per cui era lì; non aveva la minima idea di che aspetto avesse questa Isabel Ascanor e il fatto che le dame fossero tutte travestite non aiutava. Speriamo almeno che non sia brutta…
All’improvviso, fu preso dall’ansia. Era davvero convinto di quel che stava facendo? Aveva conquistato un gran numero di donne in passato, sempre con l’obiettivo di ottenere qualcosa, un’informazione, il codice di sicurezza della cassaforte del marito, oppure l'accesso a una rapida via di fuga...
Si era sempre trattato di innocenti giochi di seduzione da cui nessuno usciva col cuore spezzato…ma mai in vita sua avrebbe pensato di dover convincere una donna ad amarlo.
È solo un mezzo per raggiugere un fine, ricordò a se stesso. Una volta ottenuto il Codice Oscuro, lei sarà libera di andare per la sua strada e tu per la tua.
Esaminò gli altri pretendenti: nessuno di loro era lì perché nutriva un reale interesse per Isabel Ascanor. Se non le avesse spezzato il cuore lui, lo avrebbe di certo fatto qualcun altro…
«Tu!» ruggì all'improvviso una voce familiare. «In nome dei Fondatori, come sei entrato?!»
Solomon riemerse bruscamente dai suoi pensieri. «Oh, ciao Bo. Accidenti, che eleganza!»
L’Arcistregone del Nord indossava un’uniforme bianca stirata di fresco, su cui luccicavano piccole gemme simili a cristalli di ghiaccio. Ma i suoi occhi erano pericolosamente socchiusi in due fessure.
«Non mi pare di aver visto il tuo nome sulla lista» ringhiò, afferrandolo per il braccio. «Forza, vieni con me!»
«E dai, Bo, non fare il guastafeste!»
«Con te in giro non si può stare tranquilli» borbottò Boris Volkov, mentre lo scortava verso l’uscita. «Qualunque cosa tu stia tramando, faresti meglio ad andartene!»
«Mi sto solo godendo la festa!» protestò Solomon. «Qual è il tuo problema..?»
Un istante dopo si bloccò: Boris non solo aveva indosso il capo di abbigliamento più elegante che possedeva, ma aveva anche lavato e pettinato i capelli. «Oooh!» realizzò. «Bo, non sarai mica un pretendente!?»
Un lieve rossore si diffuse sulle guance dello stregone. «Se così fosse?»
Solomon ridacchiò. «Nulla, solo non ti facevo un tipo romantico! E dimmi, come hai intenzione di conquistare il cuore della señorita Isabel?»
«Non sono affari tuoi!» abbaiò Boris. «Conosco Isabel Ascanor dall’infanzia, e non ti permetterò di rovinare questa serata, hai capito? Ora fuori dai piedi!»
Solomon però guardò oltre la sua spallona: un gruppo di stregoni aveva preso d’assalto una dama con indosso uno sfarzoso abito blu damascato e il capo coperto da un velo ricamato, che si sventolava con un ventaglio e sorrideva imbarazzata mentre sorseggiava champagne.
«Scusa, Bo» disse Solomon, facendolo da parte. «Ho appena visto qualcosa più interessante di te.»
«Aspetta! Che vorresti fare? Blake!»
Ma Solomon era già partito dritto verso il suo obiettivo. Si fece strada attraverso il cortile e afferrò la mano di Isabel Ascanor, rubandola ai suoi pretendenti e ignorando le loro proteste. Si va in scena.
«Perdoni la sfacciataggine» disse, tirandola a sé in un abbraccio così passionale e inaspettato che la donna boccheggiò. «Ma non riesco a rimanere indifferente di fronte a una bella donna in difficoltà.»
La señorita Isabel arrossì, sotto la mascherina blu e argento. «Per i Fondatori! Ma lei è proprio Solomon Blake!»
«Per servirla» confermò lui, sfoderando il suo sorriso migliore. «E, se me lo permette, per salvarla da questa noiosissima festa.»
Volteggiarono al centro del piazzale, così leggiadri da spingere gli altri ballerini a interrompere le loro danze per guardarli.
Solomon trascinò la dama in una rapida piroetta e la richiamò fra le sue braccia: «Che ne dice di mollare questi idioti e trovare un posto più appartato per parlare» le sussurrò all’orecchio. «Potrei renderle la serata molto piacevole.»
Percepì chiaramente la combustione che aveva originato in lei, mentre rideva e farfugliava: «Be’…io…»
Ecco fatto. Era sua. Più semplice di quel che pensava…
A un tratto, lei si scostò da lui, ridacchiando come una ragazzina, e imboccò l’ingresso del palazzo. Un po’ infastidito, Solomon si costrinse ad assecondare i capricci di quella damina viziata e la rincorse.
Seguendo le sue risatine, lo stregone capitò in un’anticamera dal mobilio di legno scuro e il pavimento in cotto, su cui si aprivano alcune porte. E adesso dove diamine è andata?
In fondo alla stanza, c'era una scrivania invasa da una pila di lettere così alta da nascondere in parte la giovane donna che vi era seduta dietro; era impegnata ad aprirle una per una, scorrerne il contenuto e poi ammucchiarle in una cesta, e non sembrò far caso all’arrivo di Solomon.
Lui si avvicinò. «Ha visto passare la señorita Isabel?»
«È andata un attimo alla toilette» rispose la donna, piccola e scura, con lucidi capelli neri raccolti in uno chignon e un paio di occhiali rotondi dalla montatura dorata posati sul naso. «Suppongo abbia esagerato con lo champagne. Quando torna riferirò che l’ha cercata, señor…?»
Solomon rimosse la maschera, ma lo sguardo di lei lo percorse distrattamente, senza riconoscerlo. La cosa lo meravigliò. «Solomon Blake. L’Arcistregone dell’Ovest, ha presente?»
«Ah» fece lei, per nulla impressionata. «Sembra più alto sui giornali.»
«Il segreto è farsi ritrarre di tre quarti e indossare cappotti lunghi» ammiccò lui. «Non le dispiace se attendo qui, vero? La señorita e io avevamo dei programmi.»
L’altra alzò le spalle. «Si accomodi pure, se ci tiene.»
«Grazie, credo proprio che lo farò.»
Approfittò dell’attesa per rimirarsi in uno specchio intarsiato; riavviò i capelli, sistemò il farfallino e nel frattempo domandò: «Non partecipa ai festeggiamenti?»
«Non gradisco molto le feste. Lei si sta divertendo?»
Solomon sbuffò. «È un mortorio. Pieno di fanfaroni addobbati che parlano del nulla assoluto.»
«E allora come mai ci è venuto?»
«Per cogliere la mia occasione.»
«Occasione?» domandò la donna, stavolta con un guizzo di curiosità. «Di che genere?»
Solomon si concesse un sorrisetto. «La vita ogni tanto ti offre su un piatto d’argento esattamente quel di cui hai bisogno, basta allungare una mano e prenderlo. Ed è quello che ho intenzione di fare stasera.»
Lei tacque per un momento. «E se ciò che vuole ottenere non fosse poi così semplice da raggiungere? E se l’avesse tratta in inganno?»
«Ho sufficiente dimestichezza con gli inganni da saperli riconoscere.»
La donna tornò alle sue lettere. «Se lo dice lei.»
Non diede segno di voler continuare la conversazione, così Solomon si sistemò a gambe accavallate su un’ottomana di velluto poco distante e attese. Trascorse un quarto d’ora, senza che nessuno entrasse o uscisse da quelle porte. Solomon tirò fuori l’orologio: stava iniziando a perdere la pazienza. «Ci vorrà ancora molto?»
«Gliel’ho detto: avrà esagerato con lo champagne.»
«Potrebbe andare a controllare.»
«Non sono la cameriera della señorita. Né la sua, signor Blake.»
La risposta lo colpì. In effetti, non aveva idea di chi potesse essere quella donna: vestiva in modo troppo semplice per essere un’invitata, ma al tempo stesso il suo fare rilassato indicava che fosse una frequentatrice abituale della casa. Inoltre, notò che sulla sua spalla era appollaiato un camaleonte meccanico, i cui sporgenti occhi di vetro saettavano in tutte le direzioni ronzando. Solomon non aveva mai visto un manufatto del genere. «Mi perdoni, di preciso, lei chi dovrebbe…?»
In quell’istante, una delle porte si aprì e la dama mascherata vestita di blu corse alla scrivania. «Oh, señorita! Mi sa che aveva ragione, non avrei dovuto bere così tanto! E tutto quel girare e volteggiare mi ha messo in subbuglio lo stomaco!»
«Ora va un po’ meglio?» domandò gentilmente la donna con il camaleonte.
«Oh, sì! La sua pozione è stata a dir poco miracolosa! Ma è proprio sicura di voler rimanere qui tutta la sera? La festa non è poi così male! E non immaginerà mai con chi ho ballato…!»
Solo in quel momento si accorse della presenza di Solomon. «Ops…!»
Lo stregone le fissò senza capire. «Potrei sapere che sta succedendo? Señorita Isabel…»
La dama vestita di blu avvampò. «Mi dispiace señor, temo ci sia stato un malinteso: non sono chi pensa.»
Sconcertato, Solomon tornò a guardare la donna con il camaleonte. «Ma…che significa..?»
Lei sospirò. «Va tutto bene, Guadalupe. Spiego io la situazione al señor Blake. Almeno si toglierà dalla faccia quell’espressione da babbeo.»
La dama vestita di blu annuì e, dopo aver rivolto a entrambi una frettolosa riverenza, sgattaiolò via. Nella stanza piombò un silenzio teso.
«Non sia arrabbiato» disse la donna con il camaleonte, accennando un sorriso. «Guadalupe è la mia dama di compagnia: ho pensato che le avrebbe fatto piacere sentirsi la reginetta del ballo, per una sera.»
«Dunque ha architettato tutto lei» disse Solomon, freddamente. «Señorita Isabel.»
Il sorriso di lei acquisì una piega ironica. «Credevo avesse sufficiente dimestichezza con gli inganni.»
Il volto di Solomon impietrì. «Perché organizzare questa sceneggiata?»
«Semplice: per capire da chi tenermi alla larga» rispose Isabel, con candore spiazzante. «I miei fratelli hanno insistito perché scegliessi un marito al più presto, ma non hanno specificato in che modo dovessi farlo: sto semplicemente valutando le opzioni. Non sono un trofeo, né un’occasione da cogliere, señor Blake. Ed è bene che il mio futuro sposo lo sappia.»
Solomon si sentì sprofondare in un abisso di vergogna: era cascato nel tranello come l’ultimo dei novellini. «Perciò, devo dedurre che fosse un test.»
«Già. E lei non l’ha superato.»
Totalmente disarmato, Solomon provò a balbettare qualcosa, nel patetico tentativo di avere un’altra possibilità, ma Isabel gli batté una mano sulla spalla, con fare comprensivo:
«Non se la prenda, capita a tutti di prendere una cantonata, ogni tanto. Persino a uno come lei. Ma prego, si goda il resto della festa. Io qui ho ancora un mucchio di proposte di matrimonio da scartare.»
E si andò a sedere nuovamente alla scrivania, tornando a ignorarlo.
Umiliato come mai in vita sua, Solomon raccolse quel poco di dignità che gli era rimasta e lasciò la stanza senza una parola, premurandosi di sbattere con forza la porta.

 
  
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