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Autore: ThatXX    17/07/2023    1 recensioni
– Cosa dovrei fare adesso? – chiese lei con un filo di voce. Assurdo. Aveva appena domandato a un folle assassino, all’uomo la cui spada aveva trafitto il ragazzo col quale aveva fatto l’amore, a colui che l’aveva salvata sparandole un colpo in testa, ‘dio che razza di follia, che cosa avrebbe dovuto fare da quel momento in avanti. Si chiese se non potesse andare peggio di così.
– Cambia cognome, allontanati da qui e non ti avvicinare mai più all’Istituto né a quei ragazzi. Se ho fatto credere loro di averti uccisa è stato solo perché tuo padre desiderava questo –.
[Continuo di Crisantemo]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Dicembre 2008
 
Shiu Kong spense l’ultima sigaretta del pacchetto nel posacenere pubblico nell’area fumatori al lato della strada, ad Ayase, nella prefettura di Kanagawa. Un piccolo tributo al suo ex collega Toji Fushiguro, nonché amico di vecchia data, sebbene il termine fosse un tantino troppo generico per racchiudere in sé un rapporto complicato come il loro. Un tributo a quel pazzo che, prima di tirare le cuoia, gli aveva mollato la regina suprema delle grane. Stupido lui a non aver avuto il fegato di rifiutare. Ben gli stava.
 
Tuffò le mani infreddolite nelle tasche del cappotto e rimase ad attendere all’area fumatori. Il tempo gli pareva scorrere a rilento, complice la neve di quel pomeriggio: cadeva fiaccamente sulle teste dei passanti, lungo i profili dei palazzi, posandosi e svanendo come zucchero filato sotto il sole cocente.
 
All’improvviso gli venne da sorridere ironicamente. Era stata lei a scegliere Ayase e solo per “l’aria buona”. Qualche volta aveva persino sospettato che lei sapesse; che Ayase come città per rifarsi una vita non fosse stata una scelta casuale o presa con la scusa dell’aria buona, piuttosto una decisione inevitabile, di quelle che sai di dover scongiurare come la peste ma di cui alla fine non puoi proprio fare a meno. Eppure, lei non ne sapeva proprio nulla, né del suo lavoro né del posto in cui lavorava e né, tanto meglio, per chi. Aveva seriamente scelto Ayase soltanto per l’aria buona ma restava lo stesso una decisione pericolosa.
 
Squillò il cellulare. L’ex poliziotto, ormai lungi moralmente dal rivestire un simile ruolo, rispose lanciando dapprima un’occhiata al numero di telefono comparso sullo schermo.
 
Una voce cavernosa parlò. - Mi servi qui -. Perentorio come al solito, pensò Kong.
 
Le narici del naso gelato sbuffarono aria fredda; i baffetti si incresparono in una smorfia seccata. – Non posso, lo sai. Oggi è quel giorno del mese – si giustificò. L’altro accolse cupamente la risposta stringendo i denti. Non poté vederlo ma lo sentì: lo schiocco di una mascella contratta.
 
- Tutti i mesi? -.
 
- Tutti i mesi – fece eco lui a ribadire un concetto che non sembrava affatto andare a genio al suo interlocutore. – Erano i patti, no? – aggiunse.
 
- D’accordo – l’altro riattaccò veloce e l'ex poliziotto fece spallucce.

Mise il telefono nella tasca del cappotto seguito a distanza da uno sguardo truce, di un violetto lucente. Qualcuno lo stava fissando a circa una decina di metri da lui, mimetizzato nell’ombra di un vicolo con una felpa scura e il cappuccio sollevato sulla testa. Gli occhi scintillavano ma a quella distanza non erano altro che minuscoli puntini di luce, simili a stelle lontane in un cielo più nero del nero.
 
L’uomo nel vicolo si accorse che Kong guardava verso qualcuno, una giovane donna gli veniva incontro, e il respiro gli si ruppe in gola; si mozzò con un gemito di orrore quando, tra una sfilza di sagome che andavano e venivano, in mezzo all’alternarsi di quegli innumerevoli volti, la vide: meravigliosa, dolce, viva.
 
Ayame sorrise; fu un sorriso che gli trafisse il petto e gli fece gonfiare gli occhi nelle orbite. A tentoni cercò il muro, vi si appoggiò con la mano mentre l’altra premeva con forza sulle labbra e rimase a guardarla: il passo sicuro, il viso radioso dello stesso colore della neve che le danzava attorno, gli occhi lampeggianti di vita.
 
- Scusa il ritardo! – esclamò Ayame con enfasi. Una risata breve e argentina le scappò di bocca a ricordargli infidamente, ma senza che lei se ne rendesse conto, delle risa di quella notte al lago Biwa. E poi dello sparo, argentino anche quello, squillante come una tromba infernale, che le aveva spezzato la vita in un battito di ciglia. O così credeva.
 
Kong le rispose con un sorriso storto, orgoglioso ma non troppo per come quella giovane poco più che sconosciuta avesse ripreso in mano la sua vita. Aveva persino versato due lacrime contate per quello sciagurato di Fushiguro alla notizia della sua morte. La consapevolezza di aver perso per l’ennesima volta un palpabile legame con suo padre, benché sottile, l’aveva fatta piangere. L’uomo che poteva raccontarle di lui non c’era più.
 
E Kong, al quale avevano affidato il compito di vegliare su di lei, come prima di Toji aveva fatto il Signor Ishikawa a uno sventurato Zenin poco più che quindicenne, non poteva dirle niente riguardo a suo padre. Il massimo che poteva fare era parlarle del più e del meno per tenerle compagnia in quel singolo giorno del mese.
 
- Ti sei fatta degli amici? -. Una domanda fuori contesto per Ayame ma perfettamente coerente con i pensieri dell’ex poliziotto.
 
Ayame scosse la testa. Lui grugnì scocciato. – Non cercare di impietosirmi. Sai benissimo che ho a disposizione un solo giorno al mese. E comunque, anche avendone di più, non credere che io abbia voglia di trascorrere il mio tempo libero con una ragazz- -.
 
- Lo so – si intromise lei debolmente, poi il tono della voce parve decollare parola dopo parola. – Ma sei il solo a cui posso raccontare certe cose senza essere presa per pazza o violare chissà quale legge del cazzo del vostro mondo – concluse un poco indispettita.
 
- La tua sopravvivenza è già una violazione – replicò l’altro apaticamente. Levò una mano dalla tasca e porse alla ragazza un pezzo di carta rettangolare dai bordi spiegazzati. – Tieni, sono i soldi per questo mese – farfugliò.
 
Lei prese l’assegno con la solita riluttanza. Andavano avanti così da sei mesi, eppure la sua mano non smetteva di tendersi esitante. E lo sguardo finiva per puntare in basso, chissà dove si chiedeva lui, in cerca di una dignità che Ayame sentiva scivolare via dalle dita ogni volta che afferrava quel banale pezzo di carta.
 
- Non fare quella faccia. Sono i soldi che tuo padre ha lasciato per te e che Toji ha affidato a me -.
 
- Bugiardo – lo riprese lei nell’immediato. – Sono i soldi con cui papà ha pagato il Signor Fushiguro e che lui ha dato a te per farmi da balia. Sono soldi tuoi -.
 
Kong scrollò le spalle e distolse lo sguardo; aveva bisogno disperato di fumare. – Perché tu lo sappia, non bisognerebbe mai essere schizzinosi quando si tratta di soldi -.
 
Ayame replicò dapprima con un ghigno secco. - Grazie della diritta, paparino, sei davvero un esempio di vita – e storse la bocca in una smorfia.
 
- Se non fosse perché vuoi portarmi questi soldi ogni mese non avresti motivo di passare del tempo con me, vero? -. Ayame guardò un’ultima volta l’assegno prima di infilarlo in tasca di malavoglia. Le servivano soldi, certo, su questo non poteva fare l’orgogliosa. Aveva preso a lavorare in un negozio di fiori ad Ayase ma l’intenzione era quella di diventare insegnante di ikebana e aprire un’attività propria. I soldi del Signor Kong le servivano per i corsi, fottutamente costosi, soprattutto ora che finire la scuola e diplomarsi era fuori discussione, e le permettevano di mettere da parte denaro per la futura attività. Però…
 
Kong sospirò, un po’ come se la domanda lo avesse preso in contropiede. – Invece di preoccuparti di queste sciocchezze pensa a trovarti degli amici. È meglio non avere a che fare con un tipo come me -. Il tono era stato stranamente paterno, più simile a quello di un padre che a uno pseudo-tutore legale. O sarebbe stato meglio dire illegale.
 
Lei borbottò qualcosa di incomprensibile. Le sopracciglia le si incresparono sulla fronte perlata: un’espressione che l’uomo nel vicolo accolse con un sorriso amaro.
Le gambe gli tremavano: era il riflesso della lotta che si stava consumando dentro di lui. Queste volevano muoversi, correre a più non posso, uscire a precipizio dall’ombra di quel vicolo per andare da lei. Il resto del suo corpo, il cervello primo fra tutti, il cuore che gli batteva follemente nel petto, le mani tremanti, le mani di un assassino, grandi quasi il doppio delle sue, resisteva faticosamente.
 
Talvolta arretrava offrendosi come cibo all’ingorda oscurità che lo avvolgeva, altre avanzava ma solo di pochi millimetri, troppo poco perché potesse raggiungere il fascio lontano di luce che entrava di traverso nel vicolo. E Ayame lo era ancora di più; più lontana di quando la vedeva arrivare con un Gojo in miniatura incastonato negli occhi; più lontana di quando l’aveva vista morire. E gli sembrò di osservare la luna, tanto era distante, tanto si sentiva piccolo e inerme dinnanzi a lei, schifosamente impotente.
 
Le sue mani intrise di sangue non avrebbero mai più potuto raggiungerla, figurarsi toccarla. Gli occhi proiettati verso un mondo di sterminio, un mondo vietato per quelli come lei, non avrebbero mai più potuto guardarla. E l’amore, quello che ora era orribilmente consapevole di provare per lei, quello che lo fece d’un tratto sentire ignobile, sbagliato, miserabile, non avrebbe mai più potuto proteggerla.





 

Mai si sarebbe immaginato di finire appeso al muro come una di quelle piccole croci cristiane che notava in qualche tavola calda dove si fermava per consumare il pranzo. Di quelle internazionali s’intende, aperte da qualche immigrato straniero, che offrono cibo spazzatura dai nomi esotici e che puntualmente attirano un sacco di gente: giapponesi curiosi o turisti che, lontani dal proprio paese, cercano un luogo per sentirsi a casa.
 
Solo che lui era tenuto appeso per il colletto della camicia. Con il senno di poi, avrebbe smesso di portare la cravatta o quel folle di un bonzo l’avrebbe usata per strangolarlo. Ed era probabile che non l’avesse ancora notata tanto era preso a fissarlo, no a trafiggerlo, con uno sguardo feroce e ribollente di ira. Quel giovane aveva quasi la metà dei suoi anni e il doppio della sua massa corporea e non era un caso che fosse annoverato nella lista dei peggiori tra gli stregoni neri in circolazione.
 
Si era visto arrivare le sue venose mani al collo sul limitare della porta che dava sulla sala dove il bonzo amava terrorizzare i suoi stupidi discepoli: le sue scimmie. Non aveva neppure fatto in tempo ad accorgersene; le aveva viste chiudersi selvaggiamente alla gola un istante prima di sentire la spina dorsale schiantarsi contro la parete e falciargli il respiro.
 
Kong gli stringeva scioccamente il polso come se il gesto bastasse a frenare quell’istinto omicida. Un istinto omicida che, nella forma di una grossa vena gonfia e serpeggiante, correva lungo il braccio scoperto del bonzo insinuandosi sotto la manica arrotolata del koromo* e rispuntando all’altezza del collo.
 
- Ora mi spieghi che cosa ci facevi con lei ieri pomeriggio -. Pronunciò la frase con gelida chiarezza sillabando le parole una ad una perché arrivassero alle orecchie di quell’uomo disorientato dal terrore, la cui coscienza doveva essere fuggita altrove a giudicare dallo sguardo vacuo, assente.
 
L’altro rispose con un rantolio, poi riuscì a mettere miracolosamente in sequenza qualcosa di sensato. – M-Mi sto occupando di lei. Le… porto dei soldi ogni mese -.
 
Geto fece schioccare la lingua cinicamente. – Per ordine di chi? – ringhiò sottovoce.
 
- Nessuno! – esclamò lui di riflesso. – La sto soltanto aiutando. Suo padre… il padre di Ayame ha ingaggiato Toji per salvarla. Io l’ho soltanto aiutata a farsi una nuova identità, sono un ex poliziotto, ho le mie conoscenze – aggiunse con voce vibrante di timore. La bocca era così secca da frenare l’articolazione delle parole.
 
- Lo sa qualcun altro? -.
 
Kong agitò la testa in segno di negazione. – Se il mondo dell’occulto lo venisse a sapere… -.
 
- Lo so –. Geto trascinò gli occhi in basso e Kong pensò che puntassero alla sua cravatta sgualcita. Pensò che fosse arrivata l’ora della sua dipartita e che nel giro di qualche minuto sarebbe morto soffocato dalla sua stessa fissazione a volersi sempre vestire a modo in qualunque occasione. Davvero un bell'autogol.
 
Poi notò che lo sguardo scendeva ancora a poco a poco, chissà dove si chiese, e gli parve che guardasse nello stesso punto in cui Ayame posava gli occhi quel giorno del mese, quando lui le mollava l’assegno tra le mani.
 
Geto lasciò la presa. Kong cadde di peso come un sacco di patate battendo il fondoschiena sul tatami che ricopriva il pavimento della sala. Le gambe gli avevano ceduto proprio all’ultimo.
 
Suguru gli diede le spalle. – Non sa niente di me, vero? -. La voce si era fatta sottile, inoffensiva, come il verso di una bestia ferita che si avvia a ritirarsi dallo scontro.
 
- No, ma mi ha chiesto di te. Le ho detto che non alcun legame con l’Istituto e da allora non ha fatto più domande -.
 
- Capisco – replicò l'altro brevemente. Ora era lui ad avere la bocca secca. Tossì e rivolse gli occhi alle spalle per guardare il suo intermediario: quello di cui aveva dubitato, che si era messo a pedinare e che senza volerlo l’aveva portato da lei. – Ti autorizzo a prelevare denaro dal fondo della setta una volta al mese, non mi importa quanto. Sai cosa devi farci -.
 
Geto fece per andarsene. Aprì la porta scorrevole rivestita di carta di riso e si fermò prima di mettere piede fuori dalla sala. – Non dovrei dirlo a te ma… grazie per averla salvata -. E andò via più vuoto che mai.




 
*si tratta della veste da monaco indossata da Suguru

 
   
 
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