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Autore: Glenda    08/06/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Forse stava commettendo un enorme sbaglio. Forse Vittorio non glielo avrebbe perdonato. Forse non aveva capito niente, e si sarebbe fatto ammazzare.

Ma aveva bisogno di sapere. Aveva bisogno di guardare il diavolo negli occhi, e trovarci la persona che aveva letto. Voleva credere che quella persona esistesse ancora e che il diavolo non se la fosse mangiata. Aveva bisogno di crederci, perché solo così le cose sarebbero tornate a posto, compreso il suo essere lì, compreso l'essere diventato un altro, compreso l'aver abbandonato i suoi cari. Compreso Vittorio.

L'autostrada si srotolava veloce sotto le ruote.

L'aveva combinata grossa, aveva ingannato De Nistri, aveva eluso la sorveglianza che in qualche modo gli era sempre alle costole, ed ora guidava da solo, in direzione Torre del Lago.

Erano anni che non guidava. Per qualche minuto la mente andò dietro al ricordo del giorno in cui aveva preso la patente, esercitandosi con la macchina di suo padre. La stessa macchina che aveva ucciso un uomo e gli aveva portato via la mamma. Ma quando aveva diciott'anni, quella macchina era ancora un miraggio d’indipendenza, era l'idea di una ragazza seduta sul sedile di fianco, di baci notturni scambiati in un angolo buio di monte Morello, di gite al mare con gli amici.

Invece non aveva mai guidato fino al mare.

Si sforzò di sorridere a se stesso, assaporando il gusto della prima volta.

Gli sarebbe piaciuto avere Ana e Andrea con sé, per vederli correre sulla spiaggia. Immaginò Ana con un due pezzi giallo, il suo colore preferito, bella come sua sorella maggiore quando erano ancora ragazzini, loro due soli, e qualche volta si erano potuti permettere una vacanza. Ad Ana sarebbe piaciuto il mare: era accogliente come lei. Anche ad Andrea sarebbe piaciuto: era ribelle come lui. Ed era morbido e vasto come l'anima di Alba. Il mare era un fratello.

 

Rimase in piedi lunghi minuti davanti a quel campanello senza nome.

Se avesse suonato e la porta non si fosse aperta, allora niente avrebbe avuto

Se invece lo avesse fatto, il suo intero mondo sarebbe stato di nuovo in piedi sul crocevia.

Cosa era andato a fare lì? Voleva davvero addomesticare il diavolo? Farci amicizia?

Pensò che, se un giorno tutti i sorrisi gratis avessero dovuto tornagli indietro, quello era il momento in cui gli sarebbe stato utile che lo facessero.

Lo dovevano fare.

Raccolse quell'idea sulla punta del dito e suonò.

 

Gli occhi di Elia Avanzini lo fissarono storditi, un po' spenti, come offuscati.

Poi si accesero, insieme alla sua voce.

- Che cazzo… Cosa ci fai qui? -

- Ti ho cercato. So che avrebbe dovuto essere Vittorio, ma… -

- Cosa c'entra Vittorio? Vittorio doveva credermi morto, se tu non avessi fatto lo stronzo! -

Artin fece un passo indietro per guardarlo: senza giacca e cravatta, affacciato sulla porta di una casa che perdeva l'intonaco, coi capelli un po' più lunghi e la piccola ruga che accompagnava un lato della sua bocca, sembrava davvero il suo gemello.

- Non fare la commedia, so che sei felice che io sia vivo! -

Elia fece per aprire bocca, ma Artin lo precedette.

- All'inizio mi sentivo quasi in colpa. Pensavo di aver tradito un patto, ed io non avevo mai tradito. Ma poi mi sono reso conto che non ti devo proprio niente, perché io non ti ho dato solo la vita: io ti ho dato molto di più. Ti ho dato tutto quello che sono stato, e pure quello che sarò. Ti ho dato i momenti vissuti coi miei fratelli, ti ho dato le sere passate a gridare su una pensilina pedonale, ti ho dato la rabbia verso mio padre e il sorriso gratuito di mia madre, ti ho dato la sua dolcezza e i suoi consigli, e la pena di vederla morire giorno per giorno. Ti ho dato i mille futuri possibili di Artin Dorsi. Tutto questo vale molto più di ciò che ho avuto io da te, e per questo ora voglio capire. Voglio capire cosa farai di quello che ti ho venduto. Perché la storia del disastro finanziario è una stronzata, Elia, come sono stronzate le tue finte belle maniere, e la tua sicurezza di te e il tuo sorriso di carta! È tutta un'immensa balla, ed io devo sapere. Ne ho diritto! -

- Hai finito? - Elia Avanzini lo guardava senza muovere un muscolo del viso.

Artin tacque.

Era come se quello sfogo lo avesse svuotato: tutto ciò che desiderava dirgli si era rovesciato fuori, come acqua da una enorme falla, ed ora si sentiva stanco, senza più parole.

- È vero. – disse allora Elia - Sono felice che tu sia vivo -

Non sorrideva. Nemmeno un'ombra di quel suo sorriso pallido, distaccato e bellissimo, che era la prima cosa che lo aveva colpito di lui, e la sola che non era mai riuscito davvero a imitare.

Quel sorriso con cui aveva conquistato un impero, e dietro cui non c'era niente.

Assolutamente niente.

- Ti sarai chiesto quale mostro abbia potuto chiederti una cosa del genere. Ma forse ti sei dato la tua risposta. Perché se tu sei qui, hai trovato il quaderno della verità. E quindi già lo sai: io non riesco a provare emozioni. Io, di fronte al dolore o alla gioia, non provo niente. Sono un guscio vuoto. Non amo. Non odio. Non mi affeziono. Mio padre era così. Ed io, che volevo essere altro, sono così: ho sempre pensato che non ci fosse altro modo di essere che questo, e che fossero gli altri a fingere, perché nessuno intorno a me riusciva a mostrarmi il contrario, né ad accorgersi di quanto io fingessi. Ma quel mattino, quando ho saputo che il piano era andato male, e che tu eri vivo, mi sono sentito bene. Ho avuto voglia di alzarmi, di fare cose, di vivere quel giorno come un giorno diverso dagli altri giorni. Perciò ti sono grato. -

Non sorrideva, ma c'era qualcosa nei suoi occhi di più bello di un sorriso: c'erano disperazione profonda e senso di impotenza, c'era voglia di piangere e di gridare, c'era una vita chiusa in una palla di vetro, c'era tutto l'Elia Avanzini di quelle pagine di diario, che nessuno, prima di allora, aveva mai potuto conoscere. Un uomo che si era convinto di non provare emozioni per paura che diventassero finte, come tutto il mondo che lo circondava.

- Non è vero un cazzo. – sentenziò Artin.

- Cosa… ? -

- Non è vero che non provi niente. Nel quaderno della verità, c'era la verità. Io l'ho sentita. Non è vero che non ami e non odi: ami ed odi Vittorio, ami ed odi tua madre, disprezzi il mondo in cui vivi ma ti fa paura staccartene, perché non sapresti gestire le conseguenze dei tuoi gesti e hai paura delle tue stesse reazioni. Così ti è venuta questa idea imbecille di ucciderti… e forse ti saresti ucciso davvero, se non ci fosse stato qualcosa che ti stava a cuore più di tutto il resto: vedere cosa avrebbe fatto Vittorio dopo la tua morte. Vedere se avrebbe avuto il fegato di comportarsi come al funerale di tuo padre, oppure se avrebbe detto la verità. Se avrebbe mostrato al mondo il vero Elia. Per questo hai nascosto il tuo diario tra i cuscini del divano, e per questo non potevi morire davvero. Perché era il tuo solo modo di scoprire se Vittorio avrebbe scelto te o la finzione. Per darti una chance di avere un affetto onesto. -

Elia sbatté un pugno sul muro. Il furin appeso sulla porta tintinnò.

Soffiasse davvero quel vento di scirocco…

- CHE COSA NE SAI? - gridò – CHE COSA NE SAI, TU!?! -

Artin vide gli occhi del suo gemello diventare vividi, la faccia era un'esplosione: era strappo e vulcano, ora.

- Tu non puoi sapere cosa significa passare una vita senza poter confessare a nessuno cosa ti è stato fatto: non perché non ti crederebbero, ma perché lo farebbero, e poi fingerebbero di non crederlo! Hai mai desiderato uccidere qualcuno? Tu, con la tua gentilezza gratuita, e questo amore testardo per un mondo che ti calpesta tutti i giorni, hai mai provato davvero la rabbia? Hai mai voluto distruggere tutto? Forse si, magari… e forse hai urlato, e fatto a pezzi qualcosa, e hai trovato qualcuno che ha raccolto quelle grida. Per me non c'era mai nessuno! Da questa parte di mondo, ero completamente solo. Vuoi che ti dica che volevo vedere Vittorio piangere la mia morte? È vero! Vuoi che ti dica che speravo che trovasse il mio diario, e provasse tanto, tanto rimorso? È vero! Sono un bastardo per questo? Si, e non me ne frega un cazzo! Lui lo meritava! -

- Elia… -

Non aveva nulla da opporgli. Solo il suono del suo nome, del nome che gli era capitato in prestito, ma che non era suo: apparteneva a quell'uomo infelice, che forse non lo aveva mai sentito pronunciare nel modo giusto, se aveva deciso di sbarazzarsene.

- Non mi sento in colpa verso Vittorio, non mi sento in colpa verso mia madre, verso mio padre, verso chi ho fregato, chi ho manipolato, chi ho scavalcato! Loro hanno creato le condizioni perché questo avvenisse! Tutti loro lo meritavano: tutti! -

- Elia. -

- Ho cercato di darmi una possibilità, ma già sapevo che non avrebbe funzionato, ed ora che tu sei qui davanti alla mia porta, vedo tutto andare in pezzi! -

- Elia. -

- Il mio mondo va in pezzi, le mie macchinazioni vanno in pezzi, la realtà va in pezzi, io vado in pezzi. Finalmente! -

Artin gli appoggiò le mani sulle spalle.

Elia scoppiò a piangere.

 

Quando si dissero addio davanti alla macchina, il vento soffiava forte: forse non era vento di scirocco, ma bastava per rendere la realtà abusata abbastanza irreale.

- C'è una cosa che vorrei chiederti .– disse Elia - Io ti ho prestato la mia vita, e tu sei riuscito a farci quello che a me non era mai riuscito. Qual è il trucco? -

- Mm… penso la corrente. -

- La corrente? -

- Sì. Quando le circostanze ti cadono addosso e ti trascinano, c’è modo e modo di esserne trascinati. C’è chi si dispera nuotando contro, e c’è chi decide di viversela, quell’ondata di acqua che ti porta via e di nuotare nella stessa direzione, per vedere dove ti porterà. Perché poi, alla fine, non importa il come o il dove. La vita a volte è solo merda. A volte lo è anche la gente. E attraversare le cose è dolore, ma ci metti la tua faccia, è così che va. Se qualcuno vuole trafiggerti con una spada, tu puoi chiedere al tuo petto di aprirsi a quella spada. Io ho deciso di fare così. -

Elia scrollò dolcemente la testa.

- La nostra storia sembra il luogo comune dei soldi che non fanno la felicità. -

- Già. E invece è proprio quel che non è. La verità è che non ha alcuna importanza chi sei, dove stai, quanti soldi hai. Le cose per cui gli uomini soffrono, sono le stesse dappertutto. Così come quelle per cui si è felici. Credimi, siamo tutte creature fottutamente simili. Solo che ciascuno di noi sente le cose in modo diverso, e per questo non possiamo fare a meno di ferirci ed essere feriti. -

Il mondo intorno a loro sembrava fermo. Trasparente.

- Mi fa paura, sai? Mi fa paura quanto, per evitare quelle ferite, riusciamo quasi a scomparire. In tanti anni, io sono lentamente scomparso dietro a Elia Avanzini e quando mi sono reso conto che ormai non mi vedevo più, sono scappato. Il quaderno della verità è tutto quel che resta di me. Mi sento così invisibile che chiunque potrebbe schiacciarmi con un piede senza accorgersene. -

Artin abbozzò un sorriso lieve.

- Allora devi fare come farebbe la pulce. -

- Cosa? -

- È una storia vecchia, ma il modo di dire mi piace. Quando ero al liceo, una volta, scrissi in un tema che mi sembrava di contare per la società poco di più che un verme che attraversa un marciapiede, e che può essere spappolato sotto una scarpa da un momento all'altro. Un mio insegnante mi disse che non dovevo piangermi troppo addosso, che questa non era una prerogativa solo mia: che un po' tutti noi siamo (per la società, per il destino, e quant'altro) poco più che vermi che attraversano il marciapiede. Tuttavia, noi possiamo scegliere di non essere sempre un verme, ma anche di essere una pulce, e saltare. -

- Essere una pulce… e saltare? -

Elia si lasciò sfuggire una mezza risata.

- Già. - Artin mimò il gesto sul posto, con un leggero sollevamento dei piedi - Saltare! -

  
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