#Springbingo
Casella n.3: Tremore
Prompt di Giulia Lausi
No, così non va bene.
La
grafite grattava il foglio, il suono dei graffi riempiva la piccola stanza
immersa nel buio. La stentata luce di una lampada rischiarava il piano da
lavoro abbastanza da consentire una giusta illuminazione esclusivamente sulle
bozze, e nient’altro. La finestra era sigillata così come la porta,
rigorosamente chiusa a chiave.
Nessuno avrebbe dovuto permettersi di disturbarlo. Neppure la moglie.
Cazzo, non è quello che voglio.
La carta venne stracciata, appallottolata con cattiveria, lanciata alle sue
spalle. Sugimori tentò di nuovo, ancora e ancora,
mentre le ore scorrevano: più lavorava, più rifiutava i risultati di quella
notte.
Sul pavimento giacevano idee morte, rigettate, scarti: occhi stanchi le
osservarono un’ultima volta, prima di calciare da parte il frutto sbagliato di
ore inutili. L’uomo si gettò sul letto sfatto, uno tra i pochi mobili presenti
nello stanzino adibito a studio.
Domani andrà meglio, sì. Domani ci riuscirò. Domani.
E senza nemmeno svestirsi, si addormentò.
«Non si preoccupi, signora Sugimori. Mi ha detto che
suo marito lavora di notte, quindi è normale abbia gli orari sonno/veglia
sfasati. Cerchi di renderlo conscio che potrebbero presentarsi dei problemi a
lungo andare. Al momento non vedo nulla di particolare su cui intervenire.»
Atsuko salutò con cortesia e ripose la cornetta del
telefono. Non doversi preoccupare, insomma: questo il verdetto del medico di
famiglia. Sospirò di sollievo pensando di essersi impensierita troppo. Non era
la prima volta che suo marito Ken affrontava delle
difficoltà lavorative: essere illustratore per un’azienda ricca di progetti
fitti e complessi non doveva essere facile. Ovviamente. Anche se…
Anche se ultimamente aveva notato un certo sconforto nella barba non curata, in
quelle occhiaie e nei capelli sempre disordinati: non che faticasse a
riconoscere il marito, ma pareva davvero più sciupato del solito. Che stesse
lavorando troppo?
Gli avrebbe parlato, avrebbe cercato di capire cosa gli stesse passando per la
testa, anche perché se non fosse stato per lei… chi si sarebbe preso cura di Ken e della sua salute?
L’aria odorava di birra, di chiuso, di viziato e di fallimento. Disinteresse,
concentrazione indirizzata e aridità d’affetto. Lo studio era il ritratto
dell’autore e viceversa.
«Lasciami stare, ho bisogno di dormire…»
«Ma sono le quattro del pomeriggio… ti va di bere un tè, o un caffè?»
«Voglio dormire, devo. Sento che stanotte sarà la volta buona.»
Atsuko era avvilita: ciò che era rimasto di suo
marito era un fantasma dalle vaghe linee familiari. Accusava uno stress passivo
rispecchiando quello più forte di Ken che si
riversava su di lei a ogni parola pronunciata con cinismo, cattiveria o
noncuranza. Ci stava soffrendo, ma sapeva di aver scelto un uomo difficile. O stava
semplicemente cercando di giustificarsi, per non ammettere apertamente che quello
non era certo il matrimonio che aveva sognato da giovane; ricredersi sulle
proprie scelte non sarebbe comunque stato ammissibile.
«Non vuoi nemmeno mangiare qualcosa?»
Era già il terzo giorno in cui gli proponeva di pranzare assieme, ricevendo
sempre un secco rifiuto biascicato.
«No.»
«Dottore, buongiorno. Sono Atsuko Sugimori,
sì, di nuovo. Esatto. Non dà segni di miglioramento, è smagrito, non vuole us-… sì, sì certo, capisco. Credo però che ci sia qualcosa
che non vada. Quando si è degnato, perché sa, ormai lui si degna e basta di
uscire da quella maledetta camera… bene, quando era uscito da quel buco mi
pareva tremasse.» Una pausa. La donna stava cercando le parole giuste per
descrivere ciò che aveva notato la sera precedente. «Non quei tremori dei
vecchi, no, qualcosa più… più strano, ecco. Non saprei nemmeno come farglielo
capire.» Altra pausa, intenta ad attendere istruzioni. «Sì, guardi, è evidente:
faticava a portare il cibo alla bocca, la presa sulle bacchette era pessima.
Anche il capo? Sì, anche quello. Dice? E quanto è forte quel farmaco?»
La conversazione aveva dato i suoi frutti. Uscì con un po’ di buon umore
ritrovato, lasciandosi alle spalle l’atmosfera pesante del suo stesso tetto;
avrebbe raggiunto lo studio medico per poi andare in farmacia e dare un taglio
agli scatti del marito, al suo malessere, al suo trattarla con sufficienza e
distacco.
Era tutta colpa di quel maledetto
lavoro, delle sue scadenze serrate e delle pretese troppo alte che i colleghi
di Ken avevano nei suoi confronti.
E anche di lui. Era anche colpa sua.
«Se le prendo mi prometti che non romperai più il cazzo e mi lascerai in pace,
finalmente?!» Il tono di Ken era acido, sarcastico,
acuto: nulla a che fare con il riservato signor Sugimori
che si era presentato ad Atsuko qualche anno prima,
titubante e introverso. «Quante? Quante sono? Ecco, contenta?» Lanciò il
bicchiere nel lavello, incurante del rumore del vetro in frantumi, e raggiunse
rapido il proprio nascondiglio, il suo angolo di mondo dove l’estro creativo
poteva uscire, prendere vita e dare soddisfazione. In fondo le uniche
soddisfazioni della vita di Ken risiedevano in
disegni bidimensionali dai tratti sempre più tremuli e imperfetti: le matite sbavavano
spesso sul foglio, le macchie delle chine si erano asciugate sui listelli di
legno del pavimento e nel complesso le opere concluse parevano più inquietanti,
anche se effettivamente molto più espressive.
«Continua su questa strada, potremmo dedicarci a concetti di buio, spettri, poteri
psichici, città infestate. Mi piace. Bravo, Sugimori.»
Le parole dell’amico e collaboratore Tajiri per lui
erano state benefiche e quindi si era concentrato sul mantenere fede ai
propositi di entrambi. Una emozione positiva, finalmente. L’unica nella sua
giornata, nella sua esistenza. Tentava di tutto per riuscire a dare vita ai
frammenti di pensiero che gli ronzavano per la testa: da confusi puntini
luminosi si trasformavano in schizzi, in segni, in colori specifici e questo
era vita. La sua vita. Ciò a cui dedicava tempo e passione, realizzazione.
Ma cosa avrebbe potuto capirne sua moglie, in fondo? Atsuko
pensava davvero di inibirlo dandogli dei farmaci?
Vuole sabotarmi.
Più ci pensava, più la rabbia e la frustrazione cancellavano ogni singolo
momento di lucidità e di concentrazione.
Più il volto e la voce di lei si materializzavano nella sua testa, più grattava
con foga, tremava su quei fogli reggendo a stento la matita tra le dita.
Non ha mai sopportato quello che faccio.
Sabotarmi.
Tremavano ancora le dita di Ken Sugimori
strette al collo di Atsuko.
Tremavano.
Più stringeva però, e più le articolazioni si stendevano e dolevano meno.
Quando il colorito della pelle e delle labbra della donna cambiò, le mani erano
stese ferme. Perfettamente controllate. L’uomo si alzò, recuperò dal frigo una
lattina di birra e si accasciò di fianco al corpo esanime della donna che aveva
smesso di amare da tempo. Inspirò profondamente, rilassò le spalle contro alla
parete della cucina e chiuse gli occhi.
Non tremava più.
Eliminato il motivo dello stress, le conseguenze erano piacevolmente svanite. Nuovi
colori mescolati, diverse forme, espressioni, tratti si muovevano dietro alle palpebre.
Perfino la birra aveva un sapore migliore. Sicuramente Tajiri
sarebbe stato entusiasta delle nuove bozze dei personaggi.