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Autore: Adeia Di Elferas    23/06/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Sicuro che qui non ci disturberà nessuno?” chiese Bianca, dandosi ancora un'occhiata alle spalle, per accertarsi che non ci fossero occhi indiscreti nelle vicinanze.

Troilo scosse il capo e, sistemando due sgabelli, uno accanto all'altro, ribadì: “Questa vecchia stalla non è in uso. E comunque ho detto alle due guardie di non far avvicinare nessuno.”

La Riario annuì e si sedette, mentre il marito cominciava a estrarre dalla bisaccia il pranzo al sacco che si era fatto preparare nelle cucine quella mattina all'alba. Si trattava di poche cose semplici, ma saporite e nutrienti: formaggio stagionato, salame e pane.

“Comunque non credo che alla gente di qui spiacerebbe, vederti mangiare così, in semplicità...” si premurò di dire lui, porgendo alla moglie il formaggio, mentre lei si massaggiava il ventre gonfio e sospirava.

“Lo so, ma non mi conoscono e per il momento non voglio dare impressioni strane...” spiegò lei, accigliandosi: “Altrimenti questa mattina avrei fatto il giro della rocca da sola, senza pretendere che tu mi seguissi come un'ombra...”

In effetti la giovane aveva ragionato molto su come muoversi. Dapprima aveva avuto la tentazione di lasciare il De Rossi ai suoi impegni, prendere un paio di soldati e farsi scortare da loro in giro per San Secondo, ma poi aveva temuto che quell'atteggiamento potesse essere frainteso. Qualcuno avrebbe potuto additarla come donna troppo libera, come la straniera che, appena arrivata, già si comportava da padrona senza nemmeno avere accanto il marito, o, ancor peggio, avrebbero potuto paragonarla alla Tigre di Forlì, rivedendo in lei la donna guerriera che era sua madre e, per questo, considerarla un pericolo per la pace e la tranquillità dello Stato.

Così aveva convinto Troilo a seguirla – e lui ne era stato ben lieto – ma anche in questo caso aveva cercato di non mostrarsi troppo dipendente o sottomessa a lui, facendo in modo che chi li incontrava per strada si rendesse conto che nel dialogo tra lei e il marito c'era parità e non subordinazione.

Infine aveva fatto del suo meglio per non apparire né troppo campagnola e spiccia, né troppo schizzinosa e complicata.

Per farla breve, era arrivata al mezzogiorno stremata, affamata e con la testa preda dei dubbi più disparati.

“Allora, che ne dici di questa rocca?” chiese il De Rossi, pulendosi la bocca col dorso della mano.

Bianca, accaldata, ma suo agio nell'ombra di quella stalla dismessa, fece un'espressione pensosa e poi rispose: “Ci sono tante cose da sistemare: dovremo investire molto.”

“Non abbiamo molti soldi...” si schermì lui, che pure era conscio di quanto fosse importante ristrutturare la rocca, sia come strumento di difesa, sia come simbolo del loro potere.

“Dovremo trovarli.” fece lei di rimando, con il pensiero che già correva al cugino, il Cardinale Raffaele Sansoni Riario che, negli anni, non si era mai negato, quando uno dei suoi fratelli aveva avuto bisogno di denaro.

“Al momento non saprei a chi chiedere un prestito sufficiente... Senza contare che i prestiti, anche se arrivano da un amico, vanno saldati, prima o poi.” rimarcò, amaro, Troilo.

La moglie, dopo aver masticato per un po' il suo formaggio ed essersi asciugata la fronte imperlata di sudore sia per il gran caldo, sia per la stanchezza, ribatté: “Quelli degli amici, sì. Quelli di certi parenti, non necessariamente...”

Parlò brevemente di Raffaele e di come, ormai da anni, provvedesse a Cesare e, in parte, anche a Ottaviano. Ora che aveva dovuto lasciare Roma, forse, sarebbe stato più difficile per lui venire incontro alla richiesta di denaro, ma appena fosse riuscito a rientrare in città senza pericolo, sarebbe stato lieto di aiutarli.

La Riario spiegò, senza entrare troppo nei dettagli, di come quel loro cugino si sentisse intimamente debitore della loro madre dal momento che – forse non del tutto coscientemente – lui era stato tra quelli che avevano armato e finanziato la congiura contro Giacomo Feo.

“Alla fin fine sembra che quasi tutta la storia della tua famiglia ruoti intorno a questo Giacomo Feo e alla sua morte...” commentò, soprappensiero, il De Rossi.

Bianca, che non ne parlava mai volentieri, si accigliò e, guardando un punto indefinito del vuoto, rispose: “La sua presenza, così come la sua successiva assenza, hanno avuto un grosso peso nella mia famiglia, è vero.”

L'uomo restò in attesa qualche istante, poi, capendo che la Riario non avrebbe aggiunto altro, si schiarì la voce e chiese: “Allora, quali sono, a parer tuo, i lavori più urgenti per rimettere in piedi questa rocca malconcia?”

Felice di poter cambiare in fretta discorso, Bianca riassunse in breve quanto aveva constatato quella mattina, facendo ben presente che non aveva ancora visionato interamente la fortificazione, e poi si perse a stilare una lista puntuale di tutte le migliorie in assoluto più urgenti e necessarie per trasformare quell'ammasso di pietre e travi di legno in una rocca funzionante ed efficiente.

Il De Rossi l'ascoltava rapito, annuendo di tanto in tanto e chiedendosi come mai quel paio di ingegneri militari che aveva consultato qualche mese addietro non avessero detto nemmeno la metà delle cose che stava elencando sua moglie.

“E per il resto – concluse lei, finendo anche di mangiare – bisognerà capire come intendi impostare la guarnigione di difesa, per capire bene dove posizionare la santabarbara e le armerie.”

Troilo fece un sorriso soddisfatto e, alzando una mano, ribatté: “La guarnigione difensiva imposteremo come mi dirai tu... Mi sembra che tu ne sappia mille volte più di me. Oltre che un'ottima barbitonsitrice sei anche una grande esperta di edilizia militare... Inizio a sentirmi un po' intimidito.”

Anche la Riario sorrise, ma si schermì: “Ho solo imparato qualcosa vivendo a Ravaldino... Ho visto coi miei occhi ristrutturare quella rocca e ho appreso qualche nozione qua e là...”

L'uomo scosse il capo: “Non fare la modesta... So bene che non sei una donna comune...”

La giovane sospirò, felice del complimento fatto dal marito, ma poi si fece di nuovo seria e aggiunse, la mente ancora alle migliorie da fare alla rocca: “Credo che sarebbe opportuno aumentare il numero degli stanzini di servizio, e migliorare quelli che già ci sono...”

Troilo trovò la richiesta un po' stravagante, tanto che commentò: “Se lo ritieni necessario, lo faremo, anche se i soldati, di solito, si accontentano di farla in un secchio o nei prati, fuori dalla rocca...”

“No, è importante che i soldati sappiano dove scaricarsi e possano farlo in pace e senza lasciare sporco in giro...” insistette Bianca: “Così come i servi: dovranno usare anche loro le ritirate e limitare l'uso dei vasi e dei secchi. Specie d'estate, possono solo portare malattie e disagi...”

Il De Rossi finalmente stava comprendendo che il discorso della moglie andava ben oltre una questione di decoro o educazione, ma riguardava un aspetto estremamente pratico della vita quotidiana di una rocca militare, perciò si affrettò a darle ragione.

Trovandolo un po' più cedevole, la giovane rincarò la dose: “Dovremo aggiungere anche delle sale per il bagno... L'esercito deve essere pulito.”

Questa volta l'emiliano non trattenne una breve risata, prima di controbattere: “Buona fortuna, su quello... Gli uomini di qui non sono come i soldati di tua madre... Lei ordinava loro di lavarsi e loro si lavavano, ma questi non sono altrettanto malleabili.”

“Tu fai costruire le stanze da bagno – lo zittì lei, perentoria – e a convincerli ci penserò io.”

Per un istante, il marito vide nella Riario l'ombra ingombrante della Tigre di Forlì. Tuttavia, subito dopo, Bianca allungò una mano verso di lui, fino a sfiorargli la guancia su cui stava ricrescendo la barba biondiccia, e quello che disse, il modo, soprattutto, in cui lo disse, bastò per allontanare quella similitudine che da un lato avrebbe potuto essere anche lusinghiera, ma dall'altro implicava troppe cose negative.

“Spero di essere più brava come ingegnere militare – scherzò la donna, con una risata allegra e leggera, degna della sua età – che come barbiere... Ti ho rasato solo stamattina, ma sei già ispido come un riccio...”

Ridendo a sua volta, Troilo si convinse ancora di più: al suo fianco non c'era solo una piccola Tigre pronta a mostrare artigli e zanne, ma anche e soprattutto una delicata rosa d'oro, come quella che campeggiava nello stemma dei Riario.

 

“A cosa stai pensando?” chiese Fortunati, arrivando accanto a Caterina.

La donna, seduta su uno sgabello a tre piedi trafugato dalle cucine, stava osservando Galeazzo spiegare a un attento Bernardino e a un attentissimo Giovannino alcune regole basilari del tirar di spada.

La giornata era soleggiata, ma non particolarmente, quasi che quell'agosto appena iniziato volesse dimostrarsi un pochino più mite e lineare del tempestoso luglio, che aveva alternato grandine e caldo torrido a intervalli serrati. Quando i figli le avevano proposto di presenziare a quella sorta di lezione, la donna non si era tirata indietro, benché si sentisse più stanca di quanto non avrebbe dovuto.

Il Riario stava mostrando una postura difensiva molto semplice, ma anche molto efficace e se il Feo riusciva a replicarla quasi identica, il Medici, coi suoi cinque anni passati da poco dimostrava una coordinazione e una capacità di imitazione sorprendenti.

“Stavo pensando che dovrei comunque trovare un maestro d'armi per Giovannino...” sospirò la Tigre.

“Faresti meglio a cercargli anche un precettore per le lettere e la matematica...” la redarguì bonariamente Francesco, le braccia incrociate sul petto e lo sguardo rivolto ai ragazzi: “La spada è importante, ma credo converrai con me che un uomo bravo a uccidere, ma incapace di scrivere il proprio nome, non sia un uomo completo...”

“E tu, che sei scrivere molto più del tuo nome, ma non hai mai preso in mano una spada?” chiese la Sforza, di rimando, con aggressività, ma frenandosi subito.

Il piovano, suo malgrado abituato ormai a non far troppo caso a quelle stoccate irose della sua donna, sollevò un sopracciglio e iniziò a dire: “Lo so che Giovannino ha bisogno di muoversi e giocare, dopo tutti quei mesi in convento...”

“Pregava e basta... E doveva starsene vestito come una bambina...” borbottò la milanese, tenendo gli occhi verdi fissi sul figlio più piccolo che, ancora una volta, rischiava di risultare più abile di Bernardino nelle pose di scherma, malgrado gli otto anni di differenza.

“Ho capito, ma ha quasi sei anni e dovrà pur imparare a leggere, scrivere e far di conto, o crescerà come un piccolo selvaggio.” insistette Fortunati, che teneva molto a quell'aspetto dell'educazione di Giovannino.

Il suo timore principale era quello di vederlo crescere con poche regole e nessun freno, un po' com'era successo a Bernardino che ora, sulla soglia dei tredici anni, faticava a leggere due frasi di fila, ma sapeva benissimo come sfuggire da una punizione dopo aver combinato qualche disastro.

“Ha un carattere particolare... Se non lo incanali come si deve...” stava riprendendo l'uomo, ma la voce di Creobola coprì la sua e l'attenzione di Caterina andò tutta alla serva che stava arrivando nel cortile interno con in mano una missiva.

“Mia signora – le disse, con tono sostenuto – da parte del vostro figlioccio. Il suo messaggero è stato così impudente da chiedere che gli donassimo una dozzina di uova, per il suo padrone, ma...”

“Se ce ne sono, dagliene anche di più.” fece la Leonessa, prendendo la missiva: “Le galline che le hanno fatte, in fondo, me le ha regalate Scipione... Le uova, in parte, sono anche sue...”

Creobola annuì, poco convinta e, borbottando tra sé come a volte faceva, tornò sui suoi passi per eseguire l'ordine.

Alla Sforza non spiaceva affatto l'idea di depauperare la propria dispensa di qualche uovo per venire incontro a una richiesta di Scipione, tuttavia proprio quella richiesta era per lei un campanello d'allarme. Come mai il Riario domandava a lei del cibo? Stava succedendo qualcosa a Firenze? Stava diventando difficile trovare cose come le uova nei mercati?

“In città, che tu sappia, c'è qualche problema nuovo..?” chiese la donna, rivolgendosi al piovano.

Mentre l'uomo scuoteva il capo e Galeazzo continuava a impartire qualche lezione spicciola ai suoi fratelli, la milanese si mise a leggere il resoconto di Scipione.

Le scriveva che a Firenze s'era saputo della morte di Giovanni Borja, Cardinale e Arcivescovo e, benché sembrasse che a Roma nessuno avesse dubbi sulle cause più che naturali della sua dipartita, a Firenze non tutti erano così benpensanti.

Dopodiché le faceva presente che un contingente di soldati francesi si trovava in quei giorni a Pescia e che un'altra falange, composta di francesi, mantovani e ferraresi, si erano stanziati temporaneamente a San Donnino. Entrambi questi squadroni sembravano diretti al sud, per dare manforte alle altre truppe di re Luigi contro gli spagnoli, anche se, in città, qualcuno sosteneva fossero stati mandati lì per proteggere Firenze da una possibile imminente invasione da parte del Valentino.

Per quel motivo il subbuglio che si stava creando aveva portato a un rallentamento del commercio e lui per primo preferiva non spendere denari se gli era possibile chiedere un piccolo soccorso sotto forma di cibo alla sua 'adorata Madonna'.

Letto ciò, combattendo con il groviglio di paura e agitazione che le montava nell'animo, la donna lasciò all'istante il suo sgabello e, accennando una corsa, entrò nella villa, per intercettare Creobola.

La trovò ancora nelle cucine, a litigare con la cuoca, che non voleva cedere l'intera scorta di uova che teneva come un tesoro. L'arrivo della Tigre, però, zittì entrambe le donne.

“Non solo le uova...” fece Caterina, guardandosi in giro, pensosa: “Date al servo del mio figlioccio anche mezzo sacco di farina, se possiamo permettercelo...”

“Possiamo permetterci di dargliene un quarto.” ribatté la cuoca, paonazza e quasi in lacrime, già disperata all'idea di dover cucinare per non meno di una quindicina di persone – non volendo contare la maggior parte dei servi e il piccolo Pier Maria, che in caso estremo poteva ancora contare sul latte della balia – con gli ingredienti bastanti per meno della metà.

“E poi donategli anche un pollo, so che in dispensa ne abbiamo almeno due... E anche il pezzo di lardo che tenevamo da parte...” riprese la Tigre.

“Ma quello lo volevamo tagliare sottile sottile, da cucinare con uova e formaggio, per fare una sorpresa a vostro figlio per il suo compleanno!” fece presente la cuoca, ancora più frastornata.

La milanese si ricordò del compleanno di Sforzino, che sarebbe stato tra meno di due settimane e si rese conto di non poter negare quella gioia al suo figlio più famelico: “Va bene, ma almeno dategli quel fondo di prosciutto che teniamo in dispensa... Tanto non credo che avremo a breve ospiti illustri a cui offrirlo. E anche due fiaschi di vino buono. Per una volta, ci arrangeremo con la birra e con il poco vino che ci resterà...”

La cuoca, dopo aver lanciato una strana occhiata a Creobola, quasi fosse più lei di Caterina a poter avere l'ultima parola sull'economia della casa, sospirò ed esclamò: “Come Madonna comanda!” e si affrettò a fare un pacco con quello che era stato prescelto dalla sua padrona.

La Tigre, per essere certa che nessuna delle due donne presenti lesinasse sui doni da lei scelti, restò in cucina finché non ebbero finito di preparare tutto quanto. Gli anni passati come Contessa di Forlì le aveva insegnato come null'altro a controllare sempre in prima persona quello che facevano i suoi sottoposti, per quanto potesse fidarsi di loro.

Sicura che tutto fosse stato fatto come lei aveva comandato, la Leonessa si prese un minuto per scrivere due righe a Scipione, prima di consegnare il cibo, unitamente alla sua breve, al messaggero.

Dopodiché, prima di tornare nel cortile interno della villa, per riprendere la sua attività di spettatrice della lezione di scherma gestita autonomamente dai suoi figli, decise di ritagliarsi ancora un attimo, per rileggere il messaggi di Scipione e riordinare le idee.

 

Frate Lauro aveva intravisto un discreto subbuglio risalire dalle cucine, ma, quando si era accorto che a comandare la confusione era la Tigre, aveva deciso di non intromettersi. Aveva intuito che si trattasse di un qualcosa che avesse a che fare con del cibo da donare a Scipione Riario e tanto gli bastava sapere.

Aveva finito da poco di analizzare un testo latino con Sforzino e voleva svagarsi un po'. Era anziano, e i suoi occhi, dopo una lettura tanto intensa, gli davano qualche noia. Il giovane Riario, invece, forte dei suoi sedici anni – li avrebbe compiuti meno di due settimane dopo – e del sacro fuoco della curiositas, aveva voluto restare in biblioteca per approfondire da solo alcune sfumature del pezzo da poco studiato.

Volendo prendere un po' d'aria, l'uomo fu per un attimo indeciso se uscire dal portone principale o cercare un po' d'ombra nel cortile interno. Vinse questa seconda idea.

Non era ancora fuori, che già sentì le voci di Galeazzo e Bernardino, il primo che impartiva ordini e il secondo che elencava recriminazioni, forse per la difficoltà degli esercizi richiesti. Bossi stava per desistere, non avendo gran voglia di vedere dei ragazzini tirar di spada o menar le mani, ma poi sentì una frase che lo incuriosì a sufficienza da convincerlo a uscire.

“Giovannino ha meno della metà dei tuoi anni e ci riesce!” aveva esclamato il Riario, senza tono di dileggio, ma, più che altro, per spronare il fratello.

“Giovannino non ha passato tutto ieri a fare esercizio per le spalle con te!” ribatté il Feo: “Se l'avesse fatto, oggi non sarebbe così baldanzoso!”

“Non litigate!” si aggiunse la voce, calma, ma ferma, di Fortunati.

Quando arrivò nel cortile, frate Lauro si trovò dinnanzi una scena molto particolare, ma che, per molti versi, gli scaldò il cuore. Nel centro, sotto il sole fermo d'agosto, c'erano tre delle migliori espressioni della Leonessa di Romagna: Galeazzo, suo figlio prediletto ed erede designato, forte e prestante, incarnazione della virtù guerriera della madre, Bernardino, bellissimo e sveglio come un grillo, con lo sguardo acceso di passione e furore, emblema di quell'amore feroce e tumultuoso che aveva unito la Sforza al defunto Barone Feo, e infine Giovannino, tenero virgulto ancora in divenire, delicato e dolce quanto coriaceo e robusto, un'unione perfetta tra ciò che era stato il padre e ciò che era stata e che in parte ancora era la madre.

Tutti e tre i ragazzi stavano eseguendo – con alterne riuscite – degli esercizi di postura difensiva e Fortunati, all'ombra, li osservava paziente, con espressione attenta.

Quando si accorse di Bossi, Francesco lo salutò con un cenno del capo e chiese: “Tutto bene?”

“Ho appena lasciato messer Sforzino ai suoi libri...” sorrise il frate, mettendosi accanto al piovano e puntando lo sguardo a sua volta sui tre aspiranti guerrieri: “Studia troppo perfino per me...”

Il fiorentino non rispose, facendo appena un cenno, e così fu il milanese a pungolarlo, dopo un po', chiedendogli come mai la Tigre non fosse lì a correggere gli errori dei figli e insegnare loro qualche trucco del mestiere.

“Poco fa è arrivata una lettera di Scipione Riario – spiegò allora Fortunati – doveva preparare non so più cosa da fargli avere...”

“Ah, giusto... L'ho intravista in cucina.” annuì frate Lauro, allargando appena il sorriso: “Certo che Madonna è molto generosa, con il suo figlioccio...”

“Per lei è davvero come un figlio.” fece presente l'altro.

“Lo so, lo so...” annuì Bossi, con sincerità: “Ma alcuni dei servi non pensano esattamente lo stesso, e c'è da sperare che questa convinzione non oltrepassi i confini di questa villa, se non vogliamo che si torni a parlare della fame sproporzionata della Tigre di Forlì...”

Come se fosse stato punto da un calabrone, Francesco sussultò: “Che intendete dire?” chiese, benché avesse compreso benissimo.

“La conoscete meglio di me, probabilmente e avete avuto modo di viverle accanto anche in Romagna, quindi saprete meglio di me che ogni uomo che le gravita attorno potrebbe essere oggetto di pettegolezzo...” disse a voce bassa frate Lauro, mentre Galeazzo dava ordine ai suoi fratelli di provare una nuova posizione di contrattacco: “Per fortuna la gente esclude a priori sia ma, che sono troppo vecchio e brutto anche per una belva famelica come Madonna, e il De Marzi, che ha fatto di tutto per far capire a chiunque che lui di cedere a eventuali lusinghe della Leonessa proprio non ci pensa...”

“E io..?” chiese allora il piovano, con un velo di ansia, ma cercando di dissimulare il più possibile con un sorriso innocente.

Bossi rise di gusto e poi, posando con fare paterno una mano sulla spalla del fiorentino, rispose, senza filtri: “Voi avreste anche l'età giusta, essendo quasi coetaneo di Madonna, anche se lei ha sempre preferito la carne fresca... E siete anche un uomo avvenente, benché non vi diate peso... Ma tutti quanti vi conoscono come un uomo che rasenta la santità... Credo che vi considerino davvero una sorta di santo, un uomo di fede, così legato ai suoi voti da non aver mai toccato una donna nemmeno per sbaglio... Nemmeno fosse per darle l'unzione degli infermi!”

Fortunati si sentì avvampare e poi, spostandosi di scatto, disse solo: “Fa un caldo infernale oggi, non trovate?” e detto ciò cercò la porta e tornò al riparo, nella villa.

Dopo un paio di minuti appena, arrivò la Sforza e, vedendo che al posto del piovano c'era il frate, si accigliò e chiese: “Va tutti bene?”

“A quanto pare – rispose Bossi, ancora perplesso per il comportamento di Fortunati – ai santi il caldo dà molto fastidio...”

Caterina non comprese appieno quel commento, ma pensò che fosse meglio non indagare oltre. Si riprese il suo sgabello e tornò a guardare i suoi figli addestrarsi.

“Avete un piccolo esercito molto promettente.” le disse il milanese, prima di rientrare a sua volta in villa: “Come disse la madre dei Gracchi: haec ornamenta mea!”

La Sforza non disse nulla, quasi non avesse sentito quell'ultima citazione. Tuttavia, rimasta sola con tre dei suoi sette figli superstiti – spesso, troppo spesso dimenticava il povero Livio e, quando se ne rendeva conto, ne soffriva immensamente – si mise a ragionare sulle parole del frate.

Osservò a lungo Giovannino, frutto del suo ultimo matrimonio. Era stato un bambino desiderato e amato fin dal primo momento. Era stato sfortunato, restando prestissimo orfano di padre e dovendo poi vivere tra vicissitudini avverse per anni, ma ora era con lei e stava bene. Era intelligente, fiero e affettuoso, anche se a volte mostrava qualche spigolatura. La Tigre sperava di poterne fare un uomo di valore, com'era stato il padre Giovanni.

Dopodiché si soffermò su Bernardino, che aveva appena spintonato Galeazzo per ripicca dopo essere stato buttato in terra in seguito a un esercizio che non gli era riuscito. Il giovane Feo era bello e, con un po' di applicazione, sarebbe diventato un ragazzo svelto e capace. L'aveva trascurato, da piccolo, e non riusciva ancora adesso a occuparsi di lui come avrebbe dovuto e voluto, però rivedeva in lui la sua stessa furia, a volte, e proprio per quello sapeva che una buona cosa era lasciarlo il più possibile libero. Guardandolo mentre sorrideva orgoglioso per essere riuscito ad avere la meglio sul fratello maggiore, Caterina si trovò anche a chiedersi anche se Bernardino non avesse preso da lei anche in certe altre cose, oltre che sull'irruenza del carattere. Se Giacomo a diciassette anni era ancora un ragazzino ingenuo e lei era stata per lui la prima donna in assoluto, Bernardino a tredici anni non ancora compiuti era probabilmente già molto più esperto in quel campo. Per capire, però, se le donne sarebbero state o meno un problema, ci sarebbe stato tempo. Al momento, anche a sentire Scipione, non mostrava tratti eccessivi, come invece aveva fatto fin da subito Ottaviano, e dunque la Leonessa voleva ritenersi tranquilla.

Infine puntò gli occhi su Galeazzo che, rispetto al Feo, era decisamente meno disinvolto, in fatto di donne. Era un giovane avvenente ed educato. La Sforza era fiera dell'uomo che stava diventando e sempre di più era convinta che fosse lui il suo erede migliore. Con il suo carattere e la sua devozione filiale le aveva fatto quasi dimenticare quanto avesse odiato anche lui, alla nascita, solo per essere figlio anche di Girolamo Riario. Gli aveva dato il nome di suo padre, il Duca Galeazzo Maria Sforza, proprio nella speranza di smarcarlo presto da quell'infausto lignaggio, e forse in parte c'era riuscita. Se poteva avere una speranza di riscatto, morale e sociale, era Galeazzo il figlio che avrebbe potuto offrirgliela.

“Haec ornamenta mea...” sussurrò tra sé, riprendendo le parole di frate Lauro e, una volta tanto, sentì davvero che i suoi figli erano i suoi gioielli più preziosi.

Anche Sforzino, che verosimilmente stava ancora studiando in biblioteca, era un gioiello. Non lo capiva appieno, era molto diverso da lei e troppo chiuso per lasciarsi conoscere davvero, ma era un ragazzo diligente e studioso, con davanti a sé – fortuna permettendo – un futuro a sua misura, bello nel modo in cui lui l'avrebbe considerato tale.

Bianca, poi, era per Caterina un'immensa fonte di gioia. La sua unica figlia, autonoma, forte e capace, che era riuscita a far vivere libera, per quanto in suo potere, e che aveva potuto sposarsi per amore. Ogni sua lettera era per lei una manna e sentirla ancora convinta e felice della scelta fatta nell'unirsi al De Rossi la rendeva a sua volta convinta e felice di averglielo lasciato scegliere. Anche se ora erano lontane, sapeva che su di lei avrebbe potuto contare sempre.

Cesare era un diamante grezzo, per lei. L'aveva odiato tantissimo, e preferiva averlo distante, com'era ora. Malgrado ciò, era convinta che anche lui fosse per lei un qualcosa da sfoggiare. Anche se non andavano d'accordo, anche se lui l'aveva ferita, anche se non si sarebbero mai capiti appieno su tante, troppe cose... Cesare era un uomo di Chiesa rispettato, senza vizi, ai limiti dell'austerità e la Leonessa era felice, in cuor suo, che di lui si potesse dire così. Aveva abbracciato una vita che lei non condivideva, ma la stava vivendo in modo corretto e coerente.

Restava Ottaviano... Il primogenito che lei non aveva mai accettato e che l'aveva odiata in misura eguale a quanto lei l'aveva ignorato nei primi anni. Con lui aveva fallito, lo sapeva benissimo, e non avrebbe mai trovato un modo concreto per riparare a quel suo fallimento. Tuttavia, quel giorno, voleva considerare anche lui un gioiello, uno di quelli che si finisce a odiare per il male che si è subito per poterlo ottenere. Ottaviano, per lei, doveva essere una sorta di monito vivente, il ricordo sempre vivo di come ogni azione e ogni comportamento aveva delle conseguenze. Era stata per lui una pessima madre e lui l'aveva ripagata essendo un pessimo figlio: questo era l'insegnamento che doveva trarre da lui.

La donna stava ancora ripensando al viso lungo e al profilo del suo primogenito, così simili a quelli di Girolamo Riario, quando vide Giovannino correrle incontro, felice, ma stremato.

“Per oggi basta così...” disse Galeazzo, dando una pacca sulla spalla a Bernardino.

Caterina aveva appena accolto tra le sue braccia il piccolo Medici e, sentendolo sudato come non mai, diede un'occhiata critica anche agli altri due figli e sentenziò: “Direi che è il caso che vi facciate un bel bagno tutti e tre...”

Giovannino, che stava dimostrando una certa propensione ad assecondare le abitudini igieniche imposte dalla madre, fece un'esclamazione di gioia, mentre Galeazzo annuì, asciugandosi la fronte con il braccio e dandole ragione. Solo Bernardino si permise di sbuffare e buttare gli occhi al cielo.

La Sforza finse di non vederlo e ribadì a tutti e tre di andare a prepararsi per il bagno, mentre lei sarebbe andata dalla servitù a darne disposizione.

“Sai cosa? Io credo che noi da soli – fece il Feo, rivolto al Riario, mentre si allontanavano dalla madre – facciamo in un anno più bagni di quanti ne facciano tutti i toscani messi assieme...”

Galeazzo, che era di buon umore per via dell'esercizio fisico, fece un sorriso e ribatté: “Dovresti essere contento di quest'abitudine... Me l'hai detto tu, no, che le donne apprezzano un uomo pulito...”

Bernardino strinse le labbra e poi, vedendo che Giovannino li guardava interrogativo, cambiò discorso: “Domani ci insegni qualcosa in più sui colpi di lancia?”

Il maggiore annuì e poi, accennando al piccolo Medici, aggiunse: “Ma prima devo insegnare a nostro fratello un po' di teoria, o tirerà di spada prima di sapere la differenza tra un pomolo e una coccia...”

 

Bologna in quell'agosto era una specie di padellone incandescente, in cui si rimescolavano turbolenti i brusii della gente, le loro invidie e le loro avidità. Ottaviano stava odiando quel suo soggiorno, che si protendeva sempre di più, senza dare alcun frutto. Aveva trovato Piacenza più alla sua portata, ma gli era stato consigliato di spostarsi più vicino ai Bentivoglio che, comunque, essendosi imparentati con gli Sforza con il matrimonio tra Alessandro e Ippolita, gli erano amici e così aveva fatto.

Trovava la sua missione diplomatica inutile, quindi gli sarebbe dispiaciuto il doppio, se avesse rischiato la vita nel compierla.

Sua madre l'aveva spedito lì, lo sapeva benissimo, innanzitutto per toglierselo di torno, anche se, ufficialmente, il suo compito sarebbe stato quello di conoscere gente e sondare il terreno e far guadagnare alla Tigre di Forlì il maggior numero di sostenitori e alleati possibile, al fine di mettere a punto una sua restaurazione in Romagna. Come potessero i signori dell'Emilia volere il ritorno di una donna come Caterina Sforza in una terra con loro confinante, però, per il Riario restava un grande mistero.

Si era fatto invitare in tutte le corti che l'avevano accettato – molto poche – ma ogni volta che riusciva a introdursi un minimo in un discorso, si trovava senza argomenti. Si rendeva conto, dalle parole degli altri, di quanto poco fosse informato riguardo le cose che veramente importavano e, ancor di più, quanto poco capisse i fini giochi politici che si stavano consumando in quelle frenetiche settimane.

Alla fine di ogni giornata, si trovava più frustrato e insicuro di prima. Avrebbe voluto poter scrivere a sua madre per dirle che, finalmente, le aveva procurato un grande sostenitore o un munifico alleato, e invece ogni volta che il sole calava all'orizzonte, il Riario doveva ammettere con se stesso che un altro giorno se n'era andato senza dare alcun frutto.

Gli restavano solo la sera, in cui, con un po' di fortuna, avrebbe almeno scroccato una cena da qualcuno, e la notte che, spesso, veniva spesa in eccessi e vizi atti soprattutto a dimenticare il proprio fallimento diurno.

Il vino, il cibo e le donne erano l'unica cosa che lenisse un po' il suo dolore. La percezione della propria inutilità veniva in parte ridimensionata quando aveva un calice in mano, un cosciotto di pollo tra i denti e una meretrice nel letto. Tuttavia si trattava di diversivi dispendiosi e sua madre aveva da tempo diminuito il flusso di denaro a lui destinato. Aveva pensato di chiedere al cugino, il Cardinale Sansoni Riario, di inviargli qualcosa in più di quanto già non gli passasse regolarmente per la vecchia promessa fatta alla Tigre, ma poi aveva lasciato perdere.

Benché non fosse molto addentro alle vicende del gran mondo, anche Ottaviano capiva che Raffaele al momento non avrebbe potuto aiutarlo molto, essendo lontano da Roma per i suoi screzi con Alessandro VI.

Non poteva quindi far altro che restare a Bologna e allungare le orecchie, nella speranza di avere qualche notizia fresca da dare a sua madre e, di conseguenza, ottenere magari da lei qualche ricompensa pecuniaria in cambio. Non poteva sperare che i Bentivoglio continuassero ad accordargli crediti e a offrirgli cene e compagnia...

Peccato che quasi tutte le notizie su cui riusciva a mettere le mani fossero già notizia almeno di seconda o terza mano. Per esempio, il Riario quella mattina aveva sentito della morte dell'Arcivescovo Alessandro Carafa e di quella immediatamente successiva del Cardinale Giovanni Borja, ed era stato tentato di scriverne alla madre, ma l'ultima lettera di Fortunati – uno dei pochi che ancora si degnasse di fargli sapere qualcosa – gli aveva fatto capire che quelle notizie a Firenze e a Castello erano già arrivate da tempo.

Allacciandosi le mani dietro la schiena, il giovane iniziò a misurare ad ampi passi la sua stanza. Era piccola, ma molto confortevole, benché a suo modo di vedere non fosse affatto consona al suo rango. Fosse stato onesto con se stesso, avrebbe potuto dire che i signori di Bologna erano stati anche troppo magnanimi a trovargli quell'alloggio.

Lo sguardo in basso, il ventiquattrenne si rese conto che il calzare destro era prossimo a bucarsi per l'usura. Con un gesto di rabbia, scalciò l'aria e ripensò con rancore a tutte le volte in cui Giacomo Feo aveva speso i loro soldi per farsi confezionare abiti nuovi e lussuosi...

“Una lettera.” la voce del servo che i Bentivoglio avevano messo alle calcagna del Riario gli fece sollevare lo sguardo verso la porta.

Non era certo che quell'uomo fosse davvero solo un domestico. A suo avviso si trattava di un soldato sotto copertura. L'aveva messo alla prova più volte, infatti, e di rado egli era stato in grado di svolgere normali mansioni da servo, mentre sembrava molto forte e in forma fisicamente.

Il Riario aprì la porta e prese il messaggio, senza dire nulla. Fu il domestico a far presente che, se avesse avuto una risposta, sarebbe stato lieto di occuparsi in prima persona della spedizione.

Ottaviano fece una smorfia e si richiuse in stanza. Aprì la lettera con un gesto secco e si andò a sedere sul letto, quando si accorse che era firmata da sua sorella Bianca.

Gli diceva di essere arrivata il 28 luglio a San Secondo e gli raccontava in breve le grandi feste avute a Reggio e a Parma. Non ci sarebbe stato nulla di male, da parte di una sorella, nell'informare di quelle cose il fratello, ma quello dei Riario era un caso particolare.

Da troppo tempo non si vedevano né scrivevano, dunque quelle poche righe avevano per Ottaviano un significato molto esplicito: quelli erano i fatti, ora Bianca era una De Rossi, era stata a un soffio da lui e non gli aveva chiesto di vedersi nemmeno per un semplice saluto e dunque non voleva che l'andasse a trovare nella sua nuova casa per nessun motivo.

Anche se non c'era scritto nulla di tutto ciò, la lettera aveva proprio quel significato.

Per qualche lunghissimo istante, il Riario tenne il foglio teso davanti a sé e fissò la firma della sorella. Aveva già usato anche il nuovo cognome.

Ottaviano sentiva di non poter dire di conoscere Bianca a fondo. Da bambini erano stati abbastanza uniti, poi con l'adolescenza e con tutto quello che era successo loro, si erano allontanati. Malgrado ciò, l'uomo poteva ben dire che sua sorella tutto sembrava, da quella lettera, fuorché infelice del matrimonio contratto con Troilo De Rossi.

La versione più accreditata, tra i chiacchieroni di mezza Italia, circa la loro unione era che il re di Francia e il papa avevano di fatto costretto la Tigre di Forlì a cedere – anzi, tanti dicevano proprio a vendere – la propria figlia a questo condottiero che aveva militato per Luigi XII. Tra loro c'era una grande differenza d'età che andava in qualche modo ad avvalorare quell'ipotesi e, in più, nessuno immaginava un'altra motivazione per quel matrimonio, dato che i due non potevano certo essersi conosciuti prima... Tuttavia Ottaviano era sicuro di due cose: che sua sorella non sarebbe stata così felice, nel caso in cui fosse stata ceduta come merce di scambio a un vecchio, e che sua madre non avrebbe mai permesso una simile imposizione.

Quali che fossero, però, i reali contorni della cosa, gli sfuggivano e dunque al Riario restava solo un profondo senso di impotenza e frustrazione, che andava a sommarsi a quello che già provava per la propria incapacità di portare a casa qualche risultato tangibile in campo politico o diplomatico.

Mettendo da parte la lettera, indeciso se rispondervi in qualche modo o meno, il giovane andò alla brocca di vino che teneva sullo scrittoio. Curvo nelle spalle e dal fisico sfatto dagli stravizi, si versò da bere in modo generoso e si portò il calice alle labbra.

Aveva sentito dire che Bianca e suo marito avevano incontrato il Trivulzio. In effetti quella notizia collimava, come date, con la lettera della Riario...

Ottaviano chiuso un momento gli occhi. Si sentì sopraffatto dalla rabbia. Lui era il primogenito, non sua sorella. Sarebbe spettato a lui incontrare il Trivulzio. Avevano parlato di Imola e Forlì? Si erano messi d'accordo sulle prossime mosse per riportare la Leonessa in Romagna?

Un forte senso di nausea gli squassò lo stomaco e un dolore lancinante lo prese proprio in mezzo agli occhi. Era una sensazione che di recente aveva imparato a conoscere. Gli capitava quando la collera che provava da repressa si faceva palese, ed era esacerbato dal suo stile di vita disordinato, che lo portava a mangiare e bere in modo esagerato o carente a seconda dei casi...

Per incanalare in qualche modo la tensione e ridurre il dolore che provava, Ottaviano gettò il calice ancora pieno nel caminetto spento. Il fracasso del calice rotto e qualche schizzo di vino lo ridestarono in parte.

Non voleva passare la notte solo con se stesso. Aveva il terrore di quello che avrebbe visto, guardandosi nell'animo.

Si grattò il collo e guardò un'ultima volta la lettera della sorella. Imprecò a voce bassa e sentì una nuova ondata d'ira coglierlo. Non era rivolta, in questo caso, solo alla sua condizione, ma anche a Bianca e anche, come sempre, alla loro madre e, per estensione, a tutte le donne.

“Dove state andando?” il servo che gli faceva da guardiano apparve allarmato nel vederlo uscire dalla stanza quasi di corsa.

“Non sono affari tuoi!” sbottò il figlio della Sforza.

“Sì, invece!” ribatté l'altro, evitando di dire che era pagato dai Bentivoglio proprio per tenere d'occhio quel fastidioso ospite.

“Levati dai piedi!” gridò Ottaviano, cercando di spostare di peso il servo, che gli si era parato davanti.

Il Riario sarebbe stato più alto e con le spalle più larghe, ma il suo fisico provato da anni di stravizi poco poteva contro quello addestrato e muscoloso del suo rivale.

“Se volete uscire per cercare una donna, ci penso io.” disse quello, cercando di anticipare le mosse del suo sorvegliato speciale.

“Preferisco andare al bordello per conto mio.” si oppose Ottaviano, secco.

Il servo scosse il capo: “Dopo l'ultima volta, lo sapete che è meglio di no... Giovanni Bentivoglio vi ha chiesto cortesemente di non causare più problemi, finché sarete in città...”

Il Riario sporse in fuori il mento. Sapeva benissimo a cosa l'altro si riferiva e non andava fiero per aver causato una rissa – da cui si era subito sottratto – e aver scaricato la propria rabbia su una ragazzina che lavorava da poco al lupanare, ma non capiva tutto quell'accanimento nei suoi confronti.

“Ve la cerco io, una donna che va bene...” ripeté il servo: “Una come serve a voi...”

“Nemmeno le meretrici che voglio, posso scegliermi...” borbottò Ottaviano, ma, ormai vinto, tornò sui suoi passi: “Ma che questa volta non sia una vecchia come la volta scorsa...”

Il servo chinò il capo, ossequioso, e poi attese che il Riario tornasse in camera. Si fece sostituire come piantone da un altro uomo fidato e poi andò alla ricerca di quanto gli era stato richiesto.

“Finché non le pagherete di tasca vostra, messer Riario, e finché tutte avranno paura di voi e solo quelle più disperate accetteranno di starvi vicino– si mise a rimuginare l'uomo, mentre scendeva per la via – dovrete accontentarvi di quelle che vi trovo...”

E mentre infilava la strada che l'avrebbe portato nel posto giusto per ottemperare al suo compito, il servo buttò gli occhi al cielo e si chiese come potesse essere che un essere sgradevole e malevolo come Ottaviano Riario fosse il primogenito di una donna come Caterina Sforza che, pur con tutti i suoi eccessi, a suo avviso era stata una delle gemme più fulgide d'Italia.

 

   
 
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