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Autore: Cunegonda109    27/05/2023    7 recensioni
«Se fuggire fosse la soluzione, io sarei fuggito da te tanto tempo fa, Oscar... È inutile fuggire, Oscar, credimi!»
Mi sono sempre chiesta come facesse André a esserne tanto sicuro. Ho immaginato, quindi, che in passato almeno una volta abbia provato ad allontanarsi (se non altro temporaneamente) da Oscar. Questa storia nasce per raccontare quell’esperienza.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Marron Glacé, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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VI
 
 
Senza che se ne accorgesse André Grandier s’era trattenuto nel cimitero fino quasi all’ora del tramonto. Gli era dolce trascorrere il tempo in muto dialogo con la propria famiglia: gli pareva che ad avere i suoi cari così, sotto gli occhi, i pensieri gli si formassero meglio e più profondi e più disincantati.
Père Hervé, ch’era venuto a chiudere il cancello dopo i Vespri, lo trovò seduto davanti alla tomba del padre con le spalle un po’ curve e la mano sinistra appoggiata alla croce, a cercare un impossibile contatto.

«Povero Yves, era poco più che un ragazzo…», sfuggì detto al curato tra il clangore del mazzo di chiavi che si portava appresso.
L’altro con fierezza replicò senza voltarsi e scuotendo piano il capo: «Vi sbagliate, père, mio padre non era più un ragazzo da tempo: era un uomo!»
«Un uomo… uhm…», ripeté tra sé in un fruscio inaudibile père Hervé, inseguendo un pensiero che gli aveva attraversato la mente. «È tanto importante la differenza?», domandò per accertarsi d’aver fiutato il busillis.
«La differenza è tutto!», sentenziò lapidario il giovane.
Il religioso registrò la risposta socchiudendo gli occhi e sollevando le sopracciglia, come se gli fosse giunta la conferma attesa d’aver lambito il cuore della questione ed essersi avvicinato a ciò che dava all’altro l’aria tribolata che gli aveva notato fin dal loro incontro in chiesa il giorno precedente. Tuttavia, quello non era il momento per saggiarlo: ci sarebbe stato modo più avanti, pensò.
Nel presente era piuttosto l’ora che André se ne tornasse tra i vivi. «Non è per scacciarti, figliolo, ma s’è fatto tardi: mi attendono la cena e la compieta… e anche per te è meglio andare… ho visto il cavallo starsene placido di fuori da che era passata da poco la Nona[1]…», l’invitò gentilmente père Hervé.

André si mise allora in piedi, pur con qualche lungaggine, giacché le gambe gli s’erano un poco illanguidite a star tanto seduto fisso a terra. Quindi si batté via la polvere dai calzoni, sorrise un’ultima volta alle vestigia dei suoi cari, si fece la croce e s’avvio diligente verso l’uscita seguendo il sacerdote, il quale serrò il cancello e salutatolo lo osservò montare a cavallo e poi allontanarsi in direzione di Martigné-Ferchaud, riflettendo tra sé sul perché al giovane Grandier potesse importar tanto del fatto d’essere o non essere un uomo.
 
__________________
 
Un diluvio di colpi d’artiglieria in campo aperto. Crateri e cadaveri. Cadaveri e crateri. Fragore. Foschia di fumo e dell’umido della terra percossa. Sangue e corpi vilipesi, sì da non poter dire se invero fossero stati d’uomini. Boato d’urla bestiali e gorgoglìo di rantoli estremi. Fersen…
 
Oscar François de Jarjayes si svegliò bruscamente, boccheggiante e sudata, nel mezzo d’un sogno angoscioso[2]. Scalciò via le lenzuola e si rizzò in piedi. Scalza raggiunse la grande finestra, la spalancò in cerca d’aria e inspirò il buio salino di Fécamp. Lo stomaco un groviglio, le mani tremanti, le gambe malferme, s’aggrappò alle tende per non afflosciarsi lì, al cospetto della notte. Il cuore rintoccava in un modo che le pareva assordante, mentre la mente formulava il temuto pensiero. Ché lo sapeva che l’America era tanto lontana che quegli sarebbe potuto già non essere più e chissà quando ne sarebbe giunta notizia…
 
Fersen…
 
Incapace d’addomesticare il polso e il respiro, le visioni di poc’anzi, il cui orrore le era trapelato fin nell’anima, continuavano a imperversare. Portò una mano sugli occhi e si lasciò scivolare lungo il drappo terminando in ginocchio e infine s’accucciò sotto al davanzale. Non avrebbe saputo dire quanto stette con le gambe raccolte al petto e gli occhi chiusi, ad abbracciarsi le caviglie piangendo in silenzio e cullandosi appena, prima che i brividi per la brezza notturna del Nord pervenissero a riscuoterla, consigliandole di riguadagnare il letto. Infreddolita si sollevò e si voltò verso la finestra per richiuderne i vetri.
 
Fu allora che “vide” finalmente la dea che apre i cancelli del cielo.
 
οδοδάκτυλος Ἠώς[3].
 
C’è più poesia in questo epiteto che in tutto il resto. Così aveva detto André.
 
Anni addietro, era primavera, s’erano recati ad Arras per trascorrere un periodo di riposo e, poiché alla sera era ancora piuttosto freddo, dopo cena si ritiravano in biblioteca. Il giorno precedente avevano concluso i Commentarii de bello Gallico e, fosse stato per lei, avrebbero proseguito leggendo il De bello civili, ma l’altro s’era categoricamente opposto, minacciando d’andarsene dritto filato a letto. Ché quello, si sapeva, potendo scegliere avrebbe optato sempre per Catullo, Petrarca o Ronsard. Alla fine, trovando un onorevole compromesso, avevano iniziato a leggere l’Iliade.
Non erano che a poco più di metà del Libro I e André tutt’a un tratto s’era come incantato. Nessuno dei due era mai stato perfettamente a proprio agio col greco[4], ciononostante a lei non era parso che fosse un passaggio particolarmente ostico, di conseguenza aveva preso subito a burlarsi dell’ignoranza dell’amico; se non che quello le aveva risposto scuotendo il capo e sorridendo tagliente…
 
Guarda che lo so cosa significa! È proprio quello il motivo per cui mi sono fermato: c’è più poesia in questo epiteto che in tutto il resto che abbiamo letto finora… Ah, ma certe cose tu non le capirai mai! A te non interessa altro che la battaglia, ti esalti solo per il ferro e il sangue tu… eppure c’è tanto di più significativo e più sublime del valore e della gloria, Oscar, e mi dispiace che non la veda nemmeno la meraviglia della dea dalle dita rosate…

E allora s’era un poco impermalita e gli aveva ribattuto ch’era un vizio quello di cogliere la poesia da tutte le parti e accusarla che a lei, invece, passasse inosservata. Però, forse, non era perché non la capisse, forse era proprio André a immaginarla dappertutto a sproposito! Sicché l’amico le aveva proposto un patto: il giorno a seguire si sarebbero svegliati prima dell’alba e sarebbero andati sulla collina ad aspettare il sorgere del sole e Oscar si sarebbe impegnata a osservare attentamente; se nemmeno allora a lei fosse riuscito di “vedere” la dea che apriva i cancelli del cielo, le avrebbe dato ragione e non sarebbero mai più tornati sull’argomento.
 
Non vi erano mai più tornati. Ché l’aveva intesa, sì, la bellezza del momento: la quiete dell’ultimo respiro della notte, la sospensione, l’attesa, lo spettacolo dei colori cangianti; ma la dea, quella le era sfuggita.
 
Non questa volta, tuttavia. Non questa volta.
 
C’è tanto di più significativo e più sublime del valore e della gloria…
 
«Maledizione, Grandier, è mai possibile che tu debba sempre avere ragione?!», protestò a bassa voce sollevando i pugni a mezz’aria, mentre le spuntava un abbozzo di sorriso.
 
__________________
 
André s’era svegliato di buon’ora, determinato a mettere a frutto la giornata e, saldata la stanza alla locanda, se n’era andato nel centro di Martigné-Ferchaud in cerca dell’occorrente per la casa di Noyal.
Aveva deciso che da quella notte in avanti vi avrebbe dormito e la necessità più stringente era divenuta quella di trovare un modo per coricarsi. Procurarsi della paglia al villaggio non sarebbe stato un problema e coprirla con una pezza di levantina o batavia, aveva ragionato, sarebbe bastato ad arrangiare un giaciglio. Delle lenzuola avrebbe fatto a meno, ché tanto la stagione era calda, e così pure del cuscino. Se proprio non gli fosse riuscito di prender sonno senza quest’ultimo, s’era detto che il giustacuore avvolto su se stesso avrebbe giovato alla bisogna.

Acquistò il tessuto e degli scampoli di poco conto, per usarli come stracci. Comprò anche delle candele e un bel poco di liscivia, ché con tutto quel che c’era da pulire era certo che gliene sarebbe servita in quantità, e pure un altro pezzo di sapone, per ogni evenienza, nel caso quello che aveva portato con sé non gli fosse bastato. Da ultimo, caricò Alexandre e se ne andò verso Noyal, meditando lungo il cammino su ciò che ancora gli mancava, ma che avrebbe potuto trovare tranquillamente al villaggio.
 
Per la paglia, affidandosi ai suoi ricordi d’infanzia, aveva immaginato di poter interpellare Monsieur Létang, che nella sua piccola fattoria aveva sempre avuto degli asini[5], che concedeva a nolo per ogni tipo di trasporto. Giungendo a destinazione, fu lieto di scoprire che le sue valutazioni fossero corrette.
Il vecchio Létang, in verità, era venuto a mancare un paio d’anni addietro e del lavoro di famiglia s’occupava adesso il figlio, che non serbava alcuna memoria di André, essendone di qualche anno più giovane. Dopo una breve contrattazione, i due s’accordarono sul prezzo della paglia e su quello di un posto nella stalla per Alexandre, giacché la casa dei Grandier non disponeva di un ricovero. Deciso a provvedere da sé anche per i pasti, André comprò alla fattoria pure un poco di provviste: patate, cipolle, carote, un paio di salsicce, un pezzo di burro, mezza forma di formaggio e una di pane.
Per il trasporto della paglia decise di fare due viaggi conducendo Alexandre a piedi, per non doverlo caricare eccessivamente, ché quello non era bestia da soma e, soprattutto, apparteneva al Generale. Infine lo sistemò dai Létang e se ne tornò verso casa per affrontare il grosso del lavoro.
 
André sei proprio tonto! Come fai a perderti sempre?
 
Davanti all’immagine della propria casa, che gli si presentava minuscola all’orizzonte, gli parve di sentire ancora la voce bambina di Oscar, che lo irrideva perché non gli riusciva di orientarsi a palazzo Jarjayes. I primi tempi non faceva che smarrirsi nell’egregia quantità di sale, camere, ambienti di servizio, scale e corridoi e aveva dovuto subire le lavate di capo della nonna, preoccupata che l’errare disorientato del nipote potesse contrariare i padroni, e le ripetute beffe dell’amica. Qualche volta, a dire il vero, aveva provato a giustificarsi, spiegando a Oscar che il posto in cui aveva vissuto fino ad allora sarebbe entrato tutto intero più d’una volta nel salone di rappresentanza della dimora del Generale, ma il diavoletto biondo aveva creduto che la stesse prendendo in giro, poiché, come tutti i bambini, immaginava vere solo le cose che aveva visto coi propri occhi o i mostri e le creature fantastiche. L’esistenza di una casa di pietra di tre stanze un poco ristrette era per l’Oscar d’allora più implausibile dell’ippogrifo.

Pensò che gli sarebbe piaciuto mostrargliela un giorno quella casa, angusta e povera com’era, ché non s’era mai vergognato di chi fosse e da dove venisse. A spiacergli era solo la divaricazione irriducibile che la differenza di rango imponeva, non la prospettiva che in quel mondo mai avrebbe potuto avere per sé più di una casa di pietra di tre stanze un poco ristrette. Se non potesse spiacere nemmeno a Oscar, invece, quello era tutt’altro discorso; ché nemmeno riusciva a figurarsela in un ambiente tanto spoglio, dove l’oro dei suoi capelli sarebbe parso abbacinante. No, si disse, quello non sarebbe mai potuto essere un posto degno di lei: costringerla lì sarebbe stato come soffocare una stella in una scatola. Ma cosa avrebbe mai avuto da offrirle André Grandier, a parte quelle misere pietre, il proprio cuore velleitario e ostinato e la propria vita, che valeva solo quanto vale la vita di un servo? E a lei? A lei sarebbe mai potuto bastare?
 
__________________
 
A torso nudo, la pelle lucida di sudore, Paul Barbé lo trovò seduto sul muretto a secco, piegato sugli avambracci con le mani a penzoloni tra le cosce, a prendere un poco d’aria per ristorarsi dalle fatiche delle lunghe ore di pulizia. La carezza fresca della brezza del tardo pomeriggio, che gl’asciugava addosso gli umori, gli dava finalmente un caritatevole sollievo.  

«Hai deciso di scandalizzare tutte le donne del villaggio? Non ti facevo così sfacciato…», lo apostrofò scherzosamente l’amico per palesare la propria presenza.
«Buona sera, Paul», rispose fiacco André.
«Hai finito?»
«Per oggi di sicuro… non ho più la forza di alzare un dito…»
«Vedi di alzare il sedere da qui, invece, e di renderti presentabile: adesso vieni a casa con me! Ricorda che mi ha dato la tua parola…», lo incastrò rammentandogli la promessa fatta. Poi l'afferrò per un braccio e lo tirò su con uno strattone.
«Ho capito, ho capito… vengo… concedimi solo un momento per darmi una sciacquata e vestirmi…», cedette rassegnato avviandosi verso l’interno della casa.

Frattanto che André si ricomponeva, Paul Barbé constatò il cambiamento delle condizioni rispetto al giorno precedente: «Certo che l’hai tirata via un bel po’ di sporcizia!»
«Magari, Paul! Ho giusto dato una pulita superficiale, poi mi sono dedicato alla canna fumaria e mi è passato tutto il pomeriggio… ne avrò ancora almeno per un paio di giorni, prima di poter dire d’aver finito…»
Una volta che ebbe terminato di lavarsi ed ebbe indossato una camicia pulita, André afferrò il giustacuore. Paul al vederlo lo fulminò: «Metti via quella roba: non vai mica alla reggia! Stai solo venendo da me a bere un bicchiere di vino…  Piuttosto, allacciati un po’ di più la camicia, ché mia figlia è una ragazza innocente!»
André alzò le mani per scagionarsi dall’implicita accusa: «Non è mia intenzione turbarla, non temere. Pensa che, se mi avessi lasciato indossare il giustacuore, mi sarei messo perfino lo jabot…»
«Lo che?»
«Questo Paul…», gli disse estraendolo da una tasca della giacca e mostrandoglielo.
«Ah, ho capito: il bavaglino!»
«Sì, Paul, il bavaglino…», confermò André divertito.
«Se mai ti presenterai a casa mia con quel coso al collo, non ti farò entrare», lo minacciò.
«Lo terrò a mente.»
«Adesso se vossignoria ha finito d’incipriarsi andiamo, ché anch’io ho lavorato tutto il giorno e non vedo l’ora di riposarmi un momento», lo incalzò Paul Barbé.
«Andiamo!», assentì il giovane Grandier.
 
La casa dei Barbé non era molto distante e la raggiunsero che il sole non era del tutto calato. Mentre erano ancora di fuori sull’uscio, Paul chiamò con voce stentorea: «Clémence!»
Un cozzare attutito di stoviglie seguito da passi leggeri e veloci e una fanciulla sui diciassette o diciott’anni s’impalò loro davanti. Nel vedere André, vergognosa nascose rapida le mani dietro la schiena.
«Bietole da orto?», domandò cordiale il giovane, che nondimeno aveva fatto in tempo a intravedere il rossore intenso che le imbrattava le dita. L’altra non rispose, restandosene perfettamente inerte come la moglie di Lot.[6]
«Iniziamo bene! Che figure mi fai fare, figlia mia…», la canzonò il padre rimarcando le parole col roteare d’una mano, «Saluta almeno, Clémence!». Poi rivolto ad André: «Non farci caso… la sua povera mamma non ha mancato di farle la lingua e, quando vuole, c’è perfino da doverla pregare di zittirsi…»
«Monsieur…», mormorò allora la ragazza accennando un inchino.
«Di male in peggio! Deve averti scambiato per il re di Francia…», sbuffò Paul Barbé portandosi il palmo alla fronte e scuotendo il capo ostentando rassegnazione.
«Buona sera, Clémence. Chiamami semplicemente André», la incoraggiò questi, tagliando corto per evitare che il padre della ragazza infierisse oltre.
 
Paul allora fece strada e lo invitò a sedersi al tavolo. «Clémence, porta due bicchieri!», comandò alla figlia.
Quando giunse ciò che aveva chiesto, si voltò verso la dispensa e ne estrasse un fiaschetto. «Non sarà come le cose da signori che si bevono dove stai tu…», mise le mani avanti, «ma è quello per cui qui ci rompiamo tutti la schiena ogni giorno. Ed è anche il vino di tua madre, ché Dio lo sa quanto ha sgobbato in vigna fin da bambina! E pure il tuo – perché no? – ché ci sei venuto anche tu per un po’ con noialtri tra i filari. Quindi vedi di fartelo piacere!», lo ammonì.

André sollevò il bicchiere che gli fu offerto e quasi con emozione osservò il liquido granato all’interno. Socchiuse gli occhi e ne respirò l’aroma intensamente fruttato, prima di berlo e scoprirne il gusto vagamente acerbo. Un vino giovane, leggero, piuttosto astringente e un poco disarmonico. Un vino semplice, adatto a Noyal.

Nel frattempo Clémence continuava a starsene in piedi immobile e muta, visibilmente imbarazzata per la visita inattesa e il disordine in cui versava la cucina, nella quale fino a poco prima era intenta a preparar la cena. Vuotato il bicchiere, guardandosi attorno le vide André, in una ciotola sulla credenza, le barbabietole rosse. Facendo un cenno col capo alla fanciulla per indicarle: «Ho indovinato!», disse con una giocosa inflessione trionfante. E quella finalmente sorrise.
 
Paul non aveva mentito. Ben proporzionata, i lineamenti armoniosi, gli occhi castani illuminati da pagliuzze dorate, i capelli d’un biondo caldo, quasi ramato, e una piacevole spruzzata di lentiggini sulle gote colorite, Clémence somigliava vistosamente alla madre ed era davvero molto graziosa. Di quella onesta grazia quotidiana che fa venir subito voglia di casa.

Nulla a che vedere, notò André, con l’elaborata appariscenza delle dame di Versailles e nemmeno con l’avvenenza smaliziata delle giovani domestiche, cui gli anni di servizio, presso dimore in cui non di rado erano costrette a metter a disposizione non solo le proprie braccia, avevano sottratto ogni sogno e ogni rossore. Nulla a che vedere, soprattutto, con la bellezza austera, affilata e impervia di Oscar, sempre cangiante, sempre animata: ora dolce, ora fiera, ora placida, ora sanguigna, ora accessibile, ora remota… e in ogni attimo per lui immancabilmente invischiante.
 
Se solo Oscar sapesse d’essere così bella!
 
Per sua fortuna, pensò con egoistico sollievo, non l’aveva mai scoperto, altrimenti l’avrebbe già perduta da tempo. Ché allora chi avrebbe potuto impedirle d’abbrancare qua e là le delizie casuali della vita ed elargirle a propria volta a piacimento in quel grande mare di depravazione che era la corte francese? E cosa sarebbe stato per lei in quel caso André Grandier – bretone dell’entroterra, roturier, servo, ragazzo – davanti a quelle infinite possibilità? Ancor meno del pressoché niente ch’era adesso…
 
«Perdonami, André, se continuo a preparare la cena, altrimenti non sarà pronta in tempo», si scusò timidamente Clémence, distogliendolo dal flusso dei propri pensieri.
«Di’, scommetto che tu non ceni più al tramonto, non è vero?», gli domandò Paul.
«In effetti, no. I ritmi a palazzo Jarjayes non sono quelli della campagna…», ammise. «Ma questo non vuol dire che non mi alzi anch’io poco dopo l’alba. Non dimenticare che resto pur sempre un servo…», aggiunse come a discolparsi di condurre una vita più molle.
«E cos’è che fai tutto il giorno? Père Hervé dice che sei l’attendente di un ufficiale… ma io non lo so mica che vuol dire! Cosa fai lucidi stivali e strigli cavalli?»
«Sì, grosso modo è così…»
«E ti serviva d’imparare il latino per farlo? Sono proprio strani i nobili! Non lo sanno quelli là che l’ignoranza non sciupa il cuoio?», replicò Paul Barbé con il tono di chi, invece, è un’arca di saggezza e d’esperienza.

André, i gomiti puntati sul tavolo, scoppiò a ridere, nascondendo il volto nei palmi delle mani nel tentativo di non risultare oltremodo sguaiato, per rispetto a Clémence. Intimamente era lieto che l’amico fosse niente affatto impressionato dal suo lavoro e glielo facesse presente con tale sfrontatezza. Era una cosa che lo faceva sentire a proprio agio, tra pari, come di rado gli capitava. Ché era fin troppo avvezzo a percepirsi in difetto tra gli aristocratici, così come a sentire tra la gente del popolo il senso di colpa per i privilegi di cui godeva. Rizzò nuovamente il capo, catturò il labbro inferiore tra gli incisivi per riuscire a placarsi, soffocò ancora un paio di risolini e finalmente rispose: «Non ci crederai, ma faccio anche dell’altro oltre a prendermi cura di stivali e cavalli. Perfino cose per le quali è richiesto di saper leggere e scrivere! Però hai ragione, forse il latino avrebbero potuto risparmiarmelo…»

Non ebbe il coraggio di rivelare a Paul che aveva ricevuto la medesima istruzione di un aristocratico e, in verità, gli avevano fatto studiare addirittura un poco di greco.
 
La conversazione proseguì vivace e irrorata da un altro paio di bicchieri per una buona mezz’ora. Paul gli chiese notizie della nonna e gli raccontò con fierezza dei suoi tre nipoti che, ci tenne a sottolineare, non erano nemmeno lontanamente bassetti e gracili com’era stato il loro padre da bambino. André provò grande tenerezza a sentir l’altro parlare dei figli di Faustine: l’unico argomento, notò, sul quale a Paul Barbé non ardesse la consueta impellenza d’essere brusco o di fare battute di spirito. E dovette confessare a se stesso che lo pizzicava il pungolo dell’invidia nell’ascoltare quegli aneddoti di famiglia.
 
Nel mentre Clémence non aveva cessato un istante di spignattare. Quando la stanza si riempì di un appetitoso aroma di lardo rosolato, per Paul fu ovvio invitare l’ospite a trattenersi con loro per la cena. Ma questi declinò gentilmente l’offerta, spiegando di non volerli incomodare e di sentire il bisogno di mettersi presto a letto. Il più anziano, che aveva visto l’interno della casa e prima e dopo l’intervento di André, non insistette, figurandosene agevolmente la stanchezza.

Prima che potesse congedarsi, tuttavia, Clémence con un velo d’imbarazzo gli consegnò una specie di fagotto rigido e caldo. «Non è bene andare a dormire a stomaco vuoto», commentò semplicemente. Il giovane la guardò con aria interrogativa e quella spiegò, dolce e spiccia al contempo: «La cena. Portala con te. Così potrai mangiare subito e coricarti.»

André fu toccato profondamente dalla premura previdente e materna del gesto, che gli giungeva tanto più gradito giacché si sentiva davvero sfinito e probabilmente sarebbe sul serio andato a letto digiuno. «Ti ringrazio, Clémence. Sei molto gentile», le disse con un sorriso aperto e riconoscente, che la fece un poco arrossire. Quindi ringraziò anche Paul, augurò a entrambi una buona notte e se ne andò verso casa, emozionato come se recasse tra le mani un carico prezioso.

 
 
 
N.d.A. A voi che ancora resistete a leggere questa storia e specialmente a voi che avete la bontà perfino di commentarla, posso solo dire l’ennesimo grazie.

Al momento il lavoro mi pressa più del solito e le bozze che avevo già quasi pronte ormai sono pressoché esaurite, per cui con ogni probabilità gli aggiornamenti diverranno un po’ più sporadici rispetto al passato. Spero non me ne vogliate!
 
[1] Nella liturgia delle ore la compieta si recita prima di andare a dormire e l’ora nona equivale alle 15.00.
[2] L’idea di Oscar tormentata da sogni truculenti su Fersen al fronte l’ho tratta dal gustosissimo Giù al Nord della sempre commendevole Dorabella27. Andate e leggete (se non l’avete già fatto): non ve ne pentirete!
[3] Rododáktylos Éos, vale a dire Eos dalle dita rosee (o di rosa, a seconda delle traduzioni), è l’epiteto che Omero attribuisce alla dea dell’aurora nell’Iliade e nell’Odissea.
[4] In realtà, non so se e quanto fosse diffuso lo studio del greco tra le classi dominanti della Francia del XVIII secolo. Pertanto, nel caso fosse una sonora castroneria dal punto di vista storico attribuire la conoscenza di questa lingua a Oscar e André, chiedo venia e invoco – com’è nel mio diritto, in quanto autore – la sospensione dell’incredulità da parte del lettore.
[5] Poiché ne è uno degli alimenti principali, normalmente dove ci sono asini c’è anche la paglia.
[6] Secondo il libro della Genesi (19,26), la moglie del patriarca Lot dopo aver visto Sodoma divenne una statua di sale.
   
 
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