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Autore: IndianaJones25    28/06/2023    1 recensioni
Nei meandri del mio computer, ho ritrovato alcuni brevi racconti scritti tra il 2017 e il 2021 che non ho mai pubblicato qui su Efp. Visto che oggi arriva al cinema la nuova avventura di Indy, intitolata INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO, ho deciso di condividerli qui.
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Henry Walton Jones Jr.
Note: Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta
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CRONONAUTICA

(storia incompiuta)  

I.

 

 

Manhattan, New York, 1994

 

 

La conduttura rotta versava ettolitri di liquami melmosi e maleodoranti nella trincea di scavo, da cui si propagava tutto attorno un odore nauseabondo, che toglieva il fiato e faceva rivoltare lo stomaco. La sola idea di dover entrare in quel buco in cui si stavano rovesciando metà delle fogne newyorkesi era oltremodo disgustosa. Eppure andava fatto.

Katy fece una smorfia ripugnata.

Non sono diventata archeologa per mettermi a sguazzare in mezzo alla merda, pensò, sconfortata.

Eppure, sapeva di non potersi rifiutare. L’incarico che, dopo mille fatiche, era riuscita a guadagnare presso il municipio, come sottoassistente alla conservazione dei beni storici, non era stato ancora confermato in via ufficiale; e, se si fosse rifiutata di fare ciò che le veniva detto, il dottor Morris non avrebbe impiegato che cinque minuti a darle il ben servito per chiamare qualcun altro al suo posto. E sapeva di non potersi permettere di fare la schizzinosa. Non dopo che aveva trascorso gli ultimi tre anni senza un lavoro, contando soltanto sulle risorse finanziare dei suoi genitori che, per fortuna, di soldi ne avevano così tanti da non sapere che farsene. Ma Katy Jones non voleva più saperne di dover fare da assistente domestica ai due vecchi, che approfittavano un po’ troppo della sua presenza per farsi servire e riverire, abbaiando un ordine dopo l’altro. Voleva fare ciò per cui aveva studiato. Anche se questo significava doversi piegare a compiere i lavori più umili e degradanti, come fare una nuotata fuoriprogramma in uno scarico fognario guasto.

Con un sospiro di rassegnazione, Katy chiuse sotto il collo la zip della tuta bianca e si assicurò di avere i capelli ben raccolti sotto la cuffia di plastica trasparente. Infilò i guanti e si preparò a discendere nella trincea.

Secondo il dottor Morris, quella rottura all’impianto fognario della Seventh Avenue era stata nientemeno che una vera e propria benedizione, perché aveva permesso di rintracciare i resti di un veliero olandese della metà del 1600, che una tempesta doveva aver gettato al di là del villaggio fortificato che, all’epoca, si chiamava ancora Nuova Amsterdam. A suo dire, una scoperta archeologica incredibile, che andava analizzata e approfondita con attenzione, prima che lo scavo fosse richiuso.

«Sarà anche una benedizione», bofonchiò Katy, schifata, «però, intanto, tu sei al caldo nel tuo ufficio, brutto stronzo, e a fare il bagno nella merda liquida ci devo entrare io…»

In realtà, era sicura che al dottor Morris, di quel veliero, non gliene potesse importare di meno. Semplicemente, aveva voluto affibbiarle il primo incarico degradante e umiliante che avesse avuto tra le mani; e questo solo per il motivo che lei, a Morris, non stesse affatto simpatica. Probabilmente, quel tronfio burocrate la riteneva una specie di raccomandata, e nulla di più. Non doveva pensarci. Aveva un lavoro a portata, e non poteva farselo sfuggire solo perché il suo responsabile era un completo imbecille.

Alzò la mano in direzione dei due operai in tuta blu e gilet catarifrangente arancione che, appoggiati alle pale, la osservavano incuriositi, e diede il segnale dell’okay. Poi si guardò gli anfibi militari, domandandosi perché mai non avesse pensato di sostituirli con dei gambali. Lo sconforto si dipinse sul suo viso e un gemito le sfuggì dalle labbra perennemente screpolate. Quegli anfibi erano un regalo di Hilary, e se anche era ormai un mese che non si vedevano più, non le sembrava si meritasse un simile trattamento…

Osservò di nuovo la pozza di liquami, in mezzo a cui affioravano i miseri resti di un veliero mezzo marcio. L’odore, nauseabondo, le fece venire la nausea. Nemmeno il più disperato dei musei avrebbe mai accettato di esporre quell’affare che non avrebbe perso la puzza nemmeno in un secolo. Riuscì a trattenersi appena in tempo dal mettersi a vomitare.

«Oh, al diavolo!» sbottò, rialzandosi.

Con gesti secchi cominciò a sfilarsi guanti e tuta, gettandoli in terra senza troppi complimenti. I due operai, dopo essersi scambiate occhiate spaesate, si avvicinarono per capire che cosa stesse facendo.

«Dottoressa Jones, che succede?» chiese uno dei due.

Katy lo fulminò per un istante con lo sguardo, prima di tornare a occuparsi della camicia a quadri rossi e neri, che infilò con un paio di manate dentro i jeans.

«Succede che il dottor Morris può arrangiarsi da solo con le sue navi e la sua merda, così magari ci trova pure qualche suo simile, in quella pozzanghera schifosa» imprecò, con tono duro e aspro.

Mentre i due uomini si guardavano interdetti, Katy raggiunse il furgone, agguantò il suo giubbotto di jeans che aveva lasciato sul sedile e, dopo averlo infilato, scostò la recinzione arancione che delimitava l’area e si allontanò a grandi falcate lungo il marciapiede affollato di gente e spazzato dal vento di novembre, le mani affondante nelle tasche.

 

* * *

 

Senza lavoro. Un’altra volta. Bella vita di merda. Ma perché aveva dovuto seguire i suoi sogni infantili e fare l’archeologa? Perché non aveva potuto trovarsi un impiego più redditizio? Se avesse studiato giurisprudenza, avrebbe potuto diventare avvocato e metterlo ogni giorno in quel posto a un sacco di gente… gente come Morris.

Katy ingollò d’un solo fiato il quinto o sesto bicchiere di rum secco. Aveva perduto il conto. Lo appoggiò al bancone e fece un cenno perentorio al barista perché glielo riempisse di nuovo. Quello obbedì senza un solo indugio.

Ma a chi voglio darla a bere?, si disse. Anche come avvocato farei schifo. Sarei l’avvocato delle cause perse. Be’, perse o vinte, perlomeno qualcuno mi pagherebbe la parcella…

Sapeva bene che, in un modo o nell’altro, la causa di tutto questo era suo padre. Aveva commesso una volta l’errore di presentarsi come figlia dell’esimio Henry Jones, Jr., e la notizia era subito trapelata di bocca in bocca: la maggior parte delle Università e dei musei erano diventati per lei zona off limits. Purtroppo, Indiana Jones era sì celebre, ma la fama che lo accompagnava, ormai, era soprattutto quella di distruttore di antichi templi e di preziosi manufatti, piuttosto che quella di grande archeologo e docente: e nessun curatore se la sentiva di affidarsi alla figlia di quella furia scatenata che, quasi sicuramente, doveva aver ereditato dal padre chissà quali doti dinamitarde. I tempi in cui gli archeologi andavano all’avventura sfidando l’ignoto erano ormai lontanissimi; e nessuno voleva più che tornassero, nemmeno per errore.

«Fregatene!» le ripeteva come un mantra il vecchio, quando lei, frustrata, gli parlava di tutti quei rifiuti. «Sono soltanto invidiosi: siccome non hanno mai alzato il loro sedere quadrato dalla scrivania, temono gli uomini e le donne d’azione come noi.»

Katy, da parte sua, si sentiva davvero una donna d’azione. Purtroppo, l’azione non voleva saperne, di venire da lei. A meno, naturalmente, di non voler considerare azione il doversi fare una nuotata in mezzo agli scarichi delle fognature. Ma, comunque, era certa di non essere tagliata per lavorare rinchiusa in un ufficio; il solo pensiero le provocava una sorta di esaurimento nervoso e le dava l’orticaria.

Anche per questo aveva sempre rifiutato di accettare di insegnare: l’idea di starsene per delle ore in un’aula asfissiante, di fronte a uno stuolo di studenti svogliati e ignoranti che giocavano con il Game Boy sotto il banco, la soffocava. Inoltre, l’unica volta che aveva acconsentito almeno a provarci, era stata caldamente invitata dal preside a cambiare al più presto acconciatura. E tutto perché, in quel periodo, aveva i capelli di un verde fosforescente. Si era licenziata prima ancora di iniziare.

«Ma che bella cuffietta» le sussurrò all’orecchio una voce che la fece trasalire.

Con gli occhi luccicanti e brucianti per il troppo alcol, Katy si voltò di colpo verso l’uomo che aveva parlato. Era sulla quarantina, non troppo più vecchio rispetto a lei, e aveva un’espressione da schiaffi dipinta in faccia. A giudicare dal giubbotto e dai jeans, doveva essere una specie di motociclista.

L’uomo ammiccò ai suoi capelli. Con un gesto secco, Katy si sbarazzò della cuffia di plastica che aveva dimenticato di togliere, e la sbatté con rabbia sul bancone lucido. La sua zazzera di capelli neri e arruffati, in mezzo a cui cominciavano già a intravedersi alcuni fili argentati, le ricadde scomposta e disordinata sulle spalle.

Il tizio si mise a sedere sullo sgabello accanto a lei e fece un cenno al barista.

«Quello che ha preso la signorina», disse.

Katy lo squadrò con gli occhi lucidi e iniettati di sangue.

«Chi ti dice che io sia una signorina?» blaterò, con voce strascicata.

«Semplice deduzione», replicò lui, facendole l’occhiolino. «Dovevo dire signora?»

Lei scosse il capo.

«Non farti venire strane idee, bello», mugugnò. «Ho avuto l’ennesima giornata di merda dopo una settimana di merda, ho buttato via il lavoro che sognavo e che invece si è rivelato essere una merda e sono ubriaca marcia, come una merda, alle cinque del pomeriggio. Quindi, se vai cercando una scopata, sappi che in questo momento la sola cosa che io abbia in testa è quella di uccidere qualcuno, e tu ti stai candidando molto bene allo scopo…»

L’uomo sorrise. Prese il suo bicchiere di rum e lo sorseggiò piano.

«Buono» commentò, portando il bicchierino davanti agli occhi e fissando il liquido scuro e ambrato con aria di intendersene. «Autentico Monte Cristo invecchiato sette anni. Bevi bene, piccola.»

Se non avesse avuto un improvviso giramento di testa per il troppo alcol, Katy gli sarebbe certamente saltata al collo per strangolarlo seduta stante. Invece, riuscendo a malapena a restare seduta dritta, borbottò: «Chiamami ancora una volta così e sei morto.»

«Perdonami» disse l’uomo, sorridendo, come se lei non gli avesse rivolto alcuna minaccia. «Magari, preferisci che ti chiami dottoressa Jones?»

Katy, ora, aveva di nuovo la sensazione di nausea che aveva avvertito guardando la fognatura. Solo che, al contrario di prima, non era più tanto sicura di riuscire a trattenersi.

Tuttavia, le riuscì di domandare: «Come… accidenti… mi conosci?»

Prima che il motociclista avesse potuto rispondere, un fiotto caldo e acido risalì la gola di Katy e le arrivò in bocca. Tossendo, la donna si voltò e vomitò di colpo sul pavimento tutto il rum che aveva ingerito. A quattro dollari e cinquanta al bicchiere facevano almeno trenta dollari di vomito. Che spreco di verdoni che se ne andavano a spasso sulle assi del pavimento.

Mentre il barista, senza battere ciglio, afferrava secchio e scopettone – doveva essere più che abituato a scene del genere – Katy si sentì sfregare la schiena dalla mano dell’uomo che le sedeva accanto.

«Perché sono stato inviato a prenderti, dottoressa Jones» le sussurrò all’orecchio, chinandosi su di lei.

Con il dorso della mano, Katy si pulì le labbra. Aveva ancora lo stomaco che faceva le capriole e, adesso, aveva un terribile e pulsante dolore nelle tempie.

«A prendermi?» ripeté, con un filo di voce.

Per un momento, temette che il dottor Morris avesse preso più male del previsto la sua defezione e volesse in qualche maniera vendicarsi. Che avesse inviato quel tizio per rapirla? Messa male com’era, non sarebbe di certo riuscita a sfuggirgli, se ci avesse provato. Ma le parole dell’uomo la sorpresero.

«Sì, certo, dottoressa. Ti andrebbe di rivedere una vecchia amica?»

 

II.

 

 

Monte Elbert, Colorado

 

 

Le Montagne Rocciose, coperte di nevi imperiture e di ghiacci che resistevano persino al sole dell’estate, si stagliavano come giganti contro il grigio cielo di novembre, rammentando con le loro forme i massicci misteriosi e le cime impenetrabili dell’Himalaya. Un pensiero, un ricordo, che riportava i fasti di una giovinezza lontanissima, ormai tramontata, che non sarebbe ritornata mai più. Forse.

Immobile dietro la vetrata del Centro, i candidi capelli raccolti in una coda e il volto solcato da rughe profonde, ognuna delle quali raccontava la storia di una vita vissuta appieno e non ancora giunta al suo ultimo traguardo, Sophia Hapgood era persa a rincorrere le sue memorie. Memorie che si accavallavano a un’idea che, di momento in momento, si faceva sempre più simile a una certezza: quella che non fosse tutto perduto, che potesse ancora esserci speranza… che quel sogno, morto tra i flutti dell’Atlantico e in parte riacceso tra i ghiacci del Tibet, potesse davvero tornare ad accendersi, ad ardere come un fuoco impetuoso…

Il Tibet. Un nome, un pensiero, un ricordo confuso. Qualcosa che, per qualche strano motivo, nella sua mente si presentava in maniera vaga, sfocata, come se pensando a quei giorni di tanti anni prima guardasse il suo passato attraverso lo schermo di un televisore dalla cattiva ricezione.

Sapeva che qualcosa era accaduto, tra quelle montagne inaccessibili. Qualcosa di importante, che l’aveva guidata per tutti quegli anni. Non aveva certezze, eppure… qualcosa, di quei giorni lontani, gli era rimasto impresso nella memoria. Qualcosa che l’aveva indotta a non arrendersi mai, a ricorrere a ogni sua astuzia e capacità per arrivare fino in fondo. Ma in fondo a che cosa, di preciso?

Si accarezzò le guance scavate dall’età e dalle tante privazioni, mettendo a fuoco per l’ennesima volta ciò che gli vorticava nella memoria. La scalata dell’Himalaya. Il monastero. Il mondo sotterraneo… e poi, soltanto parole confuse: Iperborei, anello di Chronos. Che cosa c’entravano quelle nozioni con il Tibet? Assolutamente nulla, almeno guardando le cose da un punto di vista razionale. Ma Sophia era più che certa che, quanto era accaduto laggiù, non potesse essere spiegato razionalmente. Ed era anche sicura che, in un modo o nell’altro, avesse a che fare anche con la sua smania ormai decennale di non arrendersi nel ricercare l’oricalco.

Lo aveva trovato, dopo lunghe ricerche. Un unico frammento, che le era rimasto conficcato nella spalla a seguito di un’esplosione, ma che era bastato come base di partenza per poterlo studiare, analizzare e, infine, riprodurre in laboratorio. Ora disponeva di una quantità tale di oricalco da poterci fare ciò che desiderava… solo che, a conti fatti, non sapeva che cosa farsene per davvero. Aveva sempre creduto, per tutta la vita, che l’oricalco fosse la meta; adesso, invece, aveva capito che era soltanto una tappa. Una tappa che avrebbe dovuto condurla in un luogo ben preciso.

«A Iperborea», disse tra sé, mormorando le parole. «All’Ultima Thule. Al confine estremo dell’impero di Atlantide. L’ultima frontiera non soltanto del mondo, bensì della conoscenza, da cui tutto avrà un nuovo inizio…»

Si voltò verso il vecchio orientale che attendeva immobile alle sue spalle. Poteva avere anche mille anni, a giudicare dal suo aspetto; sembrava una statua intagliata in un legno duro e stagionato. I suoi occhi neri, però, brillavano di una luce quasi iridescente. Irradiava pace, serenità e, soprattutto, consapevolezza. Aveva promesso che le avrebbe permesso di ricordare ciò che, per misteriose ragioni, aveva dimenticato. Grazie ai suoi insegnamenti e alla sua guida, avrebbe potuto tornare indietro nel tempo di mezzo secolo e scoprire di più, sapere perché la Terra degli Iperborei e quel misterioso anello di Chronos, qualsiasi cosa fosse, fossero tanto importanti, e come si legassero al Tibet. Perlomeno, era quello che sperava.

«Sono pronta, saggio Djwal Khul», annunciò. «Sono pronta per ricevere lo spirito della tua illuminazione.»

Il vecchio fece un vago cenno d’assenso con la testa.

«Nessuno è mai davvero pronto», mormorò in risposta. «Ma la verità è sempre in attesa di essere scoperta. Non bisogna mai smettere di cercare. Ti guiderò lungo i sentieri della conoscenza, Sophia, figlia di Atlantide.»

 

* * *

 

«Non vedo la dottoressa Hapgood da almeno cinque anni», rammentò Katy, con un sorriso. «L’ultima volta, eh già, è stato per il novantesimo compleanno di papà. È venuta a trovarlo e, per regalo, gli ha stampato un lungo bacio sulle labbra.» Ridacchiò al ricordo. «Mamma non è stata per niente contenta. Ha fatto una scenata di gelosia da manuale. Io, a quel punto, mi sono defilata, quindi non ho idea di come sia poi andata a finire…»

Erano seduti fianco a fianco, a bordo di un Boeing 737 della Southwest Airlines diretto verso il Colorado. L’aereo stava attraversando una turbolenza e rollava e sobbalzava a ogni vuoto d’aria.

Quando l’uomo che aveva conosciuto al bar si era presentato come Mark Turner, assistente personale di Sophia Hapgood, Katy si era sentita invadere da una subitanea euforia. Poteva darsi benissimo che fosse dovuta al troppo alcol, eppure era certa che non potesse essere soltanto per quello: conosceva bene Sophia, sapeva quante avventure avessero vissuto insieme lei e suo padre, prima, durante e dopo l’ultima guerra mondiale, ed era a conoscenza dei suoi studi nel campo dell’occulto.

L’aveva subito colta una consapevolezza: se Sophia Hapgood, in qualsiasi maniera, avesse avuto bisogno di lei, non era certo per via di uno scarico fognario rotto. Senza indugi, senza nemmeno fermarsi a porre qualche domanda per provare ad avere un chiarimento in più, aveva acconsentito a buttare qualche cosa di ricambio in una sacca da viaggio e partire per il luogo dove, da circa un decennio, la dottoressa Hapgood, dopo aver lasciato la CIA, aveva impiantato un laboratorio di ricerche privato.

Ora che erano in volo, comunque, le sembrava giunto il momento di fare qualche domanda. Fosse stato anche solo per non compiere l’intero percorso avvolti in un totale e a tratti perfino imbarazzante mutismo.

«Di che cosa si sta occupando, adesso, Sophia?» domandò Katy. «E, di preciso, in che cosa potrei aiutarla?»

Da parte del suo compagno di viaggio non giunse la benché minima risposta. Mark le aveva già spiegato che ogni ragguaglio le sarebbe stato fornito da Sophia in persona, però almeno un minimo di conversazione avrebbero potuto farlo…

Si voltò verso di lui e vide che era bianco come un cencio. Teneva gli occhi serrati e stringeva le mani attorno al bracciolo della poltroncina. Le nocche, per la pressione, gli erano diventate bianche. Rivoletti di sudore ghiacciato gli scendevano lungo il collo e si infilavano nel colletto del giubbotto da motociclista.

Per un istante, Katy temette che soffrisse il mal d’aria e che, adesso, fosse il suo turno per vomitare. Almeno sarebbero stati pari e avrebbero potuto instillare una sorta di legame reciproco. Molto presto, però, si rese conto che, quello che scorgeva sul volto di Mark, era puro terrore.

«Ehi», lo chiamò, toccandogli piano il braccio. «Tutto bene, sì?»

Lui aprì brevemente gli occhi e la fissò. L’aereo sussultò e le luci lampeggiarono. Torno a chiuderli. Non disse nulla.

«Su, su, non avere paura…» sussurrò Katy, posandogli una mano sulla sua e battendo piano.

«Su, su…» ripeté lui, con tono roco. «Più su di così… ma non potevamo prendere un buon, vecchio treno? Se l’ho fatto per venire da te, potevamo fare lo stesso anche a tornare indietro… Perché dobbiamo starcene appollaiati a questa altezza, dico io?»

Katy si lasciò sfuggire un sorriso. Chi avrebbe mai detto che l’assistente personale di Sophia Hapgood potesse avere paura di una sciocchezza come volare in aereo? Pensò a suo padre, con la sua irrazionale paura dei serpenti, e a suo fratello Mutt, che non sopportava la vista di un innocuo scorpione: tutti uguali, gli uomini! Bambini per tutta la vita, anche da adulti, persino alla soglia dei cento anni! Per fortuna che, al mondo, a tenere tutto in ordine, c’erano le donne.

«Dai», disse. «Cerca di non pensarci.»

«È una parola», grugnì Mark. Deglutì a stento, poi domandò, cercando di darsi una specie di contegno: «Cos’è che volevi sapere?»

«Perché Sophia voglia vedermi», rispose Katy, cogliendo la palla al balzo. «E di cosa si stia occupando ultimamente.»

Mark chiuse gli occhi, mentre diceva: «Immagino non sia affatto una novità, per te, se ti dico che Sophia ha contribuito in maniera determinante a scoprire prima il continente perduto di Atlantide e, in seguito, una colonia fondata da coloro che sfuggirono al disastro, chiamata Cibola…»

L’archeologa annuì.

«Papà mi ha raccontato tutto. Era anche lui della partita, in entrambi i casi. A vederlo oggi non si direbbe, brontolone e pantofolaio com’è diventato, ma in passato il vecchio era un uomo di mondo e ci sapeva davvero fare, in cose del genere.»

Il giovane ricercatore fece un cenno d’intesa.

«Quello che, forse, non sai, è che Sophia, nonostante la distruzione pressoché totale di Cibola e di Atlantide, riuscì a mettere in salvo un piccolo frammento di oricalco, su cui ha lavorato per tutti questi anni, compiendovi numerosi studi e sperimentazioni.»

Katy si morse le labbra.

«Ricordo che, un giorno, parlando con papà, accennò di sfuggita alla cosa, ma non approfondì molto» spiegò. «Era convinta che, tramite i poteri dell’oricalco, fosse persino possibile viaggiare all’indietro attraverso il tempo. Papà, da quel che mi ricordo, ridacchiò e non la prese molto sul serio. Inoltre, non credo che avesse molta voglia di sapere altro: le poche volte che l’ho sentito fare qualche riferimento all’oricalco, lo ha sempre chiamato “porcheria”. Dubito che gli interessasse averci a che fare di nuovo…»

Mark aprì gli occhi e staccò le mani dai braccioli per grattarsi il mento e i capelli. Un gesto che non sfuggì a Katy: che avesse toccato un argomento tutto sommato delicato?

«I viaggi nel tempo», mormorò infatti il ricercatore. «Ammetto che io e Sophia abbiamo preso più volte in considerazione questa possibilità. Non tanto per spostarsi fisicamente attraverso il tempo – questo, da quel che sappiamo allo stato attuale delle nostre conoscenze, è possibile farlo solo in avanti, e lo facciamo di continuo, senza bisogno di strani poteri – bensì per proiettare nel passato, e forse nel futuro, la propria volontà, influendo così sull’andare delle cose. Alterare il tempo, insomma. I risultati ci fanno ben sperare, a dire il vero. Ma, sulla base dei nostri esperimenti, per il momento non possiamo fare molto di più che spostare un fascio di luce indietro di qualche secondo… non scendo nei dettagli, non capiresti… magari Sophia, se lo riterrà opportuno, ti darà qualche ragguaglio in più.» Fece una breve pausa, prima di concludere: «Su questo punto, mi trovo a concordare con il professor Jones: viaggiare a ritroso attraverso il tempo è del tutto impossibile, per quanto ne sappiamo.»

Katy portò la mano davanti alla bocca e si morse il pollice. Un gesto fanciullesco che non aveva mai messo da parte e che tornava a ripetere ogni volta che era concentrata su qualcosa.

«Quindi non è per spedirmi indietro nel tempo, che Sophia vuole vedermi», disse. «Be’, non che la cosa mi dispiaccia. Preferisco starmene nella mia epoca, tutto sommato. Il passato e il futuro, per quanto intriganti siano, preferisco non vederli da vicino. Tanto, il passato lo posso conoscere da sola, studiandolo, e il futuro…» Passò la mano tra i capelli neri, consapevole che nascondessero qualche filo argentato. «…non ho fretta, per il futuro. Tanto prima o poi tocca farci i conti…»

Mark cercò di fare una risatina. Purtroppo, in quel momento l’aereo sobbalzò ancora e l’unica cosa che gli sfuggì dalle labbra fu un gemito colmo di terrore. Sprofondò di più nel sedile e congiunse le mani.

«Niente viaggi nel tempo, almeno per quello che ne so», rispose. «Ma Sophia [...]


 
   
 
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