Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Signorina Granger    15/07/2023    4 recensioni
INTERATTIVA || Iscrizioni Chiuse
Chiunque abbia mai messo piede a Beauxbatons ha sentito parlare della sua celebre società studentesca, anche se c’è chi dice che non esista più ormai da decenni. Ogni anno, invece, 10 studenti le cui identità restano ignote ai più vengono scelti per entrare a farne parte, ritrovandosi la strada spianata per occupare un giorno posizioni di prestigio all’interno della società magica. Se qualcuno potrebbe azzardare ad indovinare i nomi dei membri della società lo stesso non si può dire delle loro pratiche, tutt’ora ignote, che sono da sempre oggetto di curiosità e teorie più disparate da parte del resto della scuola: c’è chi pensa che durante le riunioni prendano vita rituali di natura esoterica, chi sostiene che il gruppo lasci frequentemente i confini della scuola per darsi ad opere di vandalismo, chi che questi studenti non siano altro che un gruppo di ricchi snob. Alcuni sostengono che il più grande segreto della società potrebbe essere che i suoi segreti in realtà sono essenzialmente banali, ma nessuno può sapere con certezza quale teoria corrisponda al vero. Eccetto, naturalmente, per i dieci studenti che ogni anno vengono scelti per entrare a farne parte.
Genere: Introspettivo, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Maghi fanfiction interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Capitolo IV
 

 
Sabato 1° ottobre

 
 
Erano appena scoccate le 5.45 quando come ogni mattina Gisèle aprì gli occhi, ormai talmente abituata a quell’orario da finire spesso col precedere la sveglia destandosi dal sonno con un paio di minuti di anticipo. Come ogni mattina la ragazza mise a tacere la sinfonia di Čajkovskij che ormai da anni dava inizio alle sue giornate dopo appena una manciata di secondi e si mise a sedere di scatto sul materasso per far scivolare lo sguardo su Vaclav, il suo gatto, che sempre come ogni mattina ancora ronfava standosene comodamente spaparanzato ai piedi del suo letto, costringendola a dormire in posizioni non sempre comodissime. Ogni mattina Gisèle scrutava il suo amato gatto invidiandolo non poco e dicendosi di averlo viziato un po’ troppo, ma quel giorno l’attenzione della giovane strega venne catalizzata da qualcos’altro: una sottile busta bianca con i bordi dorati giaceva sul copriletto trapuntato bianco e azzurro, una busta che la fece precipitare in una spirale di puro orrore non appena ebbe compreso di che cosa si trattasse e che giorno fosse: la strega afferrò il foglio, si scostò il copriletto di dosso e corse in bagno dimenticando di prendere con sé i vestiti per l’allenamento, affrettandosi a spezzare il sigillo di ceralacca dorata che riportava lo stemma della scuola. Come previsto quello che aveva di fronte si rivelò non essere altro che l’invito alla prima riunione dell’anno della Brigade, ovvero il suo primissimo incontro come membro del VII anno, evento che Gisèle non aveva atteso poi con tanta trepidazione.
“Senti, e se io non volessi o potessi venire?!”, domandò speranzosa la ragazza, che avrebbe preferito occupare il suo tempo in altro, come ripetere e ripetere uno degli atti dell’Esmeralda(1), invece che occupare buona parte della serata seduta allo stesso tavolo di suo cugino.
La riposta dell’invito non si fece attendere e tutto il testo presente fino a quel momento svanì nel nulla, lasciando spazio a due parole che apparvero nel bel mezzo del foglio piegato in tre parti e che spazzarono via le speranze della giovane strega:
 

 
Non puoi
 
 
Gisèle guardò interdetta il foglio che aveva davanti per una manciata di istanti, prima di stabilire di non poter accettare quella risposta e di tornare ad interrogare l’invito. Era una fortuna che tutte le sue compagne stessero ancora dormendo, appurò sconsolata la giovane strega, certa che se l’avessero vista litigare con un foglio di carta l’avrebbero presa e spedita dritta a casa per una perizia:
“Che vuol dire “non posso”? E se mi fossi rotta una gamba? E se avessi la febbre?!”

 
Devi venire

 
“Io non devo fare proprio niente! Chi lo dice?!”

 
Io
 
 
“Ah sì? Beh, se sei mio cugino te ne puoi andare a fanculo!”
La grafia che le stava rispondendo le era vagamente familiare, e anche se non era certa che appartenesse a Guillaume si prese comunque la briga di mandarla a quel paese, giusto per non sbagliare. Di nuovo al suono della sua voce, sempre più infastidita, quella singola sillaba svanì per lasciare spazio ad un ultimo messaggio che la rese pericolosamente vicina ad un tic nervoso all’occhio:
 

 
Sei molto sgarbata, Libellule
 
 
“Ho un nome, usalo!”, sbottò inviperita la strega prima di appallottolare il foglio e gettarlo piena di stizza sul pavimento, guardandolo prendere fuoco per autodistruggersi appena un paio di secondi dopo. Gisèle guardò il pezzo di carta accartocciarsi progressivamente su se stesso fino a ridursi ad un piccolo cumulo di cenere che svanì nel nulla prima di sospirare, conscia di non avere scampo, e uscire dal bagno per recuperare i suoi vestiti: quel colpa di quell’invito aveva già perso cinque minuti buoni, in pratica era già in ritardo per tutto ciò che l’attendeva nel corso della giornata, cosa che se possibile la infastidì ancor di più dell’invito stesso.
 
 
Non avrebbe potuto essere più diversa la reazione che lo stesso messaggio destò in Nerea Pagano un’ora e mezza dopo, quando la Bellefuille venne piacevolmente svegliata dalla luce naturale che filtrava attraverso la finestra accanto al suo letto. Nerea aprì gli occhi e si concesse qualche breve istante di pace avvolta dal copriletto verde e bianco con motivo a foglie e dal mare di cuscini soffici che la circondavano prima di mettersi a sedere sul comodissimo materasso sollevando le lunghe braccia per stiracchiarsi, impiegando qualche secondo prima di scorgere il biglietto che sembrava essere apparso dal nulla sul suo comodino. Alla strega non ci volle molto per fare mente locale su che giorno fosse e per intuire di che cosa si trattasse, intuizione che la spinse, approfittando del fatto che tutte le sue compagne di stanza stessero ancora dormendo, a spezzare il sigillo di ceralacca color champagne e a dispiegare il foglio con un sorriso a distenderle le labbra, piena di entusiasmo. La prima cosa che fece dopo aver letto il breve messaggio che la invitava a partecipare alla prima riunione dell’anno della Brigade fu recuperare il telefono dal comodino per scrivere a Gisèle, che vista l’ora intuì trovarsi ancora in palestra ad allenarsi, e incrociò le lunghe gambe sotto al copriletto mentre sbloccava lo schermo inserendo la data del compleanno di Ciuchino, il suo amatissimo asinello, la cui foto costituiva anche lo sfondo del telefono della ragazza.
 
Tu: Ciao tesorina! Hai trovato l’invito?
 
 
Non aspettandosi una risposta immediata Nerea fece per uscire dalla chat per rispondere a sua madre, che le aveva scritto per chiederle come stessero lei e suo fratello Cornelio, ma un messaggio di risposta da parte di Gisèle giunse inaspettatamente appena un paio di istanti dopo:

 
Gigi🤍🍫: Sì, ma farò come gli opossum, mi fingerò morta
Tu: Dai, devi venire per forza, chi tiene testa a Guillaume se non ci sei tu?!

 
Tutto sommato Nerea aveva ragione, si disse Gisèle studiando cupa lo schermo del telefono mentre se ne stava in piedi dando le spalle alla sbarra che faceva apparire ogni mattina per i suoi esercizi. Dopo aver assicurato all’amica che si sarebbe presentata alla serata, messaggio a cui Nerea rispose con una sequenza di cuori di tutti i colori e faccine gioiose, Gisèle sospirò e si chinò per appoggiare il telefono sul pavimento, tornando a rivolgersi alla sbarra e alla parete specchiata per finire lo stretching post allenamento, consolandosi con la prospettiva di poter finalmente fare colazione di lì a breve. La strega sollevò la gamba destra fino ad appoggiare il piede sulla sbarra, scrutando torva lo specchio che aveva davanti mentre la spiacevole prospettiva di trascorrere la serata con suo cugino assumeva connotati sempre più concreti. Mentre effettuava una torsione per arrivare quasi a toccarsi le dita del piede con quelle della mano sinistra Gisèle immaginò di usare tutta la sua flessibilità per prendere Guillaume a calci. Sarebbe stato così terribilmente semplice fargli sparire quel sorrisetto compiaciuto con un semplicissimo calcio rotante… peccato che si sarebbe trovata espulsa da Beauxbatons prima di avere il tempo di dire “Arabesque”.
 

 
divisore

 
Come ogni sabato mattina Dante si stava dirigendo verso la Sala da Pranzo di buon’umore, felice di aver potuto abbandonare la divisa celeste che, a detta sua, lo faceva sembrare “l’assistente rincoglionito della Fata Turchina” per tornare ai vestiti neri a cui tanto era affezionato. Insieme a lui stava scendendo la lunghissima ed imponente scalinata di marmo, meraviglia architettonica che Dante aveva già avuto modo di osservare da tutte le angolazioni possibili, suo fratello minore Zhān, che poco prima si era fatto trovare davanti alla porta lilla della Salle Comune dei Papillonlisse per scendere a fare colazione insieme a lui. al contrario del quasi perennemente immusonito Dante Zhān manifestava il proprio buon’umore anche con la mimica facciale, e stava fornendo al fratello maggiore un breve resoconto della settimana di lezioni conclusasi il giorno precedente snocciolando tutto ciò che aveva imparato e tutto quello che Cornelio, il fratello minore di Nerea, gli aveva mostrato del castello parlando fitto fitto in cinese:
“Li hai visti i cavalli?! Sono bellissimi! Conny ha detto che questo weekend possiamo andare nelle scuderie e fare una passeggiata con loro.”
“Beh, sono cavalli, sono uguali a quelli che ci sono ovunque. E comunque attento a non cadere, poi la mamma se la prende con me se ti fai male.”
“Non sono mica un bambino!”, sbottò il ragazzino storcendo il naso mentre Dante alzava vistosamente gli occhi scuri al cielo, astenendosi dal fare commenti a riguardo – per lui il fratello restava sempre “un nanetto”, anche se compiuti i 13 anni stava iniziando a farsi fastidiosamente alto – prima che Zhān riprendesse la parola scuotendo la testa con disapprovazione:
“Rea ha ragione, sei lo Scrooge di Beauxbatons. Ammettilo che è bello qui! A me piace.”
“Nerea parla troppo… Ma sono felice che ti trovi bene.” Giunti ai piedi della scalinata Dante si rivolse al fratello chinando lo sguardo su di lui e concedendogli uno dei suoi rari sorrisi, sinceramente sollevato di vederlo già ben ambientato e molto più a proprio agio tra le mura di quella nuova scuola rispetto agli ultimi mesi vissuti a Mahoutokoro. Forse una minuscola parte di lui quasi invidiava il fratellino per aver metabolizzato il divorzio dei genitori e il trasferimento in Italia e poi a Beauxbatons molto meglio di quanto non avesse fatto lui, ma per lo meno era felice di sapere che almeno uno dei due avesse raccolto solo i lati positivi di tutti i recenti cambiamenti. Mentre si dirigevano insieme verso le porte aperte della Sala da Pranzo già discretamente affollata e dalla quale proveniva un rumoroso chiacchiericcio Zhān rispose al sorriso del fratello maggiore emulandolo e annuendo, gli occhi scuri arricchiti da una luce quasi speranzosa, come volesse cercare di convincere lui stesso Dante a vedere il lato positivo della loro nuova vita:
“È bello stare dove nessuno conosce la tua famiglia, no? Cioè, a parte Conny e Rea, ma per loro non conta.”
“Sì, è vero. Niente più gente idiota che ci addita, almeno… Comunque, se volessi dirlo a qualcuno puoi anche farlo, qui la faccenda del divorzio e tutto il resto la vedono diversamente.”
Zhān annuì, ma ammise anche che ancora non sapeva se lo avrebbe fatto o meno. Dante non rispose, ma mentre varcavano insieme la soglia della Sala da Pranzo dovette ammettere a se stesso di sentirsi allo stesso modo.
 

divisore

 
Malgrado le aspettative, se si fosse chiesto a qualsiasi studente di Beauxbatons che cosa temesse di più in assoluto la risposta non sarebbe stata inerente ai voti, ai compiti o alle interrogazioni: la verità era invece racchiusa in una piccola, sottile e apparentemente del tutto innocua busta rossa che poteva precipitare senza alcun preavviso – e dunque senza conseguente possibilità di salvezza – su un tavolo come un altro nel momento della colazione, sconvolgendo il pasto e l’intera giornata della vittima designata.
Un evento che fortunatamente si verificava di rado ma che nel pieno della colazione della prima giornata di ottobre, data per altro significativa per buona parte dei commensali radunati attorno al tavolo colpito dalla tragedia, si avventò su un ignaro gruppo di studenti del VII anno: la busta rossa incriminata venne fatta cadere da un gufo di passaggio in cima alla pila di croissant rimasti ancora intatti sul vassoio d’argento sistemato nel bel mezzo del tavolo, facendo immediatamente cessare ogni chiacchiericcio e gettando in un silenzio pregno di terrore il gruppetto mentre ogni sguardo scivolava, inesorabile, sulla sottile e minacciosa lingua di carta scarlatta. Passato lo shock iniziale ogni commensale si domandò terrorizzato quanto alta fosse la probabilità che la lettera fosse indirizzata a lui o a lei, e il breve silenzio che si era andato a creare venne spazzato via da una serie di voci che si levarono all’unisono: Icaro, che fino a due secondi prima stava masticando una fetta biscottata coperta da due dita di Nutella con la massima nonchalance, si lasciò sfuggire una sonora imprecazione in italiano che solo Nerea Pagano comprese ma alla quale la strega non diede troppo peso, troppo occupata a cercare la saliva necessaria per deglutire mentre faceva rapidamente mente locale sui recenti avvenimenti, sulle prime settimane di lezioni e su ciò che poteva averle conferito il massimo grado di punizione che un genitore poteva infliggere ad un mago o ad una strega adolescente.
Milad, il croissant alle mandorle ancora a metà strada tra il piatto e le sue labbra, scrutò accigliato la Strillettera dubitando fortemente che potesse essere riservata a lui: i suoi genitori erano Babbani, come potevano avergliela mandata? Lui, per lo meno, poteva considerarsi salvo, pertanto scosse la testa e parlò con tono assertivo nel tentativo di convincere se stesso e i suoi compagni:
“… Non è per me.”
“Per me neanche! Non ho fatto niente!”
Antoine, seduto tra lui e Gisèle, scosse la testa guardando la lettera rossa con i grandi occhi celesti pieni di terrore mentre Nerea, seduta alla destra dell’amica, si faceva aria muovendo freneticamente la mano destra a mo’ di ventaglio:
“Nemmeno io! A meno che non sia diventata sonnambula e non abbia scritto lettere piene di insulti a mia madre… Ma non penso proprio. O forse sì?!” Nerea, dimentica della colazione rimasta a metà sul tavolo, si mise le mani nei lunghi capelli scuri terrorizzata mentre i peggiori scenari prendevano rapidamente vita nella sua mente. Al contrario Phoenix, passato lo shock, riprese a mangiare il suo secondo croissant fregandosene altamente, reazione che destò dello sconcerto nel suo migliore amico: Icaro lo guardò aggrottando le sopracciglia, chiedendosi come potesse il ragazzo, forse il destinatario più plausibile della lettera seduto a quel tavolo, manifestare tanta incuranza.
“Non pensi che possa essere per te?”
“Io dovrei riceverne una alla settimana se è per questo, e non è mai arrivata. E se anche fosse, me ne fregherei altamente.”
Phoenix manifestò la scarsa considerazione nei confronti delle lettera spostandola e gettandola a lato del vassoio per prendere un altro croissant, lasciando che Etienne la prendesse e la sollevasse in silenzio, pieno di terribili presentimenti, mentre Gisèle guardava la busta con gli occhi azzurri fuori dalle orbite, un croissant alla Nutella mangiato a metà in mano e preoccupata che la Strillettera potesse rivelarsi indirizzata a lei:
Come ha fatto mia madre a sapere che sto mangiando roba calorica?!”
E soprattutto come aveva fatto a scoprirlo così in fretta, quando ancora non aveva nemmeno finito di fare colazione? Se così erano andate le cose sua madre doveva per forza vere delle spie interne, convinzione che spinse la ragazza a guardarsi attorno cercandone l’identità più probabile: come spinti da una forza calamitica gli occhi di Gisèle andarono a posarsi sulla faccia da schiaffi di suo cugino, che stava chiacchierando amabilmente con Abel a due tavoli di distanza. Quel leccaculo di suo cugino, cocco di zia per eccellenza, era sicuramente la spia più plausibile – Gisèle non aveva certo scordato di quando, dieci anni prima, Guillaume era andato a dire a sua madre che era stata lei a colpire e a mandare all’aria le sue begonie giocando a pallone –, e la strega stava per alzarsi e andare a fargli un discorsetto – o per meglio dire picchiarlo con una baguette imburrata in assenza di meglio a disposizione – quando Etienne, trovato il coraggio di rivoltare la busta per leggere il nome del destinatario, spazzò via ogni dubbio e ogni folle teoria nata negli ultimi due minuti con un sonoro sospiro pregno di rassegnazione:
“È per me.”
Bastarono quelle tre parole per far zittire tutti gli altri commensali, che puntarono i rispettivi sguardi sul compagno in perfetta sincronia mentre Etienne, ormai abituato a situazioni di quel genere, si affrettava ad alzarsi in piedi facendo grattare i piedi della sedia contro il lustro pavimento di marmo.
“Effettivamente Etienne detiene il record di Strillettere del nostro anno…”, mormorò Nerea fissando pensosa la busta stretta dalle mani dell’amico ripercorrendo mentalmente tutte quelle che il compagno di Casa aveva avuto il dispiacere di ricevere nel corso degli anni. Gli altri invece ripresero a mangiare, ritrovando l’appetito, Gisèle in primis – non poteva consentire a niente e a nessuno di guastarle la sua unica colazione decente della settimana – mentre Etienne, dopo aver gettato un’occhiata sconsolata alla busta, si allontanava facendo lo slalom in fretta e furia tra gli altri tavoli, la voce di Icaro a fargli eco:
“Corri Etienne, sbrigati!”
Fortunatamente il francese aveva anni di esperienza alle spalle che gli consentirono di sgusciare rapidissimo tra un tavolo e l’altro, ignorando gli sguardi attoniti che raccolse attorno a sé mentre i compagni rimasti seduti si domandavano bisbigliando che cosa potesse aver combinato per ricevere una simile punizione. Una volta uscito dalla sala da pranzo Etienne ebbe persino l’accortezza, sempre dovuta alla sua vasta esperienza, di chiudersi l’anta della porta rimasta aperta alle spalle, ma anche così facendo una voce maschile e magicamente amplificata ben oltre la norma irruppe nella sala interrompendo la colazione appena un paio di istanti dopo.
 

“Maëlle, tuo fratello sta correndo fuori neanche lo stesse inseguendo una Manticora.”
Lucinda e le sue amiche stavano consumando la colazione avvolte da un atipico silenzio: la sera prima erano rimaste sveglie fino a tardi a chiacchierare e a scrollare sequele infinite di storie e reel su Wizagram, riducendole a sentirsi ancora talmente assonnate da mangiare in silenzio una volta sedute a tavola. La sonnolenza che ancora si sentiva addosso non impedì però a Lucinda di scorgere la familiare silhouette del fratello di una delle sue amiche schizzare fuori dalla sala da pranzo come se da quella corsa fosse dipesa la sua vita intera, e la franco-portoghese si ritrovò a scrutare Etienne aggrottando perplessa le sopracciglia corvine, una fetta di pane coperta da burro e marmellata ancora in mano. Le parole della strega ridestarono dal silenzio e dalle loro riflessioni anche le sue amiche, e Daphnè, che dava le spalle all’ingresso, ruotò il busto per osservare la scena con i suoi occhi dopo aver posato sul piattino il suo croissant alle fragole:
“Poverino, starà male?”
La preoccupazione che intrise la voce della francese non contagiò la sorella minore del diretto interessato, che si limitò a sollevarsi leggermente sulla sedia per guardare meglio dopo aver posato la tazza di caffelatte: quando si trattava del fratello e di corse disperate nel pieno della colazione la soluzione più plausibile era sempre la stessa, sgradita a lei quanto per Etienne:
“Macché, piuttosto scommetto che ha ricevuto una Strillettera da Basile, quell’idiota…”
“Ancora?!”, esclamò Daphnè con più sorpresa di quanto non avrebbe voluto mentre tornava a sedere diritta per rivolgersi alle amiche, gli occhi chiari spalancati mentre una smorfia abbassava gli angoli delle labbra carnose di Maëlle. Lucinda invece si rivolse alla bionda senza riuscire a trattenere un sorriso divertito, interessandosi con sincera curiosità prima di addentare la sua fetta di pane:
“Ha combinato qualcosa?”
“Non ne ho idea. E per fortuna, per una volta che non c’entro nulla voglio starne fuori! In ogni caso, penso che lo sapremo presto.”
A Maëlle non rimase che scuotere la testa con un sospiro di rassegnazione, in attesa di udire la voce di Basile – del resto erano sempre da parte sua le Strillettere che Etienne continuava a ricevere ogni anno – mentre Lucinda, masticando coprendosi educatamente le labbra con una mano, faceva del suo meglio per non scoppiare a ridere e sputacchiare pezzi di pane su tutto il tavolo, sforzo che le fece quasi lacrimare gli occhi:
“Vi ricordate di quando Basile gli ha scritto perché aveva preso in prestito la scopa di un suo amico per una scommessa e aveva fatto irruzione in aula di Sortilèges infrangendo una finestra?”
Maëlle ricordava quel giorno risalente al loro quarto anno come se fosse avvenuto solo un paio di giorni prima: suo fratello aveva bellamente interrotto la loro lezione catapultandosi nel bel mezzo dell’aula dopo essere andato a sbattere contro una finestra, e mentre Daphnè e Marguerite, riprese dallo shock, si erano subito alzate per raggiungerlo e assicurarsi che non si fosse ferito gravemente lei era capitombolata sul pavimento preda delle convulsioni, ridendo come raramente le era capitato in tutta la sua vita. Lucinda a non imitarla ci aveva provato, perché in fin dei conti le dispiaceva per Etienne, ma aveva finito col lacrimare dal ridere per dieci minuti consecutivi quando il ragazzo, alzatosi in piedi con la massima nonchalance, aveva sorriso allegro all’insegnante senza parole e aveva fatto per volare via come se nulla fosse dopo averla salutata e averle augurato una buona giornata.
“Forse il momento migliore di tutta la mia carriera accademica.”
“Avrebbe anche potuto farsi molto male con quei vetri!”, osservò Daphnè gettando un’occhiata di mite rimprovero in direzione della sua migliore amica, che però la ignorò e si limitò ad annuire con un sorriso sulle labbra, lo sguardo trasognato puntato su un punto indefinito della sala mentre ripercorreva mentalmente la scena più e più volte, in un loop che si spezzò solo quando la voce magicamente amplificata – e visibilmente incazzata – del maggiore dei suoi fratelli non la riportò alla realtà.
Di nuovo tra le tre streghe – o per meglio dire su tutta la sala – calò il silenzio, tutte occupate ad ascoltare la voce di Basile per venire a capo del mistero legato alla Strillettera. Lo stesso avvenne anche sul tavolo che Etienne aveva appena lasciato, mentre i suoi compagni ascoltavano accigliati il fratello dell’amico accusarlo di “aver speso una barca di soldi per comprare un dannato proiettore”, di “usarlo come bancomat”, minacciarlo di “tagliargli i viveri e mandarlo a lavorare in miniera” e di “non dargli un euro fino al Diploma”.
Ha comprato un proiettore?!”
Daphnè conosceva Etienne molto bene e da molto tempo: lei e sua sorella erano migliori amiche, e lo stesso Etienne era molto legato a suo fratello. Si vedevano di continuo durante le vacanze e a casa gli uni degli altri, eppure anno dopo anno il Bellefuille e le sue folli trovate continuavano a lasciarla di stucco. La francese puntò gli occhi sgranati sul viso di Maëlle, che invece anziché dimostrarsi sorpresa parve solo profondamente indispettita, le labbra dischiuse e un’espressione offesa sul volto:
Bastardo, e non mi ha detto niente per condividerlo! Potremo guardare Titanic come al cinema e goderci Leo in tutto il suo splendore ragazze!”, esclamò entusiasta la giovane strega – da brava sorella affettuosa riteneva che ciò che apparteneva di Etienne fosse anche suo, pertanto era pronta ad usufruire largamente del proiettore a sua volta – mentre Lucinda, incerta se ammirare Etienne o unirsi allo sconcerto di Daphnè, ascoltava in silenzio le parole poco gentili di Basile Macquart sbattendo le ciglia e chiedendosi come dovesse essere farsi in quattro per diventare un giocatore di Quidditch professionista per poi farsi svuotare il conto in banca dai fratelli minori a cui faceva da tutore: anche suo fratello maggiore Lisandro, come Basile, aveva fatto del Quidditch la sua professione dopo il Diploma, e Lucinda era certa che per quanto potesse esserle affezionato nemmeno lui avrebbe particolarmente gradito vedere sperperata la sua paga ai quattro venti.
 

A dieci metri di distanza, invece, Icaro spalancò gli occhi scuri e schioccò le dita della mano destra come colto da un’illuminazione improvvisa: ora un mistero recente aveva finalmente un senso.
“Ecco cos’era quel pacco enorme e pesante che gli è arrivato ieri!”
 

 
divisore
 
 
BibliotecaBiblioteca
 
 
La Biblioteca di Beauxbatons aveva un aspetto fiabesco in grado di lasciare a bocca aperta chiunque vi si recasse per la prima volta e costituiva, non a caso, uno dei punti del castello prediletti da gran parte della popolazione studentesca. A Phoenix Anastasakis al contrario di quanto la Biblioteca fosse magnifica e di quale architetto fosse opera importava ben poco: quel posto non gli piaceva per le altissime finestre ad arco che nelle belle giornate riempivano di luce anche l’angolo più nascosto, né per i pavimenti di marmo, i soffitti stuccati o le luccicanti finiture laccate d’oro che brillavano ovunque si posasse lo sguardo. Phoenix amava la Biblioteca del castello per il silenzio che vigeva perennemente al suo interno e per la calma che quel luogo maestoso gli trasmetteva, motivazioni che lo spinsero a pentirsi di aver deciso di recarcisi proprio di sabato mattina quando, non appena la porta a doppia anta munita di battenti dorati gli si spalancò magicamente davanti, si scontrò con una triste realtà: sembrava che molti dei suoi compagni avessero avuto la sua stessa idea e la Biblioteca brulicava di studenti di ogni età, tutti come lui sprovvisti di divisa. La vista di tutta quella gente destò una lieve smorfia sulle labbra rosee del ragazzo, i cui brillanti occhi blu che tanto facevano sospirare rimbalzarono rapidi su chi recuperava dei libri dagli altissimi scaffali bianchi, aiutandosi con la magia o con le scale a pioli in grado di muoversi da sole, chi si attardava a chiacchierare bisbigliando stringendo dei volumi appena presi e chi faceva la fila davanti al tavolo della bibliotecaria che affiancava l’ingresso per prendere o ridare indietro dei volumi: libri di ogni dimensione sfrecciavano librandosi in aria da quel punto per tornare nei rispettivi scaffali dopo essere stati restituiti e registrati conferendo all’enorme Biblioteca un aspetto ancora più affollato.
Due settimane dopo l’inizio dell’anno scolastico e tutti già sembravano essere dediti allo studio persino di sabato mattina, momento che di norma Phoenix prediligeva per infilarsi lì dentro e non uscirne per delle ore, avvolto dalla solitudine e dal silenzio, spesso portando Diego o Icaro con sé. Quella mattina Diego lo aveva abbandonato per stare con la sua gattina, alla quale purtroppo era vietato l’accesso, e del secondo dopo colazione Phoenix non era riuscito a trovare traccia, costringendolo a presentarsi solo insieme al suo zaino nero semi vuoto. Consapevole di non poter, sfortunatamente, far sparire tutti con uno schiocco di dita al ragazzo non restò che sbuffare lievemente e addentrarsi nella Biblioteca superando con lunghe falcate gli studenti in fila davanti  al tavolo coperto da moduli, penne che scrivevano da sole e torri di libri prenotati, incamminandosi verso gli alti scaffali collocati sul lato sinistro della sala e superandoli cercando tra i tavoli sistemati tra gli uni e gli altri uno almeno parzialmente libero dove sedersi.
Stava ormai prendendo in considerazione l’idea di salire una delle quattro scale a chiocciola bianche collocate negli angoli della sala nella speranza di trovare un posto al livello superiore della Biblioteca, sull’ampio ballatoio che si affacciava sulla distesa di marmo che stava calpestando, quando, giunto in mezzo agli scaffali adibiti ai volumi di Pozioni, scorse un tavolo deserto: quasi metà della superficie bianca era stata occupata dagli averi di uno studente che doveva momentaneamente trovarsi altrove, ma il lato opposto era completamente sgombro. In più si trovava addossato ad una finestra, i punti dove Nick preferiva sedersi, cosa che dopo una breve riflessione spinse il ragazzo a smettere di cercare e a muoversi in direzione dell’agognata sedia vuota. Nick sedette brandendo un accenno di sorriso sulle labbra e appoggiò lo zaino sul tavolo per aprirlo e tirare finalmente fuori Moby Dick, ma aveva appena aperto il grosso volume e tolto il segnalibro nero coperto da frasi tratte da Delitto e castigo, il suo libro preferito, che Diego aveva disegnato per lui l’anno prima quando un suono di passi affrettati e decisi anticipò l’arrivo di qualcuno, seguito da un sospiro e da un lieve borbottio in francese che spinse il greco ad alzare lo sguardo. Gli occhi di Phoenix poterono così scontrarsi con il viso e l’espressione seri della ragazza che si era fermata ad un paio di metri dal tavolo, lunghi capelli ricci biondo-castani a ricaderle sulle spalle e un vestito smanicato blu infilato sopra ad una camicia a righe sottili blu e bianche. Gisèle Delacroix lo stava fissando da dietro le lenti di un paio di occhiali dalla sottile montatura rosa cipria, e sembrò provare lo stesso entusiasmo del compagno di Casa nell’appurare di dover condividere lo stesso tavolo: Nick, dimentico del libro che teneva in mano, guardò la ragazza quasi con orrore, consapevole che mai in nessun universo lui e Gisèle sarebbero riusciti a condividere serenamente un tavolo per leggere o studiare a seguito delle esperienze come compagni di banco condivise per i primi anni di scuola.
“Che ci fai qui?”
“Dipingo a olio. Secondo te?! Sei seduto al mio tavolo, Anastasakis.”
Per nulla entusiasta Gisèle, le braccia esili ma muscolosissime cariche di libri, colmò la distanza che ancora intercorreva tra lei e il tavolo per appoggiarvi sopra i libri necessari che aveva appena raccolto per fare i compiti, tornando a sedersi al suo posto accavallando le lunghe gambe mentre Phoenix, davanti a lei, la guardava torvo:
“Non è il tuo tavolo.”
“C’è sopra la mia roba, quindi attualmente è il mio tavolo.”
Gisèle dispose i libri sul tavolo pentendosi amaramente di aver gioito quando, fino a poco prima, era riuscita a godersi uno spazio tutto per sé. Gli occhi blu di Nick invece schizzarono sull’astuccio di tessuto color crema e sulle spillette a forma di scarpine da ballo che vi erano state attaccate, dandosi dell’idiota per non aver capito davanti a chi si stesse sedendo. Quello e la gigantesca agenda ad anelli color panna con elastico avrebbero dovuto suggerirgli qualcosa.
“Scusa, dovevo immaginarlo. Chi altri ha un’agenda così ossessivamente organizzata?”
Mentre Gisèle apriva il primo libro della sua pila, la biografia dell’inventore della Felix Felicis, Nick distese le labbra nel suo sorriso amabile più finto e accennò lievemente in direzione della suddetta agenda destando un improvviso irrigidimento nella compagna, che sfilò una matita dall’astuccio per iniziare a prendere appunti per il suo tema su un quaderno a spirale già aperto su una pagina bianca scoccandogli la più truce delle occhiate:
“Mi piace organizzare le cose.”
“Una cosa adorabile. Quando non diventa un po’ troppo.”
Il sorriso sul viso di Nick non vacillò mentre il ragazzo accennava con aria angelica verso i post-it, gli evidenziatori e le penne che si trovavano accanto all’agenda, tutti abbinati per colore in base alle diverse cose che Gisèle vi scriveva all’interno.
“Non c’è niente di male ad essere precisi, soprattutto quando hai un sacco di cose da fare. Non che un perfetto cazzone come te possa capirlo.”
Stabilito di avergli concesso fin troppa attenzione e troppo tempo Gisèle si scostò i capelli castani pieni di riflessi biondi dalla spalla sinistra per iniziare a dedicarsi alla lettura del libro, detestando l’impossibilità di sottolineare le righe che le interessavano in quanto di proprietà della scuola. Nick invece persistette nel guardarla divertito per qualche altro istante prima di concentrarsi a sua volta sul libro che teneva in mano, ignorando ma in parte intuendo i pensieri che stavano vorticando nella mente dell’ex compagna di classe in quel preciso istante:
Phoenix Anastasakis aveva poco da prendere in giro la sua naturale inclinazione a centellinare il tempo, si disse Gisèle mentre sorvolava con lo sguardo l’indice della biografia del defunto Pozionista alla ricerca del capitolo dedicato alla sua opera magna: naturale che a lui farlo non fosse richiesto, dal momento che trascorreva le sue giornate a leggere, cazzeggiare e ad essere fastidioso, cosa che sarebbe piaciuta molo anche a lei, se solo avesse potuto permetterselo. Leggere, naturalmente, non essere fastidiosa, cosa che lei non era affatto.
Dopo dieci miracolosi minuti di silenzio sanciti dal patto non scritto tra Gisèle e Phoenix di non disturbarsi a vicenda o rivolgersi la parola più del necessario la strega, ancora impegnata a trascrivere informazioni sul suo quaderno, si stava sinceramente illudendo di riuscire quantomeno a finire la brutta copia del tema prima di pranzo, come indicato sulla sua agenda, quando dei passi affrettati iniziarono ad avvicinarsi sempre di più agli scaffali in mezzo ai quali lei e Nick sedevano, finchè qualcuno non si fermò proprio davanti a loro. Gisèle non osò alzare la testa, pregando che non si trattasse di qualcuno di sua conoscenza che la stesse cercando finchè la voce allegra ed inconfondibile di Etienne non si fece sentire spezzando via tutte le sue speranze:
“Gisèle, mia bellissima e stupendissima amica, stavo cercando proprio te.”
In men che non si dica Etienne Macquart aveva occupato la sedia accanto a lei fino a quel momento rimasta vuota, un sorriso sulle labbra e una mano pronta a prendere quella dell’amica, che lo lasciò fare trasudando contenuta esasperazione mentre lo studiava scettica attraverso le lenti degli occhiali da lettura:
“Che cosa ti serve Etienne?”
Etienne sgranò gli occhi chiari e la guardò colpito prima di iniziare a decantare tutta la sua indignazione: come poteva pensare che la stesse lusingando solo per ottenere un favore in cambio? Non erano amici, dopotutto? Non si aiutavano a lezione, quando lei faceva danni nelle serre e lui non riusciva a ricordare mezza data per le verifiche di Storia?
Nick smise di leggere, limitandosi a guardare la pagina che aveva davanti per fare finta di prestare attenzione all’opera magna di Herman Melville chiedendosi divertito che cosa Etienne fosse sul punto di chiedere all’amica, ancora impegnata a studiare in silenzio e visibilmente scettica il Bellefuille. A tagliare corto e a dare una risposta ad entrambi però ci pensò Icaro, che raggiunse il tavolo a grandi passi dopo aver svoltato l’angolo e si pronunciò senza perdere tempo:
“Gisèle, ci servi per un complotto. Ciao Nick.”
Icaro rivolse un lieve sorriso all’amico, che gli indirizzò un cenno del capo senza smettere di fissare la pagina che aveva di fronte, prima di prendere l’ultima sedia rimasta libera delle quattro e spostarla in modo da trovarsi più vicino ad Etienne e a Gisèle: non poteva andarsene in giro a sbandierare i suoi piani troppo a voce alta, dopotutto. Gisèle che gettò un’occhiata di sbieco in direzione dell’amico, che subito si esibì nel suo sorriso migliore e la guardò sgranando gli occhioni per impietosirla:
“Va bene, è vero, ma ti voglio bene lo stesso.”
Gisèle non aveva tempo per le moine di Etienne e nemmeno per i complotti, pertanto dopo aver alzato brevemente gli occhi al cielo scosse la testa e prese la sua agenda, aprendola sulla pagina del giorno corrente per sventolarla davanti ai due ragazzi e mostrare loro le scritte, le annotazioni e le annotazioni delle annotazioni con cui era stata riempita con colori diversi, freccette e sottolineature di vario spessore:
“Non ho tempo per complottare, devo fare la scaletta e scrivere metà tema sulle origini della Felix Felicis prima di pranzo!”
“Che stronzata.”
Nick parlò e si esibì in una lieve risata senza riuscire a controllarsi, consentendo a Gisèle di smettere brevemente di guardare Icaro ed Etienne per scoccargli una rapida occhiata truce: per sua fortuna non aveva nemmeno tempo per insultarlo a dovere.
“Nessuno ti ha interpellato. Come stavo dicendo, non ho tempo, ho valanghe di compiti da fare, oggi pomeriggio c’è scherma e poi ho promesso a Nerea di stare un po’ insieme prima di… Insomma, ho una scaletta fittissima di cose da fare da rispettare e come se non bastasse stasera prima di allenarmi…”
Gisèle stava per insultare l’incontro della Brigade a cui avrebbe dovuto prendere parte quella sera stessa e che avrebbe interferito non poco con tutti i suoi impegni previsti per la giornata, ma si trattenne in tempo a causa della presenza di Nick, che girò pagina in tutta calma per fingere di star leggendo nella maniera più convincente possibile. Gli occhi chiari di Gisèle saettarono brevemente sul compagno di Casa prima di tornare a puntarli sui visi di Etienne ed Icaro, sforzandosi di assumere un tono calmo e piatto prima di riprendere a parlare:
“Ho quell’impegno improrogabile.”
Riordini le tue quarantasei copie del Conte di Montecristo in ordine di uscita e guardi video di gattini su Wizagram?”
Questa volta per Nick fu sinceramente difficile non mettersi a ridere quando Gisèle ruotò bruscamente la testa per trafiggerlo con un’occhiata, la mascella serrata e lo sguardo fiammeggiante:
“Non ne ho affatto così tante, e comunque come fai a… Lascia perdere. Orsini, fai un favore all’umanità e portatelo via.”
Gisèle rivolse un insofferente cenno della mano in direzione di Nick, che però non si scompose e restò immobile sulla sedia, avvolto dalla mise total black e dalla sua solita aura di totale menefreghismo nei confronti del resto del mondo mentre Icaro, dopo aver annuito accennando sbrigativamente verso di lui a sua volta, si sporgeva leggermente sul tavolo per avvicinarsi a Gisèle e parlare abbassando il tono di voce:
“Dopo, prima le cose serie. Riguarda tuo cugino.”
Etienne ed Icaro sapevano – e speravano – che quelle due singole parole sarebbero bastate per persuadere Gisèle ad aiutarli, e trattennero il fiato mentre assistevano alla reazione della giovane strega, alla quale bastarono un paio di istanti per rilassare il volto e guardarli con rinnovato interesse: i grandi occhi chiari di Gisèle rimbalzarono pensosi prima sui loro visi e poi sulla sua agenda, finendo con l’annuire vaga come se la cosa non la interessasse particolarmente prima di chinarsi per recuperare il suo zaino.
“… Beh, siete fortunati. Nella mia agenda avevo giusto segnato di riordinare il mio AFMATC prima di pranzo.”
“Il tuo che?!”
Icaro sollevò entrambe le sopracciglia, perplesso e sul punto di chiedersi se la strega non avesse appena utilizzato uno strambo termine francese a lui sconosciuto, ma lo sguardo altrettanto stranito di Etienne smentì quell’ipotesi mentre Gisèle sistemava con cura una deliziosa scatolina rettangolare foderata da un tessuto bianco a fiorellini rosa sul tavolo, gli angoli delle labbra sollevati quel che bastava per dar vita ad un sorrisino compiaciuto.
Archivio delle Figure di Merda e Altro del Terribile Cugino. Perché, tu non ne hai uno?”
Gisèle, abbandonato il compiacimento, accennò in direzione della targhetta dorata che riportava il sopracitato acronimo mentre voltava la testa per rivolgere un’occhiata sinceramente perplessa in direzione di Icaro attraverso le lenti degli occhiali, gettando l’italiano in un breve attimo di smarrimento prima di scuotere lentamente il capo senza smettere di fissare accigliato la deliziosa scatolina a fiori:
“… No, a me piacciono i miei cugini.”
Le parole di Icaro fecero precipitare il tavolo in qualche breve istante di silenzio che Gisèle impiegò fissandolo immobile e sbattendo più volte le palpebre, come cercando di elaborare le sue parole. Di fronte all’anomala immobilità dell’amica Etienne fu tentato di sollevare una mano per scuoterla e assicurarsi che fosse ancora tra loro, ma fortunatamente Gisèle si riscosse prima di costringerlo a farlo, tornando a guardare il suo prezioso archivio prima di parlare con tono neutro:
Dev’essere una sensazione piacevole. Allora, qui c’è tutto quello che può servire per ricattare, far sfigurare, mutilare emotivamente o ferire gravemente mio cugino in diversi modi con aneddoti ordinati cronologicamente e cromaticamente in base alla dimensiona semantica. Anche se stavo pensando di riorganizzare tutto alfabeticamente, a dire il vero…”
Gisèle sollevò con cura il coperchio della scatola aggrottando le sopracciglia, scrutando dubbiosa le schede delle dimensioni di cartoline che erano state impilate al suo interno, tutte più o meno piene di scritte della sua grafie e munite di sottili alette di diversi colore che facevano riferimento a sfere semantiche differenti. Mentre Icaro osservava pensoso le schede chiedendosi se per caso in famiglia non circolasse nulla del genere a sua insaputa Etienne aprì le labbra in un sorriso allegro, indicando la scatola di Gisèle mentre Nick si asteneva con tutte le sue forze dal fare una battuta sarcastica sul fatto che la strega avesse persino ordinato le figure di merda del cugino:
“Che carina, sembra una di quelle scatole che le nonne usano per le ricette!”
E infatti me l’ha data mia nonna.”, disse Gisèle guardando Etienne con l’aria di avergli appena rilevato un’informazione del tutto ovvia, cosa che incrementò lo scetticismo altrui:
Tua nonna ti ha dato una scatola per contenere informazioni scottanti su tuo cugino?”
Icaro guardò la compagna di Casa inarcando un sopracciglio, conscio di non essersi aspettato niente del genere quando la sera prima lui ed Etienne, dopo la riunione del giornale, avevano deciso di chiedere a Gisèle di aiutarli, e la strega scosse la testa liquidando il discorso con un pigro gesto della mano destra mentre con la sinistra accarezzava il bordo della scatolina:
“Beh, non me l’ha data proprio per quello… E comunque sono la nipote prediletta. Non che avessi grande concorrenza… Quindi, che vi serve?”
Dopo aver rivolto una breve e affettuosa occhiata all’orologio da polso d’oro con il cinturino in cuoio che indossava, sempre una gentile concessione di sua nonna, Gisèle tornò a rivolgersi ai due compagni con un sorriso e un buon umore di cui fino a quel momento non aveva decisamente fatto foggio.
“Niente di troppo grave, solo che Guillaume con noi fa il capo tirannico e vogliamo che la smetta. Come possiamo fare?”
“Vediamo… Questo lo tengo da parte per il giorno del suo matrimonio… Questo no… No… No… Troppo personale… Mi serve un momento, qui c’è il risultato di anni di duro lavoro.”
Gisèle parlò aggrottando leggermente le sopracciglia arcuate e senza smettere di far scorrere rapidamente la sottili schede di cartoncino con la punta delle dita affusolate mentre Phoenix, di fronte a lei, continuava a fissare con finto disinteresse le pagine del romanzo che teneva in mano e Icaro ed Etienne si limitavano ad assentire debolmente scambiandosi un’occhiata: dopo aver appena assistito al livello di rancore che Gisèle sembrava in grado di serbare nei confronti del prossimo di contraddirla non se lo sognavano neppure.
Fortunatamente i due poterono considerare la loro missione conclusa appena un paio di minuti dopo, quando Gisèle consegnò loro una delle tessere rifiutandosi di cederla in prestito – non poteva permettere che informazioni così preziose venissero smarrite e accidentalmente diffuse senza la sua previa approvazione, e conosceva abbastanza bene Etienne da diffidare dell’amico in tal senso – ma consentendo in compenso di scattarci una foto come prova.
“Grazie Gisèle, sei stata preziosissima.”
Etienne, allegro e sorridente come sempre, si sporse verso l’amica per scoccarle un sonoro bacio su una guancia mentre la strega, sospirando e alzando gli occhi al cielo, annuiva distrattamente:
“Lo so, lo so. Ora lasciatemi scrivere, per favore.” Gisèle liquidò sbrigativamente i due con un pigro gesto della mano prima di raddrizzarsi la montatura degli occhiali che Etienne aveva urtato con le sue manifestazioni d’affetto, pronta a rimettersi al lavoro e a concentrarsi sui compiti. Stava rimettendo il suo preziosissimo schedario nello zaino, al sicuro da sguardi indiscreti, quando tuttavia si accorse di come nel frattempo Icaro ed Etienne si fossero alzati e si stessero allontanando, lasciandola nuovamente sola in compagnia di Phoenix Anastasakis, del suo libro e del suo muso lungo.
“Orsini?! Dove stai andando?! Dovevi portartelo via!”
Gisèle, gli occhi blu spalancati con orrore misto a preoccupazione, indicò indignata Phoenix come se il ragazzo fosse sordo e impossibilitato a sentire le sue parole, ignorando dunque deliberatamente l’occhiata truce che il compagno le indirizzò da sopra il bordo di Moby Dick mentre Etienne ed Icaro si allontanavano allegri e in tutta fretta, visibilmente soddisfatti dei risultati ottenuti grazie a lei.
“Non è il mio babysitter.”, sibilò Nick con un tono che trasudava puro fastidio: perché tutti ne sembravano tanto convinti? Icaro stesso non si preoccupò di smentire quella che sembrava essere la ferrea convinzione di Gisèle, limitandosi a voltare lo sguardo in direzione della strega e a sorriderle con aria angelica mentre si congedava con un lieve cenno della mano:
“Scusa, ho un appuntamento urgente, sarà per la prossima volta!”
Mentre osservava i due sparire dal suo campo visivo dopo aver svoltato l’angolo chiacchierando allegri Gisèle si annotò rassegnata un appunto mentale: alla prossima richiesta di qualsivoglia natura avrebbe fatto siglare un patto scritto, così da essere certa di ottenere qualcosa in cambio. Nick invece prima di tornare a leggere sfoggiò una smorfia schifata, scuotendo la testa con viva disapprovazione prima di mormorare qualcosa a mezza voce:
“Dio, spero non debba vedere quell’oca del quinto anno….” Nick voleva bene ad Icaro – non glielo aveva mai detto e di certo lo avrebbe fatto solo sul letto di morte –, ma spesso le sue scelte in fatto di frequentazioni non le comprendeva, né le condivideva. Gisèle invece, che in quel momento provava più interesse per un uomo vissuto secoli prima che nei confronti della vita sentimentale altrui, si sistemò sbuffando debolmente gli occhiali sul naso prima di riprendere mano su uno dei suoi preziosissimi evidenziatori:
“Per me può uscire anche con Bergoglio, mi basta finire il tema prima delle prossime Olimpiadi.”


“Non ti sembra strano che quei due fossero seduti allo stesso tavolo?”
I ricordi che Etienne serbava legati a situazioni in cui Gisèle e Phoenix si erano ritrovati costretti a condividere un banco durante le lezioni degli anni precedenti, quando ancora facevano tutti parte della stessa classe, erano più o meno tutti segnati da aspre discussioni tra i due, cosa che lo indusse ad allontanarsi verso l’ingresso della Biblioteca insieme ad Icaro aggrottando le sopracciglia, a dir poco perplesso. L’averli trovati insieme aveva lasciato un tantino interdetto anche lo stesso Icaro, che però andava troppo di fretta per farci caso e decise che si sarebbe accertato che nessuno avesse avvelenato la colazione del suo migliore amico più tardi, limitandosi ad una pigra scrollata di spalle mentre insieme si lasciavano lo splendore e il silenzio quasi irreale della Biblioteca alle spalle:
“Forse hanno minacciato Gisèle. Sedersi vicino a Nick o dire “Ti voglio bene” a Guillaume.”

“Non dirlo, è inquietante anche solo pensarlo.”


 
divisore
 
 
Torre Nordscale

 
Al di fuori dell’orario delle prove collettive la sala dove l’orchestra si riuniva era aperta agli studenti che desideravano esercitarsi separatamente, da soli o in piccoli gruppi, anche se nei giorni di lezione bisognava prenotarsi mediante un registro che, con gran disappunto di Daphnè e delle sue migliori amiche, finiva quasi sempre col risultare strapieno prima di dar loro il tempo di prenotarsi. Se c’era però qualcosa che anni di permanenza a Beauxbatons avevano insegnato a Daphnè era proprio l’ottima probabilità di trovare l’aula deserta nel weekend, soprattutto di sabato mattina, motivo che poco prima l’aveva spinta a tentare la sorte lasciando la sua Salle Comune insieme alla custodia del suo flauto e ai suoi spartiti per consentire a Maëlle di esercitarsi da sola nella loro camera: condividere la stanza con le sue amiche era forse uno degli aspetti della sua vita scolastica che maggiormente amava, ma il fatto che quasi tutte fossero delle musiciste non rendeva l’esercitarsi un compito facile per nessuna di loro, tanto da costringerle soventemente a darsi dei turni per alternarsi o, come nel suo caso quel mattino, a cercare altri angoli del castello in cui poterlo fare senza disturbare e senza essere disturbate.
Giunta al termine di un largo corridoio dal pavimento di marmo e le pareti bianche costellate da dipinti ad olio contenuti da spesse cornici dorate – di norma si fermava a salutare e a chiacchierare brevemente con i loro “abitanti”, ma quel mattino li trovò impegnati in un torneo di carte e decise di non disturbarli – Daphnè si fermò ai piedi dell’alta rampa di scale a chiocciola che l’avrebbe condotta in cima alla torre sperando di non udire l’eco di una melodia, segno che l’aula era deserta e a sua completa disposizione. La giovane strega, armata della sua custodia e di ottime speranze, iniziò quindi a salire i grandi coperti da un soffice tappeto color crema accarezzando lievemente la superficie liscia e lucida del corrimano che seguiva dolcemente la linea della rampa, perdendosi come spesso le accadeva, specie quando era sola e con la possibilità di muoversi con la massima calma come quel mattino, nella contemplazione della carta da parati che ricopriva le pareti che della torre, bianca e ricoperta da un motivo che brulicava di vegetazione celeste e dorata, con tanto di pavoni, aironi in volo e altri animali di cui Daphnè non conosceva il nome.
Era talmente occupata a studiare ammirata i dettagli della splendida carta da parati da impiegare qualche secondo in più del dovuto per accorgersi della musica che proveniva inequivocabilmente da qualche parte sopra di lei, in direzione della sala prove. Daphnè sollevò istintivamente la testa verso l’alto, studiando rapita e incuriosita il ballatoio dal quale si aveva accesso alla cima della torre: quello che stava avvolgendo la scala a chioccola era indubbiamente il suono emesso da un pianoforte, strumento che non facendo parte dell’orchestra sinfonica non le era mai capitato di sentire o vedere suonare da quando si recava fin lì tutte le settimane.
Fu con ancor più sconcerto che la ragazza, salito finalmente l’ultimo gradino, si trovò di fronte ad un visitatore del tutto inaspettato: un piccolo gatto dal pelo rosso e tigrato e le zampine bianche la guardava con gli occhi più grandi, teneri e verdi che Daphnè avesse mai visto, cosa la spinse a sorridere al micino e a chinarsi verso di lui allungando la mano destra:
“Ciao.”
Non era affatto insolito imbattersi in un gatto in giro per il castello, ma allo stesso tempo Daphnè non rammentava di averne mai scorto uno proprio lì, in cima alla Torre Nord. Amando infinitamente i gatti la ragazza provò un moto di gioia quando il gattino annusò brevemente le sue dita prima di farsi accarezzare la minuscola testa chiudendo gli occhi beato, finendo con il sgusciare nella fessura della porta lasciata socchiusa per fare ritorno nella sala poco dopo, lasciandola sola e con ancor più curiosità addosso.
Dopo una breve esitazione durante la quale Daphnè si interrogò in merito al comportamento più corretto ed educato da adottare – la porta era socchiusa, quello era un ambiente pubblico, quindi tecnicamente il suo non sarebbe stato “spiare” – la ragazza si decise ad appoggiare una mano sulla porta e a spingere debolmente l’anta, lasciando che si aprisse di qualche centimetro per consentirle di gettare un’occhiata sull’interno dell’ampia sala circolare a lei ormai tanto familiare.
 

Diego si avvicinava molto di rado alla Torre Nord, sede dell’orchestra e di chi ne faceva parte, e ancor più di rado varcava quella soglia per sedersi sull’ottomana dello splendido pianoforte a coda bianco che si trovava in un angolo della sala dove alcuni dei suoi compagni di scuola provavano insieme tutte le settimane. A volte la tentazione di infilarsi lì dentro durante le prove per studiare, in un angolo, chi ne faceva parte era talmente forte da farsi quasi soffocante, ma Diego finiva sempre col desistere e restare al suo posto, in qualche angolo del castello, limitandosi ad immaginare e basta.
C’erano dei giorni tuttavia, giorni come quello, in cui pensava più che mai a quel povero, bellissimo e costosissimo pianoforte abbandonato a se stesso, uno strumento che doveva costare più di tutti quelli posseduti dai suoi compagni messi insieme e che non veniva mai sfiorato dalle dita di nessuno. Che un pianoforte così prezioso non venisse mai adoperato, lasciato a prendere polvere, certi giorni Diego non riusciva proprio a sopportarlo e i suoi piedi lo portavano da soli fin lì, in cima alla scala a chiocciola: Diego si accertava che non ci fosse nessuno, chiudeva la porta, sedeva sull’ottomana e liberava la tastiera dal coperchio accarezzando quei sottili frammenti d’avorio quasi con affetto.
Quella mattina aveva portato Mew, la sua gatta, con sé: dopotutto la sua adorata piccolina non aveva ancora mai visto la Torre, così l’aveva infilata all’interno dell’anonima felpa nera con cerniera che aveva indossato quella mattina e aveva lasciato la sua Salle Comune da solo, la piccola testa fulva e le zampe anteriori bianche della gatta che sporgevano oltre la zip mentre i suoi occhi verdi si guardavano attorno per catturare la meraviglia che la circondava. Quella mattina Diego aveva lasciato la porta socchiusa per consentire a Mew di gironzolare, qualora ne avesse avuto voglia, ed era talmente concentrato sul finire la composizione che stava suonando, la fronte aggrottata mentre cercava di capire che cosa potesse andare sistemato e migliorato, da non accorgersi di non essere più solo.
Diego finì di suonare senza staccare le dita dai tasti d’avorio, fissandoli accigliato e poco convinto: faceva schifo. Faceva davvero schifo, e avrebbe tirato lunghe, lunghissime righe su tutti gli spartiti non appena giunto nella sua camera, dove li costudiva in un cassetto del comò accanto al letto. Perché suo nonno, perché tutta la sua famiglia lo definisse un gran talento talvolta faceva fatica a capacitarsene: fin troppo spesso gli capitava di rileggere uno spartito e di storcere il naso, convinto di aver composto un’emerita schifezza degna di essere gettata nel cestino più vicino.
“Ciao Diego.”
Quando sentì una voce parlare e salutarlo timidamente Diego s’irrigidì sull’ottomana, iniziando immediatamente a sudare freddo mentre si voltava lentamente in direzione di chi aveva parlato, le mani ancora appoggiate sulla tastiera: Daphnè Blanchard stava in piedi davanti alla porta semi-aperta reggendo una custodia nera, mentre Mew gironzolava indisturbata facendo lo slalom tra le sedie che solitamente venivano occupate dai componenti dell’orchestra. Alla vista di una sua compagna di classe Diego provò immediatamente il cocente desiderio di dissolversi nel nulla, e si alzò mettendosi a sedere di scatto elaborando un piano di fuga mentre Daphnè, invece, lo osservava con sincero ed evidente stupore, come se il suo solitario ed introvertissimo compagno fosse stata l’ultima persona che si sarebbe sognata di incontrare lì in cima.
“Devi suonare?”
“Sì, ma se vuoi continuare fa’ pure, sei arrivato prima tu. Come si chiama la composizione che suonavi? Non l’ho mai sentita.”
Daphnè gli sorrise gentilmente mentre si avvicinava di qualche passo, e Diego la studiò di rimando con sguardo critico, come volendosi accertare di non essere di fronte ad una presa in giro. A stranirlo, in effetti, fu scorgere solo tracce di onesta sincerità sul viso pallido della strega, cosa che lo spinse a schiarirsi la voce imbarazzato e a chinare lo sguardo sulla tastiera con una vaga stretta di spalle:
“Non… non me lo ricordo, in realtà. L’ho solo sentita da qualche parte a casa, in estate.”
Diego si sforzò più che poteva di adottare l’atteggiamento più vago e distaccato di cui era capace, pregando mentalmente che la compagna credesse alle sue parole e che non lo interrogasse oltre a riguardo: si sarebbe scavato una fossa proprio lì, su quelle mattonelle sempre talmente lucide da potervisi specchiare, prima di confessare di aver composto lui stesso quell’opera. Che a suo parere, per l’appunto, non era poi un granché.
“Molto bella. Non sapevo sapessi suonare! Peccato che non ci sia il piano nell’orchestra, sei bravissimo.”
Daphnè gli sorrise sembrando di nuovo il ritratto della sincerità, e a Diego non restò che annuire evitando il suo sguardo e di farle sapere di essere perfettamente in grado di suonare pressochè ogni singolo strumento incluso dalla disposizione dell’orchestra sinfonica: era qualcosa che non amava far sapere, soprattutto perché la domanda successiva era sempre la stessa, ovvero per quale motivo non facesse parte dell’orchestra della scuola.
“Grazie. Beh, vado, così puoi esercitarti. Ci vediamo. Vieni Minni.”
Desideroso di lasciare la scena in fretta Diego acchiappò la sua gattina non appena quella gli si avvicinò per strusciarsi sulla sua gamba, prendendola in braccio come aveva fatto poco prima mentre gli occhi chiari di Daphnè si spalancavano leggermente, illuminati da un sorriso radioso:
“La tua gatta si chiama Minni? Che carina!”
In realtà la sua gatta si chiamava Mew, ma come ogni padrone degno di questo nome Diego la chiamava in quel modo solo di rado, scadendo spesso in soprannomi melensi, affettuosi e soprattutto molto imbarazzanti. Cosa che andava benissimo quando era solo, e non certo in pubblico, dove doveva mantenere intatta la sua reputazione di tizio anonimo che non parlava mai con nessuno, di certo non un tipo in grado di chiamare la sua gattina Minni. Quando Daphnè sorrise, difficile dire se a lui o alla sua bella gattina, Diego si domandò chi e perché avesse deciso di donare ad un essere vivente inetto come lui il dono della parola: talvolta aveva l’impressione di fare delle clamorose figure di merda ogni volta in cui apriva bocca.
“Sì… Beh, no... Ciao.”
Stringendo la gatta al petto Diego fuggì con una rapidità che sorprese lui stesso in primis – considerata la sua scarsa predisposizione all’attività fisica non si sarebbe mai aspettato di poter essere tanto veloce – e lasciò Daphnè sola e accigliata prima di poter dare alla compagna il tempo di chiedergli altro: tutto quello che la ragazza poté fare fu guardare stralunata il punto in cui Diego era sparito, chiedendosi perché le fosse sembrato così strano. Forse aveva sbagliato a porgergli quelle due o tre domande per lei del tutto innocue? Conosceva Diego da sei anni e al tempo stesso non lo conosceva affatto, solitario com’era, quindi non ne aveva sinceramente idea.
Diego, nel frattempo, stava scendendo precipitosamente i gradini della scala a chiocciola imprecando contro se stesso e la propria idiozia, desideroso di tapparsi la bocca con del nastro adesivo da quel giorno fino al Diploma:
“Chi chiama la sua gatta Minni?! Minni, sono un coglione!”
Se glielo si fosse chiesto in quel preciso momento, mentre sfrecciava giù dalle scale insieme alla sua gatta, Diego avrebbe di certo decretato con assoluta fermezza di aver raramente provato tanta vergogna quanto quella mattina in tutto il corso della sua giovane vita. Tanto valeva trasferirsi a Durmstrang e seppellirsi sotto un cumulo di neve fresca in attesa di essere rinvenuto da una foca, si disse affranto il ragazzo mentre si lasciava alle spalle l’ingresso della torre chiedendosi dove potersi nascondere fino al conseguimento del Diploma.

 
divisore

 
Mentre diversi metri più in alto Daphnè si esercitava e Diego vagava penosamente per il castello crogiolandosi nel ricordo della “tragedia” appena verificatasi Maëlle Macquart stava facendo del suo meglio per emulare l’amica provando e riprovando a ripetizione lo stesso brano con il suo violino, ma senza trarne il giusto livello di compiacimento: come ogni anno Maëlle sapeva benissimo che avrebbe dovuto esercitarsi di più durante le vacanze estive e come ogni anno si stava ripromettendo con amarezza di imparare dai suoi errori e di comportarsi diversamente l’estate successiva, anche se una parte di lei restava consapevole di come quei buoni propositi sarebbero evaporati dalla sua mente una volta fatto ritorno a casa.
In sua difesa Maëlle sentiva solo di poter affermare di non vivere nell’abitazione ideale per un musicista: silenzio, pace e quiete erano tutte parole che non sarebbero affiorate nella mente di nessuno se gli si fosse chiesto di pensare ai Macquart e a dove vivevano, abitazione dove al contrario regnava quasi perennemente un gran caos a cui contribuivano, in modi e misure differenti, lei quanto i suoi tre fratelli maggiori.
Dopo aver stonato la medesima nota per la quarta volta di fila Maëlle smise bruscamente di suonare trattenendo l’impulso tanto familiare ad ogni violinista di scaraventare l’archetto fuori dalla finestra a lei più vicina per non doverlo vedere mai più, desiderio trattenuto solo dall’amore per il suo violino e dalla chiara immagine di sua sorella maggiore che setacciava tutta la priorità di Beauxbatons solo per rinvenire il costosissimo archetto e poi usarlo per suonarle a lei di santa ragione.
“Porco Flamel, possibile che non mi riesca?! Per quanto lo ami a volte vorrei che Paganini si fosse rilassato un po’ di più e scritto un po’ meno…”
In piedi davanti al leggio che di norma sostava accanto al suo letto e che per esercitarsi la ragazza era solita spostare più o meno verso il centro della camera circolare che condivideva con le sue amiche Maëlle recuperò la penna con i gattini che aveva appoggiato alla base della partitura per imprimere un rabbioso segnaccio sopra al passaggio incriminato mentre Lucinda, fino a quel momento rimasta distesa sul proprio letto con le caviglie incrociate e le cuffie lilla a fasciarle le orecchie, abbozzava un sorriso sollevando gli angoli delle labbra senza smettere di fissare il baldacchino sopra di lei:
“Su di voi scriveremo un’Enemies To Lovers splendida. Potremmo anche guadagnarci.”
Il telefono della ragazza giaceva accanto a lei sopra al copriletto bianco e viola, ma anche con la musica a palla nelle orecchie Lucinda era riuscita chiaramente ad udire i recenti bisticci dell’amica con il tanto temuto Capriccio n. 24 in La minore. Udite le parole di Lucinda Maëlle volse lo sguardo su di lei osservando la sua figura esile distesa sul letto con cipiglio contrito, le sopracciglia bionde leggermente aggrottate e le labbra carnose contratte in una smorfia dispiaciuta:
“Scusa Luli, ti do tanto fastidio? Se vuoi vado alla ricerca di un’aula vuota, anche se così metà castello finirà col sentire i miei toni soavi.”
Mentre la bionda gettava un’occhiataccia al leggio e alla partitura sempre stringendo violino e archetto Lucinda scosse la testa sollevandosi quel tanto che le bastava per mettersi a sedere sul letto, i palmi piantati dietro di lei sul copriletto a fiori e un sorriso sinceramente divertito ad illuminarle il viso e i limpidi occhi verdi:
“No, tranquilla, non ti preoccupare. E poi mi diverto a sentirti.”
“Su questo non ho dubbi, mi dicono da sempre che sono una comica mancata. Prima o poi capirò anche se è un complimento o meno… Che cosa stai ascoltando? A breve getterò la spugna e mollerò tutto per guardare una serie tv, così potrai esercitarti anche tu.”
Maëlle decise di potersi concedere una pausa, dunque abbandonò momentaneamente il leggio per avvicinarsi al letto dell’amica e sedersi sul bordo del materasso, appoggiando violino e archetto accanto a sé mentre Lucinda si sfilava le cuffie over ear lilla per metterle attorno alla sua testa.
“Il rondeau(2) della Cenerentola di Rossini. Non è meraviglioso?”
Sapendo quanto la musica, inclusa quella classica e l’Opera, fosse un grande amore che la legava alle sue migliori amiche Lucinda parlò con aria quasi sognante guardando il viso di una Maëlle in ascolto in attesa che il suo cipiglio concentrato lasciasse il posto alla pura meraviglia che il capolavoro in questione meritava di suscitare, finendo col sorridere e annuire compiaciuta quando vide l’amica sgranare appena percettibilmente i caldi occhi castani e sollevare meravigliata entrambe le sopracciglia:
“Come faccia certa gente a cantare così sfuggirà eternamente alla mia comprensione. Tu sei bravissima.”
La bionda si sfilò delicatamente le cuffie per restituirle alla legittima proprietaria guardandola con affetto e anche una punta di orgoglio, quasi come fosse fiera di lei mentre Lucinda, sorridendo, accettava le cuffie assestandole una lieve gomitata affettuosa prima di infilarsele nuovamente attorno alla testa e alla corta chioma di capelli corvini:
“Anche tu sei bravissima. Devi solo ripetere fino allo sfinimento e cercare di non defenestrare l’archetto… Ricordi quando andammo in giro disperate per il parco a cercarlo perché ancora non avevamo imparato l’Incantesimo di Appello?!”
Benchè la disperazione di quei momenti lontani fosse ancora ben impressa nella memoria di Lucinda alla portoghese venne quasi da ridere nel ricordare le forsennate ricerche sue e delle sue migliori amiche: se chiudeva gli occhi riusciva quasi a sentire di nuovo la voce di Daphnè maledire l’impulsività di Maëlle mentre frugava in mezzo ad un cespuglio, o a scorgere l’immagine tragicomica della proprietaria dell’archetto piena di foglie e rametti nei capelli biondi.
“Come mi conosci bene Luli.”
“Sai, sono davvero felice di avervi come amiche. Voi sì che mi capite, mio fratello pensa solo al Quidditch!”
Suddetto fratello che, appurò mentalmente Lucinda solo in quell’istante, non si degnava di scriverle da ben una settimana. Lei, la sua unica e preziosa sorellina! Come si permetteva Lisandro di non accertarsi di come stesse?! Lucinda si appuntò mentalmente, offesa, di tenergli il muso per un po’ – e dire che lei indossava proprio quel giorno una delle sue magliette rosa della divisa della squadra in cui giocava come Portiere, i Tapesouafles de Quiberon, che certo gli aveva rubato dall’armadio per appropriarsene, ma era pur sempre un segno di affetto – prima di rendersi conto dell’effetto che le sue parole avevano sortito su Maëlle, che si era immobilizzata in procinto di alzarsi dal letto e la stava fissando pericolosamente in silenzio e in totale inespressività. La reazione inusuale dell’amica spinse immediatamente la portoghese a correre ai ripari, del resto Maëlle era cresciuta assorbendo la passione per il Quidditch dal fratello maggiore più di quanto non avesse fatto lei, stampandosi un largo sorriso angelico sulle labbra prima di correggersi con tutto il suo aplomb:
“Non che io non pensi che il Quidditch sia fantastico, uno sport meraviglioso… ma è bello avere delle amiche che amano quello che ami tu, no?”
Maëlle si prese qualche lungo istante per studiare mentalmente le parole dell’amica mentre Lucinda continuava a sorriderle amabilmente, esaminandole con attenzione prima di stabilire di poter accettare la sua spiegazione e annuire di conseguenza:
“Certo, ovvio. Ora che ci penso, un altro motivo che mi fa quasi dubitare che Etienne sia davvero mio fratello: a lui del Quidditch non frega un cazzo. Come è possibile?!”
“Certo, infatti tu ed Etienne non vi somigliate proprio per niente. Nessuno direbbe che siete fratelli.”
Maëlle, seria in volto tanto quanto Lucinda, riprese in mano violino ed archetto annuendo come se fosse perfettamente d’accordo con lei, impiegandoci qualche istante di troppo per cogliere l’ironia nella voce dell’amica e per indirizzarle inviperita un’occhiataccia:
Io tutta questa somiglianza non la vedo. Tu sei fortunata, hai solo un fratello che ha parecchi anni più di te, non sai che impiastro averne uno della tua età che ti trovi sempre tra i piedi.”
Per nulla impressionata dalla stizza manifestata dall’amica Lucinda si limitò a sistemarsi distrattamente le cuffie sulla testa prima di scrollare le spalle con nonchalance e tornare a sedere sul materasso distendendo le gambe incrociando le caviglie sottili, i palmi allineati vicino ai fianchi e ben piantati sul copriletto:
“Vero, ma dimentichi che mio fratello è sempre stato un figlio esemplare, il che a volte costituisce una rottura per noi poveri secondogeniti. Se avessi un euro per ogni volta in cui mia madre mi ha fatto notare quanto Lisandro sia perfetto e un ottimo modello da seguire mi ci potrei comprare la squadra in cui gioca… Per fortuna gli voglio bene comunque.”
Anche se non si faceva sentire da un po’, quel maleducato, ma Lucinda sapeva che si sarebbe fatto perdonare con un regalo meraviglioso per quando sarebbe tornata a casa per Natale, dunque stabilì di poter non avercela troppo con lui mentre Maëlle, già che erano in argomento, si affrettava a sfoderare a sua volta un sorrisino compiaciuto:
“A proposito, Lisandro lo sa della tua liaison estiva con Théodore Belmont a Saint-Malo?”
Ogni traccia di sorriso svanì immediatamente dal bel viso di Lucinda, che si sentì raggelare – anche se quel giorno faceva discretamente caldo – e quasi impallidì mentre scenari a dir poco catastrofici prendevano rapidamente vita nella sua mente:
“Piuttosto di farglielo sapere emigro vicino all’Equatore.”
“Fammi un favore, in caso portati dietro Etienne.”

 
divisore
 
 
Scuderiescuderie
 

Le scuderie di Beauxbatons costituivano una delle strutture esterne della tenuta più amate e frequentate da tutta la popolazione studentesca: chi per prendere in prestito uno dei cavalli della scuola per una passeggiata, chi anche solo per ammirare i magnifici animali e offrire loro qualcosa da sgranocchiare, erano ben pochi i giovani maghi e streghe che vivevano al castello a non spingersi più o meno frequentemente fino alle scuderie. Tra questi pochissimi studenti si annoverava il nome di Gisèle Delacroix, che qualche minuto prima si era lasciata alle spalle uno degli ingressi posteriori dell’edificio principale per imboccare la lunga strada sterrata che conduceva fino alla scintillante struttura interamente ricoperta da assi di legno bianche armata di pazienza e di una precisa consapevolezza, ovvero che la sua migliore amica le avesse chiesto di raggiungerla laggiù in un vano tentativo di persuaderla a montare in sella. Non era certo la prima volta da che si conoscevano in cui Nerea cercava di spingerla in una trappola che sfociava in un gigantesco equino a cui Gisèle non voleva saperne di avvicinarsi, e la francese giunse in prossimità dell’edificio con la massima serenità, decisa a mantenersi ferrea sulla propria posizione: i cavalli le piacevano, senza dubbio ne riconosceva il fascino estetico, ma solo quando si trovavano ad almeno due metri di distanza da lei.
L’enorme porta di legno scorrevole dell’ingresso era come sempre spalancata per consentire il passaggio dei cavalli e una volta giunta dinanzi ad essa Gisèle si affacciò dubbiosa in cerca dell’alta e slanciata silhouette dell’amica senza però trovarne traccia, ritrovandosi a fissare solo lunghe file di box e la testa di qualche cavallo che sporgeva dalla propria finestrella, chi intento a attorno e chi con il muso sprofondato nella ciotola del mangime.
Dopo aver tratto un profondo respiro Gisèle si fece coraggio e si decise a varcare la soglia stando ben attenta a camminare il più possibile al centro dell’ampia corsia che divideva le file di box, giusto per non rischiare che da qualche porta lasciata aperta per sbaglio fuoriuscisse un qualche cavallo pronto ad investirla. Costretta a fare lo slalom tra montagnole di fieno che qualche incompetente aveva lasciato in giro Gisèle finì col chinare scettica lo sguardo sulle proprie scarpe, decisamente e volutamente inadatte al contesto, e col trasfigurare le delicate francesine blu e azzurre della divisa in un paio di orrendi stivali identici a quelli che Nerea utilizzava per montare. Trovatasi suo malgrado costretta ad ammettere quanto quelle calzature molto poco eleganti fossero comode Gisèle diede fiato alla propria voce chiamando il nome dell’amica, udendone subito l’eco in risposta quando Nerea la invitò a raggiungerla con l’entusiasmo che era solito caratterizzarla quando si trovava a contatto con gli animali.
Trovare Nerea non fu difficile per Gisèle, che a causa dell’amica si ritrovava ormai a conoscere a menadito le scuderie anche senza averlo mai desiderato: terrorizzata dalla loro mole non si era mai avvicinata ad un cavallo fino ai suoi tredici anni, quando la sua già migliore amica era riuscita a persuaderla ad accompagnarla fino alle scuderie per conoscerne qualcuno. Da quel momento la diffidenza della francese nei confronti degli equini si era leggermente appianata, ma Gisèle restava comunque molto più serena e rilassata quando si trovava a debita distanza. Nerea invece, che insieme ai cavalli ci era praticamente cresciuta, nelle scuderie avrebbe anche potuto piantare una tenda e trasferirsi: l’italiana, stivali color castagna con ghette ai piedi e una maglietta verde sgargiante infilata dentro ad un paio di pantaloni da equitazione marroni, stava lavando uno dei cavalli della scuola a cui era maggiormente affezionata, un Selle français il cui garrese superava in altezza persino il suo considerevole metro e 78. Il cavallo era stato legato ad uno dei ganci appesi alla parete di pietra che si trovava sul fondo delle scuderie, la zona adibita al lavaggio, e Nerea stava togliendo l’acqua in eccesso dal suo manto passandogli con cura il raschietto sul pelo baio, mani guantate e capelli castani raccolti in una lunga treccia che le ricadeva in mezzo alle scapole.
“Rea, giusto per non farti sprecare energie, non ho alcuna intenzione di salire su una di quelle cose di pelle e infilare i piedi in quelle cose con i ganci.”
Gisèle si fermò a debita distanza dall’enorme equino, guardandolo diffidente prima di stringere con risolutezza le braccia al petto mentre Nerea, interrompendo momentaneamente l’accurata operazione di pulizia, si voltava verso l’amica per guardarla con finta innocenza, gli occhi chiari spalancati ad arte:
“Non ti ho chiesto di venire per questo, solo per stare un po’ insieme! Io e Pegasus abbiamo fatto una passeggiata e sto finendo di lavarlo, non è bellissimo tutto pulito?”
Nerea finì di parlare spostando adorante lo sguardo sul Selle français a cui stava accanto, smettendo di passargli il raschietto sul mantello per allacciargli le lunghe braccia attorno al collo in un affettuoso abbraccio che Pegasus sembrò gradire insieme ai complimenti rivoltigli da una delle sue visitatrici più assidue. Gisèle, invece, scrutò scettica lo splendido animale facendo scivolare i grandi occhi azzurri sugli zoccoli che avrebbero potuto frantumarle facilmente tutta la struttura ossea del volto con un calcio ben assestato, stringendosi nelle spalle prima di lanciarsi in un mesto borbottio:
Carino.”
Lo scarso entusiasmo manifestato dall’amica indispettì non poco Nerea e spense immediatamente tutto l’entusiasmo dell’italiana, che smise di abbracciare il possente collo del cavallo per mettersi offesa le mani guantate sui fianchi, guardandola con aria di rimprovero:
Carino?! Pegasus è splendido! A volte proprio non ti capisco. Sei una ragazza di campagna anche tu da che mi risulta!”
“Guarda che i cavalli mi piacciono, più o meno. Solo che non voglio starci vicino. Li osservo a distanza. Un po’ come la gente che studia i volatili…”
Gisèle, che non aveva mosso un passo da che si era fermata davanti alla parete di pietra dove si poteva legare i cavalli per fargli la doccia, si strinse debolmente nelle spalle sotto lo sguardo scettico di Nerea, che scosse la testa prima di avvicinarsi all’enorme barile pieno di carote poco distante, accanto ad uno identico ma pieno di pane secco.
“Ma sono buoni, non ti fanno niente! Su, dagli una carota, così fate amicizia.”
Gisèle sapeva che quel momento sarebbe arrivato, puntuale come un orologio svizzero, e in men che non si dica si ritrovò un pezzo di carota stretto in mano e gli occhi neri di Pegasus puntati su di sé, desiderosi di uno spuntino. Dopo essersi avvicinata – ma non troppo – lentamente all’animale Gisèle sollevò dubbiosa la carota per porgerla a Pegasus stringendola tra le dita, destando un sonoro sbuffo di disapprovazione da parte di Nerea, che scosse la testa e le prese la mano per costringerla ad aprire completamente il palmo:
“Ma non così… Così. Apri la mano.”
“E se mi morde?!”
“Non ti morde, si fa così, smettila di fare la fifona!”
“Ok… Bravo… bello.”
Mentre Pegasus masticava soddisfatto la carota Gisèle si concesse di dargli un leggero colpettino al centro della fronte sperando di accontentare almeno parzialmente la sua migliore amica, che da anni cercava con scarsi risultati di farle stringere amicizia con gli equini. Consapevole di non poter ottenere molto altro da Gisèle Nerea infatti la guardò rassegnata prima di annuire, concedendosi di provare un po’ di soddisfazione e di allargare le labbra per dar vita ad un lieve sorriso:
“Meglio di niente. Gli ho già passato il grasso sugli zoccoli, ora deve asciugarsi, gli metto il districante sulla criniera e poi abbiamo finito… Vieni, lo porto nel paddock, così si asciuga prima.”
Nerea slacciò la lunghina blu elettrico di Pegasus dal gancio per voltarlo e portarlo fuori dall’edificio facendo echeggiare tra le pareti lo scalpitio regolare degli zoccoli ferrati del cavallo sul pavimento di pietra. Gisèle, decisa a non restare indietro né tantomeno di trovarsi alle spalle dell’animale anche solo per una frazione di secondo, si spostò con uno scatto e subito affiancò l’amica per uscire dal retro delle scuderie insieme a lei: Nerea e la sua esperienza con i cavalli erano tutto ciò che riusciva a spingerla fin lì e a sforzarsi di superare almeno parzialmente la sua forte diffidenza nei confronti di quegli animali.
“Bravo piccolino, sei proprio bravo bravo bravo.”
Mentre Nerea lasciava il cavallo libero di annusare il suolo e brucare l’erba scattandogli decine e decine di foto col proprio telefono e ripetendogli parole dolci ad oltranza Gisèle si posizionò dietro di lei con le braccia strette al petto e lo sguardo attento a contemplare gli steccati bianchi del paddock che le circondavano, chiedendosi dubbiosa se fossero abbastanza alti da impedire ad un qualche altro cavallo di arrivare di corsa, saltare, investirla e porre così fine alla sua carriera di ballerina. Non le importava un fico secco di sentire Nerea sgolarsi per ripeterle quanto quello scenario fosse molto poco probabile, lei continuava ad immaginarselo ogni volta in cui le capitava di recarsi fin laggiù.
“Sicura che non possano saltare quei recinti? Non sembrano così alti.”
“Sono fatti apposta, rilassati. E poi non siamo alla corrida, non è che i cavalli ti inseguono per investirti, è una tua folle paranoia! Guarda Pegasus com’è carino mentre mangia i trifogli!
Dopo aver parlato senza neanche volgere lo sguardo su di lei Nerea trillò entusiasta prima di correre dal cavallo e abbracciarlo di nuovo, pigolando qualcosa a proposito di quanto fosse “bello e bravo” mentre Gisèle, alle sue spalle, si limitava ad alzare gli occhi al cielo.
“Rea, venire qui non ti fa, emh, sentire la mancanza dei tuoi cavalli?”
Le stalle dei Pagano contavano ben cinque cavalli adulti più l’ultimo arrivato “della famiglia” – Nerea includeva anche gli animali, cani, cavalli, galline o mucche che fossero –, il piccolo Pepe, che la padroncina aveva accudito e viziato per tutte le ultime settimane di vacanze estive. Anche Gisèle si era ritrovata suo malgrado a fargli da babysitter durante il suo soggiorno a casa Pagano, ma essendo Pepe un tenero puledrino la francese non si era mai lamentata, finendo invece col provare un po’ di affetto per un equino per la prima volta in tutta la sua vita. Mentre accarezzava dolcemente il collo umido e spazzolato di Pegasus, il cui manto pulito e profumato brillava sotto la calda luce del sole mentre si asciugava, lo sguardo adorante di Nerea improvvisamente si incupì: per quanto la ragazza amasse Beauxbatons, i suoi amici e la sua vita a scuola, la lontananza forzata dai suoi animali la faceva sempre soffrire non poco durante i mesi che era costretta a trascorrere lontano da casa, al confine tra Spagna e Francia. La strega scoccò un’ultima occhiata mesta a Pegasus, che stava annusando la base dello steccato bianco che delimitava il rettangolo del paddock in cui si trovavano, prima di annuire e tornare a posare lo sguardo sull’amica, che naturalmente non si era mossa di un centimetro e moriva silenziosamente dalla voglia di tornare al castello, lontano dall’odore di stalla e da zoccoli ferrati potenzialmente mortali.
“Certo, mi mancano tantissimo… Pepe sarà cresciuto tantissimo per quando lo rivedrò, purtroppo. Almeno lui ti piaceva, quando sei venuta da me in estate.”
“Certo, era piccolo e carino, non abbastanza pesante da cadermi addosso e schiacciarmi una gamba.”
Nerea alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla: se non altro era riuscita a farle apprezzare un cavallo, a prescindere dall’età e dalla stazza. Chissà, forse entro la fine della loro vita a Beauxbatons sarebbe persino riuscita a portare a termine l’eroica impresa di convincerla a montare in sella insieme a lei: Etienne ed Antoine non facevano che ripetere quanto fosse folle anche solo sperarlo, ma Nerea era decisa a non darsi per vinta fino al giorno del Diploma.
“Mamma mi ha mandato un sacco di foto delle ragazze ieri, vuoi vederle?!”
Gisèle aveva imparato tempo addietro il gergo con cui Nerea era solita utilizzare per fare appello ai suoi amati animali, e sapeva che con “ragazze” l’amica faceva quasi sempre riferimento alle sue tre mucche, Maggie, Grace e Mrs Calloway.
“Certo. Le tue mucche sono molto simpatiche.”, disse Gisèle con un sorriso, questa volta sincera al 100%: del resto le mucche di Nerea, a differenza dei suoi cavalli, non la terrorizzavano affatto.
“Certo che lo sono, tutti i miei animali sono simpatici. È un tratto di famiglia. Ciuchino invece è triste e mangia meno da un po’, si vede che gli manco.”
Mentre si avvicinava all’amica per mostrarle orgogliosa le foto delle sue mucche il viso di Nerea s’incupì di nuovo, appoggiando il capo contro quello dell’amica quando Gisèle le concesse qualche pacca sulla spalla per invitarla a farsi forza: c’erano giorni in cui la vita di affettuosa padroncina a distanza della sua amica si faceva più dura che in altri.

 
Icaro Orsini aveva imparato a montare in sella – rigorosamente all’inglese, sua madre si sarebbe tagliata tutte le dita delle mano sinistra prima di consentire a lui o ad uno qualsiasi dei suoi fratelli di montare all’americana – ancor prima di imparare a calcolare le divisioni a due cifre: si considerava e si poteva indubbiamente considerare un fantino provetto, eppure quel pomeriggio aveva rischiato, per la prima volta dopo cinque o sei anni, di cadere dalla sella. In realtà la responsabilità più che al cavaliere o al suo cavallo, un Purosangue Inglese dal mantello completamente nero, fatta eccezione per i quattro calzini bianchi che gli ornavano le caviglie, si sarebbe dovuta addossare al ragazzo che aveva accompagno Icaro e Teseo, così si chiamava l’equino, nella loro passeggiata: Diego, immobile mentre stava in sella ad un palomino stringendo mollemente le redini alla base del suo collo, stava scrutando il cugino con sguardo truce mentre questi, fermo accanto a lui, si trovava completamente disteso in avanti sul collo del suo cavallo, preda di convulsioni da troppe risate e gli occhi scuri pieni di lacrime.
“Icaro, che cazzo ti ridi?! Io sono serio.”
Mentre Teseo si guardava attorno altezzoso e il palomino approfittava del momento di relax per brucare un po’ d’erba Icaro venne colpito da un altro violento attacco di risa che lo spinse a picchiettare la mano destra sul collo del Purosangue, fortunatamente sufficientemente addestrato da non fraintendere il gesto del cavaliere e partire al galoppo verso l’ampia distesa di prato che stavano fronteggiando.
 “Die’, scusa, non ce la faccio. Non puoi essere serio.”
Icaro si asciugò le lacrime che avevano iniziato a sgorgargli dagli occhi e si sforzò per rimettersi a sedere dritto sulla sella e a tornare serio, reprimendo l’attacco di ilarità che l’aveva colpito quando il cugino, scuro in volto e serio come sul punto di rivelargli di aver compiuto un omicidio, lo aveva costretto ad interrompere il trotto per informarlo di voler fare le valige e andarsene a casa dopo la sua disavventura di quella mattina. Icaro lo aveva guardato con tanto d’occhi, certo che si trattasse di una presa per il culo orchestrata dal cugino e da Phoenix, ma aveva finito col ricredersi e a con l’iniziare a contorcersi dal ridere sulla sella quando Diego gli aveva rivelato ciò che l’aveva spinto a prendere quella decisione definitiva: ora il più giovane lo guardava ancor più torvo e scuro in volto, sempre più convinto della sua decisione di sparire dalla circolazione per la vergogna.
“Vedi, è di questo che parlo! Ora tutto il castello saprà che la mia gatta si chiama Minni, sembrerò un idiota e nessuno penserà più che io sia un tizio da cui stare alla larga! Tanto vale fare le valige, o cambiare nome. Beh, a quello pensavo già da un po’, in realtà.”
Ora tutto ciò a cui Icaro riusciva a pensare era al cugino che, di nero vestito, serio e ingobbito, fuggiva via dalla Torre Nord insieme alla sua gattina di fronte ad una terrificante e dolcissima ragazzina che con ogni probabilità gli aveva rivolto al massimo un sorriso. Fortunatamente voleva bene a Diego e a minare la sua autostima non ci teneva, motivazioni che lo spinsero a sforzarsi di farsi serio mentre con un lieve colpo di talloni invitava Teseo a riprendere a proseguire al passo, Diego subito dietro di lui.
“Die’, senti, scusa se te lo dico, ma non è che tu abbia proprio l’aura da cattivo ragazzo
“Cosa?! Ma se mi impegno tanto per sembrare un tizio a cui non rivolgere la parola?!”, esclamò Diego sgomento mentre guardava il cugino con gli occhi azzurri spalancati e pieni di allarmismo: come poteva Icaro dirgli una cosa del genere quando lui aveva sudato anni e anni per diventare uno a cui non parlare, salvo casi disperati? Voleva forse dire che i suoi ripetuti sforzi erano stati vani?!
“Certo, un tipo poco raccomandabile che mangia miele dalla mattina alla sera neanche fosse un orsetto dei cartoni animati e che se ne va a spasso con un cavallo di nome Camomilla…”
Icaro accennò con fare eloquente in direzione della tenerissima palomina di Diego, tutta ciglia e occhi color ambra, che stava seguendo Teseo muovendo allegra la lunga coda bionda che il Bellefuille le spazzolava con cura e affetto dopo ogni passeggiata. Diego sentiva spesso la mancanza dei cavalli di proprietà della sua famiglia che ogni estate lo aspettavano quando faceva ritorno a casa ma non poteva negare di provare un profondo affetto per la cavalla in questione, attaccamento che lo spinse a farsi improvvisamente serio e a raddrizzarsi sul cuoio della sella mentre si ergeva in difesa dell’animale:
“Ehy! Camomilla è dolcissima e non le danno l’affetto che si merita!”
Diego accarezzò con fare protettivo il collo dorato della cavalla gettando un’occhiataccia ad Icaro e a Teseo, noto per essere la primadonna delle scuderie e da lui molto poco apprezzato a causa del suo carattere notoriamente capriccioso. Diego era solito sfogare quell’antipatia – reciproca, dal momento che Teseo lo sguardava stizzito e si voltava dandogli le spalle ogni volta in cui lo incrociava –  dando a Camomilla dei pezzi di carota come snack senza condividerli con il Purosangue: come faceva Icaro a definirlo un adorabile ragazzo dal cuore tenero, si chiese accigliato Diego a fronte di quelle considerazioni?
Ecco, appunto. Dai Die’, è una stronzata… Chiami la tua gatta Minni, e allora?! Tutti si rincoglioniscono con i propri animali.”, disse Icaro scuotendo la testa con un sospiro rassegnato, ignorando il cupo borbottio che il cugino bofonchiò in risposta e dal quale non riuscì ad estrapolare una sola parola dotata di senso compiuto.
“Dai, facciamo il giro largo attorno alle serre prima di tornare indietro… se pensi di riuscire a non fuggire verso il tramonto in un’uscita di scena drammatica, certo.” Icaro ridacchiò mentre si attorcigliava le redini di cuoio nero attorno alle mani pallide per accorciarle, affrettandosi a stringere le ginocchia contro i fianchi di Teseo e aumentare la pressione sui talloni per indurlo a galoppare mentre Diego, dietro di lui, si sporgeva leggermente in avanti per assestare un dolce colpetto affettuoso sul collo di Camomilla, che intuì le sue intenzioni e affrettò obbedientemente le falcate fino a passare dal trotto al galoppo, seguendo Teseo in mezzo all’erba alta e fitta.
“Anche volendo manca ancora troppo al tramonto…”, sussurrò Diego rivolgendosi più a se stesso che al cugino, che ormai non poteva più sentirlo. Come Icaro Diego rilassò le gambe, sollevò le spalle e rimase perfettamente seduto sulla sella seguendo l’andatura accelerata di Camomilla senza sollevarsi come a lungo gli era stato insegnato da bambino, quando una volta imparato a montare all’inglese gli era stato inculcato a forza di come il galoppo sull’inforcatura fosse infinitamente meno elegante di quello seduto. Dopo pochi secondi, presa velocità e abituatosi all’andatura, Diego sfilò i piedi dalle staffe lasciandoli cadere lungo i fianchi dorati di Camomilla traendo un profondo respiro di sollievo, concedendosi di sorridere mentre si lasciava quasi proiettare sulle nuvole.

 
 
divisore

 
“Mi spieghi come e quando ti è venuto in mente di comprare un proiettore? Basile arriverà di corsa roteando minacciosamente una mazza da Battitore la prossima volta in cui comprerai qualcosa di costoso.”
Maëlle parlò scuotendo il capo rassegnata mentre faceva affondare un biscottino al burro glassato nella soffice e candida schiuma, simile in tutto e per tutto ad una nuvola, del cappuccino speziato che aveva davanti, sempre più certa giorno per giorno che suo fratello dovesse essere precipitato dal seggiolone da neonato. Ironia a parte, viste le capacità genitoriali di chi li aveva cresciuti nei loro primi anni di vita la ragazza non se la sentiva di escludere del tutto quella possibilità. Etienne invece, che sedeva di fronte a lei con un paio di occhiali da sole tartarugati a celare le iridi chiare si limitò ad una debole scrollata di spalle senza manifestare troppa preoccupazione, le braccia che ancora presentavano gli ultimi rimasugli dell’abbronzatura estiva lasciate scoperte dalla camicia larga a maniche corte verde e lasciata aperta e infilata sopra ad una maglietta bianca.
“Ok, è una spesa considerevole, ma è per una giusta causa! E poi sono talmente generoso da essere disposto a farlo adoperare anche ai miei amici, questo non depone a mio favore?”
“Forse, ma dubito che Basile sia dello stesso avviso.”
Maëlle, che riusciva benissimo ad immaginare la lunga sequenza di tic nervosi che dovevano aver colpito Basile alla vista dell’ordine fatto su Amazon – chiaramente con il suo stesso account, perché i fratelli minori preferivano di gran lunga scroccare invece di sborsare per avere Amazon Prime – imitò il fratello stringendosi nelle spalle prima di addentare quel che restava del dolcetto glassato, riprendendo a sorseggiare il suo caffè dopo essersi interrogata a voce alta sul perché i fratelli maggiori creassero problemi costantemente.
“Noi povere sorelle minori dovremmo tutte essere santificate.”, decretò Daphnè con la massima solennità mentre stringeva la tazza di cappuccino alle fragole che come sempre aveva impiegato mezz’ora per ordinare stando ben attenta a non sollevare il mignolo: sua madre poteva anche trovarsi a chilometri e chilometri di distanza, ma Daphnè sapeva che se avesse infranto il galateo sarebbe venuta a saperlo in ogni caso. Maëlle annuì, d’accordo con lei mentre si serviva un altro biscotto dall’alzata per dolci che un Elfo armato di grembiulino a fiori aveva portato loro poco prima sulla terrazza, mentre Etienne al contrario manifestò tutta la sua disapprovazione scoccando un’occhiata torva a Daphnè, che si limitò a rivolgergli un sorriso colpevole e affettuoso al tempo stesso:
“Scusa Etienne, ti voglio bene, ma è così.”
“Detto sinceramente, l’unica della vostra famiglia che andrebbe santificata è vostra sorella.”, s’intromise Lucinda, che fino a quel momento aveva seguito di sfuggita la conversazione sorseggiando caffè freddo e standosene seduta sulla sedia da giardino di metallo bianca con la testa reclinata all’indietro nel tentativo di prendere più Sole possibile, le braccia abbandonate sui braccioli e lasciate scoperte dalla t-shirt rosa acceso con il suo cognome – o per meglio dire quello di suo fratello, visto che apparteneva a lui – stampato sul retro. Le parole della ragazza fecero quasi andare il caffè di traverso a Maëlle quanto ad Etienne, ed entrambi i Macquart volsero gli sguardi attoniti su di lei, entrambi con gli occhi spalancati e l’aria stralunata:
“Luli, che ti sei fumata?! Sono io la povera vittima in casa nostra!”
Maëlle parlò agitando indispettita la tazza di vetro rischiando di rovesciare la schiuma sul suo vestito nuovo in cotone sangallo con le maniche a sbuffo, ma anziché scomporsi Lucinda si strinse nelle spalle esili, aggiustandosi gli occhiali da sole sul naso con nonchalance prima di raddrizzarsi sulla sedia, riprendere in mano la sua tazza e vuotarla in tutta calma. Solo una volta finito di bere il suo caffè, con tre paia d’occhi ad osservarla in attesa, la ragazza riprese a parlare con una debole stretta di spalle:
“Soleil vi sta dietro sempre, fa la spesa, vi manda tutto quello che vi serve e cucina quasi sempre visto che Basile è totalmente incapace. E lavora anche, non so come faccia a far tutto! È la sorella dei miei sogni.”
“Anche dei miei, avrei tanto voluto una sorella…”, sospirò Daphnè guardando mesta la sua tazza mentre Etienne, poco convinto dalle parole di Lucinda, guardava l’amica della sorella con le sopracciglia aggrottate, dubbioso:
“Sì, ok, Soleil è una brava sorella, ma io sono quello che viene sempre maltrattato da tutti in famiglia! Siete solo invidiosi perché sono quello simpatico.”, decretò il ragazzo scoccando un’occhiata sostenuta in direzione della sorella minore, che quasi sputacchiò di nuovo il caffè all’udire quella che alle sue orecchie costituì la più grande stronzata della settimana. Mentre la bionda iniziava ad inveire contro di lui Lucinda ebbe la prontezza di riflessi di rubarle la tazza, ormai certa che di quel passo quella e il caffè avrebbero fatto una fine poco auspicabile.
“Perché te lo meriti, cretino! E comunque quella simpatica sono io. … Ora che ci penso, controlla che Basile non abbia cambiato la password di Netflix come l’ultima volta in cui lo hai fatto incazzare.”
“Porco Flamel, spero di no! Dovrò pur usarlo il proiettore!”
Improvvisamente impallidito Etienne si affrettò ad infilarsi una mano nella tasca dei pantaloni verdi abbinati alla camicia – che naturalmente gli aveva comprato Soleil, ma si astenne dal sottolineare come la maggiore si occupasse anche di aiutarlo a fare shopping, o sarebbe sembrata una sorella troppo perfetta – per recuperare il telefono, preoccupato all’idea di trovarsi tagliato fuori dall’account di famiglia come negli ultimi anni accadeva fin troppo di frequente. Mentre Daphnè e Lucinda cercavano di non ridacchiare troppo apertamente, la prima nascondendosi dietro la tazza e la seconda sforzandosi di guardarsi attorno con studiata nonchalance, Maëlle fulminò il fratello con un’occhiata talmente minacciosa che per un istante Etienne temette di ritrovarsi pietrificato nel bel mezzo della terrazza:
“Lo spero per te anche io, se resto senza Friends per colpa tua ti taglio quei bei capelli biondi nel sonno!”
“Ah ecco sorellina, mi odi perché ho i capelli più belli dei tuoi. … Cazzo, ha cambiato la password!”, gemette Etienne con aria grave quando Netflix lo informò che quella che aveva usato fino al giorno prima, ovvero un’eccessiva autoreferenziale “Maëllebellissima00” scelta dalla minore, non andava più bene. Conoscendo Basile quella nuova doveva essere un insulto alla sua persona.
“Ti disintegro, tu e il tuo proiettore!”, esclamò Maëlle pentendosi amaramente di non aver nulla da lanciare contro il fratello quando appurò che la sua tazza era misteriosamente sparita nel nulla – l’unica cosa che aveva davanti era la meravigliosa alzata per dolci, che però era troppo preziosa per sprecarla in quel modo –, dopodiché si affrettò a recuperare a sua volta il telefono dalla borsetta a tracolla di cuoio che aveva portato con sé per controllare Disney+ pregando che Basile avesse avuto un briciolo di pietà e che non avesse cambiato anche quella password, ma i suoi peggiori timori trovarono conferma quando la solita password venne brutalmente rifiutata:
“Ha cambiato anche Disney+, non accetta “Maëllesivestebenissimo”! Io volevo vedere la Sirenetta stasera… Come può nostro fratello essere così crudele?!”, esclamò con tono grave la strega prima di abbandonare sconvolta il telefono capovolto sul tavolo, mostrando la cover trasparente coperta da adesivi colorati e che conteneva una foto che la ritraeva insieme alle sue amiche risalente all’ultimo giorno di scuola dell’anno precedente.
Dopo essersi scambiata una rapida occhiata con Daphnè Lucinda fece per intromettersi e tranquillizzare l’amica assicurandole di poter usare la sua password per tutto il tempo che voleva – le settimane che Maëlle trascorreva in astinenza da serie tv e film erano tempi bui per lei e per tutti coloro che la circondavano –, ma Etienne la battè sul tempo scrutando accigliato la sorella minore attraverso le lenti degli occhiali da sole e scuotendo la testa in segno di diniego:
“Guarda che non è quella la password, è “Basilenonsacucinare01!”
“Era di due mesi fa, poi Soleil si è incazzata perché hai ordinato la pizza cinque volte in una settimana e l’aveva cambiata in “Etiennedeficiente”… E poi l’ho cambiata io.”
“Ma che razza di password usate…” Daphnè mormorò quelle parole facendo rimbalzare con lieve perplessità gli occhi chiari da un Macquart all’altro, indecisa se prenderla sul ridere come stava facendo Lucinda, in chiara difficoltà nel tentativo di non godersi troppo apertamente la discussione, o se prepararsi a dividerli quando avrebbero finito per rovesciare tavolo e pasticcini per prendersi per i capelli, come più di una volta li aveva visti fare anni addietro. Una parte di lei in quel momento non poté che vagare col pensiero fino a sua madre, ritrovandosi quasi a ridere a sua volta nell’immaginarla alle prese con dei figli come i suoi amici.
“Hanno uno strano modo di dimostrarsi affetto.”, convenne Lucinda prima di addentare un bignè alla panna, segretamente grata di poter assistere al drama che in Casa Macquart regnava sovrano 365 giorni all’anno: la giovane strega, cresciuta insieme ad un fratello parecchio più grande di lei e sì affettuoso ma terribilmente perfettino, era fermamente convinta che assistere alle loro discussioni fosse più soddisfacente di guardare una qualsiasi soap-opera, tanto da recarsi in visita da Maëlle ed Etienne ogni qualvolta in cui le si presentava l’occasione. Non a caso le capitava di desiderare di potersi trasformare in un minuscolo insetto volante ogni qualvolta in cui la sfiorava l’idea di intraprendere gli studi per diventare Animagus.
“Basta, io chiamo Basile e imploro pietà. Ragazze, andiamo, non voglio vedere un mio consanguineo qualsiasi fino a domani.”
Con queste parole Maëlle si alzò in piedi scostando rumorosamente la sedia all’indietro sulle mattonelle della terrazza, girando sui tacchi e andandosene senza aggiungere altro o sognarsi di salutare il fratello maggiore, il mento sollevato a conferirle un’aria sostenuta e la borsetta che le dondolava lungo il fianco destro. A Lucinda e a Daphnè non restò che seguirla, pertanto le due salutarono frettolosamente Etienne prima di alzarsi e andarle dietro, lasciando solo il Bellefuille per una manciata di istanti: il ragazzo stava per consolarsi prendendo un macaron dall’alzata per dolci, deciso a crogiolarsi nell’autocommiserazione riempiendosi di zuccheri, quando Lucinda tornò indietro per recuperare l’alzata per dolci rivolgendogli un mite sorriso di scuse:
“Scusami tanto, ma Maëlle vuole affogare la disperazione nel cibo.”
Lei vuole affogare la disperazione nel cibo?! E a me che cosa rimane?!”, esclamò incredulo il ragazzo guardando la Papillonlisse con gli occhi fuori dalle orbite, preda della disperazione a sua volta. Fortunatamemte Lucinda, mossa da un po’ di pietà, ebbe il buon cuore di allungargli un paio di bignè prima di scoccargli un bacio aereo, girare sui tacchi e raggiungere di corsa Maëlle e Daphnè. Etienne, rimasto definitivamente solo, guardò sconsolato i dolcetti che gli erano rimasti – ormai senza Netflix, cibo e proiettore, che cosa gli rimaneva? – prima di riprendere in mano il telefono e scrivere all’unica persona di sua conoscenza in grado di comprendere cosa significasse privarsi della gioia datagli dai dolci: Etienne scrisse a Gisèle in cerca di supporto emotivo, manifestando all’amica perennemente a dieta tutta la sua sofferenza, ma finì col trasalire inorridito quando quella gli rispose consigliandogli di consolarsi mangiando delle gallette di riso ricoperte di cioccolato. Secondo lei quella era una consolazione?! Etienne ripose il telefono sul tavolo scuotendo la testa con stizza, e all’improvviso non lo stupì poi così tanto il fatto che l’amica fosse spesso di cattivo umore viste le schifezze ipocaloriche con cui era costretta a nutrirsi.

 
divisore

 
Campo di tiro con l’arco
 
 
Quando dopo aver sferzato l’aria con un sibilo la freccia si conficcò nel pieno del terzo cerchio del bersaglio, accanto a quelle che già aveva lanciato in precedenza, una lieve imprecazione in cinese scivolò fuori dalle labbra di Dante Wang, che guardò affatto compiaciuto il risultato del suo ultimo tiro mentre Nerea, in piedi a due metri di distanza, abbassava l’arco di legno per rivolgersi all’amico con un sorriso divertito:
“Ma guarda, sembra che qualcuno oggi non stia dando il meglio di sé!”, esclamò la Bellefuille dopo aver scoccato una rapida occhiata al suo bersaglio e a quello dell’amico, prova di come gli ultimi tiri della ragazza fossero stati più precisi rispetto a quelli di Dante. Il ragazzo però, che di norma si dimostrava più abile dell’amica in quella disciplina grazie ai lunghi anni di esercizio a Mahoutokoro che aveva alle spalle, non si scompose più di tanto, e anzi restò impassibile mentre chinava a sua volta il rider di legno dell’arco con una debole scrollata di spalle:
“Forse è il tuo chiacchiericcio costante che mi disturba e mi distrae, chissà.”
“Ma se ero in silenzio?!”, gli fece notare Nerea strabuzzando gli occhi un tantino indignata, guardando l’amico fare di nuovo spallucce come se quel dettaglio fosse del tutto irrilevante:
“Fa’ niente, ti sento pensare.”
 
Milad ed Antoine sedevano poco distante sul prato, godendosi l’ombra di un albero in attesa del loro mentre guardavano i compagni tirare, e pur non capendo una parola di quello scambio in italiano entrambi riuscirono comunque a supporne tranquillamente il senso mentre le frecce si staccavano da sole dai bersagli colorati per tornare al loro posto all’interno delle faretre di cuoio. O meglio, Antoine stava guardando i compagni tirare, Milad come suo solito aveva deciso di approfittare del momento libero per tirare fuori un libro dallo zaino e mettersi a leggere un libro sulle tecniche scacchistiche, il capo chino e le gambe fasciate dai jeans neri incrociate sul prato.  
“Dante è molto bravo, vero?”
La voce di Antoine spezzò il silenzio mentre il belga guardava Dante e Nerea allontanarsi dai bersagli camminando sul prato in mezzo ad un lieve venticello che non stava facilitando per nulla l’attività in corso
“Mh-mh. Sono felice che si sia iscritto, anche perché mi sono reso conto che è divertente vederlo battibeccare con Nerea.”, decretò Milad senza alzare lo sguardo dal libro, limitandosi ad un lieve cenno del capo mentre girava pagina e Antoine, accanto a lui, sorrideva strappando distrattamente qualche filo d’erba, le gambe lunghissime distese davanti a sé:
“Sono una versione molto più soft di Gisèle e Guillaume. Speriamo che stasera riescano a non uccidersi sul tavolo.” L’espressione fino a quel momento serena e rilassata di Antoine si fece improvvisamente tesa mentre la sua mente vagava fino alla migliore amica e al cugino: tutti gli altri adoravano vederli litigare ma lui, consacrato fin dal primo anno di scuola all’ingrato ruolo di pacere, non si divertiva neanche lontanamente. Anzi, a quelle riunioni doveva sempre stare sul chi va là, pronto ad impedire a Gisèle di infilzare il cugino con una forchetta da dessert o di trasformarlo in un comodino. Dopo aver riflettuto brevemente sulla questione e aver sollevato persino lo sguardo dalla propria lettura Milad annuì, trovandosi d’accordo mentre Nerea li raggiungeva con un largo sorriso allegro sulle labbra per invitarli a prendere il posto suo e di Dante.
“Sì, dovremmo farli sedere il più lontani possibile… Dopo lo dico ad Abel.”
“Ciao ragazzi! Noi abbiamo fatto, se volete potete andare.”
Nerea si fermò con un sorriso davanti ad Antoine porgendogli l’arco di legno, e il belga si alzò prima di accettarlo ringraziandola. Milad chiuse il libro, lo rimise al suo posto con cura all’interno dello zaino e infine si alzò seguendo Antoine dopo aver preso l’arco di Dante. Mentre i due si allontanavano verso i bersagli, Milad sfiorando la corda di lino con le folte sopracciglia scure aggrottate per accertarsi di quanto fosse tesa, Dante s’infilò le mani nelle tasche dei pantaloni neri gettandosi una pigra occhiata attorno, i lisci capelli scuri lievemente mossi dal vento:
“Beh, io vado se abbiamo fatto.”
“Noo dai, resta ancora un po’, durante la settimana non riusciamo mai a vederci con tutte le cose che abbiamo da fare!” Lo sguardo implorante che Nerea sfoderò per cercare di persuaderlo a rimanere e farle compagnia riuscì a far esitare l’amico, che si vide costretto a non darle torto – specie a causa degli innumerevoli impegni che popolavano le giornate di Nerea – e dopo un breve tentennamento cedette e annuì, acconsentendo a restare ancora per un po’. Cinque minuti dopo i due sedevano sul prato uno di fronte all’altra con in mano delle carte, sfidandosi in un’accesissima partita a UNO che costrinse un sempre più seccato Dante a pescare una carta dietro l’altra:
“Piantala di farmi pescare, cazzo!”
“Non è colpa mia se sei sfigato!” Nerea accusò l’amico di essere poco avvezzo ad accettare la sconfitta premurandosi anche di ricordargli un aneddoto risalente a più o meno dieci anni prima, quando lui non le aveva parlato per tutto il pomeriggio dopo aver perso una partita a ping pong da tavolo.
“Perché tiri sempre fuori storie del secolo scorso?!”
 

Milad, in piedi davanti al bersaglio ancora vuoto, impugnò il rider dell’arco stringendo la mano sinistra attorno al grip dopo aver incoccato la freccia con l’aiuto del rest(3), prese la mira con la dovuta calma e dopo aver tratto un profondo sospiro lasciò andare la freccia sperando di aver calcolato la traiettoria giusta considerando il vento, guardandola sferzare l’aria fino a conficcarsi nel secondo cerchio giallo del bersaglio. Sul viso spesso serio del ragazzo, fermo sostenitore di quanto costanza, impegno e allenamento potessero migliorare qualsiasi abilità in chiunque, apparve un sorriso compiaciuto, e Milad si apprestò a prendere un’altra delle sue frecce ripensando con soddisfazione a quando, sei anni prima, aveva faticato anche solo a reggere l’arco e a tenderlo a dovere. Ecco spiegato perché non le avrebbe mai sopportate, le persone che mollavano alla prima difficoltà.

 
 
divisore

 
“Basile, sei meschino, io non ho fatto nulla! Non è colpa mia se Etienne è uscito male! Che cosa avrei fatto?! … No, non ho speso io tutti quei soldi su Asos, sarà stato tuo fratello! Erano gonne, e allora?! Magari erano… per una fidanzata di cui non sappiamo nulla. Va bene, non ci crede nessuno, ma magari Etienne ha cambiato gusti in fatto di abbigliamento!”
“Pensi che la smetterà?”
Dopo pranzo Daphnè e Lucinda avevano seguito Maëlle in giardino fino ai pressi del roseto e avevano steso una soffice coperta a quadri bianchi e beige sul prato per mettersi comode e godersi le ultime giornate di sole di un autunno ancora agli albori, ma invece di unirsi a loro l’amica aveva pensato bene di telefonare a Basile, e stava marciando avanti e indietro sul prato da ormai più di dieci minuti. Udita la domanda di Daphnè Lucinda si sollevò pigramente gli occhiali da sole quel che le bastava per scoccare una tiepida occhiata in direzione della francese, che stava discutendo animamente col fratello in merito alla punizione che era stata inflitta a lei e ad Etienne a causa del loro shopping eccessivo.
“Quando avrà le password, certo.”
Basile, non riesco a credere che tu sia così cattivo con me. Sei peggio di Scar!”
Questa era cattiva.”
“… No aspetta, scherzavo, non cambiare anche la password di Amazon, dai! Sei il mio fratello preferito!”
“Funzionerà?”
Daphnè prese a giocherellare con l’orlo della gonna di tweed rosa con i bottoni dorati per gettare un’occhiata incerta in direzione prima di Maëlle e poi di Lucinda, che si era spaparanzata accanto a lei sulla coperta e che accennò un sorriso divertito con gli angoli delle labbra:
“Questa volta forse no.”
Mi escludi da Amazon Prime?! È così che tratti la tua piccola e adorabile sorellina? Bene, allora trovatene una nuova!”
Mentre Maelle chiudeva inviperita la chiamata la mano di Lucinda scattò in aria fulminea:
“Io mi propongo, adorerei vivere a casa vostra!”
Tuttavia il sorriso svanì dal viso allegro della portoghese quando scorse l’espressione cupa con cui Maëlle stava facendo ritorno, inducendola a sibilare rapidissima qualcosa in direzione di Daphnè e del cestino contenente la merenda che avevano portato con loro:
I biscotti, presto dalle i biscotti!”
 
 
Phoenix aveva terminato la sua seduta settimanale con la psicologa della scuola esattamente come era avvenuto per tutte quelle precedenti, ovvero provando un gran senso di rabbia e frustrazione. Tirare fuori aspetti tanto personali della sua vita e come questi lo facessero sentire non gli piaceva affatto, soprattutto quando si ritrovava praticamente costretto a farlo dalle condizioni a cui lo aveva messo di fronte la Preside alla fine dell’anno precedente, quando lo aveva convocato nel suo Ufficio comunicandogli di non avere intenzione di bocciarlo una seconda volta soltanto qualora avesse accettato di prendere parte a delle sedute di terapie ogni settimana. Parzialmente avverso all’idea ma per nulla intenzionato a marcire dentro le mura di Beauxbatons per l’eternità Phoenix aveva infine acconsentito, anche se la risposta che aveva ricevuto quando aveva domandato per quante settimane avrebbe dovuto presentarsi agli incontri di terapia non gli era piaciuta affatto: Madame de Beauvoir aveva decretato di non avere una risposta definitiva per lui, limitandosi a fargli sapere che avrebbe dovuto continuare fino a quando la terapista lo avrebbe ritenuto necessario. E a giudicare da quante cose Madame Lambert, la terapista, scribacchiava sul suo blocco ogni volta in cui Nick apriva bocca – o stava in silenzio troppo a lungo dopo una domanda – il ragazzo aveva l’orribile presentimento che quegli incontri sarebbero perdurati ancora a lungo.
Al termine della seduta Nick si era lasciato il castello alle spalle, uscendo in giardino in cerca di un po’ d’aria e di quiete: di lì a breve Icaro avrebbe avuto la lezione di scherma, e a pranzo Diego gli aveva detto di voler passare il pomeriggio nelle scuderie a prendersi cura dei cavalli, attività che lo rilassava molto. L’amico gli aveva chiesto di raggiungerlo qualora ne avesse avuto voglia, e anche se Phoenix in fondo apprezzava la premura e la gentilezza di Diego, che sapeva quanto di malumore lo rendessero le sedute, aveva declinato la proposta, deciso a non contagiare l’amico con il suo malumore e a non ammorbarlo con i suoi problemi personali.
Non sapendo di preciso dove andare Phoenix era uscito in giardino camminando praticamente a vuoto, e finì col trovarsi nei pressi del roseto quando si imbatté in alcuni dei suoi compagni: Milad e Antoine, con i quali fino ad un paio di anni prima aveva condiviso la stanza in Dormitorio, stavano giocando a calcio insieme a Dante e a Nerea Pagano, intenti a discutere in merito ad un fallo di dubbia natura agitandosi reciprocamente contro le mani a sacchetto. Milad, in attesa che i due si decidessero e deciso a star fuori da una discussione che non lo riguardava in alcun modo stava palleggiando abilmente usando il piede destro tenendo le mani nelle tasche e gli occhi scuri puntati sulla palla mentre Antoine, eternamente calato nel ruolo di pacere, cercava di convincere i due a lasciar perdere.
Phoenix di fronte alla scena smise di camminare, gli occhi cerulei puntati sulla palla che rimbalzava ripetutamente sulla punta della sneaker rossa e bianca di Milad mentre Nerea, dopo aver gettato un’occhiata all’orologio, ammutoliva inorridita: possibile che ogni sabato si scordasse della quantità esagerata di cose che aveva da fare tra un’attività e l’altra?
“È già così tardi?! Devo andare ad aiutare a pulire la gabbia degli Unicorni prima di Scherma!”
“Ma così restiamo in tre!”, osservò Antoine guardandola dispiaciuto mentre Dante, al contrario, studiava l’amica con la fronte aggrottata e gli occhi scuri pieni di perplessità: dove Nerea trovasse il tempo di dormire, studiare e mangiare proprio non se lo riusciva a spiegare anche dopo due settimane. Il fatto che l’amica fosse anche sempre di buon’umore e piena di energie, poi, lo gettava in confusione ancora di più.
“Lo so, ma ho promesso che avrei dato una mano oggi pomeriggio, scusate… ci vediamo dopo ragazzi!”
Dopo aver scoccato un rapido bacio aereo di commiato ai tre compagni Nerea girò sui tacchi e sfrecciò via verso il Serraglio della scuola correndo sul prato con ampie falcate, consapevole di dover iniziare ad andarsene in giro con un’agenda parlante in grado di ricordarle le cose da fare in orario e di prenderla a mal parole in caso di dimenticanze.
Dante ed Antoine la osservarono brevemente allontanarsi, entrambi un poco accigliati, mentre alle loro spalle Milad smetteva di palleggiare per sistemarsi la palla sottobraccio, indeciso se tornare a studiare o meno chiudendosi in Biblioteca prima di doversi cambiare per la riunione della Brigade di quella sera. Alla fine, mentre Phoenix calpestava l’erba per raggiungerli, Dante volse lo sguardo sul belga scuotendo la testa con aria rassegnata, decretando di aver perso il conto delle attività a cui l’amica partecipava.
“Se volete gioco io.”, decretò Phoenix dopo essersi fermato ad un paio di metri dai compagni, desideroso di distrarsi e di distogliersi mentalmente dalla seduta che si era appena conclusa. Antoine e Milad parvero piuttosto sorpresi all’udire quella richiesta – non ricordavano di aver mai visto il compagno di Casa, notoriamente molto solitario, chiedere di unirsi a qualche attività di gruppo – ma il primo finì con l’annuire e il sorridergli sfoggiando la sua consueta gentilezza:
“Certo, siamo rimasti in tre!”
Milad, a cui Phoenix aveva cominciato a non andare eccessivamente a genio da qualche anno a quella parte, quando il greco aveva iniziato a manifestare atteggiamenti sempre più bruschi e scostanti, a volte quasi irascibili, esitò osservando brevemente il compagno prima di limitarsi ad annuire con un cenno a malapena percettibile del mento, lanciando la palla ad Antoine prima di girare sui tacchi e allontanarsi mentre Phoenix si levava la giacca di pelle per gettarla sul prato con noncuranza, proponendosi di prendere il posto di Nerea e di giocare con Dante contro i due belgi.
Ciò che Phoenix non si aspettava era scontrarsi con la rapidità con cui Antoine correva, tanto che mezz’ora dopo, quando sedettero tutti e quattro sul prato, gli chiese esterrefatto come facesse ad essere così veloce. Il belga gli sorrise e si strinse nelle spalle con noncuranza, informandolo di come lui e Gisèle andassero a correre tutte le mattine all’alba. La reazione di Phoenix fu di puro sgomento – dov’era che tutti trovavano quella voglia di fare, correre e studiare a tutte le ore del giorno? –:
“Mi prendi per il culo? All’alba?! Come fate?!”
“Beh, io corro e basta, Gisèle corre e poi si allena… e poi si allena anche di sera tardi.”, disse Antoine stringendosi nelle spalle mentre strappava qualche filo d’erba, le gambe lunghissime incrociate mentre Phoenix, seduto davanti a lui accanto a Dante con la palla vicino, lo guardava sempre più inorridito: aveva sempre preso in giro Gisèle per la sua mania per l’organizzazione, ora che veniva a sapere di quelle abitudini aveva la conferma che la compagna avesse qualche rotella fuori posto.
 
 
Dopo la sua sfuriata contro Basile Maëlle aveva trovato conforto nei dolcetti al cioccolato che Daphnè aveva avuto l’accortezza di portare in giardino, e ora la bionda stava stesa supina sulla coperta bianca e beige con gli occhi castani fasciati dalle lenti degli occhiali da sole e uno dei suoi libri preferiti in assoluto, Nadja di André Breton, a farle compagnia. Lucinda, seduta tra lei e Daphnè, si stava dedicando a sua volta alla lettura con Bel Ami di Maupassant aperto sulle ginocchia, mentre la terza stava invece litigando con delle parole crociate che la stavano mettendo in difficoltà, tanto che lievi sbuffi amareggiati si levavano di continuo dal suo angolo di coperta.
“Vuoi una mano?”, si premurò infatti di chiederle Lucinda dopo averla sentita borbottare qualcosa infastidita per l’ennesima volta, ma la francese scosse la testa con decisione e declinò gentilmente l’offerta, una penna bianca e rosa a forma di unicorno stretta in mano e gli occhi chiari puntati con fermezza sul lavoro ancora incompiuto e determinata a finirlo da sola. Trascorsero diversi minuti di silenzio, durante i quali la francese riuscì ad andare avanti fino a quasi completare la tabella, finchè Daphnè non alzò lo sguardo con l’intento di recuperare il thermos bianco a fiorellini che aveva fatto riempire di tè freddo da un Elfo prima di lasciare il castello insieme alle sue amiche. Fu in quel momento che la francese si rese conto che mentre Maëlle si trovava ancora immersa nella lettura Lucinda sedeva a gambe incrociate sulla coperta tenendo gli occhi puntati davanti a sé, su un punto del giardino che si trovava a qualche metro di distanza da loro. Dopo aver seguito silenziosamente la direzione dello sguardo dell’amica Daphnè allargò le labbra sottili in un sorrisino eloquente, gli occhi verdi luccicanti mentre formulava una domanda che portò immediatamente Lucinda a scuotere la testa con noncuranza e a chinare lo sguardo sul libro che le stava aperto sulle ginocchia:
“Chi stai guardando Luli?”
“Nessuno in particolare.”
“Cosa mi sono persa?”, esclamò Maëlle mettendosi a sedere di scatto mollando malamente il libro accanto a sé mentre Lucinda sbuffava, invitandola a lasciar perdere con un pigro cenno della mano:
“Niente! I ragazzi stavano giocando a calcio, cosa c’è di male a guardare di tanto in tanto?”
Nessuna delle due amiche risposte mentre entrambe le francesi puntavano a loro volta gli sguardi sui quattro ragazzi seduti sul prato a diversi metri di distanza, finchè Daphnè non si strinse nelle spalle prima di tornare a concentrarsi sulle sue parole crociate rimaste incompiute:
“Phoenix è davvero bello. Peccato che abbia un carattere inavvicinabile.”
“Sì, è molto bello. Però secondo me è più carino Dante Wang.”
Lucinda si scrollò nelle spalle prima di rimettersi distesa sulla coperta, il libro sollevato davanti a sé, sbuffando quando sentì Maelle ridere e darle una gomitata:
“Ahh, a Luli piace il ragazzo nuovo, senti un po’!”
“E finiscila, non si può dire niente!”
 
 
divisore
 
 
“Icaro? Ci sei?! Sono già scesi tutti per cena!”
Phoenix Anastasakis aprì una delle porte dipinte di azzurro del suo Dormitorio e infilò la testa tra anta e stipite con una buona dose di perplessità in corpo: non che fosse poi così inconsueto che il suo migliore amico fosse lento a prepararsi, a stupirlo fu piuttosto l’assenza dell’eco musicale che era solito provenire dalla camera di Icaro quando questi si trovava impegnato in quell’operazione.
La stanza era infatti deserta e insolitamente silenziosa, anche se comunque in disordine come sempre – l’unico letto in ordine e rifatto al millimetro sarebbe stato riconoscibile come quello di Milad anche da un centinaio di chilometri –, e fu con ancora più stupore che Phoenix scorse il suo migliore amico spaparanzato a letto, gli occhi scuri puntati sullo schermo del proprio telefono mentre lo scrollava con l’indice destro con aria annoiata.
“Beh?! Che cacchio fai, la Bella Addormentata?!”, si indispettì il greco mentre quasi riusciva ad immaginare i loro ingordi compagni di scuola intenti a soffiargli le portate migliori, già nella Sala da Pranzo, mentre Icaro pensava bene di poltrire a letto con il peggior tempismo dell’universo. Per tutta risposta l’italiano si esibì in un sonoro sbuffo mentre spostava lo sguardo dallo schermo luminoso per posarlo su di lui, scoccandogli un’occhiata infastidita a sua volta prima di fargli cenno di non disturbarlo con un pigro gesto della mano:
“Non rompere Nick, non ho fame… Tu scendi, magari ti raggiungo più tardi.”
“Ma… stasera c’è la carbonara.”, gli fece notare Phoenix sgranando inorridito gli occhi celesti, provando puro sgomento all’idea che l’amico avesse coscientemente deciso di rinunciare ad uno dei suoi piatti preferiti in assoluto e convincendosi di quanto Icaro dovesse stare male. Che per quella sera tra le portate fosse prevista anche la carbonara Icaro lo sapeva benissimo, e infatti anche se stava recitando la sofferenza con cui si ritrovò ad annuire fu totalmente sincera:
“Lo so. Ma non mi sento molto bene.”
“Ok… come vuoi. Ci vediamo dopo.”
Dopo avergli scoccato un’ultima occhiata dubbiosa Phoenix arretrò chiudendosi lentamente la porta alle spalle, esitando per un paio di istanti prima di allontanarsi percorrendo a ritroso il corridoio per raggiungere la Salle Comune con un po’ di apprensione: per arrivare a rinunciare alla carbonara, evento che non ricordava si fosse mai verificato da che si conoscevano, Icaro doveva stare proprio male.
All’interno della stanza, dopo aver atteso qualche accorto istante ed essere brevemente rimasto all’ascolto – in caso Phoenix fosse tornato indietro – Icaro si levò il copriletto di dosso con un gesto brusco e si alzò in piedi, spolverandosi la camicia nera che si era infilato poco prima per cercare di lisciarne le pieghe mentre, alle sue spalle, la porta del bagno si apriva per consentire a Milad e ad Antoine di uscirne.
“Se n’è andato?”, domandò Milad mentre i suoi occhi scuri vagavano lungo il perimetro della camera ed Icaro, ancora in piedi davanti al suo letto, si infilava rapidamente gli anfibi annuendo e dando le spalle a lui e ad Antoine:
“Direi di sì… Mentirgli di continuo mi sfinisce, ora capisco quanto dev’essere faticosa la vita dei partner fedifraghi.”
Fu solo quando fu pronto per uscire e rimessosi in piedi che Icaro rifletté sulle parole che aveva appena pronunciato, e si premurò di chiedere con tono pacato ai due compagni di Casa di non riferire a nessuno del paragone che aveva scelto di utilizzare per riferirsi alla sua situazione attuale mentre insieme lasciavano la camera che condividevano con Guillaume ed Abel.
Una volta giunti nella Salle Comune deserta i tre si fermarono davanti all’alta porta celeste dell’ingresso, esitando prima di uscire mentre Icaro, un sopracciglio inarcato, domandava agli altri due se dovessero aspettare qualcun altro prima di andare.
“Guillaume e Abel sono già andati, se andassimo tutti insieme daremmo un po’ troppo nell’occhio. Gisèle?”, domandò Milad rivolgendosi ad Antoine con aria interrogativa, resosi conto di non aver visto la compagna di Casa da quella mattina a colazione. Antoine per tutta risposta si sfilò il telefono da una tasca dei pantaloni blu aggrottando le sopracciglia color cenere, i grandi occhi blu puntati dubbiosi sullo schermo privo di messaggi da parte della sua migliore amica:
“In realtà non mi ha scritto nulla, non penso sia già scesa…”, soprattutto considerando che Gisèle non moriva dalla voglia di andare alla riunione, constatò mentalmente il belga, ma si astenne dal dar voce ai propri pensieri prima che Gisèle manifestasse personalmente la propria presenza levando la voce nel silenzio della Salle Comune che, come sempre a quell’ora, si era completamente svuotata:
“Sono qui, un momento!”
Confusi i tre ragazzi si guardarono attorno in silenzio, chiedendosi dove fosse la compagna e come avessero fatto a non notarla quando un minuto prima si erano lasciati alle spalle il loro Dormitorio, finchè Milad non notò un tavolino distante una decina di metri e coperto quasi interamente da due pile di libri di considerevoli dimensioni. La barriera di libri impediva di vedere se qualcuno vi fosse seduto dietro, ma il belga indicò comunque il tavolino ai due compagni mentre Gisèle borbottava da sola a mezza voce contro i compiti, le riunioni serali e la carbonara che non avrebbe potuto mangiare per cena anche se era sabato, il suo unico giorno libero dalla dieta.
“Stai ancora scrivendo il tema?!”, domandò esterrefatto Antoine quando nel silenzio della stanza echeggiò il frenetico digitare di Gisèle sulla tastiera del computer, suonò a cui seguì una brevissima pausa in cui la ragazza si aggiustò gli occhiali da lettura sul naso e diede voce al suo sdegno ricordando all’amico di essere stata interrotta più o meno settantacinque volte nel corso della giornata e di come la sua preziosissima tabella di marcia fosse quindi stata mandata brutalmente in fumo. Quando ebbe finalmente messo un punto alla penosissima conclusione che l’aveva tenuta occupata da quasi mezz’ora a quella parte Gisèle si alzò finalmente in piedi emergendo da dietro la pila di libri, si sfilò gli occhiali per mollarli sul volume in cima alla torre e diede sfogo alla sua felicità esibendosi in una piroetta che, eseguita a piedi nudi, destò una smorfia di orrore misto a dolore sul viso di Milad, certo che se lui o uno degli altri presenti avessero provato ad emularla avrebbero finito con ogni probabilità col spaccarsi tutte le falangi e a trascorrere la serata in Infermiera.
“Ho finito, finalmente! Bene, ora possiamo andare.”, asserì Gisèle con un sorriso compiaciuto mentre recuperava la bacchetta dal tavolino per spedire tutte le sue cose di nuovo nella propria camera, guardando computer, zaino, libri, penne e astuccio schizzare via mentre gli altri tre scrutavano perplessi il suo abbigliamento poco consueto per chi sta per recarsi ad una cena: Gisèle indossava quello che aveva tutta l’aria di essere un pigiama azzurro a fiori rosa antico dal taglio maschile, ma quando Antoine cercò di farglielo notare chiedendole con la massima pacatezza se prima non dovesse finire di prepararsi la ragazza si limitò a chinare lo sguardo per gettarsi un’occhiata e infine stringersi debolmente nelle spalle.
“Ah, è vero.” Gisèle si sfilò delle strane cose adesive bianche si era appiccicata sotto agli occhi che nessuno dei tre compagni di Casa fu in grado di riconoscere, si sciolse i capelli che fino a quel momento aveva tenuto legati sulla nuca e poi Appellò un paio di pantofole color crema dalla propria camera prima di asserire di essere pronta, raggiungendo Antoine, Milad e Icaro davanti alla porta dandosi una pigra ravvivata ai lunghi ricci castani.
“Ma ci vieni così alla riunione?”, domandò stranito Icaro accennando al pigiama a fiori della strega mentre quella, preso Antoine a braccetto, sbuffava liquidando il discorso con un gesto svogliato della mano destra:
“Pensate davvero che mi interessi o voglia perdere tempo per mettermi in ghingheri per otto persone che vedono la mia faccia ogni giorno da anni? Figurarsi.”
“Otto? Qualcuno non viene?” Mentre i quattro lasciavano insieme la Salle Comune Milad volse accigliato lo sguardo su Icaro, stranito dall’osservazione di Gisèle, ma fu la stessa strega ad appianare i suoi dubbi rispondendo con uno sbadiglio mentre insieme ad Antoine seguiva lui e l’italiano:
“No, è che io considero Guillaume alla stregua degli invertebrati che un tempo popolavano la Terra.”
 
 
Mentre i quattro Ombrelune si apprestavano a raggiungere la sede della riunione Etienne Macquart aprì lentamente la porta d’ingresso color salvia della Salle Comune dei Bellefuille, premurandosi di controllare il corridoio prima di uscire facendo cenno a Nerea di seguirlo:
“Non c’è nessuno.”, stabilì il ragazzo mentre scendeva i tre gradini di granito che separavano la porta dal pavimento di marmo con Nerea subito dietro, la quale si chiuse rapida la porta alle spalle senza far rumore prima di affrettarsi a seguirlo giù per i gradini in uno svolazzo della gonna verde bosco plissettata del suo vestito:
“Bene, ricordati che se qualcuno dei nostri compagni domani ci chiede perché a cena mancavamo diremo che io ti stavo dando ripetizioni in Biblioteca. Incluso André.”, precisò la ragazza prendendo a braccetto l’amico e scoccandogli al contempo un’occhiata ammonitrice che lo fece sbuffare, un poco infastidito:
“Dire stronzate ai miei amici è l’unica parte che non mi piace di tutto questo. E comunque perché sei sempre tu che mi dai ripetizioni nelle nostre bugie?! Così finirò col sembrare deficiente!”
Nerea roteò gli occhi al cielo mentre affrettava il passo – erano già in ritardo perché Etienne aveva impiegato un’eternità a scegliere cosa indossare – trascinandosi appresso anche l’amico, decidendo di accontentarlo per evitare di perdere tempo in discussioni inutili:
“Va bene, puoi dire che tu le davi a me allora. In che materia?”
“Che ne so… letteratura? Facciamo che ti stavo spiegando Baudelaire.”
“Ma non l’abbiamo fatto l’anno scorso?!”
L’espressione perplessa che fece capolino sul viso di Nerea persuase Etienne di quanto poco fosse una buona idea raccontare delle sue ripetizioni di letteratura, consapevolezza che lo spinse a cercare rapidamente un’altra scusa prima di sorridere compiaciuto e schioccare le dita:
“Idea. Niente ripetizioni, ti stavo aiutando a scrivere il prossimo pezzo per il Giornale. Che ne dici?”
“Perfetta! Tra l’altro sono piena di gossip, poi ti racconto.”, decretò la ragazza sfoderando un sorriso furbetto che gettò Etienne nello sconforto più totale: ora la sua sete di pettegolezzi voleva sapere tutto quanto, come avrebbe fatto ad aspettare la fine della riunione?! Del resto lui e Nerea ci avevano già provato qualche volta a scambiarsi bigliettini sotto al tavolo per comunicare, ed erano sempre stati beccati alla velocità della luce.

 
divisore

sala

 

Gisèle aveva raggiunto il luogo dell’incontro al quarto piano giurando a se stessa di non permettere a quel troll di montagna di suo cugino di farle perdere la pazienza per alcun motivo: sarebbe rimasta calma e posata qualsiasi cosa Guillaume avrebbe detto o fatto, anche e soprattutto per rimarcare a lui e ai presenti la sua netta superiorità. Disgraziatamente i maturi propositi della ragazza andarono in fumo non appena ebbe seguito Icaro e Antoine oltrepassando l’apertura nella parete che un enorme ritratto a figura intera di Nicolas Flamel aveva rivelato spostandosi di lato al suono della parola d’ordine pronunciata da Milad: ritrovatasi in un’ormai familiare sala rettangolare dalle pareti nere, il soffitto stuccato e un enorme lampadario a pendere su una tavolata apparecchiata per dieci Gisèle venne immediatamente accolta proprio da suo cugino, che stava in piedi accanto al gigantesco camino spento di marmo nero e che non mancò di fare un commento sulla sua curiosa scelta in fatto di abbigliamento:
“Ciao cuginetta, sono felice che tu abbia finalmente deciso di smetterla di perdere tempo nel vano tentativo di sembrare carina conciandoti come si deve!”
Le parole di Guillaume cancellarono ogni buon proposito dalla mente di Gisèle, che probabilmente avrebbe afferrato il minuscolo quanto pesante mappamondo decorativo d’oro che si trovava sopra al caminetto non fosse stato per l’intervento di Antoine, che grazie ad anni di partite sul campo di Quidditch e ai suoi eccellenti riflessi da Battitore riuscì a fermarla e a trascinarla verso il tavolo prima di darle il tempo di compiere una strage. Mentre l’amico cercava di ammansirla ricordandole gentilmente quanto il suo pigiama fosse bello Gisèle, colpita da un fastidiosissimo tic nervoso all’occhio sinistro, digrignò la mascella sibilando che persino il suo pigiama più orrendo sarebbe stato infinitamente più bello di un qualsiasi outfit sfoggiato dal “gargoyle saputello”.
“Ecco, vedi, non dargli retta.”, le suggerì Antoine sorridendole e dandole qualche colpetto di incoraggiamento sulla spalla mentre il diretto interessato ridacchiava compiaciuto. Milad, l’ultimo dei quattro Ombrelune a varcare la soglia della stanza, indugiò brevemente accanto al caminetto che affiancava l’ingresso con le mani nelle tasche dei pantaloni neri e lo sguardo inespressivo puntato su Guillaume, un sopracciglio inarcato in modo appena percettibile, finchè il compagno non gli si rivolse con aria un tantino seccata:
“Beh, che vuoi?”
“Non perdo neanche tempo a parlare con te.”, decretò infine Milad prima di voltarsi tirando dritto verso il tavolo apparecchiato e pieno di candele accese che contribuivano alla luce soffusa che vigeva all’interno della sala, cercando il foglietto che gli avrebbe indicato dove sedersi. Annika, arrivata prima di loro, si era nel frattempo avvicinata con un sorriso leggermente nervoso ad Antoine e a Gisèle, suggerendo alla strega di sedersi il più lontano possibile dal cugino. Gisèle non se lo fece ripetere e obbedì occupando la sedia che si trovava all’estremità del tavolo più vicina all’uscita – posto che le avrebbe permesso di defilarsi per prima, di meglio non avrebbe potuto chiedere –, ordinando ad Antoine di sedersi accanto a lei spostando il biglietto che, sistemato sul piatto dai bordi dorati vuoto, riportava invece il nome di Abel. Il belga, che non aveva nessuna intenzione di contraddire l’amica prima che avesse messo qualcosa sotto i denti, obbedì sedendosi accanto a lei mentre Icaro, che quel pomeriggio aveva studiato personalmente la disposizione dei posti, osservava la scena incrociando seccato le lunghe braccia al petto e studiando i presenti già seduti con cipiglio critico:
“Ma bravi, state scombinando i posti che avevo assegnato con cura!”
“Ma Icaro, avevi messi Gisèle di fronte a Guillaume…”, gli fece notare timidamente Annika indicando i due posti al centro del tavolo, dove Icaro aveva segnato i Delacroix, mentre Milad, occupata la sedia di fronte a Gisèle, indicava il suo biglietto facendo notare di essersi seduto dove doveva.
“Appunto! Milad è l’unico che mi ascolta!”, si lagnò il ragazzo con tono offeso indicando il belga, che si versò un po’ d’acqua in tutta calma usando una brocca di cristallo che, ne era sicuro, valeva più della metà degli oggetti che possedevano i suoi genitori. La rivelazione invece indignò non poco Gisèle, in procinto di prendere un grissino, che guardò l’italiano dischiudendo stizzita le labbra carnose:
Che cosa?! Bravo Orsini, vieni ancora a chiedermi un favore, vedrai come ti risponderò con una bella fattura!”
Ma no, io avevo buone intenzioni, ho pensato che mettendoti di fronte a lui ti sarebbe stato facile prenderlo a calci sotto al tavolo!” Icaro parlò sfoderando il suo sorriso più seducente e sbattendo amabilmente le lunghe folte ciglia scure che contribuivano a fare strage di cuori tra le sue compagne di scuola, e mentre Guillaume borbottava un ringraziamento senza muoversi dal suo angolo accanto al caminetto, intendo a giocherellare con lo stelo del calice che reggeva, la cugina si rivolse all’italiano scostandosi i capelli ricci dalla fronte pallida e chiedendogli se per caso ci vedesse scritto sopra “Cogliona”.
Persino Milad rise rischiando di farsi andare l’acqua di traverso, ma la discussione in merito ai posti finì quando il ritratto si spostò di nuovo permettendo di entrare a Leticia, che salutò tutti allegramente prima di andare ad occupare il proprio posto accanto al belga. Arresosi all’idea di vedere i Delacroix accapigliarsi sopra al tavolo ad Icaro non restò che imitarla andando a sedersi accanto ad Antoine, tenendo il posto vicino a lui per Etienne mentre Leticia dava al gruppo notizie per nulla sconvolgenti:
“Penso che Nerea ed Etienne arriveranno un po’ in ritardo, Rea mi ha scritto dicendomi che Etienne non sapeva cosa indossare…”
“Poteva sempre emulare la sua amica Gisèle e venire in pigiama…”, osservò Guillaume facendo roteare distrattamente il calice prima che Gisèle spezzasse a metà il grissino che teneva in mano, replicando in scala minore il suono che avrebbe voluto che producesse il femore del cugino.
 
 
Nerea ed Etienne non avevano stupito nemmeno loro stessi presentandosi per ultimi, e avevano occupato i rispettivi posti attorno al tavolo rettangolare, gli unici rimasti liberi ed uno di fronte all’altra, Etienne tra Icaro ed Abel e Nerea tra Annika e Guillaume, limitandosi a salutare i presenti senza scomporsi più di tanto. Il ragazzo aveva provato solo un po’ di delusione nel vedere i Delacroix così lontani e aveva subito gettato un’occhiata perplessa in direzione di Icaro, che però gli aveva fatto cenno di tacere mentre si sistemava, profondamente amareggiato, il tovagliolo sulle ginocchia. Nerea invece aveva accolto la notizia con sollievo, e anzi aveva provveduto ad assestare un calcio a Guillaume sotto al tavolo quando, al momento dell’arrivo del soufflé al cioccolato al termine della cena, quello aveva fatto per rivolgersi alla cugina facendole notare che di quel passo il tutù non le sarebbe più entrato.
Nerea si era stampata un sorriso gentile sulle labbra mentre volgeva lo sguardo sul francese porgendogli la ciotola di ceramica piena di panna appena montata dalla quale si era servita lei stessa, guardandolo massaggiarsi lo stinco dolorante con una smorfia prima di rivolgerglisi amabilmente:
“Guillaume, lo sai che io sono sempre gentile con tutti, ma se offendi la mia amica facendole venire strane idee sul mangiare meno ti tartarizzo.”
 

Quando tutti i commensali ebbero finito di cenare i piatti sparirono dal tavolo ed Icaro, che attendeva quel momento da almeno una settimana, non esitò per alzarsi e spostarsi davanti al camino per recuperare l’urna di cristallo che conteneva una ventina di minuscoli bigliettini di pergamena arrotolati.
“Bene signori finalmente passiamo alle cose serie!” – Gisèle sospirò abbandonando stancamente la testa contro la spalla di Antoine, desiderando il suo letto più che mai – “Non che io non abbia rispetto per il cibo, sia chiaro, ma direi che è il momento di estrarre l’argomento di discussione di questa prima serata…”
Icaro sollevò il coperchio dell’urna per appoggiarlo sull’estremità del tavolo, infilando la mano all’interno del vaso per scegliere un foglietto. Ci fu qualche istante di silenzio quasi solenne mentre l’italiano, il vaso sottobraccio, srotolava il foglietto, finendo però con l’aggrottare le sopracciglia con evidente perplessità una volta letto ciò che riportava e che andava contro tutte le sue aspettative. Dopo una breve esitazione che gettò in lieve confusione tutti i presenti Icaro abbassò lo sguardo su Gisèle, sinceramente perplesso:
“Quando ce lo hai messo?”
La strega non rispose, ma si strinse nelle spalle con nonchalance mentre si portava alle labbra il flûte di sorbetto al limone per vuotarlo sotto gli sguardi incuriositi di tutti i presenti. Dopo una breve esitazione Icaro appallottolò il foglietto e lo lasciò cadere sul tavolo, liquidando il discorso con un cenno della mano per procedere:
“… Beh, andiamo avanti, questo non contava.”
“Che cosa avevi scritto?”, domandò incuriosito Milad – che prendeva quelle riunioni molto più sul serio rispetto a quanto non facesse la compagna di Casa – sporgendosi leggermente sul tavolo, ma anziché rispondergli Gisèle recuperò con un sorrisino compiaciuto il proprio telefono e glielo scrisse, destando un rara risata faticosamente trattenuta sul viso del ragazzo. Icaro scelse finalmente un altro foglietto, ma prima che potesse srotolarlo e leggerlo la voce indispettita di Etienne si levò nel silenzio della sala, richiamando su di sé l’attenzione collettiva e interrompendolo:
“Ehy, voglio sapere anche io!”
Gisèle non si fece pregare e scrisse senza fare commenti lo stesso messaggio anche a lui sotto lo sguardo truce di Guillaume, persuaso che la questione avesse a che fare con lui: ne ebbe la conferma un attimo dopo, quando Etienne guardò prima lo schermo del su telefono, poi lui e infine iniziò a contorcersi sulla sedia preda di un attacco di ilarità prima di inoltrare il messaggio a Leticia, che lo lesse insieme ad Annika e a Nerea. Gli unici a non unirsi al sottofondo di risatine furono Abel, che fece cenno all’amico di lasciar perdere scuotendo la testa, ed Icaro, che agitò indispettito il foglietto che teneva in mano per richiamare l’attenzione su di sé:
Chiedo scusa?! Io qui starei facendo una cosa importante, finitela di fare i bambini!”
“Dai ragazzi, ascoltiamo Icaro, che poi se no si offende! Dicci tutto.”  Leticia fece brevemente cenno ai compagni di tacere prima di spostare lo sguardo su Icaro, sorridendogli mentre il ragazzo, seppur ancora un tantino seccato, annuiva con aria sostenuta prima di decidersi a srotolare il bigliettino e a leggerne il contenuto:
Il pensiero politico e filosofico di Thomas Hobbes. Etienne, inizia tu.”
Icaro gettò il fogliettino sul tavolo accanto a quello scartato poco prima e puntò lo sguardo sull’amico, ben presto imitato da tutti gli altri. Etienne invece non si mosse, rimase impassibile per qualche istante con le braccia strette al petto e restituendo lo sguardo dell’amico, ma proprio quando tutti avrebbero scommesso di essere in procinto di sentirlo esordire con la sua argomentazione il Bellefuille li stupì pronunciando parole del tutto inaspettate, che con ogni probabilità non si erano mai udite tra quelle quattro pareti e che gettarono più della metà dei presenti in un sonoro scroscio di risate:
“… Chiedo l’aiuto del pubblico.”
“Ma che cazzo dici?!”, esclamò sgomento Icaro fissando l’amico con gli occhi scuri quasi fuori dalle orbite, stentando a credere di aver capito bene – anche se conoscendo Etienne non avrebbe dovuto, si sarebbe detto in seguito – mentre quasi tutti ridevano, fatta eccezione per Milad, Guillaume e Abel, che si limitò a finire il suo sorbetto con la massima nonchalance, neanche avesse sentito, e il Bellefuille si guardava attorno perplesso, forse chiedendosi perché tutti lo stessero trovando così divertente:
“Perché, non posso?”
“No!”
“Ah. Beh allora chiedo un altro biglietto.”
Ne abbiamo già pescati due! Milad, ti prego inizia tu.”
Icaro si rivolse al belga con un sospiro rassegnato e un pigro cenno della mano, ringraziandolo mentalmente quando Milad, dopo aver sorriso, annuì e prese la parola. Ad Icaro a quel punto non rimase che tornare a sedersi accanto ad Etienne, che si premurò di chiedergli offeso cosa avesse fatto di sbagliato e lo accusò inoltre di essere fin troppo pignolo.
 
 
divisore
 
 
Nel Dormitorio femminile dei Papillonlisse, mentre le sue migliori amiche portavano avanti una diatriba in merito a cosa guardare quella sera Lucinda Pais se ne stava chiusa in bagno a terminare di asciugarsi i corti capelli scuri, felice di essere lontana dalla discussione in corso. Dopo aver asciugato completamente i capelli con estrema calma Lucinda ripose il phon all’interno di una delle ante del mobile bianco che si trovava al di sotto del lavandino di marmo e raccolse la propria spazzola per darsi una pettinata – giusto per non rischiare di svegliarsi l’indomani con l’aspetto di una che ha appena preso la scossa – al caschetto prendendola molto più comoda del solito, quasi sperando di emergere dal bagno e dalla nube di vapore che era andata a crearsi dopo la sua lunga doccia con le sue amiche che già avevano deciso che cosa guardare senza aver bisogno di interpellarla.
Lucinda aveva quasi finito di spazzolarsi i capelli quando lo schermo del suo telefono, sistemato davanti a lei accanto al lavandino, si illuminò salvandola dal dover decidere se uscire dal bagno o se restarsene lì in attesa che Maëlle finisse di elencare i motivi che la portavano a reputare più o meno tutte le varie rom-com di Netflix dei film di merda. Fu infatti con un sorriso che Lucinda abbandonò la spazzola sul mobile per sollevare invece il proprio telefono, la cui cover scelta in maniera affatto casuale era decorata da un motivo di piccole farfalle colorate, per rispondere e accostarselo all’orecchio:
“Mi stavo giusto chiedendo se la fama ti avesse dato alla testa e ti fossi scordato di me, sai?”, attaccò la giovane strega assumendo il tono più sostenuto e distaccato di cui era capace, pur consapevole di come lo avrebbe abbandonato a breve vista la sua incapacità di avercela a lungo con suo fratello.
“Sei veramente melodrammatica. Ho solo avuto da fare, è iniziata la stagione. Sono appena tornato dall’allenamento serale.”, la informò Lisandro con il suo consueto tono di voce pacato e paziente, qualcosa che non lo accumunava affatto alla sorella minore. Lucinda, non invidiando particolarmente il fratello maggiore per tutti gli allenamenti di ore ed ore a cui doveva sottoporsi ogni giorno, annuì chinando lo sguardo sul mobile del bagno e prendendo a giocherellare distrattamente con il manico della sua spazzola:
“Mh-mh, lo so, infatti per questa volta ti perdono. A breve ci sarà la prima partita anche qui, non vedo l’ora!”, esclamò Lucinda con un sorriso gioioso dimenticando seduta stante “l’offesa” subita, impaziente di poter commentare la prima partita della stagione di Quidditch e ancor più entusiasta di veder giocare la sua stessa Casa.
“Chi gioca?”
“Noi contro Ombrelune. Non ti sognare di dire che speri vincano loro!”
Dopo aver parlato Lucinda sentì suo fratello ridacchiare dall’altro capo della chiamata, e non potendolo fulminare con lo sguardo dovette accontentarsi di storcere il naso indispettita, ricordandogli che gli anni in cui lui aveva giocato nella squadra facendola vincere la Coppa un anno dietro l’altro erano ormai lontani.
“Del resto sei vecchio, hai studiato qui secoli fa, le cose cambiano.”, disse la strega tornando a scrutare il proprio riflesso nello specchio che le stava davanti, aggiustandosi distrattamente i capelli chiedendosi perché non stessero mai al loro posto dopo averli lavati mentre Lisandro, a molti chilometri di distanza, alzava gli occhi al cielo:
“Primo, l’affetto per la propria Casa è per sempre, secondo, dammi di nuovo del vecchio e i biglietti gratis per le partite durante le vacanze di Natale te li sogni, piccoletta.”
Lucinda si stava prodigando in una lunga e altamente ruffiana sequenza di scuse, preoccupata che il fratello potesse parlare sul serio e privarla di quei doni sempre tanto graditi, quando dopo aver bussato brevemente Maelle spalancò la porta del bagno, seria in volto come se si fosse trovata nel pieno di una discussione di vitale importanza:
“Scusa Luli, ci servi. Pensavamo di aver deciso, poi ci siamo rese conto che non riusciamo a deciderci tra Mamma Mia 1 e 2.”
Lucinda smise di parlare e posò brevemente lo sguardo sull’amica prima di annuire senza riuscire a reprimere un sorriso divertito, assicurandole che le avrebbe raggiunte immediatamente prima di tornare a rivolgersi a Lisandro mentre Maëlle chiudeva la porta per consentirle di salutarlo, permettendole comunque di udire ciò con cui tornò a rivolgersi a Daphnè a sostegno della sua posizione:
“Lo so che l’altro ha le canzoni meglio eseguite Daph, ma nell’altro c’è Meryl! Come la mettiamo?!”
La porta del bagno si chiuse portando la discussione lontano dalle orecchie di Lucinda, alla quale non rimase che sorridere e accomiatarsi dal fratello giocherellando con una delle corte ciocche di capelli corvini che le incorniciavano il viso:
“Devo andare, sai sono molto richiesta… Ma grazie per avermi chiamato.”
“Di niente. Fai la brava Luli.”
Il tono con cui Lisandro pronunciò quelle ultime parole non piacque affatto alla sorellina, che dischiuse indispettita le labbra chiedendosi perché tutti, in famiglia, non facessero che rivolgerle raccomandazioni di quel tipo:
“Lo faccio sempre!”
 
 
“Devo ammettere che hai avuto proprio una splendida idea per il nostro post-riunione.”, mormorò Nerea mentre spostava il cuscino che si trovava sotto la sua testa per stare più comoda, distesa su un sottile materasso che lei e Gisèle avevano fatto comparire nel bel mezzo della palestra insieme a dei cuscini. La francese, distesa supina accanto a lei con i capelli ricci sparsi attorno alla testa sul cuscino, annuì sfoderando un sorriso compiaciuto mentre incrociava le caviglie sottili per stare più comoda, spostando leggermente la testa per far sì che si trovasse più vicina a quella dell’amica prima di parlare:
“Le mie idee sono sempre ottime. Mi passi i biscotti? Domani mattina sarò di nuovo a dieta, ne devo approfittare finchè posso.”
Nerea obbedì, anzi non se lo fece ripetere e subito passò all’amica l’enorme scodella piena di cookies che erano passate a prelevare in cucina prima di raggiungere la palestra a seguito della riunione, decise a concludere la serata nel modo più dolce possibile. Gisèle affondò la mano nella ciotola per recuperare un biscotto e Nerea si affrettò ad imitarla, ritrovandosi a masticare il delizioso pezzo di dolcetto mentre fissava pensosa le immagini in movimento proiettate sul soffitto della palestra grazie all’esoso quanto recente acquisto di Etienne che l’amico aveva acconsentito a cedere a lei e a Gisèle per quella sera:
“Quante volte avremmo visto questo film?”
“Forse 150, ma è sempre il mio preferito. Anche se io avrei ballato molto meglio di lei, la fanno difficile ma in realtà è una scemenza.”, osservò Gisèle sollevando la mano sinistra per indicare la figura della protagonista di Dirty Dancing e destando un sorriso sul volto di Nerea, che ruotò leggermente la testa per rivolgerle un’occhiata:
“Di sicuro. Io invece andrei avanti a piedi pestati ogni due passi... Porco Flamel, come farò al Ballo?!”
Resasi conto di non ballare da mesi e mesi e di essere fortemente arrugginita Nerea quasi trasalì dall’orrore, ma a tranquillizzarla ci pensò immediatamente Gisèle con una pigra scrollata di spalle mentre addentava il suo cookie:
“Ti do ripetizioni io. E se non troviamo uno straccio di nessuno ci andiamo insieme, al Ballo.”
“È vero, potremmo. Hai proprio delle ottime idee!”, osservò l’italiana con un sorriso allegro guardando di nuovo l’amica con gli occhi chiari luccicanti, ridendo quando Gisèle sbuffò e agitò il biscotto chiedendole perché sembrasse tanto sorpresa.
“Chissà con chi ci andrà quel gargoyle di mio cugino, al ballo… ricordami di mandare dei fiori alla povera anima sventurata.”
“Daphnè Blanchard ha un’assurda cotta per lui, quindi che ci vada con qualcuno non è poi così impensabile.”
Nerea fece spallucce mentre addentava l’ultimo boccone del suo biscotto, masticandolo in tutta calma mentre Gisèle, al contrario, udite le sue parole quasi si faceva andare di traverso il proprio: la francese si mise a sedere di scatto sul materasso, tossicchiando ripetutamente prima di riuscire a riprendersi e chiedere sconvolta all’amica, gli occhi quasi lacrimanti, come una simile tragedia potesse essersi verificata e soprattutto chi avesse rifilato un filtro d’amore alla povera sventurata.
Nerea balbettò di non averne idea, e Gisèle, ancora sconvolta, dopo una breve esitazione tornò lentamente a distendersi accanto all’amica fissando inorridita le immagini in movimento sopra di lei: in qualche modo, realizzò abbracciando con stizza un cuscino, Guillaume era riuscito a guastarle persino la visione del suo film preferito.
 
 



 
 
 
(1): Opera lirica scritta da Victor Hugo tratta dal suo romanzo Notre-Dame de Paris
(2): Brano conclusivo di una composizione, o in alcuni casi brano a sé stante
(3): Il rider è la “struttura” di legno o carbonio dell’arco, il grip è l’impugnatura, la parte che si stringe per tendere l’arco, e il rest è il “poggiafrecce”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Buonasera!
Ammetto di non voler neanche controllare per appurare quanto di preciso sia passato dallo scorso aggiornamento, di sicuro è passato troppo e mi scuso, sfortunatamente giugno è stato un mese in cui ho quasi totalmente messo in pausa la scrittura per una serie di motivi con cui non vi tedierò. Sono però felice di aver finalmente concluso questo capitolo iniziato ormai un’eternità fa, mi rendo conto che è lunghissimo ma spero che vista anche l’attesa la cosa vi faccia piacere e che non vi pesi. Inoltre vi ringrazio per le recensioni e anzi mi scuso per non avervi risposto🤍
Come già quasi tutte sapete a seguito del sondaggio che ho pubblicato ieri su IG questa volta ho anche una domanda per voi, ovvero la fatidica domanda per le coppie. Non penso sia più necessario che io stia qui a dilungarmi in merito a cosa vi sto chiedendo di preciso, direi che ormai lo sapete, mi limito solo a sottolineare che se non avete le idee troppo chiare e un nome preciso da darmi non è un problema, basta anche che mi diciate quali OC vi sentite di escludere per il vostro.
E a questa domanda ne aggiungo anche un’altra, perché come anticipato da Lucinda in uno dei prossimi capitoli ci sarà la prima partita di Quidditch, quindi se vi va vi chiedo di votare tra Papillonlisse e Ombrelune. Di norma ho sempre escluso dalle votazioni le autrici degli OC delle Case in gara, ma a questo giro sono solo tre e la quasi totalità dei personaggi appartiene a queste due, perciò potete votare a meno che il vostro OC non giochi in una delle due squadre a tutti gli effetti (chi ha due OC e uno solo gioca può votare lo stesso).
Detto ciò vi saluto, conto di pubblicare un altro capitolo entro la fine del mese, quindi a presto!
Signorina Granger
 
 
 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Signorina Granger