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Autore: fiore di pesco    26/06/2023    3 recensioni
Vi propongo degli estratti dei miei pensieri più intimi, celata da un anonimato che dura da oltre un decennio.
Non è un testo delicato, non sono una persona eccessivamente sensibile e quindi potreste incappare in black humor, turpiloquio e considerazioni talvolta ciniche che potrebbero turbare i lettori più emotivi. Non voglio far finta che questo mi dolga, non sono mai stata ipocrita.
Potrete trovare capitoli composti da una vicenda che mi è successa di recente, altre molto lontane nel tempo, pensieri, aforismi, quello che mi va.
Alcune di queste riflessioni sono state scritte in bozze sul mio diario anni fa e non so perchè stasera abbia sentito l'esigenza di condividerle con qualcuno. Forse per strappare una risata o una imprecazione, ma sempre meglio della noia.
Questa "storia" è una raccolta disomogenea e non segue una trama, ogni capitolo è a sè e quindi non pubblicherò con scadenze, seguirà l'ispirazione.
Genere: Comico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi piacerebbe poter dire che la mia storia comincia con la mia nascita, ma sarebbe un tantino riduttivo, dal momento che, tutto sommato, ha origine oltre due secoli fa.

Le radici della mia famiglia sono site nel profondo Sud Italia, l’entroterra siciliano, e i dati in mio possesso sono giunti a me con una tradizione orale gelosamente custodita. A volte celata così bene che molti aneddoti restano tuttora un mistero per me.

Questa storia parla delle origini della mia famiglia, sono storie rigorosamente vere, sebbene abbia oscurato alcuni dettagli e sono presenti i nomi di tante persone che potrebbero trarre in confusione. Spero di essere riuscita a non fare troppa confusione

 

Alla fine del diciannovesimo secolo viveva una mia antenata, Maria, donna nota per essere estremamente bella e capace. Rimase vedova in giovane età, con tre bambine piccole da crescere, Pia, Vincenza e Giuseppina. Un individuo del suo paesino, oltraggiato dopo aver subito un rifiuto da parte sua, la seguì mentre andava a prendere l’acqua al fiume, abusò di lei e rimase impunito.

Quello fu un fatto di tale entità da ripercuotersi tuttora sulla vita delle sue discendenti, tutte donne, che ricordano fatti del passato e tentano di utilizzare una chiave di quasi duecento anni per affrontare il futuro.

Ciò è dovuto al fatto che Maria, donna dell’epoca, non aveva i mezzi e la cultura necessaria a far fronte all’onta subita, crescendo la prole instillando loro sentimenti negativi, propositi di vendetta, pratiche poco cristiane.

 

Il segreto più recondito della mia famiglia è appunto la propensione per le pratiche cristiano-pagane. Può sembrare anacronistico, tuttavia nel profondo sud vigeva fortissima l’influenza del paganesimo, la famosa Magia Lucana, mischiato a riti cattolici. Erano socialmente riconosciuti, temuti, e tutti credevano che veramente si potesse ricevere il malocchio, che uno sguardo cattivo potesse far ammalare, che uno sfregamento delle falangi potesse guarire un moribondo o che spargere sale ed erbe potesse recare buoni auspici. La discendenza di Maria crebbe in un clima oscurantista, timoroso di forze maligne e incline all’uso di metodi poco ortodossi per ottenere gli obiettivi desiderati.

 

Una donna sola, vedova, analfabeta e tacciata di promiscuità suo malgrado, a quel tempo non poteva pensare di guadagnare molto denaro, inevitabilmente le bambine furono indirizzate ad una vita di sacrificio quando ancora non avevano compiuto dieci anni.

Pia, la più grande, andò a lavorare in fabbrica, Vincenza ad appena 6 anni, andò a fare la serva, mentre Giuseppina, la più piccola, trovò vari lavoretti finché, entro i vent’anni, furono tutte sposate e con figli. Pia, lavorando in una fabbrica tessile, aveva potuto permettersi un’istruzione di base, Vincenza invece aveva dato quel poco che poteva per mantenere gli studi di sua sorella Giuseppina.

 

I rapporti tra le sorelle col tempo si incrinarono. Pia risultò essere una persona estremamente egoista e sadica. Vincenza invece, sebbene restasse umile nel proprio mestiere, celava un grande orgoglio e non accettava di essere pubblicamente svilita. Questo portò ad una scissione tra Pia e Vincenza, che non vollero più avere contatti spontanei, sebbene la smania di Pia di impicciarsi dei fatti altrui e ledere al prossimo, fece in modo che fino alla sua morte, causasse disagi a chiunque.

 

Il marito di Giuseppina andò in America, a Boston, in cerca di fortuna e portò con sé moglie e figli. Vendendo i propri campi di ulivi in Sicilia, si garantirono un sostentamento iniziale, grazie al quale riuscirono a ingranare bene anche in un Paese totalmente differente da ciò a cui erano abituati.

 

Pia rimase fissa nel suo status sociale di madre, proletaria di fabbrica e senza ambizioni se non quella di rendere difficile la vita del prossimo.

 

Vincenza ebbe due figli da Piero, un uomo che faceva il contadino e allevava muli, maiali, conigli e polli. Dal momento che era analfabeta, di cattiva famiglia e sola, venne spesso presa di mira dalla società dell’epoca. Ricordo che quando ero piccola, negli anni novanta, mi raccontava di come per prenderla in giro le dissero che per far crescere sani dei pulcini, dovesse dar loro pane e vino. Lei così fece e i pulcini, ubriachi, si cavarono gli occhi gli uni con gli altri. Lei si disperò ma non demorse: allevò tutti i pulcini uno ad uno, imboccandoli e riscaldandoli col proprio petto quando la madre li rifiutò. Crebbero e divennero tutti polli bellissimi, che tutti le invidiarono e mi disse anche che ancora riusciva a commuoversi e a piangere quando presero i suoi galli e li uccisero per la carne. Lei non riuscì a mangiarne nemmeno un pezzo.

 

Vincenza era degli anni dieci del novecento e, negli anni trenta dell’entroterra siculo, solo le persone benestanti potevano permettersi di acquistare un immobile già costruito. Gli altri compravano un lotto di terreno e poi ci costruivano sopra di propria mano anche senza nessuna conoscenza di edilizia. Fu così che lei, senza l’aiuto di nessuno, pietra dopo pietra, costruì una casetta di circa cinquanta metri quadri. Incredibilmente esiste ancora oggi, dopo aver visto intemperie, terremoti e allagamenti. Ovviamente erano solo muri di pietra, malta e un pavimento di terra battuta, senza acqua corrente, elettricità o gas. Vincenza si rifece di questi dettagli negli anni a venire.

Ebbe due figli, Silvia nel 1931 e Giovanni nel 1934. Giovanni non conobbe mai sua sorella.

Vincenza era appena rimasta incinta di lui quando Silvia compì due anni e il braciere posto al centro della stanza, rimedio usato in inverno per scaldare le case dei poveri, le si rovesciò addosso in seguito ad una lite accesa fra i genitori.

La brace ardente si riversò interamente sulla bambina, ustionandole gravemente la parte inferiore del corpo. Vincenza agì prima che poté, bruciandosi le mani e cercando aiuto. Purtroppo, senza acqua a disposizione, il sollievo che diede alla bambina tardò ore intere. Non appena possibile, la portò dal medico, che non le diede niente se non il consiglio di attendere che guarisse da sola. L’uso degli antibiotici era comune già in quegli anni, ma in realtà non tutti potevano permetterseli e non sempre i medici ne erano forniti o, ancora peggio, non sempre i medici erano veramente medici.

Le ferite si infettarono, a Silvia venne una febbre molto alta. L’anziana sciamana del paese le disse di apporre la calce che si utilizza in muratura sulle ustioni. Vincenza si procurò della calce bianca, la applicò alle ferite della bambina, che urlò disperatamente dal dolore, e in poche ore spirò.

Vincenza all’epoca doveva ancora compiere vent’anni, ma questo fatto la turbò profondamente in un modo che non voglio nemmeno immaginare, e che si è portata dentro ogni giorno della sua lunga vita fino al suo letto di morte.

 

Fortemente traumatizzata dall’accaduto, scelse di non volere più figli dopo quello che portava in grembo, e nel 1934 partì col figlio neonato, lasciando il marito in Sicilia (causando un grande scandalo per l’epoca) in direzione dell’Inghilterra. Ripensando a lei, credo che dovesse sentirsi estremamente sola e afflitta. Aveva appena perso sua figlia, doveva occuparsi a tempo pieno di un neonato, non sapeva scrivere, non parlava altra lingua se non il dialetto stretto della sua provincia, era senza denaro, senza una cartina né una istruzione e si trovava su una nave diretta a Londra. Nonostante tutto, comunicando a gesti, tenendo la fame sotto controllo, riuscì a raggiungere l’Inghilterra.

Trovò lavoro come donna delle pulizie presso uno studio medico e lavorò lì per diversi mesi. Vincenza cominciava a capire l’inglese e a masticare qualcosa di quella lingua germanica così lontana dalla propria, quando giunse una lettera presso lo studio medico. Vincenza era purtroppo ancora analfabeta, ma il medico rimase profondamente turbato dal contenuto della missiva e licenziò Vincenza in tronco. Lei non seppe la ragione finché non le giunse all’orecchio la voce che sulla lettera denunciavano la sua persona: che lei fosse una prostituta, difatti sola, non sposata e con un bambino avuto da un cliente. Vincenza era mortificata.

Dopo nemmeno un anno, scappò dall’Inghilterra e tornò da suo marito in Sicilia, dove riprese la vita di prima, sconsolata e afflitta.

Negli anni a venire scoprì che a inviare quella lettera fu sua sorella Pia, invidiosa che Vincenza fosse tanto capace da poter affrontare il mondo da sola mentre lei non poteva nemmeno andare a prendere l’acqua al pozzo senza chiedere il permesso al marito. Vincenza litigò furibondamente con sua sorella Pia per l’affronto subito, ma purtroppo la situazione non poteva più essere risolta.

 

Giovanni crebbe come un signorotto di campagna, benvoluto, socialmente ben integrato, di bell’aspetto. Quando ancora era un bambino, conobbe Paola, una scaltra bambina dagli occhi castani, i capelli rosso fuoco e una pelle così pallida da essere quasi traslucida e piena di efelidi.

Paola, nata nel 1936 a Catania, era figlia di un tenente dell’esercito fascista. Piero, il marito di Vincenza, era stato chiamato alle armi dall’esercito fascista negli anni quaranta, e guarda caso, il Tenente era il suo superiore.

Visto che Piero era ancora molto giovane, il Tenente non se la sentiva di mandarlo al fronte, quindi gli faceva fare più che altro delle ronde del villaggio, sebbene lui non avesse nessuna voglia di farle, e più che altro alla fine passeggiava e chiacchierava con i paesani.

Un giorno arrivò l’allarme di attacco aereo e il Tenente fece evacuare il villaggio, ma i soldati non potevano abbandonare la postazione, quindi il Tenente chiese ai più giovani di andare a fare la guardia a posti che secondo lui sarebbero stati più sicuri. A Piero toccò controllare il cimitero, ma lui pensò bene che di morire per far la guardia ai morti, non ne valeva la pena. Se ne andò sulle colline con sua moglie Vincenza, con l’obiettivo di tornare al cimitero la mattina dopo alle prime luci dell’alba, fingendo di essere sempre rimasto là.

Dio volle che durante la notte una bomba cadde proprio sul cimitero. Il Tenente accorse e trovò quello che restava di tombe e cadaveri in diversi stati di putrefazione sparsi in giro. Diede per scontato che il cadavere di Piero dovesse trovarsi lì in mezzo a quei corpi, e si sentì malissimo all’idea di aver fatto uccidere il povero Piero, che nel frattempo se la dormiva nella grossa in tenda ben lontano da lì. Quando al mattino gli dissero che il cimitero era stato fatto saltare in aria e che l’avevano dato per morto, decise di darsela a gambe con la sua famiglia, per non rischiare di essere punito per aver disertato.

 

Fuggirono lontano e dopo qualche anno, alla fine della guerra, tornarono nel paesello per reclamare la casetta che avevano costruito.

Un giorno, mentre Piero era al mercato per fare compere, si scontrò per sbaglio contro un passante. Fecero per azzuffarsi ma come si guardarono in faccia, il passante svenne: era il Tenente, convinto che Piero fosse tornato dagli inferi per vendicarsi della sua morte ingiusta. Piero portò a casa il Tenente e quando si riprese, si riabbracciarono come vecchi amici, increduli di rivedersi dopo così tanti anni, sebbene in realtà prima praticamente non si sopportavano.

 

Il Tenente era spesso via per lavoro e lasciava in paese la moglie Francesca e la figlia Paola. Vincenza, colta dall’istinto materno per una figlia rubata prematuramente, riversò molto amore su Paola.

Successivamente i rapporti tra le due famiglie si fecero talmente stretti che non riuscirono più a separarsi gli uni dagli altri. Immagino che chi non abbia visto e affrontato la guerra, difficilmente potrebbe comprendere la riconoscenza che il tenente provò per la famiglia di Vincenza. Finché Paola rimase bambina, Vincenza fu una figura materna di suprema importanza per lei, poiché purtroppo sua madre Francesca era una donna aspra e anaffettiva.

Paola, mia nonna, mi raccontò di come suo padre, il Tenente, combatté in tutta Europa e anche in Africa, di come negli ultimi anni della guerra si staccò dall’esercito fascista quando i nazisti gli spararono alle gambe a tradimento. Lui si finse morto, sotto ad una catasta di suoi commilitoni deceduti. Raccontò di come i nazisti rimasero in quel campo per giorni e lui sopravvisse bevendo l’acqua che colava dai cadaveri. Si ammalò di colera e strisciò fino ad un villaggio africano, dove trovò assistenza e conobbe un bambino orfano, con cui rimase fino alla sua totale guarigione. Raccontava sempre a mia nonna Paola di quanto avesse desiderato portare con sé quel bambino e di quanto lo amasse. Le ripeteva spesso che lei, in Africa, aveva un fratello. Avrei tanto voluto poterlo conoscere.

 

Il Tenente, per quanto fosse un uomo battagliero, introverso e di tempra micidiale, non fu mai violento con le sue figlie e sapeva cosa fosse l’amore.

La nonna Paola mi raccontò un fatto che aveva segnato l’infanzia di suo padre: egli era figlio di un sociopatico, il quale appena trovò un’amante, avvelenò la propria moglie e i suoi cinque figli con lo scopo di liberarsi della sua prima famiglia per farsene una nuova. Sopravvissero solo sua madre, la quale si era attardata a mangiare perché doveva pulire la cucina, e il bisnonno, perché era un bambino capriccioso e si rifiutò di mangiare il pasto avvelenato offertogli dal padre, al quale diedero solo qualche anno di galera, con l’attenuante che un uomo avesse diritto di porre fine a ciò che era di sua proprietà: moglie e figli erano alla stregua di oggetti. Il bisnonno vide morire tutti i suoi fratelli e, dopo poco tempo, morì anche sua madre, probabilmente di dolore. Trovò accoglienza presso l’esercito fascista.

 

Paola, superata l’infanzia e la guerra, andò a studiare presso il convento delle monache, che la trattarono meschinamente e la crebbero in un clima oscurantista, causandole forti traumi che la condizionarono per il resto della sua vita. Mi raccontava spesso che, quando commetteva uno sbaglio, la chiudevano in una cella buia e sbattevano le catene dietro l’uscio chiuso, asserendo che il demonio stesse venendo a prenderla. Perfino da anziana ha mantenuto la paura del buio e i rumori di metallo la mettevano di cattivo umore.

 

Nonostante la carenza d’affetto da parte della madre Francesca, la mancanza di vera comprensione dal padre, i rapporti incrinati tra i suoi fratelli, Paola a poco più di sedici anni decise di essere sufficientemente adulta per prendere in mano la propria vita e aprì una propria sartoria. Non si allontanò mai dalla famiglia di Vincenza, al punto che, dopo qualche anno, ormai diciannovenne, si innamorò di Giovanni, il figlio di Vincenza, e decisero di sposarsi a Palermo.

Questo fatto, che avrebbe dovuto essere motivo di giubilo per tutti, venne invece preso con rigidità dall’ex ufficiale, con disinteresse da Francesca e con rabbia funesta da Vincenza, che non desiderava che suo figlio andasse via di casa. Cominciarono per Paola veri anni d’inferno, immersa nell’impotenza di poter vivere la vita che desiderava, costretta a tollerare una suocera che per lei era stata una madre e che ora la odiava e le rendeva la vita impossibile.

 

Poco dopo il matrimonio, Vincenza sancì che la loro vita in Sicilia non poteva più essere tollerata a causa dell’ambiente ignorante, ottuso, farcito delle maldicenze messe in circolo da sua sorella Pia, insoddisfacente per una donna ambiziosa e per giunta ora difficile da vivere a causa del matrimonio del figlio.

In cuor suo non aveva mai dimenticato la sconfitta bruciante impostagli dal tiro mancino di sua sorella mentre si trovava in Inghilterra. Giunse alla conclusione che il problema principale per lei era stato il non riuscire a far valere le proprie ragioni per via del divario comunicativo dato dalla sua scarsa conoscenza di una lingua straniera. Davanti ai suoi occhi però si stendeva un’intera nazione di italiani che parlavano italiano e lei non poteva perdere altro tempo. Aveva quasi quarant’anni e, per essere una donna a quel tempo, si sentiva già vecchia. Colse l’occasione al volo e, appena sentì di un’offerta di lavoro in Nord Italia, convinse il marito a levare le tende.

 

Non poteva sopportare di vivere lontano dal figlio, così lo convinse a raggiungerla in Lombardia. Acquistò un pezzo di terreno con dei ruderi che secoli prima appartenevano ad una famiglia borghese estremamente importante. La Villa un tempo doveva essere una residenza maestosa. Quando Paola la vide, raccontò di un enorme pergolato che circondava un pavimento a scacchi con lastre di marmo bianche e nere, su cui si poteva giocare a bocce. Disse di aver visto i resti di una costruzione enorme, ormai abbattuta, derubata dei pezzi delle proprie mura.

Vincenza mise a fondo tutte le sue conoscenze pagane riconobbe nella Villa un sito liminale, un luogo su cui il velo tra i mondi è più sottile e fece il possibile per assicurarsi che quella casa avrebbe portato ricchezza e benestare alla propria famiglia. La Villa sorge in mezzo a due miniere, una di oro e una di argento. Circondata da due torrenti, le cui diramazioni sotterranee scavano sotto le fondamenta della casa e si incrociano. Poco incline a movimenti ventosi, ogni tanto è possibile assistere a delle folate di Tramontana e brezze leggere. Zona pressoché priva di nebbia e circondata da vegetazione fiorente. Un amareno secolare sorgeva in mezzo al giardino della villa e ogni albero dava frutta generosamente.

 

Vincenza, suo marito e suo figlio presero temporaneamente casa altrove, ma passavano ogni momento libero della propria vita a costruire una nuova casa nella Villa. Vincenza benedisse le mura della casa e sparse su ogni soletta monete di valore, in questo modo chiunque viva lì dentro, avrà sempre entrate finanziarie.

 

Nel frattempo, Paola era incinta del suo primo figlio e non lavorava. Giovanni, suo marito, andò a fare il cameriere in una tavola calda. Suo suocero, Piero, andò a lavorare in un supermercato e Vincenza fece la domestica presso palazzi importanti.

 

Mia madre, figlia di Paola e Giovanni, nacque negli anni 60.

 

Paola, per rendere onore a sua suocera Vincenza, che per lei era stata una madre nonostante l’attrito degli ultimi anni, chiamò la sua prima figlia Silvia, come la bambina che Vincenza aveva perso prematuramente. Silvia si rivelò essere fin da subito una bambina bisognosa di attenzioni e capricciosa. Paola si sforzava di darle da mangiare ogni giorno, ma lei rifiutava il cibo e divennero famose nel quartiere poiché Silvia aveva l’abitudine di mangiare solo durante le passeggiate, ragion per cui Paola la pedinava ovunque con un piatto di cibo e il cucchiaio sempre in mano, china su di lei pronta ad infilarle un cucchiaio di pappa in bocca non appena aprisse bocca.

Agli occhi di Vincenza quella era una seconda opportunità. La piccola Silvia che aveva perso nel 1933 era tornata da lei sottoforma della Silvia del 1962. La somiglianza tra le due era enorme e questo la portò ad essere per Silvia, più che una nonna, una vera e propria madre. Silvia crebbe viziata, coccolata, idolatrata da tutti, apparentemente meritevole di lusinghe perché molto intelligente. Lei negherà sempre di essere stata viziata, colpevolizzando invece Paola per non aver soddisfatto appieno tutti i suoi desideri.

 

Paola e Giovanni ebbero in totale cinque figlie, la Villa era stata restaurata, quindi andarono a viverci. Paola, che aveva circa venticinque anni, crebbe le figlie lontano dal marito, che tornava alla Villa soltanto un giorno nel fine settimana. Nel frattempo si trovava totalmente da sola a crescere delle bambine in una casa pressoché senza vicini, senza l’aiuto di un uomo e circondata da… contrabbandieri.

 

La Villa era appunto una zona abbandonata da tutti, dove le case dei vicini erano distanti almeno due, trecento metri le une dalle altre, ben nascosta dalle alte fronde degli abeti, acacie e larici che circondavano la proprietà. Era il luogo ideale per il contrabbando di sigarette, importate dalla Svizzera all’Italia, quando ancora il tabacco costava molto poco nella Confederazione e tre volte tanto nella Penisola.

Paola era terrorizzata dai contrabbandieri, uomini nerboruti e aggressivi, che giungevano in auto cariche di cartoni con sigarette con le armi alla cintura ben visibili e lasciavano la refurtiva nelle cascine sotto casa sua, nella sua proprietà, senza che lei potesse fare niente. Se una cosa del genere capitasse oggi, ad una persona colta e conscia dei propri diritti, andrebbe immediatamente a rivolgersi alle autorità e sventerebbe un colpo illegale in tempo record, acquistando fama e rispetto dalla società. Tuttavia in quegli anni nessuno avrebbe dato molto peso alle parole di una immigrata meridionale, che a malapena biascicava qualche parola di italiano, che viveva stipata con tre bambine piccole in un appartamento di due locali, sempre incinta e senza marito. Mio nonno Giovanni, che nella sua infanzia aveva avuto modo di conoscere la mafia siciliana, considerava il problema cosa di poco conto: aveva chiarito con quelle persone che se loro non si fossero intromessi nei loro affari, nessuno avrebbe torto un capello a Paola e alle sue figlie.

Mia nonna però, peperino alto appena un metro e cinquantatré, magrissima, con i capelli rosso malpelo e lo sguardo torvo, era per i contrabbandieri degli anni sessanta fonte di ridicolo e bersaglio di canzonature.

Questa situazione forse poteva andare bene per mio nonno, ma non per Paola. Lei, figlia del Tenente, cresciuta da Vincenza a pane e punizioni psicologiche e corporali, responsabile della vita delle sue figlie e di nuovo incinta, era divenuta una donna ferma nelle proprie idee e convinta di doversi liberare in un modo o nell’altro di quella gentaglia che le appestava il vialetto di notte, svegliando le bambine e facendole temere per la propria incolumità.

Si recò in Svizzera e, senza farlo sapere a nessuno, riuscì a procurarsi una pistola Smith & Wesson con cartucce di calibro medio Magnum. Mi sembra di sentirla ancora ripetere “accattai ‘na Magnum e ci fici abbirere” (“comprai una Magnum e gli feci vedere”).

Un giorno si affacciò al balcone mentre i contrabbandieri scaricavano le auto e disse “Andatevene! Fuori dalla mia proprietà! Questa è l’ultima volta che vi avverto!!”. Ovviamente, la schernirono. Qualcuno le disse qualche porcheria, gesti osceni e inviti a raggiungerli nel capanno per divertirsi con loro. Lei si girò, prese la pistola, la puntò contro l’auto, una Alfa Romeo bianca, e fece fuoco sul cofano. Il rinculo fu tale che si fece male al braccio, quasi cadde e tremarono tutti i vetri della casa. Il rumore, assordante.

Disse che non si dimenticherà mai le facce di quegli uomini, prima così spavaldi e ora con le bocche spalancate e la sigaretta a penzoloni, attaccata ancora al labbro inferiore.

Il motore del veicolo prese a fumare, ci fu un fuggi-fuggi generale e i contrabbandieri scapparono a gambe levate, lasciando a terra qualche cartone, senza dire più nulla. O forse le dissero qualcosa, ma era rimasta intontita dal contraccolpo e dal rumore indicibile. I contrabbandieri non vennero alla Villa mai più.

Quando mio nonno tornò a casa quel finesettimana, trovò gli scatoloni pieni di stecche di sigarette che i disgraziati si erano lasciati alle spalle scappando. Invece di preoccuparsi per sua moglie, fu felice del dono ricevuto e se le fumò tutte.

Paola non mi rivelò mai che fine avesse fatto fare a quella pistola. So solo che mi sarebbe piaciuto vederla di persona. Non come arma da utilizzare contro il prossimo, ma come trofeo da mostrare per potermi vantare in cuor mio che anche una donnina smingherlina e senza nessuno che la proteggesse, se voleva, poteva vendere cara la pelle e farsi rispettare.

 

La mia antenata Maria aveva insegnato a Vincenza ad essere una donna coraggiosa e dinamica, lei lo aveva trasmesso a mia nonna Paola, che si fece sempre rispettare, impartendo alle mie zie lezioni di vita che giunsero fino a me.

Ho impiegato diversi anni ad accumulare questi racconti e molti altri che qui non ho citato, ordinandoli cronologicamente. Custodisco questi ricordi gelosamente, perché sono parte di ciò che compone la mia persona. Se dimenticassi alcuni di questi fatti, non credo che potrei comprendere la realtà in modo completo come faccio ora.

La memoria è ciò su cui si basa la nostra persona e il nostro carattere.

La consapevolezza è ciò su cui si basa il nostro sapere e le scelte che facciamo.

 

Ho sempre fatto fatica ad immedesimarmi nelle persone il cui passato è oscuro o colmo di dettagli illogici. Ritengo che per fondare una forte personalità, bisogna avere un piedistallo stabile su cui potersi issare e osservare il mondo con criterio, per questo posso capire la difficoltà e i dolori delle persone che sono state adottate o che sono orfane, prive di un passato noto e con un futuro incerto.

 

Io non dimentico ciò che è stato, penso che anche se provengo da una famiglia di montanari meridionali analfabeti, la loro intelligenza non risiedeva nel loro bagaglio di nozioni scolastiche. Sarebbe un vero peccato che tutte le loro esperienze, i loro sentimenti, i loro sacrifici, vengano dimenticati e spazzati via come se non fossero mai esistiti. Loro sono esistiti, anche se erano decine e decine di persone e io sono una degli ultimi a comporre la loro dinastia. Non ho fratelli, non ho cugini, non ho intenzione di avere figli e quindi se non metterò su carta ciò che loro sono stati, sarebbe come se fossero vissuti inutilmente.

 

Mi chiedo a quante persone toccherà questo destino e se anche io un giorno verrò dimenticata da tutti e il dolore e la gioia che ho provato, tutto ciò che ho conquistato, un giorno probabilmente non avranno alcun valore e nessuno se li ricorderà.

 

Ogni tanto mi capita sotto mano una fotografia storica, scattata un paio di secoli fa, di questa zona. Vedo case in posti dove adesso ci sono strade, alberi dove ora ci sono immobili e rifletto sulla vita di tutte quelle persone che hanno calpestato questo suolo, hanno dedicato le loro vite ad edifici, studi, emozioni che ora si sono totalmente dissolti nel nulla.

 

Ci sono individui che non ritengono che la propria vita abbia bisogno di essere menzionata, che forse sono troppo umili per pensare che a qualcuno sarebbe interessato leggere cosa abbiano pensato, vissuto, provato.

Io non sono fra loro. Secondo me la mia famiglia ha una storia ricca di retroscena, passioni, sacrifici, astuzie e coraggio e li porto con me ogni giorno, dispiacendomi per le storie di coloro che nacquero prima di Maria nel diciottesimo secolo, perché non ne so nulla se non che sono stati essenziali per farmi arrivare fino a qui oggi.

Quando ricordi così tanti fatti, quando comprendi così tante persone contemporaneamente, senza sapere nemmeno che faccia avessero, perché non sono giunte a te le loro foto eppure nonostante tutto riesci ad amarli... Ritengo che a questo punto hai guadagnato un posto di vantaggio rispetto agli altri. Il mondo odierno assume molte più sfumature e il futuro fa meno paura, anche se sai che qualsiasi cosa tu faccia oggi, è destinato a finire un domani.

 

Vale la pena uccidersi? Vale la pena soffrire in maniera indicibile per qualcosa che di qui a cinquant’anni non importerà più a nessuno? Sono quesiti per me ancora senza risposta.

Sono felice di aver immagazzinato in me tanto sentimento. Mi sembra di aver vissuto la vita di ognuno di loro e non mi ha impoverito, casomai il contrario. Sono felice che una parte di Maria, Vincenza, Paola, mio padre, i miei nonni ancora viva in me e io posso affrontare il mondo come se fossero tutti alle mie spalle, a sostenermi e a indicarmi quali sbagli loro hanno commesso che io non devo ripetere.

  
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