Mi
piacerebbe poter dire che la mia storia comincia con la mia nascita,
ma sarebbe un tantino riduttivo, dal momento che, tutto sommato, ha
origine
oltre due secoli fa.
Le
radici della mia famiglia sono site nel profondo Sud Italia,
l’entroterra
siciliano, e i dati in mio possesso sono giunti a me con una tradizione
orale
gelosamente custodita. A volte celata così bene che molti
aneddoti restano
tuttora un mistero per me.
Questa
storia parla delle origini della mia famiglia, sono storie
rigorosamente vere, sebbene abbia oscurato alcuni dettagli e sono
presenti i
nomi di tante persone che potrebbero trarre in confusione. Spero di
essere
riuscita a non fare troppa confusione
Alla
fine del diciannovesimo secolo viveva una mia antenata, Maria,
donna nota per essere estremamente bella e capace. Rimase vedova in
giovane
età, con tre bambine piccole da crescere, Pia, Vincenza e
Giuseppina. Un individuo
del suo paesino, oltraggiato dopo aver subito un rifiuto da parte sua,
la seguì
mentre andava a prendere l’acqua al fiume, abusò
di lei e rimase impunito.
Quello
fu un fatto di tale entità da ripercuotersi tuttora sulla
vita
delle sue discendenti, tutte donne, che ricordano fatti del passato e
tentano
di utilizzare una chiave di quasi duecento anni per affrontare il
futuro.
Ciò
è dovuto al fatto che Maria, donna dell’epoca, non
aveva i mezzi e
la cultura necessaria a far fronte all’onta subita, crescendo
la prole
instillando loro sentimenti negativi, propositi di vendetta, pratiche
poco
cristiane.
Il
segreto più recondito della mia famiglia è
appunto la propensione
per le pratiche cristiano-pagane. Può sembrare
anacronistico, tuttavia nel
profondo sud vigeva fortissima l’influenza del paganesimo, la
famosa Magia
Lucana, mischiato a riti cattolici. Erano socialmente riconosciuti,
temuti, e
tutti credevano che veramente si potesse ricevere il malocchio, che uno
sguardo
cattivo potesse far ammalare, che uno sfregamento delle falangi potesse
guarire
un moribondo o che spargere sale ed erbe potesse recare buoni auspici.
La
discendenza di Maria crebbe in un clima oscurantista, timoroso di forze
maligne
e incline all’uso di metodi poco ortodossi per ottenere gli
obiettivi
desiderati.
Una
donna sola, vedova, analfabeta e tacciata di promiscuità suo
malgrado, a quel tempo non poteva pensare di guadagnare molto denaro,
inevitabilmente le bambine furono indirizzate ad una vita di sacrificio
quando
ancora non avevano compiuto dieci anni.
Pia,
la più grande, andò a lavorare in fabbrica,
Vincenza ad appena 6
anni, andò a fare la serva, mentre Giuseppina, la
più piccola, trovò vari
lavoretti finché, entro i vent’anni, furono tutte
sposate e con figli. Pia,
lavorando in una fabbrica tessile, aveva potuto permettersi
un’istruzione di
base, Vincenza invece aveva dato quel poco che poteva per mantenere gli
studi
di sua sorella Giuseppina.
I
rapporti tra le sorelle col tempo si incrinarono. Pia
risultò essere
una persona estremamente egoista e sadica. Vincenza invece, sebbene
restasse
umile nel proprio mestiere, celava un grande orgoglio e non accettava
di essere
pubblicamente svilita. Questo portò ad una scissione tra Pia
e Vincenza, che
non vollero più avere contatti spontanei, sebbene la smania
di Pia di impicciarsi
dei fatti altrui e ledere al prossimo, fece in modo che fino alla sua
morte,
causasse disagi a chiunque.
Il
marito di Giuseppina andò in America, a Boston, in cerca di
fortuna
e portò con sé moglie e figli. Vendendo i propri
campi di ulivi in Sicilia, si
garantirono un sostentamento iniziale, grazie al quale riuscirono a
ingranare
bene anche in un Paese totalmente differente da ciò a cui
erano abituati.
Pia
rimase fissa nel suo status sociale di madre, proletaria di
fabbrica e senza ambizioni se non quella di rendere difficile la vita
del
prossimo.
Vincenza
ebbe due figli da Piero, un uomo che faceva il contadino e
allevava muli, maiali, conigli e polli. Dal momento che era analfabeta,
di
cattiva famiglia e sola, venne spesso presa di mira dalla
società dell’epoca.
Ricordo che quando ero piccola, negli anni novanta, mi raccontava di
come per
prenderla in giro le dissero che per far crescere sani dei pulcini,
dovesse dar
loro pane e vino. Lei così fece e i pulcini, ubriachi, si
cavarono gli occhi gli
uni con gli altri. Lei si disperò ma non demorse:
allevò tutti i pulcini uno ad
uno, imboccandoli e riscaldandoli col proprio petto quando la madre li
rifiutò.
Crebbero e divennero tutti polli bellissimi, che tutti le invidiarono e
mi disse
anche che ancora riusciva a commuoversi e a piangere quando presero i
suoi
galli e li uccisero per la carne. Lei non riuscì a mangiarne
nemmeno un pezzo.
Vincenza
era degli anni dieci del novecento e, negli anni trenta
dell’entroterra siculo, solo le persone benestanti potevano
permettersi di
acquistare un immobile già costruito. Gli altri compravano
un lotto di terreno
e poi ci costruivano sopra di propria mano anche senza nessuna
conoscenza di
edilizia. Fu così che lei, senza l’aiuto di
nessuno, pietra dopo pietra,
costruì una casetta di circa cinquanta metri quadri.
Incredibilmente esiste
ancora oggi, dopo aver visto intemperie, terremoti e allagamenti.
Ovviamente
erano solo muri di pietra, malta e un pavimento di terra battuta, senza
acqua
corrente, elettricità o gas. Vincenza si rifece di questi
dettagli negli anni a
venire.
Ebbe
due figli, Silvia nel 1931 e Giovanni nel 1934. Giovanni non
conobbe mai sua sorella.
Vincenza
era appena rimasta incinta di lui quando Silvia compì due
anni
e il braciere posto al centro della stanza, rimedio usato in inverno
per
scaldare le case dei poveri, le si rovesciò addosso in
seguito ad una lite
accesa fra i genitori.
La
brace ardente si riversò interamente sulla bambina,
ustionandole
gravemente la parte inferiore del corpo. Vincenza agì prima
che poté,
bruciandosi le mani e cercando aiuto. Purtroppo, senza acqua a
disposizione, il
sollievo che diede alla bambina tardò ore intere. Non appena
possibile, la
portò dal medico, che non le diede niente se non il
consiglio di attendere che
guarisse da sola. L’uso degli antibiotici era comune
già in quegli anni, ma in
realtà non tutti potevano permetterseli e non sempre i
medici ne erano forniti
o, ancora peggio, non sempre i medici erano veramente medici.
Le
ferite si infettarono, a Silvia venne una febbre molto alta.
L’anziana sciamana del paese le disse di apporre la calce che
si utilizza in
muratura sulle ustioni. Vincenza si procurò della calce
bianca, la applicò alle
ferite della bambina, che urlò disperatamente dal dolore, e
in poche ore spirò.
Vincenza
all’epoca doveva ancora compiere vent’anni, ma
questo fatto la
turbò profondamente in un modo che non voglio nemmeno
immaginare, e che si è
portata dentro ogni giorno della sua lunga vita fino al suo letto di
morte.
Fortemente
traumatizzata dall’accaduto, scelse di non volere
più figli
dopo quello che portava in grembo, e nel 1934 partì col
figlio neonato,
lasciando il marito in Sicilia (causando un grande scandalo per
l’epoca) in
direzione dell’Inghilterra. Ripensando a lei, credo che
dovesse sentirsi
estremamente sola e afflitta. Aveva appena perso sua figlia, doveva
occuparsi a
tempo pieno di un neonato, non sapeva scrivere, non parlava altra
lingua se non
il dialetto stretto della sua provincia, era senza denaro, senza una
cartina né
una istruzione e si trovava su una nave diretta a Londra. Nonostante
tutto,
comunicando a gesti, tenendo la fame sotto controllo, riuscì
a raggiungere
l’Inghilterra.
Trovò
lavoro come donna delle pulizie presso uno studio medico e
lavorò
lì per diversi mesi. Vincenza cominciava a capire
l’inglese e a masticare
qualcosa di quella lingua germanica così lontana dalla
propria, quando giunse
una lettera presso lo studio medico. Vincenza era purtroppo ancora
analfabeta,
ma il medico rimase profondamente turbato dal contenuto della missiva e
licenziò Vincenza in tronco. Lei non seppe la ragione
finché non le giunse
all’orecchio la voce che sulla lettera denunciavano la sua
persona: che lei
fosse una prostituta, difatti sola, non sposata e con un bambino avuto
da un cliente.
Vincenza era mortificata.
Dopo
nemmeno un anno, scappò dall’Inghilterra e
tornò da suo marito in
Sicilia, dove riprese la vita di prima, sconsolata e afflitta.
Negli
anni a venire scoprì che a inviare quella lettera fu sua
sorella Pia,
invidiosa che Vincenza fosse tanto capace da poter affrontare il mondo
da sola
mentre lei non poteva nemmeno andare a prendere l’acqua al
pozzo senza chiedere
il permesso al marito. Vincenza litigò furibondamente con
sua sorella Pia per
l’affronto subito, ma purtroppo la situazione non poteva
più essere risolta.
Giovanni
crebbe come un signorotto di campagna, benvoluto, socialmente
ben integrato, di bell’aspetto. Quando ancora era un bambino,
conobbe Paola,
una scaltra bambina dagli occhi castani, i capelli rosso fuoco e una
pelle così
pallida da essere quasi traslucida e piena di efelidi.
Paola,
nata nel 1936 a Catania, era figlia di un tenente
dell’esercito
fascista. Piero, il marito di Vincenza, era stato chiamato alle armi
dall’esercito fascista negli anni quaranta, e guarda caso, il
Tenente era il
suo superiore.
Visto
che Piero era ancora molto giovane, il Tenente non se la sentiva
di mandarlo al fronte, quindi gli faceva fare più che altro
delle ronde del villaggio,
sebbene lui non avesse nessuna voglia di farle, e più che
altro alla fine
passeggiava e chiacchierava con i paesani.
Un
giorno arrivò l’allarme di attacco aereo e il
Tenente fece evacuare
il villaggio, ma i soldati non potevano abbandonare la postazione,
quindi il
Tenente chiese ai più giovani di andare a fare la guardia a
posti che secondo
lui sarebbero stati più sicuri. A Piero toccò
controllare il cimitero, ma lui
pensò bene che di morire per far la guardia ai morti, non ne
valeva la pena. Se
ne andò sulle colline con sua moglie Vincenza, con
l’obiettivo di tornare al
cimitero la mattina dopo alle prime luci dell’alba, fingendo
di essere sempre rimasto
là.
Dio
volle che durante la notte una bomba cadde proprio sul cimitero. Il
Tenente accorse e trovò quello che restava di tombe e
cadaveri in diversi stati
di putrefazione sparsi in giro. Diede per scontato che il cadavere di
Piero
dovesse trovarsi lì in mezzo a quei corpi, e si
sentì malissimo all’idea di
aver fatto uccidere il povero Piero, che nel frattempo se la dormiva
nella
grossa in tenda ben lontano da lì. Quando al mattino gli
dissero che il cimitero
era stato fatto saltare in aria e che l’avevano dato per
morto, decise di
darsela a gambe con la sua famiglia, per non rischiare di essere punito
per aver
disertato.
Fuggirono
lontano e dopo qualche anno, alla fine della guerra,
tornarono nel paesello per reclamare la casetta che avevano costruito.
Un
giorno, mentre Piero era al mercato per fare compere, si
scontrò per
sbaglio contro un passante. Fecero per azzuffarsi ma come si guardarono
in
faccia, il passante svenne: era il Tenente, convinto che Piero fosse
tornato
dagli inferi per vendicarsi della sua morte ingiusta. Piero
portò a casa il Tenente
e quando si riprese, si riabbracciarono come vecchi amici, increduli di
rivedersi dopo così tanti anni, sebbene in realtà
prima praticamente non si
sopportavano.
Il
Tenente era spesso via per lavoro e lasciava in paese la moglie
Francesca
e la figlia Paola. Vincenza, colta dall’istinto materno per
una figlia rubata
prematuramente, riversò molto amore su Paola.
Successivamente
i rapporti tra le due famiglie si fecero talmente
stretti che non riuscirono più a separarsi gli uni dagli
altri. Immagino che
chi non abbia visto e affrontato la guerra, difficilmente potrebbe
comprendere
la riconoscenza che il tenente provò per la famiglia di
Vincenza. Finché Paola
rimase bambina, Vincenza fu una figura materna di suprema importanza
per lei,
poiché purtroppo sua madre Francesca era una donna aspra e
anaffettiva.
Paola,
mia nonna, mi raccontò di come suo padre, il Tenente,
combatté
in tutta Europa e anche in Africa, di come negli ultimi anni della
guerra si
staccò dall’esercito fascista quando i nazisti gli
spararono alle gambe a
tradimento. Lui si finse morto, sotto ad una catasta di suoi
commilitoni
deceduti. Raccontò di come i nazisti rimasero in quel campo
per giorni e lui
sopravvisse bevendo l’acqua che colava dai cadaveri. Si
ammalò di colera e
strisciò fino ad un villaggio africano, dove
trovò assistenza e conobbe un
bambino orfano, con cui rimase fino alla sua totale guarigione.
Raccontava
sempre a mia nonna Paola di quanto avesse desiderato portare con
sé quel
bambino e di quanto lo amasse. Le ripeteva spesso che lei, in Africa,
aveva un
fratello. Avrei tanto voluto poterlo conoscere.
Il
Tenente, per quanto fosse un uomo battagliero, introverso e di
tempra micidiale, non fu mai violento con le sue figlie e sapeva cosa
fosse
l’amore.
La
nonna Paola mi raccontò un fatto che aveva segnato
l’infanzia di suo
padre: egli era figlio di un sociopatico, il quale appena
trovò un’amante,
avvelenò la propria moglie e i suoi cinque figli con lo
scopo di liberarsi
della sua prima famiglia per farsene una nuova. Sopravvissero solo sua
madre,
la quale si era attardata a mangiare perché doveva pulire la
cucina, e il
bisnonno, perché era un bambino capriccioso e si
rifiutò di mangiare il pasto
avvelenato offertogli dal padre, al quale diedero solo qualche anno di
galera,
con l’attenuante che un uomo avesse diritto di porre fine a
ciò che era di sua
proprietà: moglie e figli erano alla stregua di oggetti. Il
bisnonno vide
morire tutti i suoi fratelli e, dopo poco tempo, morì anche
sua madre,
probabilmente di dolore. Trovò accoglienza presso
l’esercito fascista.
Paola,
superata l’infanzia e la guerra, andò a studiare
presso il
convento delle monache, che la trattarono meschinamente e la crebbero
in un
clima oscurantista, causandole forti traumi che la condizionarono per
il resto
della sua vita. Mi raccontava spesso che, quando commetteva uno
sbaglio, la chiudevano
in una cella buia e sbattevano le catene dietro l’uscio
chiuso, asserendo che
il demonio stesse venendo a prenderla. Perfino da anziana ha mantenuto
la paura
del buio e i rumori di metallo la mettevano di cattivo umore.
Nonostante
la carenza d’affetto da parte della madre Francesca, la
mancanza di vera comprensione dal padre, i rapporti incrinati tra i
suoi
fratelli, Paola a poco più di sedici anni decise di essere
sufficientemente
adulta per prendere in mano la propria vita e aprì una
propria sartoria. Non si
allontanò mai dalla famiglia di Vincenza, al punto che, dopo
qualche anno,
ormai diciannovenne, si innamorò di Giovanni, il figlio di
Vincenza, e decisero
di sposarsi a Palermo.
Questo
fatto, che avrebbe dovuto essere motivo di giubilo per tutti,
venne invece preso con rigidità dall’ex ufficiale,
con disinteresse da
Francesca e con rabbia funesta da Vincenza, che non desiderava che suo
figlio
andasse via di casa. Cominciarono per Paola veri anni
d’inferno, immersa
nell’impotenza di poter vivere la vita che desiderava,
costretta a tollerare
una suocera che per lei era stata una madre e che ora la odiava e le
rendeva la
vita impossibile.
Poco
dopo il matrimonio, Vincenza sancì che la loro vita in
Sicilia non
poteva più essere tollerata a causa dell’ambiente
ignorante, ottuso, farcito
delle maldicenze messe in circolo da sua sorella Pia, insoddisfacente
per una
donna ambiziosa e per giunta ora difficile da vivere a causa del
matrimonio del
figlio.
In
cuor suo non aveva mai dimenticato la sconfitta bruciante impostagli
dal tiro mancino di sua sorella mentre si trovava in Inghilterra.
Giunse alla
conclusione che il problema principale per lei era stato il non
riuscire a far
valere le proprie ragioni per via del divario comunicativo dato dalla
sua
scarsa conoscenza di una lingua straniera. Davanti ai suoi occhi
però si
stendeva un’intera nazione di italiani che parlavano italiano
e lei non poteva
perdere altro tempo. Aveva quasi quarant’anni e, per essere
una donna a quel
tempo, si sentiva già vecchia. Colse l’occasione
al volo e, appena sentì di un’offerta
di lavoro in Nord Italia, convinse il marito a levare le tende.
Non
poteva sopportare di vivere lontano dal figlio, così lo
convinse a
raggiungerla in Lombardia. Acquistò un pezzo di terreno con
dei ruderi che
secoli prima appartenevano ad una famiglia borghese estremamente
importante. La
Villa un tempo doveva essere una residenza maestosa. Quando Paola la
vide,
raccontò di un enorme pergolato che circondava un pavimento
a scacchi con lastre
di marmo bianche e nere, su cui si poteva giocare a bocce. Disse di
aver visto
i resti di una costruzione enorme, ormai abbattuta, derubata dei pezzi
delle
proprie mura.
Vincenza
mise a fondo tutte le sue conoscenze pagane riconobbe nella
Villa un sito liminale, un luogo su cui il velo tra i mondi
è più sottile e
fece il possibile per assicurarsi che quella casa avrebbe portato
ricchezza e
benestare alla propria famiglia. La Villa sorge in mezzo a due miniere,
una di
oro e una di argento. Circondata da due torrenti, le cui diramazioni
sotterranee scavano sotto le fondamenta della casa e si incrociano.
Poco
incline a movimenti ventosi, ogni tanto è possibile
assistere a delle folate di
Tramontana e brezze leggere. Zona pressoché priva di nebbia
e circondata da
vegetazione fiorente. Un amareno secolare sorgeva in mezzo al giardino
della
villa e ogni albero dava frutta generosamente.
Vincenza,
suo marito e suo figlio presero temporaneamente casa altrove,
ma passavano ogni momento libero della propria vita a costruire una
nuova casa nella
Villa. Vincenza benedisse le mura della casa e sparse su ogni soletta
monete di
valore, in questo modo chiunque viva lì dentro,
avrà sempre entrate finanziarie.
Nel
frattempo, Paola era incinta del suo primo figlio e non lavorava.
Giovanni,
suo marito, andò a fare il cameriere in una tavola calda.
Suo suocero, Piero,
andò a lavorare in un supermercato e Vincenza fece la
domestica presso palazzi
importanti.
Mia
madre, figlia di Paola e Giovanni, nacque negli anni 60.
Paola,
per rendere onore a sua suocera Vincenza, che per lei era stata
una madre nonostante l’attrito degli ultimi anni,
chiamò la sua prima figlia Silvia,
come la bambina che Vincenza aveva perso prematuramente. Silvia si
rivelò
essere fin da subito una bambina bisognosa di attenzioni e capricciosa.
Paola
si sforzava di darle da mangiare ogni giorno, ma lei rifiutava il cibo
e
divennero famose nel quartiere poiché Silvia aveva
l’abitudine di mangiare solo
durante le passeggiate, ragion per cui Paola la pedinava ovunque con un
piatto
di cibo e il cucchiaio sempre in mano, china su di lei pronta ad
infilarle un
cucchiaio di pappa in bocca non appena aprisse bocca.
Agli
occhi di Vincenza quella era una seconda opportunità. La
piccola Silvia
che aveva perso nel 1933 era tornata da lei sottoforma della Silvia del
1962.
La somiglianza tra le due era enorme e questo la portò ad
essere per Silvia,
più che una nonna, una vera e propria madre. Silvia crebbe
viziata, coccolata,
idolatrata da tutti, apparentemente meritevole di lusinghe
perché molto
intelligente. Lei negherà sempre di essere stata viziata,
colpevolizzando
invece Paola per non aver soddisfatto appieno tutti i suoi desideri.
Paola
e Giovanni ebbero in totale cinque figlie, la Villa era stata
restaurata,
quindi andarono a viverci. Paola, che aveva circa venticinque anni,
crebbe le
figlie lontano dal marito, che tornava alla Villa soltanto un giorno
nel fine
settimana. Nel frattempo si trovava totalmente da sola a crescere delle
bambine
in una casa pressoché senza vicini, senza l’aiuto
di un uomo e circondata da…
contrabbandieri.
La
Villa era appunto una zona abbandonata da tutti, dove le case dei
vicini erano distanti almeno due, trecento metri le une dalle altre,
ben
nascosta dalle alte fronde degli abeti, acacie e larici che
circondavano la
proprietà. Era il luogo ideale per il contrabbando di
sigarette, importate
dalla Svizzera all’Italia, quando ancora il tabacco costava
molto poco nella
Confederazione e tre volte tanto nella Penisola.
Paola
era terrorizzata dai contrabbandieri, uomini nerboruti e
aggressivi, che giungevano in auto cariche di cartoni con sigarette con
le armi
alla cintura ben visibili e lasciavano la refurtiva nelle cascine sotto
casa
sua, nella sua proprietà, senza che lei potesse fare niente.
Se una cosa del
genere capitasse oggi, ad una persona colta e conscia dei propri
diritti,
andrebbe immediatamente a rivolgersi alle autorità e
sventerebbe un colpo
illegale in tempo record, acquistando fama e rispetto dalla
società. Tuttavia
in quegli anni nessuno avrebbe dato molto peso alle parole di una
immigrata
meridionale, che a malapena biascicava qualche parola di italiano, che
viveva
stipata con tre bambine piccole in un appartamento di due locali,
sempre
incinta e senza marito. Mio nonno Giovanni, che nella sua infanzia
aveva avuto
modo di conoscere la mafia siciliana, considerava il problema cosa di
poco
conto: aveva chiarito con quelle persone che se loro non si fossero
intromessi
nei loro affari, nessuno avrebbe torto un capello a Paola e alle sue
figlie.
Mia
nonna però, peperino alto appena un metro e
cinquantatré,
magrissima, con i capelli rosso malpelo e lo sguardo torvo, era per i
contrabbandieri degli anni sessanta fonte di ridicolo e bersaglio di
canzonature.
Questa
situazione forse poteva andare bene per mio nonno, ma non per Paola.
Lei, figlia del Tenente, cresciuta da Vincenza a pane e punizioni
psicologiche
e corporali, responsabile della vita delle sue figlie e di nuovo
incinta, era
divenuta una donna ferma nelle proprie idee e convinta di doversi
liberare in
un modo o nell’altro di quella gentaglia che le appestava il
vialetto di notte,
svegliando le bambine e facendole temere per la propria
incolumità.
Si
recò in Svizzera e, senza farlo sapere a nessuno,
riuscì a
procurarsi una pistola Smith & Wesson con cartucce di calibro
medio Magnum.
Mi sembra di sentirla ancora ripetere “accattai ‘na
Magnum e ci fici abbirere”
(“comprai una Magnum e gli feci vedere”).
Un
giorno si affacciò al balcone mentre i contrabbandieri
scaricavano
le auto e disse “Andatevene! Fuori dalla mia
proprietà! Questa è l’ultima volta
che vi avverto!!”. Ovviamente, la schernirono. Qualcuno le
disse qualche
porcheria, gesti osceni e inviti a raggiungerli nel capanno per
divertirsi con
loro. Lei si girò, prese la pistola, la puntò
contro l’auto, una Alfa Romeo
bianca, e fece fuoco sul cofano. Il rinculo fu tale che si fece male al
braccio, quasi cadde e tremarono tutti i vetri della casa. Il rumore,
assordante.
Disse
che non si dimenticherà mai le facce di quegli uomini, prima
così
spavaldi e ora con le bocche spalancate e la sigaretta a penzoloni,
attaccata
ancora al labbro inferiore.
Il
motore del veicolo prese a fumare, ci fu un fuggi-fuggi generale e i
contrabbandieri scapparono a gambe levate, lasciando a terra qualche
cartone,
senza dire più nulla. O forse le dissero qualcosa, ma era
rimasta intontita dal
contraccolpo e dal rumore indicibile. I contrabbandieri non vennero
alla Villa
mai più.
Quando
mio nonno tornò a casa quel finesettimana, trovò
gli scatoloni
pieni di stecche di sigarette che i disgraziati si erano lasciati alle
spalle
scappando. Invece di preoccuparsi per sua moglie, fu felice del dono
ricevuto e
se le fumò tutte.
Paola
non mi rivelò mai che fine avesse fatto fare a quella
pistola. So
solo che mi sarebbe piaciuto vederla di persona. Non come arma da
utilizzare
contro il prossimo, ma come trofeo da mostrare per potermi vantare in
cuor mio
che anche una donnina smingherlina e senza nessuno che la proteggesse,
se
voleva, poteva vendere cara la pelle e farsi rispettare.
La
mia antenata Maria aveva insegnato a Vincenza ad essere una donna
coraggiosa e dinamica, lei lo aveva trasmesso a mia nonna Paola, che si
fece
sempre rispettare, impartendo alle mie zie lezioni di vita che giunsero
fino a
me.
Ho
impiegato diversi anni ad accumulare questi racconti e molti altri
che qui non ho citato, ordinandoli cronologicamente. Custodisco questi
ricordi
gelosamente, perché sono parte di ciò che compone
la mia persona. Se dimenticassi
alcuni di questi fatti, non credo che potrei comprendere la
realtà in modo
completo come faccio ora.
La
memoria è ciò su cui si basa la nostra persona e
il nostro
carattere.
La
consapevolezza è ciò su cui si basa il nostro
sapere e le scelte che
facciamo.
Ho
sempre fatto fatica ad immedesimarmi nelle persone il cui passato
è
oscuro o colmo di dettagli illogici. Ritengo che per fondare una forte
personalità, bisogna avere un piedistallo stabile su cui
potersi issare e
osservare il mondo con criterio, per questo posso capire la
difficoltà e i
dolori delle persone che sono state adottate o che sono orfane, prive
di un
passato noto e con un futuro incerto.
Io
non dimentico ciò che è stato, penso che anche se
provengo da una
famiglia di montanari meridionali analfabeti, la loro intelligenza non
risiedeva nel loro bagaglio di nozioni scolastiche. Sarebbe un vero
peccato che
tutte le loro esperienze, i loro sentimenti, i loro sacrifici, vengano
dimenticati e spazzati via come se non fossero mai esistiti. Loro sono
esistiti, anche se erano decine e decine di persone e io sono una degli
ultimi
a comporre la loro dinastia. Non ho fratelli, non ho cugini, non ho
intenzione
di avere figli e quindi se non metterò su carta
ciò che loro sono stati,
sarebbe come se fossero vissuti inutilmente.
Mi
chiedo a quante persone toccherà questo destino e se anche
io un
giorno verrò dimenticata da tutti e il dolore e la gioia che
ho provato, tutto
ciò che ho conquistato, un giorno probabilmente non avranno
alcun valore e nessuno
se li ricorderà.
Ogni
tanto mi capita sotto mano una fotografia storica, scattata un
paio di secoli fa, di questa zona. Vedo case in posti dove adesso ci
sono
strade, alberi dove ora ci sono immobili e rifletto sulla vita di tutte
quelle
persone che hanno calpestato questo suolo, hanno dedicato le loro vite
ad
edifici, studi, emozioni che ora si sono totalmente dissolti nel nulla.
Ci
sono individui che non ritengono che la propria vita abbia bisogno
di essere menzionata, che forse sono troppo umili per pensare che a
qualcuno
sarebbe interessato leggere cosa abbiano pensato, vissuto, provato.
Io
non sono fra loro. Secondo me la mia famiglia ha una storia ricca di
retroscena, passioni, sacrifici, astuzie e coraggio e li porto con me
ogni
giorno, dispiacendomi per le storie di coloro che nacquero prima di
Maria nel
diciottesimo secolo, perché non ne so nulla se non che sono
stati essenziali
per farmi arrivare fino a qui oggi.
Quando
ricordi così tanti fatti, quando comprendi così
tante persone
contemporaneamente, senza sapere nemmeno che faccia avessero,
perché non sono
giunte a te le loro foto eppure nonostante tutto riesci ad amarli...
Ritengo
che a questo punto hai guadagnato un posto di vantaggio rispetto agli
altri. Il
mondo odierno assume molte più sfumature e il futuro fa meno
paura, anche se
sai che qualsiasi cosa tu faccia oggi, è destinato a finire
un domani.
Vale
la pena uccidersi? Vale la pena soffrire in maniera indicibile per
qualcosa che di qui a cinquant’anni non importerà
più a nessuno? Sono quesiti
per me ancora senza risposta.
Sono
felice di aver immagazzinato in me tanto sentimento. Mi sembra di
aver vissuto la vita di ognuno di loro e non mi ha impoverito, casomai
il
contrario. Sono felice che una parte di Maria, Vincenza, Paola, mio
padre, i
miei nonni ancora viva in me e io posso affrontare il mondo come se
fossero
tutti alle mie spalle, a sostenermi e a indicarmi quali sbagli loro
hanno
commesso che io non devo ripetere.