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Autore: LettriceEllie    28/06/2023    1 recensioni
Non importa quanto stretti fossero gli spazi vuoti del cuore di Severus, lei avrebbe trovato la sua piccola crepa dove scaldarsi, all'ombra del fantasma di una donna che lui non avrebbe mai dimenticato.
Evaline Rosier ha il peso di un nome che non ha chiesto e un solo desiderio dal giorno lontano in cui ha incontrato un silenzioso serpeverde in biblioteca: stargli vicino nonostante tutto. Ma il "nonostante tutto" che la aspetta sarà la prova più dura.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alastor Moody, Albus Silente, Serpeverde, Severus Piton
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
Capitoli:
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 Quando riemerse dalle macerie le ci volle un po’ per realizzare cos’era successo. Intorno a lei alcuni fantasmi fluttuavano furiosi al seguito delle loro teste in una caccia senza fine, mentre urla ed esplosioni accompagnavano il fiotto di maledizioni che illuminavano la notte. Nelle orecchie di Evaline i suoni erano ovattati, come se provenissero da lontano, un fischio la trafiggeva da parte a parte impedendole di pensare a qualsiasi cosa, perfino al corpo immobile di Fred e di Percy chino sul suo.
Da quanto tempo era cominciata? Non ne aveva idea. Dall’istante in cui aveva visto la sagoma nera di Piton sparire oltre la finestra aveva cominciato a muoversi come se a comandare il suo corpo fosse qualcun altro, non lei. Evaline si era rintanata da qualche parte, nascosta e assopita, mentre obbediva alle direttive di Minerva. Fu l’arrivo degli studenti nella Sala Grande a destarla, costringerla a guardare negli occhi i ragazzini del primo anno e lì, in quel terrore, trovare sé stessa. Il suo primo e unico pensiero sarebbe stata la loro sicurezza, si ripeté mentre camminava tra loro e li rassicurava, la voce calma e dolce, i modi gentili, una calma che cozzava con il groviglio che si dibatteva nel suo petto. La voce del Signore Oscuro la fece vacillare, ma si mantenne comunque salda come le era stato insegnato.
«Tornerai qui una volta che gli studenti saranno al sicuro. Non ti lascerai distrarre da altro, giusto?» Minerva McGonagall l’aveva guardata da dietro le lenti squadrate degli occhiali, la bocca serrata in una delle sue espressioni severe. Evaline aveva colto la sua allusione e avrebbe tanto voluto rispondere con altrettanta fermezza, ma tutto ciò che era riuscita a fare fu un cenno rapido del capo. Quando si fu voltata per scortare i ragazzi Evaline aveva sentito lo sguardo della collega fisso sulla sua nuca, poteva sentirlo mentre la trafiggeva.
Affidati gli studenti ad Aberforth tornò a sentirsi un burattino manovrato da fili invisibili, una sensazione quasi rassicurante, perché tutto quello che doveva fare era starsene rannicchiata dentro quel cantuccio sicuro all’interno di sé e seguire quel flusso. Dopo tutto era stata allevata per eseguire gli ordini, no? Era facile, maledettamente facile: restare con gli studenti, combattere all’interno delle mura di Hogwarts insieme ai suoi colleghi, ai membri dell’Ordine, il lascito di Silente schierato tra quelle pareti in cui aveva trascorso gran parte della sua vita. La luce di due maledizioni che si scontrarono la fece sobbalzare e per un attimo vide il proprio riflesso su un vetro infranto e faticò a riconoscersi. La veste da notte era sgualcita e sporca, la treccia scarmigliata pareva un animale morto, con uno strato di polvere e detriti impigliati tra le ciocche e sangue rappreso sulla fronte. Aveva sbattuto? Non ricordava. Sulle sue spalle era appuntato un mantello nero, era stato allacciato con cura solo poche ore prima, in un momento rubato che pareva incastonato in un tempo lontano, lontanissimo. La stoffa quasi toccava il pavimento, ma per fortuna non l’intralciava nei movimenti. Forse era a causa di quel mantello che Minerva le aveva posto quella domanda, l’allusione nel tono e nei suoi occhi severi.
Ad Evaline non importava granché. Si era rannicchiata in quel giaciglio sicuro, dentro di sé, nel tentativo di obbedire a ciò che le era stato ordinato. Tornò a reprimere il galoppante desiderio di ignorare gli ordini e corse dove c’era bisogno del suo aiuto, quel debole aiuto che era in grado di fornire ad Hogwarts e a Potter. Non era riuscita a guardarlo in faccia neanche una volta da quando era tornato, né ne aveva intenzione. Combatté le maledizioni con una maestria che non era la sua, obbedì meccanicamente a ciò che il corpo le suggeriva di fare, scansando fiotti di luce e macerie che le rovinavano addosso. Ad ogni balzo, ad ogni piroetta la sua lunga treccia danzava, il rosso dei capelli illuminato dalle maledizioni, il sangue rappreso sulla fronte e sulla tempia. Inseguì un mangiamorte ferito e si trovò in biblioteca, dove alcuni libri incantati si scagliarono sull’uomo colpendolo a ripetizione sul cranio già vessato da una fattura lanciata da chissà chi. L’uomo fece per voltarsi, ma esitò, la bacchetta in mano e gli occhi sgranati.
«Tu sei la figlia di Rosier. Dovresti essere…»
«Diffindo!» la voce di Evaline sferzò l’aria insieme al fascio di luce che trafisse l’uomo, facendolo crollare contro uno dei tavoli posti in fondo. Non era mai stata brava negli incantesimi offensivi, ma in quel momento sarebbe stata in grado di compiere qualsiasi gesto. Il suo corpo lo era, almeno. Lei, Evaline, era al sicuro. I suoi piedi non si mossero, però. Fissò il tavolo della biblioteca e per poco non le mancò il respiro. Era quello posto in fondo a destra, tra le alte librerie e alcuni scaffali che lo nascondevano alla vista di chi si trovava dalla parte opposta della stanza. L’accesso al reparto proibito era poco più avanti, i fantasmi a guardia adesso erano impegnati altrove, ma era lì che fluttuavano, pallide sentinelle messe a guardia da Madama Pince. Quel tavolo su cui adesso era steso il mangiamorte era stato spostato, forse qualcuno aveva già combattuto lì dentro, i libri sopra di loro si agitavano come uccelli impazziti, sbatacchiando le pagine come ali pesanti. Evaline fissò quel tavolo per un tempo che parve infinito, dopodiché tornò in sé. Sapeva benissimo cosa fare. Sapeva benissimo dove andare. Forse era la pozione a suggerirlo, forse l’aveva sempre saputo, ma si sarebbe preoccupata di darsi delle risposte solo quando lo avrebbe trovato. Corse via, corse con un’agilità che non le apparteneva, custodendo nel cuore l’immagine di quello stesso tavolo accostato tra le librerie, anni prima, con la luce del pomeriggio ad illuminare due sagome lì sedute, ma distanti, come a ribadire l’esistenza di una barriera invalicabile.
 
Capitolo 1
 
«…undici pollici, flessibile, pero e cuore di crine di unicorno.» Olivander elencava le proprietà della bacchetta con un sorriso che esprimeva sollievo. Fece per dire altro, ma Moody attirò l’attenzione su di sé con un grugnito, lasciando intendere di voler concludere in fretta la questione. Evaline osservò l’auror intento a pagare la sua bacchetta, poi tornò a guardare il disastro che aveva combinato con gli esemplari precedenti. Venuto a conoscenza del nome della ragazzina, Olivander le aveva proposto alcune bacchette nella convinzione che fossero adatte a lei perché simili a quelle del padre: poco flessibili, legni capricciosi, corda di cuore di drago nel nucleo. Evaline aveva agitato le prime con movimenti energici, ma dopo i primi fiotti di scintille brucianti aveva deciso di essere più cauta. Quella che aveva provato poco prima di essere scelta l’aveva scossa appena e quel movimento impercettibile era bastato a scaraventare il vecchio bancone contro la parete opposta, fracassando alcuni scaffali. Moody era rimasto impassibile, mentre Evaline era paonazza per la vergogna e il calore del fuoco che aveva appiccato ancora prima.
«Alastor.» Lo chiamò flebilmente mentre tentava di tenere il passo dell’uomo. Il mantello era troppo pesante, di un caldo asfissiante, ma non aveva modo di sfilarlo a causa dei pacchi che reggeva con entrambe le mani.
«Ti comprerò un gelato quando avremo recuperato i dannati libri che mancano. Devi anche prendere le misure per la divisa scolastica.»
«Oh, non intendevo chiederti un gelato.» Ammise con un sorrisone ansante. L’avrebbe accettato volentieri, però. Il caldo era sempre più asfissiante ed erano passate ore dalla colazione. «Ti volevo solo chiedere…»
Esitò, ma lo sguardo diretto di Moody la costrinse a cacciare fuori la domanda che le si era già affacciata negli occhi. «Secondo te la bacchetta che mi ha scelto è come quella di mia madre?»
Non avvenne alcun mutamento sul viso sfregiato di Alastor Moody, ma Evaline era preparata a quell’impassibilità. Di rado le concedeva informazioni sulla famiglia a cui apparteneva un tempo, non sembrava neppure vagamente interessato a fornirne. Di suo padre, Evan Rosier, Evaline sapeva soltanto che era stato un mago oscuro e che aveva portato con sé un pezzetto di naso di Moody prima di morire. Non provava malanimo nei confronti dell’auror, né nei confronti dei suoi colleghi che si alternavano per occuparsi di lei. Rimasta sola e senza nessuno in vita, dall’età di quattro anni Evaline aveva sperato in un’adozione, desiderio che non venne mai realizzato. Viveva in un orfanotrofio e gli auror che scortavano le sue gite erano tutti gentili. Moody, per quanto burbero, non faceva eccezione.
«Possibile.» rispose dopo un po’, liberandola dai pacchetti. «Di certo non ha nulla a che vedere con la bacchetta di tuo padre, puoi stare tranquilla.»
Erano ormai entrati al Ghirigoro ed Evaline preferì non chiedere altro. Una voce dentro di lei si interrogava spesso su un dilemma morale: avrebbe dovuto odiare l’uomo responsabile della morte di Evan Rosier? Suo padre sarebbe stato vivo se non fosse stato per lui, eppure Evaline sentiva di voler bene all’auror. L’orfanotrofio destinato ai figli di maghi era gestito da Madame Francine, una donna vigorosa e buona, ma Evaline passava molto tempo in compagnia degli auror che alternavano la guardia alla struttura. Secondo Madame Francine la loro presenza era rassicurante, perché spesso i bambini senza famiglia venivano destinati al Signore Oscuro, giovani leve da indirizzare alle arti oscure.
Il solo pensiero fece accapponare la pelle di Evaline, che per un attimo riuscì a dimenticare il caldo. Un attimo, appunto. Si sfilò il mantello e lo lasciò su uno sgabello, in modo da potersi aggirare comodamente nel negozio affollato, dove maghi e streghe non facevano che urtarla e inciampare su di lei. Era piccola, paffuta, l’abito azzurro le stava un po’ stretto, ma a Moody era stato detto di commissionare altri vestiti oltre la divisa scolastica.
«Vedi di andarci piano con le merende, ragazzina. Non puoi sperperare la tua eredità in vestiti.»
Evaline arrossì leggermente, ma la vergogna era limitata a quel breve calore che le accendeva le guance, un rosso che richiamava in parte i capelli, di una nota pel di carota accesa da sfumature bionde. Il tutto non era accompagnato da lentiggini, nemmeno il sole diretto ne faceva affiorare una spruzzata, limitandosi ad arrossarla a chiazze.
«Evans, non hai risposto ai miei gufi.»
Fu per caso che Evaline si trovò nei pressi di un ragazzo alto, magro, i capelli spettinati e un paio di occhiali sul naso. Guardava la ragazza davanti a sé con aria vagamente contrita, delusa quasi, ma qualsiasi fosse l’espressione di lei, Evaline non riuscì a vederla. C’era solo quella massa incantevole di capelli rosso scuro a scivolarle lungo la schiena. Evaline avrebbe voluto avere la stessa chioma curata, spesso aveva desiderato qualcosa di diverso rispetto alle onde crespe che, spazzolate malamente, si gonfiavano orrendamente.
«Tutta l’estate.» incalzò lui, ma non c’era traccia di aggressività nella voce. Guardava la ragazza e i suoi occhi parvero feriti.
«Mi sembrava ci fossimo salutati bene, a fine anno. No?» azzardò un sorriso, la speranza che tornava a farsi strada nei suoi occhi. La ragazza davanti a lui chinò leggermente il capo e un po’ di luce illuminò gli occhi di lui. Evaline ipotizzò che l’altra stesse sorridendo.
«Non sapevo cosa scrivere.» Ammise l’altra, la voce un po’ cupa screziata da quella che parve timidezza. «Volevo…»
Non seppe mai cosa volesse, perché il ragazzo si accorse di Evaline e, mormorato qualcosa all’altra, si allontanarono da lì. Evaline ebbe giusto il tempo di vedere il viso della ragazza e di ricambiare il suo vago sorriso con uno più affrettato ma sentito. Non voleva spiare, ma si era ritrovata a pochi passi da loro a causa della folla che la spingeva lontano dal bancone. Folla che si divise al passaggio dell’Auror, gli sguardi che dal suo volto fuggivano via nell’istante in cui parevano riconoscerlo. Evaline era abituata a quelle reazioni e poco le importava se dietro quell’atteggiamento ci fosse paura o rispetto, odio o disgusto. Non aveva mai compreso la gravità degli eventi legati al Signore Oscuro, per quanto Moody non si facesse scrupoli a parlarne davanti a lei che, tutte le volte, riusciva a distrarsi pensando a qualcosa di futile e spensierato.
«Ti sei fatta un’idea delle case di Hogwarts, immagino.» buttò lì Moody dopo averle concesso l’agognato gelato. Erano seduti su un muretto tra pacchi e buste, quasi tutte le compere portate a termine. Ai passanti faceva uno strano effetto vedere una coppia così male assortita, ma bastava un’occhiata di Moody a costringerli a voltarsi dalla parte opposta.
«Sì. Secondo Theodore finirò a Serpeverde.» Evaline emerse dal gelato e rispose senza curarsi né di quanto detto né della vaniglia appiccicata sul mento.
«Chi è Theodore e dov’è che ha sbattuto la zucca che si trova al posto della testa? Cosa c’entri tu con Serpeverde?»
Evaline rise. «Theodore sta in orfanotrofio con me. I suoi genitori erano entrambi Auror, quindi sa un sacco di cose e mi ha detto che tutta la mia famiglia era Serpeverde.»
A Moody non sfuggì l’adorazione di Evaline nel nominare la professione dei genitori e per quanto apparisse compiaciuto, non si soffermò granché, procedendo in tono burbero. «Theodore sbaglia.» tagliò corto. «Tua madre era Corvonero. Adesso finisci quel gelato e…» ma non ebbe modo di finire perché Evaline parve ricordare qualcosa e, passato il cono all’uomo, corse verso il Ghirigoro facendo cenno di aspettare. Un po’ avvilito, l’auror borbottò un’imprecazione mentre lei si richiuse la porta alle spalle. La ragazzina tentò di farsi strada all’interno del negozio finché lo sguardo non si posò su una figura magra e grigiastra che se ne stava appollaiata su uno sgabello come un avvoltoio sul suo trespolo. Evaline si posizionò a pochi passi da lui e si schiarì la voce nel tentativo di attirare la sua attenzione, ma lui continuò a starsene con un libro aperto sulle gambe e il profilo rivolto verso una finestra che dava sulla stradina affollata del quartiere magico. Era privo di colore, pallido come un morto nonostante l’estate appena trascorsa.
«Perdonami.» pigolò Evaline dopo essersi decisa a rompere il silenzio, ma le ci volle un secondo tentativo per attirare l’attenzione del ragazzo. «…il fatto è che…» più che la timidezza fu la paura di disturbarlo a renderla tanto esitante. «Il mantello, dico. Sì, sei seduto su…»
Finalmente il ragazzo prese atto della sua presenza e la trafisse con un’occhiata feroce, cattiva. «Che vuoi?» Un sibilo, l’aria di chi sembra pronto a mettere mano alla bacchetta, Evaline la vide sbucare dai pantaloni. Probabilmente era uno studente di Hogwarts e il pensiero la fece rabbrividire appena. Se fossero stati tutti ostili come lui sarebbe stato un bel problema. Poi notò i suoi occhi lucidi e il timore poco a poco si dissipò, lasciandola solo vagamente impacciata. «Ti sei seduto sul mio mantello. L’ho dimenticato quando sono entrata poco fa e…» ma lui sembrava essersi già dimenticato di lei, perché aveva individuato qualcuno tra la folla. Non le scoccò neppure un’occhiata mentre si alzava e raggiungeva un paio di ragazzi dall’aria vagamente annoiata. Evaline ne approfittò per raccogliere il mantello sgualcito, lanciare un ultimo sguardo al ragazzo che spariva nella folla, per poi tornare da Moody e i suoi borbottii per essersi allontanata a quel modo.
   
 
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