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Autore: _Agrifoglio_    01/07/2023    14 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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L’eredità dei grandi
 
Isola di Sant’Elena, aprile 1820
 
Rivolto verso l’oceano, con le braccia conserte e il viso pensieroso, Napoleone scrutava l’infrangersi delle onde sugli scogli dello sperduto sasso dove era stato confinato e, subito dopo, alzava gli occhi verso l’orizzonte, in cerca di cose perdute.
Oltre le nuvole e qualche peschereccio, tuttavia, lo sguardo dell’ex Imperatore non andava e, allora, i ricordi lo assalivano e ripensava all’ansia febbrile della gioventù, al rombo dei cannoni, alle lunghe marce, all’inneggiare dei soldati, all’esercito, alle armate e al doloroso e bruciante amore per una creatura appassionata e infedele.
Si agitava come una tigre in gabbia, nessuno stimolo lo aiutava ad affrontare le giornate e, senza uno sprone, si sentiva finito. Soltanto il piacere di avanzare avrebbe potuto sostenerlo. Oltre alle cavalcate per l’isola, peraltro sempre sotto scorta, alla dettatura delle sue memorie, alla lettura di libri che tardavano ad arrivare e al giardinaggio, aveva ben poco da fare e, allora, si ritrovava sempre più spesso a ciondolare per la casa e c’erano notti in cui, anche a causa dell’afa, passava dal letto alla poltrona in un’alternanza frenetica che si protraeva fino all’alba.
La moglie lo aveva completamente abbandonato, del figlio riceveva poche notizie mentre la madre e la sorella avrebbero voluto raggiungerlo sull’isola, ma non erano state esaudite. Mostrando una devozione e uno spirito di sacrificio inimmaginabili in una creatura capricciosa ed edonista come lei, la bella Paolina non aveva esitato a vendere gioielli e ville per aiutare il fratello in disgrazia e a dare la sua sincera disponibilità ad abbandonare agi e lussi per raggiungerlo a Sant’Elena, così dimostrando di avere autenticamente e disinteressatamente amato almeno una persona in vita sua.
Di tutti i capi di Stato e i politici, soltanto Papa Pio VII, che era stato a lungo prigioniero dell’Imperatore, aveva esercitato i suoi buoni uffici per mitigarne le condizioni di esule.
La sistemazione a Longwood House era particolarmente scomoda, perché quella residenza era poco più di una dimora di campagna, dotata di camere del tutto inadatte, per arredamento e dimensioni, a ospitare un Imperatore con il relativo seguito. La casa, inoltre, aveva un’esposizione infelice, essendo riarsa dal sole e flagellata dai venti tropicali. I topi la invadevano e le mosche e le zanzare svolgevano il loro compito con solerzia, rendendo irritabili quegli stessi Generali che, in battaglia, avevano dato prova di notevole sangue freddo. Napoleone aveva chiesto più volte di essere trasferito altrove, ma il Governatore dell’isola, Sir Hudson Lowe, aveva sempre rifiutato, perché riteneva Longwood House adatta più di ogni altra dimora alla sorveglianza continua del prigioniero.
Il capitolo di Sir Hudson Lowe meritava una menzione a parte. I rapporti fra l’ex Imperatore e il Governatore erano sempre stati tesi, a causa dell’assenza di educazione e di tatto di Lowe e della superbia di Napoleone. Sir Hudson Lowe gli si era rivolto sin dall’inizio col titolo di “Generale” e Napoleone, inviperito dal mancato riconoscimento della sua dignità imperiale, non aveva tardato a iniziare con lui una coesistenza fatta di schermaglie e di dispetti. Sospettoso e ottuso come pochi, Hudson Lowe viveva nel costante terrore che il prigioniero evadesse dall’isola, come già aveva fatto dall’Elba e aveva adottato una serie di misure che avevano ulteriormente irritato l’amor proprio di Napoleone. Lo faceva sorvegliare in tutti gli spostamenti per l’isola, aveva disposto che i soldati montassero la guardia davanti a Longwood House anche di notte, aveva ordinato che la corrispondenza in arrivo e in partenza dell’ex Imperatore e dei dignitari che lo avevano seguito fosse letta e che la corte di Longwood non avesse contatti diretti coi commercianti. Aveva anche posto un limite alle spese di sostentamento del prigioniero a carico della corona inglese, stabilendo che il di più fosse pagato da lui e i libri che questi chiedeva glieli faceva arrivare con grande ritardo e alcuni giungeva a negarglieli. Napoleone moltiplicava le sue lamentele e il Governatore le ignorava, inasprendo il rigore del regime carcerario.
Napoleone corrucciò lo sguardo e batté, quasi involontariamente, il piede sulla polvere.
Il nome che aveva fatto ridere i cadetti di Brienne e tremare i popoli rischiava di cadere nell’oblio.
Un’esistenza straordinaria, passata attraverso i campi di battaglia e i palazzi imperiali, era iniziata su un’isola selvaggia e sarebbe probabilmente finita su un’altra ancora più desolata.
Pensava alle ore che scorrevano lente e inutili in quell’angusto scoglio maledetto, alla sua volontà illimitata costretta in una terra solitaria e arida e, d’un tratto, si accorse che fra poco sarebbe sopraggiunto l’imbrunire. Come accadeva ormai tutti i giorni all’avvicinarsi del tramonto, un cupo scoramento lo colse, al pensiero di un’altra giornata trascorsa nell’inattività e nell’inane ripetersi di gesti uguali e sempre più pesanti.
 
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Reggia di Versailles, luglio 1820
 
– RicordateVi, Principessa, che le redini vanno tenute basse, ma, se volete fermarVi, tiratele con forza. E non premete troppo sui fianchi del cavallo!
Con una pazienza insolita per lei, Oscar insegnava alla Principessa Elisabetta i primi rudimenti dell’equitazione. Per la verità, la bambina non correva grossi rischi in groppa al suo docile pony, ma era, pur sempre, necessario instillarle le giuste nozioni sin dall’infanzia altrimenti sarebbe diventata una pessima cavallerizza.
Madame Royale era molto seria e diligente in tutto quello che faceva e fermamente determinata a imparare ogni giorno cose nuove.
Oscar si domandava se la Principessa fosse cosciente della delusione che la propria nascita aveva provocato e se tanta applicazione non fosse un mezzo per colmare il divario fra realtà e aspirazioni e per farsi accettare. Avendo vissuto in prima persona una situazione analoga, non poteva che solidarizzare con colei che, pur non essendo costretta a fingersi un uomo, portava sulle spalle le aspettative frustrate non di una sola famiglia, ma di un’intera nazione.
– Madame Oscar, questo già lo so, ma io vorrei cavalcare!
– Non dovete essere impaziente, Altezza. I risultati migliori sono quelli ottenuti con pazienza e perseveranza mentre la fretta è una cattiva consigliera.
– Lo so, Madame Oscar e lo sa anche Bijou. Se fossi un animale, vorrei essere un pony. Tutti ammirano la bellezza e l’eleganza dei cavalli, mai i pony sono pazienti, leali e generosi. Spesso, la gente vuole quello che non può avere e, nel rimpianto di ciò che non sarà mai, non si accorge di quello che c’è.
– E’ vero, Principessa – disse Oscar, col cuore trafitto – Vi faccio fare il giro della staccionata. Dopo, però, dovremo rientrare, perché, fra poco, saranno le otto e il sole in cielo comincerà a picchiare.
 
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Isola di Sant’Elena, Longwood House, ottobre 1820
 
Napoleone si ergeva nella sua corpulenta figura davanti al Governatore dell’isola di Sant’Elena. Stringeva i pugni mentre l’altro gli contrapponeva la sua ostinazione, pur con uno sguardo che ne tradiva la crescente inquietudine. Fra i due, la tensione era evidente.
– Sir Lowe – disse l’ex Imperatore, con voce che si sforzò di mantenere cordiale – Dovete ordinare alle Vostre guardie di desistere dal seguirmi ovunque. Me le trovo dietro quando cavalco e quando passeggio, a Jamestown, sulla costa e in ogni dove. Sono schierate davanti a questa dimora anche di notte!
– Generale – rispose il Governatore, provocando una visibile smorfia di disappunto sul volto del suo interlocutore – Devo con riluttanza ricordarVi che Voi, qui, siete un prigioniero, sebbene illustre e io non posso consentirVi una maggiore libertà di movimento.
– Voi, consentite a me!! – ruggì Napoleone con il volto trasfigurato in una maschera di collera – Voi, oscuro militare e ancor più modesto Governatore di un’isola che non esiste!!
– Dovreste avere maggiore considerazione di quest’isola che non esiste, Generale, dato che adesso ne siete un abitante.
Napoleone non credeva alle sue orecchie. Quel mediocre individuo, che le circostanze avevano posto a guardia di un gigante, trovandosi col coltello dalla parte del manico, provava piacere a umiliarlo e, da questa posizione di truccata supremazia, si beava al pari di chi sbeffeggia un leone chiuso in gabbia. Probabilmente, c’era del vero nell’analisi effettuata dall’ex Imperatore, ma la totale assenza di umiltà da parte di lui e il malcelato disprezzo verso quello che a tutti gli effetti considerava il suo carceriere non avevano mai giovato alla distensione dei loro rapporti.
– Mister Lowe – ribatté Napoleone, omettendo volutamente il titolo di “Sir” – Limitate i miei movimenti, mi sorvegliate anche di notte come un reprobo rinchiuso in un bagno penale, leggete la mia corrispondenza, mi proibite ogni contatto diretto coi commercianti, Vi beate di centellinarmi i libri da leggere e ogni altro onesto piacere e, ora, avete anche stabilito che debba pagarmi la mia prigionia!
– Soltanto oltre una certa somma peraltro ragguardevole, Generale – rispose, con cipiglio dispettoso e ostinato, Hudson Lowe.
– Voi che Vi fate forte delle circostanze – urlò Napoleone – Ditelo che volete avvelenarmi!!
– Voi offendete il mio onore, Generale!! – rispose incollerito il Governatore, scrutando il suo prigioniero con occhi sempre più cattivi.
Poi, però, il carattere sospettoso ai limiti della paranoia di Lowe ebbe il sopravvento ed egli iniziò a temere che Napoleone estraesse dalle vesti uno stiletto e lo colpisse.
Passato dalla presuntuosa alterigia dei vincitori alla paura, abbandonò immediatamente Longwood House e colui che la abitava.
 
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Reggia di Versailles, marzo 1821
 
Napoleone era esule a Sant’Elena ormai da quasi sei anni, ma il ricordo e l’eredità di lui erano più vivi che mai. Molte persone in Europa lo rimpiangevano e addirittura lo veneravano e ciò metteva a repentaglio la stabilità delle monarchie e soprattutto il ricostituito assetto delle nazioni, faticosamente raggiunto dopo venti anni di guerre.
Luigi XVII, al pari degli altri capi di Stato, ne temeva la memoria – memoria di un vivo da molti già santificato – e questo problema costituiva spesso argomento di discussione fra Oscar e la Regina Maria Antonietta.
– Avete saputo, Madame Oscar, dell’ondata di sdegno che sta agitando l’Europa negli ultimi mesi? – domandò Maria Antonietta mentre guardava Oscar con aria preoccupata.
– Sì, Maestà – rispose Oscar, restituendo alla Regina madre un’occhiata che si sforzò di fare apparire rassicurante – Riguarda, ancora una volta, i maltrattamenti inflitti dal Governatore dell’isola di Sant’Elena, Sir Hudson Lowe, a Napoleone.
– Le cose stanno così – disse la Regina, dopo avere stretto le labbra – Hudson Lowe ha stabilito un tetto massimo alle spese per il mantenimento della corte napoleonica di Longwood a carico della corona inglese. Ciò che va oltre questo limite deve essere pagato da Bonaparte stesso. Napoleone, che non è uno sciocco, si è lamentato come al solito e, poi, ha trasformato la questione in una sua schiacciante vittoria diplomatica. Pur essendo ricchissimo – egli, infatti, ha conti milionari disseminati per le banche di Europa e altrettanto ricchi sono i parenti e i seguaci – ha messo in vendita parte dell’argenteria portata a Sant’Elena per fare fronte alle spese di mantenimento.
– Si tratta, ovviamente, di una messinscena, Maestà – disse Oscar.
– Naturalmente – confermò la Regina – ma, intanto, la gente ci crede. Bonaparte ha fissato la vendita a ridosso del rientro in Europa di alcuni ufficiali inglesi e ha avuto cura di invitarli nel cortile della sua residenza, dove la vendita si è svolta. Questi ufficiali, al loro ritorno a casa, hanno diffuso la voce che l’ex Imperatore, ridotto in miseria dalla crudeltà di Hudson Lowe, è stato costretto a vendere l’argenteria per sfamarsi!
– A Lord Wellington, Sir Lowe non piace – disse Oscar – La settima scorsa, siamo stati ospiti del Duca all’ambasciata inglese ed egli ne ha parlato in termini niente affatto lusinghieri. Lo ritiene privo di educazione e di giudizio, uno che, non sapendo nulla del mondo, è sospettoso e paranoico. Una pessima scelta, insomma.
– E questa pessima scelta rischia di trasformare Napoleone in un martire! – si lamentò la Regina.
– L’importante è non dare vigore a questa leggenda, Maestà. Non la si deve alimentare – rispose Oscar, abbassando le palpebre e tossendo un poco – Occorre prendere atto che una parte dei francesi stima Bonaparte e, purtroppo, lo vorrebbe sul trono. A mio umile avviso, il Re dovrebbe evitare le occasioni di scontro, non cadere nella trappola della delegittimazione dell’avversario che ne inasprirebbe i sostenitori e dimostrare, col proprio buon governo, di essere la scelta migliore.
– E’ assurdo come un tale avventuriero, un simile perturbatore della pace universale, sia da molti amato fino alla venerazione! – esclamò Maria Antonietta con occhi duri e voce alterata.
– Non si può trattare Napoleone da semplice avventuriero e guerrafondaio, Maestà – disse Oscar, con tono pensieroso – Egli è un genio che, con la sua vita fuori dal comune e la sua incredibile ascesa, eccita la fantasia delle masse e lo spirito di rivalsa delle persone. Come condottiero, egli è pari ad Annibale, ad Alessandro Magno, a Giulio Cesare e a Gengis Khan. Come politico, ha avuto l’abilità di presentare se stesso come l’alfiere e il diffusore degli ideali illuministici di libertà, uguaglianza e fraternità che i rivoluzionari non riuscirono a divulgare per i loro evidenti limiti. Che ci piaccia o no, Maestà, Napoleone è un gigante e i grandi hanno sempre un loro lascito, un’eredità da offrire all’umanità.
– Sarete accanto al Re, Madame Oscar?
– Come sempre, Maestà.
– Madame Oscar – proseguì la Regina con occhi fattisi lieti – Non è soltanto per discutere di Napoleone che Vi ho mandata a chiamare. C’è un argomento più gradevole, ma altrettanto importante, di cui vorrei parlarVi.
La voce della Regina, nel pronunciare queste parole, si fece gaia e dolce, come quella degli anni giovanili.
– Sono a Vostra disposizione, Maestà – disse Oscar, con espressione incuriosita.
– Si tratta di Madame Royale, la Principessa Elisabetta – disse Maria Antonietta con tono divenuto carezzevole – So che occasionalmente le date lezioni di scherma e di equitazione e che lei gradisce molto la Vostra vicinanza e i Vostri insegnamenti. Ha sempre avuto un debole per Voi!
Il volto di Oscar fu rischiarato da un sorriso e gli occhi le brillarono.
– Ebbene – disse la Regina madre – La Principessa Elisabetta, il prossimo mese, compirà nove anni e il Re e la Regina hanno ormai perso le speranze di avere altri figli. Sin dalla più tenera età, mia nipote ha dimostrato di avere un bel carattere, molta serietà, acume, intelligenza, buon senso, equilibrio, una spiccata propensione per lo studio e, soprattutto, la capacità di mediare fra i vari interessi e di farsi stimare e obbedire. Tutto il contrario di sua nonna, insomma… Il fatto è che il Re non vuole sprecare un simile talento e – Ve lo dico in via del tutto confidenziale – intende fare abrogare la legge salica, così da far diventare la figlia Delfina ed erede al trono. A questo proposito, sta già preparando il terreno e, quando i tempi saranno maturi, proverà ad agire in tal senso.
Oscar guardò la Regina madre con volto assorto, ma senza manifestare sorpresa.
– Il Re – proseguì Maria Antonietta – ha già iniziato a portare con sé la figlia nelle cerimonie e nelle occasioni importanti e ha incaricato un Gesuita di insegnarle il latino e il greco. La Principessa studierà anche la letteratura francese, l’italiano, il tedesco, l’inglese, la storia, la geografia, la matematica e l’algebra. Alcuni professori di diritto della Sorbona le daranno lezioni private e il Vescovo de Talleyrand la introdurrà nella difficile arte della politica e della diplomazia.
Maria Antonietta fece una pausa e, poi, continuò con fervore.
– Desidero che Voi, Madame Oscar, insegnate alla Principessa Elisabetta non soltanto la scherma e l’equitazione, ma anche la strategia militare, perché, se sarà Regina, diventerà Comandante Supremo delle Forze Armate.
– Sarà fatto, Maestà – disse Oscar, con voce marziale.
– Ma non è tutto. Voglio che Voi, Madame Oscar, curiate la crescita umana della Principessa Elisabetta, che le insegnate il senso dell’onore e della giustizia, la forza, l’onestà, lo spirito di sacrificio, la resistenza alle avversità, il non arrendersi mai! Se mia nipote è destinata a svolgere un lavoro da uomo, dovrà avere in Voi la sua guida e la sua ispirazione. Chi meglio di Voi potrebbe insegnarglielo? Desidero che i Vostri valori, la Vostra forza, la Vostra grandezza d’animo, la Vostra umanità, tutto quello per cui avete combattuto, faticato, amato, tutto quello che siete, si trasmetta a lei! Avete ragione, Madame Oscar, i grandi hanno sempre un loro lascito, un’eredità da offrire all’umanità. Voi lascerete la Vostra esperienza e la Vostra vita straordinaria in eredità alla prima Regina di Francia. Voi formerete mia nipote! Giuratemelo, Madame Oscar!
– Ve lo giuro sul mio onore e su quanto ho di più caro, Maestà!
 
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Parigi, aprile 1821
 
In uno dei tanti ricevimenti, organizzati nelle case dei nobili, per celebrare il genetliaco della Principessa Elisabetta, erano presenti anche i Marchesi de Saint Quentin che vivevano stabilmente a Lille, ma che si erano concessi una parentesi parigina per partecipare ai festeggiamenti.
Bernadette era una splendida donna trentenne che, in cinque anni di matrimonio, aveva già messo al mondo tre figli. Era al culmine della sua bellezza ormai adulta e, nelle vesti di Marchesa, risplendeva di una signorilità e di una grazia innate.
Mentre conversava con alcuni ospiti al fianco del marito, la padrona di casa le si avvicinò con gaiezza.
– Conoscete, mia cara, Monsieur de Lavoisier, uno dei nostri più brillanti scienziati? E Voi, Monsieur de Lavoisier, avete il piacere di conoscere la Marchesa de Saint Quentin?
Il giovane Antoine Laurent de Lavoisier era sposato da oltre dieci anni con una donna docile e gentile, ma del tutto priva di slanci, scelta dalla madre. Quel tranquillo e sbiadito ménage coniugale gli aveva consentito di dedicarsi senza inciampi al lavoro e allo studio, ma lo aveva privato di qualsiasi picco di gioia. Col tempo, si era abituato a pensare che, dietro la remissività e la gaiezza della moglie, si celasse la più totale assenza di spirito e di acume, ma aveva messo da parte quel sospetto, stemperandolo nell’accettazione. Aveva saputo che Bernadette si era sposata e anche molto bene, ma quella notizia, avulsa da ogni contesto, lo aveva attraversato di sfuggita, come una voce riferita a un’ombra del passato. Ora, però, se la rivedeva davanti, in tutta la naturale bellezza esaltata dal rango che le apparteneva e provò una stretta al cuore, realizzando, in pochi attimi, tutto quello che aveva perso con lei.
Anche Bernadette fu sorpresa nel vederlo, ma, essendo pienamente felice del suo matrimonio, non avendo di che rimproverarsi e non nutrendo rimpianti, non fu colta da alcuna malinconica sensazione. Rivide in lui un vecchio amico, lievemente invecchiato e meno allegro e spontaneo di un tempo, ma non fu affatto turbata dall’incontro.
I due scambiarono alcune frasi, lei con naturalezza e lui con un certo imbarazzo e, poi, si separarono.
 
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Versailles, Palazzo Jarjayes, aprile 1821
 
André strinse fra le dita il foglio di carta che aveva appena finito di leggere e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Qualche settimana prima, aveva scritto a Carlo Altoviti, il suo amico veneto o, meglio, italiano, come lui amava definirsi, per chiedergli di metterlo in contatto col Dottor Lucilio Vianello.
Gli appannamenti alla vista di cui soffriva, conseguenza della caduta a Waterloo e l’oppressione polmonare di Oscar persistevano e si aggravavano lentamente anche se non erano tali da limitarne l’attività. Gli sarebbe piaciuto, quindi, che Lucilio Vianello li visitasse.
Quella mattina, era arrivata la risposta di Carlo Altoviti che aveva gettato André nello sconforto.
L’amico aveva partecipato ai moti di Napoli, era stato imprigionato e, in carcere, aveva perso la vista. Uscito di prigione, era riparato in Inghilterra insieme alla cugina e amante, Pisana, Contessa Navagero. A Londra, si era riunito al Dottor Vianello, anch’egli esule e questi lo aveva operato, restituendogli la vista. A questo punto, però, Pisana Navagero, per mantenere l’amato, era stata costretta a mettere da parte dignità e orgoglio nobiliari e a mendicare. Era morta di stenti qualche mese prima, lasciando Carlo straziato.
I guai, purtroppo, non erano finiti.
Carlo Altoviti e Lucilio Vianello erano tornati in Italia, dove l’eccellente medico aveva contratto il colera. Clara di Fratta, la bellissima sorella della Pisana nonché primo e unico amore di Lucilio, costretta, in gioventù, a monacarsi, era stata ridotta allo stato laicale dopo che Napoleone aveva soppresso, in Italia, i conventi. Ella, però, aveva continuato a vivere da suora e, non reputando giusto rivedere il suo antico amore, malgrado le suppliche di lui, si era rifiutata fino alla fine di andare al capezzale del malato. Aveva pregato incessantemente e con gran fervore per l’anima del moribondo… dalla stanza accanto…
André piangeva per la morte del suo amico, uomo geniale e integerrimo, seppure presuntuoso e intrattabile. C’era molto di napoleonico in lui.
Ne rimpiangeva la grandezza, l’onestà, l’immenso intelletto, l’estrema perizia e l’abnegazione nell’esercitare la professione e gliene rendeva onore.
Pregava affinché Dio, nella Sua infinita misericordia, ne ricompensasse i meriti e gli perdonasse gli infiniti peccati d’orgoglio e l’ateismo, eredità del secolo dei lumi e non individuale colpa di chi in quell’epoca era vissuto.
André piangeva perché l’immenso intelletto di quell’amico così talentuoso e particolare nulla più avrebbe potuto fare per i polmoni di Oscar e per la vista di lui.
 
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Isola di Sant’Elena, 5 maggio 1821
 
Erano le due di una notte senza luna, quando il bagliore rossastro delle fiamme rischiarò le tenebre che avvolgevano la piccola isola.
Le voci non tardarono a rincorrersi. Un incendio di origine ignota era scoppiato nella residenza del Governatore e i solai stavano già crollando.
– Andiamo ad aiutare a spegnere il fuoco – disse ai commilitoni uno dei piantoni incaricati di sorvegliare Longwood House – Cosa volete che succeda? Il piccoletto, ormai, è più di là che di qua.
Abbandonato il suo letto di dolore, il piccoletto stava osservando soddisfatto l’allontanarsi delle guardie. I finti domestici, arrivati otto settimane prima nella casa di Lowe, avevano fatto il loro dovere ed egli sarebbe stato ricompensato dei disagi dovuti al fingersi malato negli ultimi, lunghi, mesi.
Sparite le guardie, un giovane uomo agile e lesto, sulla trentina, entrò furtivamente nella dimora dell’ex Imperatore.
– Dovete affrettarVi, Maestà, è tutto pronto per la Vostra partenza – disse Albrecht von Alois a Napoleone.
Alcuni mesi prima, Maria Letizia Ramolino, Paolina Borghese e Joséphine de Beauharnais avevano unito le forze, mettendo insieme una consistente somma di denaro da offrire a Jeanne de Valois e al figlio per portare a segno l’evasione di Napoleone dall’isola di Sant’Elena. La Viscontessa de Beauharnais e le due Bonaparte si erano sempre reciprocamente e cordialmente detestate, ma la necessità le aveva singolarmente indotte a unire le forze.
Joséphine de Beauharmais aveva deciso di dare il suo contributo al salvataggio dell’uomo che aveva amato, ma non l’avrebbe seguito. Non aveva mai dimenticato l’abbandono subito e la vita che voleva condurre era accanto ai figli.
Ci volle poco affinché l’Imperatore e la corte salissero sul vascello, caricandovi il denaro e gli oggetti di valore mentre, dalla dimora in fiamme, Hudson Lowe inveiva contro l’incapacità delle guardie che avevano abbandonato la loro postazione.
Erano le tre di notte quando la Libertas lasciò la cala ove si era nascosta, salpando in direzione degli Stati Uniti. Jeanne de Valois si era messa personalmente al timone e gli occhi verdi le scintillavano più che mai, pieni d’orgoglio per il buon esito dell’impresa più difficile e pericolosa di un’intera vita. Quella rocambolesca evasione avrebbe dato lustro alla reputazione di abile avventuriera che si era costruita!
Anche gli occhi di Napoleone erano tornati a scintillare dopo anni di appannamento e già pensava a quello che avrebbe potuto fare. Gli americani apprezzavano chi possedeva spirito di iniziativa e lui ne aveva da vendere. Avrebbe iniziato un’attività di impresa, si sarebbe fatto conoscere anche lì e, una volta accresciuta la sua ricchezza e consolidata la sua fama, si sarebbe fatto eleggere al Parlamento americano. Avrebbe fatto approvare una legge con cui dare la libertà agli schiavi africani e se ne sarebbe conquistato la riconoscenza. Avrebbe formato un esercito con quegli uomini colossali e forti e, con loro, avrebbe preso il potere, proclamandosi Imperatore delle Americhe.
Napoleone guardò in avanti con crescente esaltazione mentre l’alba iniziava a rischiarare le nere acque dell’oceano. I sogni che faceva non erano mai stati castelli in aria. Lo attendeva un nuovo inizio.






I personaggi di Carlo Altoviti, Pisana, Lucilio Vianello e Clara di Fratta e le vicende narrate nel paragrafo dove compare André provengono dal romanzo: “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo.
Quando André spera che Dio perdoni a Lucilio Vianello gli infiniti peccati di orgoglio, mi sono ispirata al romanzo: “Il nome della rosa” di Umberto Eco.
Come al solito, grazie a chi vorrà leggere e recensire.
   
 
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