Crossover
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Autore: Registe    18/06/2023    3 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 26 - The alchemist's apprentice







Un cerchio alchemico








Il generale Hyunkel sedeva davanti a lei, le gambe incrociate. Le spalle, le braccia, ogni muscolo del suo corpo non riusciva a tradire la tensione che provava.
Zam era sempre stata abituata ad interpretare questa diffidenza con una sfida, e senza dubbio non le era mai capitato di dover convincere nessuno ad abbassare le difese in sua presenza. Sarebbero stati tutti molto stupidi. La mano destra del ragazzo non lasciava il Puzzle, né aveva fatto alcun gesto per sganciare la catena dal collo per avvicinarglielo.
Non che lei ci tenesse.
“Suppongo che tu non abbia ricordi piacevoli collegati a questo oggetto” disse lui, chiaramente cercando qualcosa con cui riempire il vuoto che era calato nella Caverna del Drago nell’esatto momento in cui si erano seduti l’uno di fronte all’altra. Il generale Baran si era seduto in disparte, ma nonostante questo entrambi potevano avvertire lo sguardo di allarme sotto l’elaborato diadema dorato che non lasciava né loro, né il Puzzle. “La battaglia su Kamino è il motivo per cui ti trovi qui”.
Le ci erano volute diverse visite per convincere quel giovane umano a parlarle, e oltre il doppio per ottenere da lui un tono più … amichevole. Il tono naturale e disinvolto che assumeva in compagnia di Hadler e con i sottoposti del generale Baran si trasformava in un silenzio innaturale nel motivo in cui il ragazzo si ritrovava in sua presenza, un silenzio che finiva puntualmente sommerso dalle bisticciate senza fine di Borahorn e Gurdandy o dalla voce perentoria e calda del Cavaliere del Drago. Aveva sempre avuto l’impressione che i modi guardinghi del ragazzo fossero dovuti alla naturale attitudine di un guerriero di studiare ed ispezionare una potenziale minaccia e dunque aveva cercato di non darsene eccessiva preoccupazione, ma col passare dei giorni il suo intuito aveva iniziato a suggerirle qualcosa di diverso; forse era per quello che aveva accettato ben volentieri l’idea del Cavaliere del Drago di confrontarsi con lui sulla questione del Puzzle Millenario.
“Non posso dirmi un’appassionata di questi artefatti” mormorò, osservando ancora una volta come le mille battaglie non avessero scalfito nessuna decorazione, né alcun pezzo si fosse annerito. “Ma non per i motivi che credi. Le sconfitte sono un motivo di riflessione, così quanto le vittorie lo sono per l’orgoglio”.
“Baran mi ha detto che hai espresso preoccupazione per il potere del Puzzle”.
Subito al sodo.
“Nessuno può controllare l’Angelo”.
Un leggero sorriso attraversò il volto del generale. “Con tutto il rispetto, le nostre ultime vittorie hanno dimostrato il contrario. Ammetto che non sia stato facile gestire la sua presenza e che i primi momenti siano stati spiacevoli” sussurrò, abbassando di poco il tono della voce “Ma non avrei messo nulla di meno della mia intera volontà per ricompensare il dono fattomi dal Grande Satana”.
“Se il generale Mistobaan fosse ancora tra di voi sono convinta che esclamerebbe qualcosa simile a La fede per il Grande Satana Baan può questo e altro, ma credo che non si tratti di pura forza di volontà. Altrimenti non saremmo nemmeno qui a parlarne”.
Anni addietro, quando Boba mise per la prima volta al collo quella catena … chissà, forse aveva pensato persino che fosse un uomo dalla volontà forte. Forse – o certamente, chi poteva dirlo- aveva ancora troppo impresso il ricordo di Jango per poter dubitare della sua forza d’animo. Non conosceva affatto il ragazzo dai capelli chiarissimi che le sedeva di fronte, ma era abbastanza chiaro che avesse abbastanza tempra nelle dita di una mano da far vacillare quella di Boba e dei suoi amici, eppure stava mancando completamente il punto del problema. Per un istante il suo sguardo cercò quello del Drago, ma la figura non aveva dato alcun cenno di muoversi.
“Dimmi. Riesci a sentirlo?”
“Sentire cosa?”
“L’Angelo”.
Dovette aver colpito qualcosa, perché la sua espressione diffidente ma spavalda fu attraversata da un velo grigio.
“Sogna, non è vero?”
“Dunque hai provato anche tu il potere del Puzzle?”
“Non io” disse Zam, spostandosi nella sua posizione seduta per recuperare un po’ di equilibrio. “Ma qualcuno vicino a me è stato il precedente possessore di quell’artefatto. Mi ha raccontato di quei pensieri, se vogliamo chiamarli. Di quelle immagini che ogni tanto gli venivano alla mente, posti che non aveva mai visto in vita sua e uomini di cui non intuiva nemmeno il linguaggio”.
L’altro lasciò lentamente la presa sul Puzzle, gli occhi che abbandonarono i suoi per fissare un punto imprecisato tra le proprie mani: Zam Wesell sapeva di aver toccato il tasto giusto, e non poteva permettersi di sbagliare.
Sebbene il guerriero fosse un soldato leale solo e soltanto alla famiglia demoniaca, aveva contribuito a restituirle la vita.
Non gli avrebbe mai permesso di gettare la propria al vento.
La cambiatrice di forma si limitò ad attendere, lasciando che le iridi del suo interlocutore si muovessero in linea con i propri pensieri. Il giovane riprese a parlare dopo pochi secondi, ancora una volta con la voce oscillante tra la leggera riverenza ed il dubbio. “Non ho negato la sua presenza. Qualcosa di lui cerca di affacciarsi, ma non è nulla di insopportabile. Credo siano ricordi, per lo più: un deserto quasi senza fine, ed il cielo di un azzurro senza nuvole …” disse.
Alla loro destra, Baran mosse leggermente il capo.
“Sono cosciente di star prendendo in prestito i poteri di qualcun altro”.
“E nonostante questo non ti preoccupano le sue intenzioni? Qualunque creatura, potente o meno …” fece Zam, soffermandosi per essere sicura dell’attenzione di tutti “…non può tollerare che qualcosa di suo venga preso senza permesso. Il Puzzle ti sta concedendo di attingere al potere di una creatura più potente di te, generale Hyunkel. Più potente anche di me. Forse anche del Cavaliere del Drago stesso. L’Angelo è incatenato a questo artefatto e tu a lui. Non permettere che ti trascini sul fondo”.
“Hyunkel sa badare a se stesso”.
La donna non trattenne un movimento brusco nel sentire la voce del nuovo arrivato.
La figura che apparve sulla soglia della caverna era un giovane demone che non aveva mai visto fino a quel momento. Alto, con i muscoli delle braccia e delle gambe che non nascondevano il suo ruolo di guerriero: si muoveva nella Caverna del Drago in maniera naturale, istintiva, privo della leggera deferenza che aveva notato nei passi di Hyunkel e di Hadler. La pelle violacea giocava uno strano contrasto con i capelli biondi e scompigliati, un contrasto davvero particolare considerata l’armonia che spesso regnava nelle figure dei demoni.
Sulla tunica, reso ancora più evidente dal riflesso della fiamma della torcia lungo l’ingresso, scintillava un diadema dorato, modellato nella forma di testa di drago; lo stesso gioiello che anche Borahorn e Gurdandy sfoggiavano con orgoglio, e che ricordava il diadema di battaglia del Cavaliere del Drago.
Zam non poté fare a meno di voltarsi verso il Generale Baran.
Quanti giorni si trovava lì? Forse mesi.
Eppure in nessun momento lo aveva mai visto sorridere in quel modo.
“Bentornato, Larhalt”.
 




“... a questo punto puoi disegnare la quarta runa, ma attenzione: questa è singola, non in coppia come le precedenti, e va tracciata solo sul lato destro del cerchio. È il simbolo che dovrai toccare per attivare la reazione. Ecco, prova.”
Lavok aveva un modo buffo di concentrarsi: socchiudeva gli occhi come se fosse miope e incurvava le spalle fino a portare il naso a pochi centimetri dal foglio su cui si stavano esercitando a tracciare il cerchio. A Vexen ricordò le smorfie di Camus la prima volta che gli aveva insegnato a usare un microscopio.
Anche il livello di entusiasmo era molto simile.
“Li vedo! Li vedo! I batteri stanno attaccando la cellula proprio come lei aveva detto!”
“Incredibile! Si è liquefatto! Un pezzo di metallo, senza la minima fonte di calore… liquefatto!”
Per un soffio Lavok non lo aveva centrato con una gomitata mentre saltava in piedi con lo stesso slancio di un tifoso che esulta alla vittoria della propria squadra.
“Non staccare le mani dal cerchio finché non sei certo che la reazione sia completa” lo ammonì Vexen, indicando l’ultimo pezzo di rame che galleggiava placido nel metallo fuso. “In questo caso un pezzo del reagente è rimasto allo stato solido. Nulla di irrimediabile. Con trasmutazioni di tipo diverso gli effetti potrebbero essere più… rilevanti.”
“Incredibile” ripeté Lavok, la voce ora ridotta a un sussurro reverente.
Vexen si chinò a sua volta sul tavolo e posò il dito accanto alla runa di attivazione, senza toccarla. “Adesso prova ad invertire la trasmutazione. Esattamente lo stesso procedimento di prima, ma a ritroso. Ricorda, ogni cerchio è in grado di catalizzare una reazione e il suo esatto opposto, senza bisogno di apportare modifiche ai simboli. Ci sono delle eccezioni, ma sono casi avanzati di cui per il momento non abbiamo bisogno di preoccuparci.”
Lavok posò la mano sul cerchio e chiuse gli occhi. Vexen lo vide borbottare qualcosa tra sé e sé, e un attimo dopo le rune si illuminarono di un tenue bagliore viola e il pezzo di rame tornò a solidificarsi.
Riaperti gli occhi, il mago fece una smorfia delusa. “Si è deformato.”
Con attenzione Vexen rimosse il pezzetto di metallo dal cerchio e lo osservò sotto la lampada al neon che pendeva dal soffitto. Aveva l’aspetto di un pezzo di plastilina caduto vittima delle ditate di un bambino, ma la consistenza e il colore erano quelli del rame con cui avevano iniziato l’esperimento.
“Trasmutare delle forme precise richiede maggiore pratica. È lì che la tua concentrazione gioca un ruolo cruciale. Devi visualizzarlo nella mente nei minimi dettagli. Il passaggio di stato è avvenuto alla perfezione, comunque” sorrise, porgendo il pezzo di metallo a Lavok perché lo osservasse a sua volta. “Non male come primo tentativo.”
“Ci sai davvero fare.”
Vexen si lasciò sfuggire una risatina compiaciuta. “Studio alchimia da una vita.”
Il mago scosse la testa. Reggeva il pezzo di rame tra le mani a coppa, come una reliquia preziosa. “Intendo dire come insegnante. Dovresti trovarti degli allievi. Magari aprire una scuola di alchimia, o qualcosa del genere.”
Stavolta lo scienziato rise a pieni polmoni: “Ed essere circondato tutto il giorno da ragazzini che fanno domande idiote? No grazie!”
Lo sguardo di Lavok però era serio. “Pensaci. Sei uno dei pochi depositari di questa scienza. L’unico, per quanto ne sappia. Di certo non esistono corsi universitari di alchimia nei mondi principali della Galassia. E nemmeno sui pianeti più ‘magici’, come il mio o la Terra II, se ne è mai sentito parlare. In un certo senso è come se…”
Vexen stroncò il suo entusiasmo prima che potesse terminare. “Se stai per dire qualcosa come “dovere” o “responsabilità”, sappi che queste solfe da ribelle su di me non attaccano.”
“E allora perché lo fai?”
Semplice, diretto. Ancora una volta Vexen vide gli occhi azzurri di Camus brillare dietro quelli scuri del mago, come se lo stessero trafiggendo da una distanza siderale. Deglutì, senza dire nulla.
Probabilmente fiutando la sua esitazione, Lavok lo incalzò. “Il piacere della ricerca è una gran cosa, sono il primo a sostenerlo. Ma una conoscenza non condivisa con nessuno a cosa serve?”
Vexen pensò che la sorte aveva davvero un senso dell’umorismo perverso. Che Lavok gli ritorcesse contro la stessa argomentazione con cui lui stesso anni prima aveva cercato di convincere il Superiore ad aprire le Stanze della Memoria era un’ingiustizia di proporzioni capitali. Si accorse di aver stretto nel pugno il pezzo di carta del cerchio alchemico, fino a farlo diventare una pallina minuscola. Si sarebbe sentito meno offeso se il mago lo avesse schiaffeggiato.
“Sono sicuro che da scienziato capisci benissimo cosa voglio dire.”
Vexen continuò a tormentare il povero pezzo di carta tra le dita. O quello, o il collo di Lavok.
“Ho scritto più di un libro sull’alchimia” disse infine, sulla difensiva. “In più ci sono tutti quelli su cui ho imparato io. Non è una conoscenza che rischia di morire.”
Perché diavolo mi sto giustificando adesso?!
“I libri non sono alla portata di tutti” sospirò Lavok.
“Nemmeno l’alchimia, se è per questo.”
I ribelli come lui la facevano sempre facile. Per la seconda volta in una manciata di giorni lo scienziato si ritrovò ad accarezzare il ricordo di una vita mai vissuta, una carriera universitaria, laboratori di ultima generazione, orde di allievi adoranti che pendevano dalle sue labbra.
Da qualche parte in un altro universo doveva pur esserci un Vexen che si stava godendo ciò che a lui era stato negato.
“Per insegnare occorrono allievi con un minimo di capacità” proseguì dopo un attimo. “Difficile, in un mondo in cui ti prendono a sassate se solo osi recitare la tavola periodica.” Sputò quelle ultime parole insieme a tutto il disprezzo di cui era capace.
Lavok sollevò i palmi delle mani in un gesto conciliante. Aveva ancora il pezzetto di rame stretto tra pollice e indice.
“D’accordo, d’accordo. Ho esagerato. Mi sono lasciato trasportare dall’entusiasmo. Ti chiedo scusa. È solo che…”
Il mago si sedette, passandosi una mano tra i capelli per riordinare i pensieri. Era strano quel contrasto nella sua figura, gli occhi scintillanti di un bambino curioso incorniciati dalle linee che anni e stanchezza gli avevano inciso sulle tempie e gli zigomi, tra i capelli striati di bianco.
Per Vexen, in qualche modo, era come guardarsi allo specchio.
“È solo che penso a tutto quello che mi hai mostrato nell’ultima ora e mi rendo conto che… ho avuto una fortuna enorme a incontrarti. Mi sento quasi sprecato a beneficiare di questa conoscenza. L’alchimia meriterebbe di essere studiata da un capo all’altro della Galassia.”
“Su questo almeno siamo d’accordo.”
Vexen aveva appoggiato la schiena al bordo del tavolo, incrociando le braccia.
“Mi dispiace, comunque. Per quello che mi dici del tuo mondo. Non sembra un posto molto amico del progresso.”
Il tono del mago sembrava sinceramente addolorato. Probabilmente lo era. Ribelli.
“Per usare un eufemismo.”
Aveva capito cosa lo aveva fatto montare su tutte le furie. Non era il moralismo di Lavok, e nemmeno il ricordo della sua giovinezza sul suo stupido pianeta. Poteva nascondersi dietro quegli alibi, certo. Prendersela con i preti, o con il volgo che non capiva il suo genio. Recriminare che il mondo non gli avesse dato nessuna possibilità di brillare.
La verità era che aveva avuto il Castello dell’Oblio.
Avrebbe potuto cambiare il suo destino in un battito di ciglia, nello spazio del gesto casuale e inconscio che serviva ad aprire un portale di tenebra.
Invece aveva scelto di trascorrere quegli anni rintanato nel laboratorio o viaggiando tra i mondi impalpabile come un fantasma, senza lasciare traccia, ingrassando di saperi e conoscenze che al momento di compiere le sue scelte si erano rivelati…
… assolutamente inutili.
Con la scusa di riordinare i gessetti e le matite sul tavolo voltò discretamente le spalle a Lavok. Sarebbe potuto scoppiare a ridere da un momento all’altro. O a piangere.
Non ne aveva idea nemmeno lui.
Era quello il motivo per cui negli anni si era attaccato a Zexion, e poi a Camus? Loro erano, in piccolo, il pubblico adorante di cui il Vexen di un altro universo riceveva ogni giorno gli applausi?
Il sibilo della porta automatica che si apriva lo salvò dall’imbarazzo di quel silenzio lunghissimo.
Freki e Valygar erano tornati dal giro di approvvigionamento.
“Scusate, ci abbiamo messo una vita. Ma non potevamo non concordare il piano con il principe Xizor.”
Freki non si fece nessunissimo problema a posargli un rapido bacio sulle labbra mentre gli consegnava un voluminoso involto di plastica trasparente, che le sue braccia accettarono automaticamente. Se i Corthala ne rimasero stupiti, furono molto bravi a non darlo a vedere.
“I vestiti per il casinò. Giuro che sono molto più discreti di quelli della scorsa volta.”
Vexen annuì senza convinzione, ma la trattenne delicatamente per il braccio quando lei stava per allontanarsi. Il ricordo della notte trascorsa insieme sembrava risalire a secoli prima. Qualsiasi sollievo vi avesse ricavato si era dissolto come una bolla di sapone.
“Tutto bene?” domandò lei a voce più bassa. Adesso lo scrutava con una certa apprensione, e Vexen si chiese in che stato pietoso dovesse essere la sua faccia. Alle sue spalle, i Corthala erano impegnati a scartare le confezioni di plastica che contenevano i loro abiti per la missione.
“Non il mio momento migliore” ammise, e sotto l’involto di plastica sentì le mani di lei muoversi per stringere delicatamente le sue.
“Se ne hai bisogno, io ci sono.”
Vexen si concesse ancora un attimo per assaporare quel contatto, come una pianta che cerca di trarre attraverso le radici il massimo nutrimento possibile. Poi la lasciò andare e si schiarì un paio di volte la voce.
Basta crogiolarsi nell’autocommiserazione.
“Dunque” disse rivolto a tutti e a nessuno in particolare. “Prima di iniziare sarebbe il caso di fare un breve riepilogo degli obiettivi e delle informazioni in nostro possesso.”
 
  
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