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Autore: Adeia Di Elferas    18/07/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Nella sala d'onore? Sei sicuro?” chiese Bianca, quasi divertita.

Da tutto il giorno lei e Troilo stavano ragionando su come abbellire la rocca, oltre che su come renderla più efficiente e solida. Entrambi convenivano che, benché fosse l'aspetto militare quello più importante si fini della difesa della propria famiglia e del proprio Stato, la magnificenza e il significato profondo di affreschi e abbellimenti vari fosse fondamentale per far passare il messaggio che la loro casata fosse dominante e decisa a restare al potere.

Anche dopo cena, nella loro camera, il discorso non si era spento, anzi, avevano cominciato a scendere sempre più nel dettaglio.

Così, a un certo punto, parlando della sala d'onore, in cui avrebbero ricevuto gli ospiti ufficiali, il De Rossi aveva espresso il desiderio di far dipingere lo stemma di Bianca giusto appena dopo l'ingresso, in modo che, sollevando lo sguardo, fosse la primissima cosa che il nuovo arrivato avrebbe visto.

La Riario non capiva appieno quella proposta, o meglio, non riusciva a comprendere se il marito fosse serio o avesse scherzato per blandirla in qualche modo.

“Sì, la rosa d'oro dei Riario e il biscione degli Sforza...” disse lui, lo sguardo lontano, mentre si sfilava gli stivali, seduto sul letto.

“La vipera dei Visconti, più che altro...” ribatté la giovane: “L'ha trasformata in un biscione lo zio di mia madre, il Moro... Mia madre ha sempre preferito l'iconografia classica... Anche a Forlì aveva fatto incidere la vipera e non il biscione, e io sono d'accordo con lei sul voler mantenere il vecchio simbolo...”

“E vipera sia.” sorrise Troilo, abbandonandosi con la schiena sul letto, mentre la moglie ancora vagava per la stanza.

“Comunque non mi sembra una scelta... Non so come dire... Dovrebbe esserci il tuo, di stemma, il leone dei De Rossi, ecco cosa dovrebbero vedere in prima battuta gli ospiti.” fece la Riario, accigliandosi e posando una mano sul pancione che, ormai, era enorme e denunciava il fatto che nel giro di un mese scarso il bambino sarebbe nato.

“Io invece voglio, per prima cosa, che sappiano chi è mia moglie e che, grazie ai suoi natali, ha il diritto di comandare tanto quanto, se non ancor più di me.” si ostinò Troilo, rimettendosi seduto dritto e allungando una mano verso di lei.

Mentre la giovane stringeva le dita del marito intrecciandole alle proprie, sorrise e disse, senza pensarci sopra a sufficienza: “Sono stata fortunata a sposare te... Se avessi sposato Ottaviano Manfredi, com'era nei progetti di mia madre, non credo che sarebbe stato così tanto predisposto a condividere con me il potere... Con mia madre, magari, ma non con me.”

Da che erano sposati, non avevano quasi mai parlato del defunto Ottaviano – ne avevano parlato, addirittura, ancor meno che del cugino, Astorre Manfredi – e dunque il De Rossi drizzò le orecchie nel sentirlo nominare con tanta leggerezza.

“Se non fosse morto, l'avresti sposato, vero?” chiese il De Rossi, curioso, ma con una nota infastidita nella voce.

Per sua natura, l'emiliano non era mai stato un uomo geloso, né dei propri averi, né dei propri affetti, ma lo irritava comunque immaginare la sua Bianca come sposa di qualcun altro.

“Probabilmente sì.” annuì la Riario, guardando la pelle pallida del marito chiazzarsi di rosso sul collo e sulle guance, mentre cercava di restare impassibile: “Ma, come hai ricordato tu, lui è morto e non se n'è fatto più nulla...”

Il velo di rammarico che aveva smorzato un po' le parole della donna, mise ancor più sull'attenti il marito, che chiese: “Quindi tu saresti stata ben disposta a sposarlo..?”

“Mi piaceva molto.” asserì Bianca, distogliendo lo sguardo e sedendosi accanto a lui.

“Ma era l'amante di tua madre.” obiettò lui, con una certa durezza.

“Lo so bene, cosa credi...” scosse il capo lei, sciogliendo la stretta che la legava alla mano del marito, per puntellarsi meglio sul materasso, scomoda per via del ventre rigonfio.

“Ma...” iniziò a dire lui, mordendosi il labbro.

Ma niente, Troilo...” sbuffò la Riario, asciugandosi un po' di sudore dalla fronte, provata come non mai dal caldo di quell'agosto: “Manfredi è morto e basta: non c'è più alcun bisogno di parlarne. Ero una ragazzina... Mi piaceva... Un uomo come lui piace facilmente a una ragazzina...”

Il De Rossi, pur sentendosi a sua volta un ragazzino, per di più geloso, perseverò e chiese: “C'è mai stato qualcosa tra voi?”

“No.” sospirò Bianca: “Nemmeno un bacio. Se devo dirtela tutta, credo che l'unica volta in cui sia riuscita a toccarlo è stato ballando, a una festa di mia madre...”

La Riario, all'improvviso, si ricordò di aver sfiorato la pelle del faentino anche un'altra occasione, ossia quando si era trovata davanti il suo cadavere e, per dargli un estremo saluto, aveva toccato la sua fronte fredda con la punta delle dita, per trasferirvi un silenzioso bacio...

Il De Rossi si stava tranquillizzando, anche se la fronte non era ancora del tutto spianata e scorgere la serietà del volto della moglie lo stava facendo ragionare ancora molto. Dal canto suo, Bianca si chiedeva se Troilo fosse geloso anche dei suoi altri trascorsi – alcuni dei quali con risvolti anche molto più concreti, rispetto all'infatuazione, platonica, per quanto forte, per Manfredi – o se avesse subodorato quanto quell'innamoramento fosse stato per lei importante benché non avesse condotto a nulla.

“E poi – tagliò corto la Riario, sperando di cambiare discorso – all'epoca a volte mi incontravo già con uno dei soldati più giovani di mia madre... Niente di serio, ci giocavo e basta... Ma anche chi c'è stato dopo non era nulla di troppo serio... Forse aspettavo già di incontrare te, senza saperlo...”

Detto ciò, la giovane accarezzò la fronte calda del marito, facendo inconsciamente un paragona con quella gelida di Manfredi. Lo baciò e, mentre cercava le sue labbra con le proprie, la sua mente continuava a chiedersi come sarebbe stato baciare allo stesso modo Manfredi.

A riportarla in fretta alla realtà, fu il tocco dolce, ma deciso delle grandi mani di suo marito che le cinsero il pancione con fare protettivo, mentre ancora la baciava. Quel gesto, così naturale, eppure ancor così nuovo per Bianca, le fece capire che mai nessun altro uomo sarebbe stato per lei un compagno migliore. Malgrado la loro differenza d'età, malgrado il sacrificio che era stato per lei lasciare la madre e i fratelli per seguirlo a San Secondo, malgrado l'aver dovuto lasciare anche Pier Maria... Tutto, l'aver affrontato ognuna di quelle cose, per lei valeva l'uomo che ne aveva guadagnato.

Così, rinfrancata nelle sue certezze, la Riario si fece ancor più cedevole e mentre lasciava che il suo amato Troilo le sollevasse un po' il bordo dell'abito da camera, gli sussurrò semplicemente: “Ti amo.”

L'uomo sorrise, soddisfatto, e ribatté: “Ti amo.” e riprese a baciarla, sul collo.

Si dovette fermare quasi subito, però, perché un bussare insistente alla porta gli fece chiedere chi li cercasse e perché.

La voce della madre, Angela, sorprese tanto il figlio quanto la nuora: “Sono io.” disse la donna, concitata: “C'è una notizia che devo riferirvi immediatamente!”

Siccome la Scotti Douglas non era affatto avvezza disturbarli nella loro stanza – non era mai capitato nemmeno una volta, da che erano a San Secondo – sia Troilo sia Bianca si allarmarono.

L'uomo, dopo uno sguardo d'intesa con la moglie, si alzò e andò alla porta, aprendola e chiedendo subito: “Che è successo..?”

“Non volevo che vi disturbasse qualche servo, così ho preferito venire qui io...” fece Angela, abbassando lo sguardo, quasi le dispiacesse anche solo occhieggiare la camera degli sposi: “Ma è appena arrivato un dispaccio urgente e ufficiale, da parte di Madonna Sforza... Ci fa sapere che il papa è morto.”

Mentre la madre del De Rossi diceva quelle parole, Bianca si portò una mano sulle labbra, mentre il marito si accigliò, serio come se fosse stato catapultato all'improvviso a una solenne veglia funebre.

“L'ho aperta solo perché era intestata alla famiglia, non a voi in particolare...” fece la Scotti Douglas, guardando la nuora con sguardo implorante: “Non volevo prevaricarvi, ma ho immaginato subito che fosse qualcosa di grave... Vi lascio la lettera. E vi lascio soli.”

Non appena la donna si fu chiusa la porta alle spalle, la Riario scosse il capo e disse piano: “Cosa dice il messaggio?”

Attese che Troilo lo leggesse, confermando le parole della suocera, si fece dare il messaggio e lo rilesse in silenzio, cercando nelle parole vergate dalla madre qualche sottinteso nascosto, ma non ne trovò. La Tigre non le aveva inviato né ordini, né consigli, le aveva solo fatto sapere della morte del pontefice, evidentemente già certa che la figlia sapesse perfettamente quali dovessero essere le prossime mosse.

Fece un paio di respiri profondi, mise da parte la missiva, e poi si alzò dal letto e si mise alla scrivania. Si prese un paio di minuti buoni per ragionare e poi, afferrando la penna e spianando davanti a sé un foglio pulito, si chiese quale fosse la missiva più urgente da inviare.

“Devo scrivere un paio di lettere...” disse, a beneficio del De Rossi, che la guardava interrogativo.

“Lascia che ti aiuti. Tu me le detti, e io le scrivo.” si offrì lui, senza alcuna malizia.

Bianca, malgrado tutto, ancora faticava a far cadere le ultime remore nei confronti dello sposo, volendo mantenere almeno parte della sua corrispondenza del tutto privata, benché si trattasse spesso di questioni economiche o politiche. Tuttavia faceva fatica a stare alla scrivania, con quel caldo e quel pancione, e trovava giusto che anche suo marito fosse edotto su quel genere di maneggi.

Per cui, lasciandogli la sedia, tornò a letto, sistemandosi con cura con la schiena contro la testiera, sorretta da tutti i cuscini disponibili, e disse: “Mi raccomando, però, usa una bella grafia, non quella che usi di solito...”

L'uomo, intingendo la punta della penna nell'inchiostro, sollevò un sopracciglio: “Ho una grafia da soldato, difficile riuscire a cambiarla da un giorno con l'altro...”

“Se ti impegni a scrivere bene – propose la giovane, ritrovando momentaneamente anche la voglia di giocare – finita la corrispondenza, riprenderemo da dove abbiamo iniziato...”

“Allora scriverò così bene da far impallidire un monaco.” promise lui, sollevando l'angolo della bocca, in attesa dell'inizio della dettatura.

 

Malgrado la febbre ancora alta, Cesare Borja aveva compreso benissimo l'entità di quello che era successo: suo padre era morto e ora nessuno più poteva far nulla per salvarlo. Doveva essere lui stesso a mettersi al sicuro e, per farlo, doveva usare le armi e le amicizie che aveva e doveva essere veloce.

Sapeva, da Miguel, che avevano messo al riparo circa centomila ducati, più argenteria e gioielli per un valore di trecentomila ducati, tuttavia, per errore comprensibile, nella fretta, del Corella, non si era pensato di portare al sicuro i gioielli personali di Alessandro VI, ma ormai era tardi per sperare di recuperarli, dopo i saccheggi feroci di quelle ore.

La prima cosa che, scientemente, il Valentino aveva fatto, era stato far chiamare a Roma Prospero Colonna e questi, ingolosito dalla prospettiva di un lauto compenso, non si era fatto attendere. A velocità sorprendente, si era fatto trovare, con cento cavalli, alla Porta del Popolo, malgrado il parere avverso del Collegio dei Cardinali che, seppur incompleto, cercava di far valere il proprio volere su una Roma preda del caos.

Il Colonna, dimostrando grande senso pratico, nonché grande solerzia, rifornì in prima istanza Castel Sant'Angelo di polvere da sparo e poi iniziò a occuparsi non solo strettamente di guerra, ma anche dei termini esatti del suo ingaggio.

Cesare era stremato dalle febbri e dalla fame – perché il suo male gli rendeva difficile mangiare e già gli si vedevano le coste a ogni respiro – perciò cedette in fretta alle pretese di Prospero. Il condottiero di impegnava a difenderlo dagli Orsini e in cambio avrebbe ottenuto tutte le terre che erano state sequestrate ai Colonna e anche la proprietà di Supino, confiscata a Francesco Dell'Anguillara. Inoltre Prospero aveva già ottenuto anche due cavalli e ottomila ducati.

Accecato com'era dal bisogno e dalla paura, il Borja non si era nemmeno reso conto di quali fossero le concrete mire del Colonna finché questi non cominciò ad avanzargli proposte di un certo tipo, che conducevano tutte a una sola fine: far sì che il Valentino accettasse la protezione spagnola in cambio di un suo attivo impegno nel favorire la fazione spagnola al prossimo Conclave.

Cesare, bruciato dalle febbri e sempre più stremato dai dolori che lo prendevano allo stomaco e al petto, accettò, accettò tutto quanto, dalla protezione del re di Spagna, fino a giurare che avrebbe fatto di tutto, pur di far eleggere un papa spagnolo.

Di contro, però, nel segreto della sua stanza, mentre Michelotto gli frizionava le gambe e le braccia con stracci bagnati, giurava la stessa identica cosa ai francesi, ottenendone la protezione, in cambio del suo impegno nel far eleggere un papa francese.

Il Corella, che gli era vicino, non capiva se il doppio gioco del suo amico fosse dovuto alla paura o avesse una finalità che a lui, al momento sfuggiva, ma di certo questa sua strategia gli stava facendo guadagnare un pochino di tempo, perché al momento né i francesi né gli spagnoli intendevano accanirsi su di lui – convinti, anzi, entrambe le parti di doverlo difendere – e dunque dal Vaticano si riuscì a far partire almeno le donne e i bambini.

Vannozza Cattanei guidava il piccolo gineceo, verso la fortezza di Civita Castellana, e con lei c'era anche l'Infante Romano, il figlio di Lucrecia di cui il mondo avrebbe dovuto dimenticare l'esistenza...

“Parti anche tu.” disse una mattina Michelotto, vedendo che Cesare stava leggermente sfebbrando.

“No.” si ostinò il Valentino.

“Fallo per te stesso.” lo incitò il Corella: “E i Cardinali vogliono che tu te ne vada, perché la tua presenza ostacolerebbe il Conclave...”

Vinto più dal malessere che non lo lasciava che da altro, il Borja alla fine accettò e si lasciò sistemare su una lettiga di raso cremisi dalle cortine tirate e lasciò il Vaticano, diretto verso Nepi, con al seguito qualche cortigiana che non aveva fatto in tempo a partire il giorno prima e un pugno di uomini che avrebbero dovuto impedire a chicchessia di avvicinarsi e fargli del male.

 

Quel 24 agosto, Caterina era di pessimo umore e non ne capì il perché fino a quando non sentì Galeazzo chiederle: “Nella lettera per mio fratello Cesare posso aggiungere gli auguri anche da parte vostra?”

Il compleanno del suo secondogenito era per lei, da anni, nulla più che un dettaglio, una ricorrenza di cui spesso si era addirittura dimenticata. Non ne andava fiera, ma quelli erano i fatti. Quella mattina, probabilmente, vi aveva pensato, senza rendersene conto, proprio a causa della missiva che aveva dato ordine di scrivere.

Dopo l'entusiasmo del primo momento, infatti, aveva deciso di aspettare un momento a inviare Galeazzo a Bologna, anche se era sempre più convinta che mandarci solo Cesare – Ottaviano non lo calcolava nemmeno, malgrado fosse nel piacentino – fosse poco utile. Aveva fatto sì che Galeazzo scrivesse più volte al fratello, per dargli indicazioni e consigli, ma sempre a titolo personale, evitando quindi che i messaggi portassero la sua firma, ma solo quella del Riario, per non indispettire il destinatario, che si era spesso mostrato ricalcitrante a seguire i suoi ordini.

“No, non mettere gli auguri da parte mia...” disse la Tigre, accigliandosi: “Non glieli faccio da anni, non credo che li gradirebbe.”

Galeazzo, che non era d'accordo con quell'affermazione, poté comunque solo ubbidire e, con un sospiro, chiuse la missiva senza citare la madre.

La Sforza, aspettando che il figlio firmasse e chiudesse la lettera, cominciò a picchiettare la punta delle dita sul bracciolo della sedia su cui era appollaiata da quasi due ore. Stava aspettando, tra le altre cose, che Fortunati portasse notizie fresche da Firenze. Era partito il giorno prima e doveva incontrare i Salviati e non solo, per poi rientrare da lei e riferire tutto quello che poteva essere utile per la loro causa.

“Credete che sarà davvero necessario che vada anche io a Bologna?” chiese Galeazzo, in un attimo di incertezza.

Il giovane avrebbe desiderato, in parte, partire davvero, sia per vedere posti nuovi, sia per iniziare a misurarsi con il mondo esterno. D'altro canto, però, temeva la distanza dalla madre e, ancor di più, temeva di scoprirsi non in grado di muoversi sulle proprie gambe. Forse, se si fosse trattato di un impegno di tipo militare, si sarebbe sentito molto più sicuro di sé.

“Non lo so, ma è possibile.” rispose la donna, con un sospiro pesante: “Di te mi fido, per questo ti manderei... Ma lo farò solo se non potrò evitarlo.”

Il Riario andò quindi a consegnare la lettera al messaggero e Caterina, sempre più impaziente, si mise alla finestra in attesa dell'arrivo di Fortunati.

L'uomo non si fece attendere ancora molto e, quando arrivò, non si tolse nemmeno il mantello da viaggio, prima di cominciare a spiegare come a Firenze qualche giorno prima si fosse pensato che fosse morto anche il Valentino, assieme ad altri quattro Cardinali, anche se, alla fin fine si era capito che erano morti solo il papa e un Cardinale, proprio quel Cardinale che, secondo molti, aveva cercato di avvelenare il papa, finendo avvelenato egli stesso.

“Anche se c'è chi sostiene che fosse il papa a voler avvelenare il Cardinale e sia finito avvelenato a sua volta...” concluse il piovano, agitando la mano in aria, come se quella storia lo infastidisse come una mosca.

Convinto Francesco a togliersi almeno il mantello e a bere un po' d'acqua, standosene comodamente seduto, la Tigre passò a chiedergli se in città circolasse qualche notizia sulle mosse che avrebbero fatto i vari oppositori del papa, in particolare quelli legati alla Romagna.

“Dicono che Dionigi Naldi sia rientrato a Forlì, una volta saputo del papa – spiegò il fiorentino, asciugandosi le labbra col dorso della mano – e abbia preso mille fanti e con essi stia cercando di prendere la Val di Lamone.”

“Quanto ci scommetti che la offrirà sia a Firenze, sia a Venezia, cedendola ai migliori offerenti?” fu il commento colmo di disprezzo della Leonessa, che conosceva bene quel mercenario.

Fortunati fece un cenno vago col capo, come a dire che lei ne sapeva sicuramente più di lui, e poi riprese, molto più serio: “Dicono anche che Pandolfo Malatesta si stia preparando a lasciare Venezia per marciare verso sud e riprendersi Rimini.”

“Il Pandolfaccio vuole riprendersi Rimini..?” la voce della Sforza era poco più che un sussurro.

Il piovano non sapeva come interpretare i suoi occhi stretti e le sue labbra appena schiuse, perciò fu con cautela che rispose: “Sembra di sì...”

“E allora io mi riprenderò Imola e Forlì!” sbottò lei, con una rabbia che Fortunati non riusciva a capire: “Devo trovare gli uomini e le armi e marciare sulla Romagna intanto che lo sta facendo il Malatesta! Nessuno avrà modo di badare a entrambi... Almeno uno di noi due riuscirà nella sua impresa!”

“Caterina, non fare così...” cercò di ridimensionarla lui, alzandosi e provando a posarle una mano sulla spalla: “Non cedere alla furia del momento... Abbiamo poche carte da giocare e dobbiamo pensarci bene, non buttarle tutte assieme sul tavolo, sull'onda di un capriccio...”

La donna si divincolò: “Non è un capriccio!” ribatté, offesa: “Questa è la nostra migliore occasione!”

“Non sappiamo nemmeno se è vero che il Malatesta farà quello che dicono...” provò a dire Francesco.

La Tigre sapeva benissimo che il suo amante aveva ragione, perciò, montata la frustrazione e mescolatasi con la collera, ne uscì una frase molto infelice, che, però, non riuscì a rimangiarsi in tempo: “Se qui con me ci fosse Baccino, al tuo posto, mi darebbe man forte e saremmo già in marcia!”

Il piovano si grattò il mento e sussurrò, impassibile: “Baccino è a Roma. Se vuoi, chiamalo qui.”

Era da qualche tempo, ormai, che il fiorentino aveva imparato a mantenersi freddo e a farsi quasi ironico, quando la sua donna nominava un altro uomo, quale che fosse, purché potesse rappresentare per lui una sorta di rivale in amore, e questo atteggiamento spiazzava e zittiva sempre la milanese.

Anche quella volta, la donna restò un attimo immobile e poi tacque, finché non riuscì a trovare le parole giuste per dire: “Intanto manderò mio figlio Galeazzo a Bologna. Questo non me lo puoi impedire.”

“Io non voglio impedire nulla...” protestò, debolmente, il fiorentino: “Vorrei solo che tu non commettessi errori così gravi da non potervi porre rimedio...”

La Sforza, resistendo all'istinto di attaccare dopo quella che le sembrava una critica gratuita, deglutì un paio di volte e poi convenne: “Hai ragione, è finito il tempo dei colpi di testa. Devo essere lucida e non sprecare le poche occasioni che ho.”

Fortunati allargò le braccia, annuendo. Avrebbe volentieri espresso a parole quello che avrebbe fatto lui al posto di Caterina, ma sapeva di non avere la capacità di farlo. Anche se si riteneva un uomo di buon senso e abbastanza addentro alle questioni politiche e diplomatiche, sapeva anche che la Leonessa aveva l'esperienza sul campo di chi aveva guidato in quasi completa solitudine su uno Stato riuscendo a non piegarsi mai, se non a una macina irrefrenabile che aveva schiacciato chiunque avesse davanti, quale era stato l'esercito francese guidato dal Valentino.

“Però Galeazzo a Bologna lo devo mandare. Il Conclave inizierà a giorni, immagino... Dobbiamo essere sicuri che i Bentivoglio siano dalla nostra parte. Con loro e i nostri parenti, e magari qualche fiorentino... Mi chiedo se Bianca stia già muovendo... Lei sa meglio di me come fare certe cose, ma mi chiedo se...” soppesò la donna, ma non terminò il suo pensiero: “Vado da Galeazzo. Gli devo dire che domani deve partire e voglio che sappia come muoversi.”

“Mandagli dietro Scipione.” suggerì il piovano.

“Non so se accetterebbe, con così poco preavviso...” fece la Tigre.

“Accetterà.” ribatté il fiorentino: “Se vuoi gli scrivo già adesso.”

“Va bene.” sospirò lei e poi, senza aggiungere altro andò dal figlio.

Galeazzo prese la novità con un misto di orgoglio e paura. Era fiero del fatto che la madre si fidasse così tanto di lui, ma, allo stesso tempo, temeva di poterla deludere.

“Potrebbe essere che Scipione ti accompagni.” buttò lì la donna e, quando vide la reazione sollevata del figlio, sperò che il suo figlioccio accettasse davvero quell'incarico estemporaneo.

“Se venisse anche lui – precisò il Riario – per me sarebbe una cosa molto buona. Tuttavia, se non dovesse, vi giuro che porterò ugualmente a termine il compito che mi avete dato.”

“Sei sicuro che non ti stia chiedendo troppo?” domandò la madre, guardando il bel volto del diciassettenne e chiedendosi se fosse davvero pronto per rappresentarla a Bologna in un momento tanto delicato.

“Io sono pronto a servirvi fino alla morte.” dichiarò il giovane uomo.

Caterina, colta da uno sprazzo di istinto materno, gli accarezzò una guancia, un po' ruvida per via della corta barba bionda che ormai cresceva abbastanza regolare, e disse: “Sei bello, gentile, intelligente e coraggioso. Sarà molto fortunata, la donna che ti sposerà.”

Il Riario arrossì violentemente e, abbassando gli occhi verdi, bisbigliò: “Siete troppo buona con me... Io... Quando sarà il momento...”

Percependo che, forse, il giovane temeva che quell'esternazione fosse legata a un qualche progetto sul suo immediato futuro, Caterina si sentì in dovere di tranquillizzarlo: “Non voglio metterti fretta, lo sai... Lo dicevo solo perché lo penso. Adesso, dai... Inizia a preparare il tuo bagaglio e scegliti un cavallo. Più tardi decideremo a che ora partirai... Anche in base alla disponibilità di Scipione.”

Il giovane si disse d'accordo e si allontanò, sotto lo sguardo della madre, che stava pensando a come quel figlio, in fondo, avesse preso quel poco di buono che c'era stato in Girolamo Riario e quel poco di buono che c'era in lei. Il destino era stato benevolo, con lui, evitandogli gli eccessi in negativo che avevano contraddistinto i genitori.

Sperava davvero che potesse trovare una persona di valore, così come era stato per Bianca che aveva scelto un uomo ricco di pregi. Anche se il De Rossi apparteneva a una nobiltà in parte decaduta e in difficoltà economica, e anche se era molto più vecchio della sua sposa, alla Tigre era bastato poco per capire ciò che la figlia aveva trovato in lui. Senza contare che la Riario aveva scelto il proprio sposo da sé, il che non era un dettaglio da poco.

Per Galeazzo, quindi, Caterina avrebbe voluto una donna altrettanto valida, una donna che fosse intelligente, forte e bella. Fosse stata anche una serva, non le sarebbe importato: ciò che contava era che il figlio l'amasse e che l'amasse a sua volta. Avrebbe accettato chiunque e sarebbe stata felice per il suo quintogenito, a patto che lui per primo fosse sicuro e felice della sua scelta.

Era riuscita a salvare Bianca, malgrado tutto, da un matrimonio combinato e avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per fare altrettanto anche con il suo erede designato.

 

Era stato un azzardo enorme, ma, quando aveva sentito che sua suocera, Giovanna Malatesta, era stata convocata da Guidobaldo Maria da Montefeltro per importanti e delicatissime comunicazioni, Maria Giovanna Della Rovere non aveva resistito.

Anche se la suocera aveva insistito dicendole che anche lei era stata chiamata dal loro protettore e alleato, la giovane aveva giocato d'astuzia, fingendosi malata e sostenendo di dover badare alla piccola Porzia che, a sua volta, era sempre afflitta da qualche malanno. Quel giorno, in particolare, la Della Rovere sosteneva di avere una nausea fortissima, mentre la bambina – per davvero, purtroppo – aveva un po' di febbre e sembrava soffrire di coliche.

La Malatesta all'inizio si era lamentata della scarsa fibra della nuora, ma poi, messa alle strette dal tempo, si era risolta ad attraversare Venezia da sola con un paio di dame di compagnia e un uomo di scorta, lasciando Maria Giovanna sola coi figli, le bambinaie e la loro guardia del corpo ufficiale, ossia Giovanni Andrea Bravo.

Il piano della giovane era riuscito meglio del previsto e, dopo aver finto anche con le balie di non essere abbastanza in forma per occuparsi in prima persona dei tre figli, la Della Rovere era riuscita a sgattaiolare in camera assieme proprio al veronese.

Sapendo di non avere troppo tempo, erano subito arrivati al dunque e poi, sfiniti dalla passione e dal caldo di quell'agosto che stava quasi volgendo al termine, si misero stesi l'uno accanto all'altra a parlare delle più disparate faccende.

“Ma non sei riuscita a capire nemmeno vagamente quale fosse questa importante novità di cui Guidobaldo voleva parlare a tua suocera?” chiese il mercenario, guardando di sottecchi l'amante.

La ventunenne, col viso ancora rosso, scosse il capo: “Ero troppo concentrata ad aspettare te...” e poi, accigliandosi appena, ricordò: “Ma so che Guidobaldo aspettava notizie certe da Roma...”

“Sulla malattia del papa e del Valentino?” chiese il giovane, puntellandosi un po' sui gomiti.

“Immagino di sì.” annuì lei, sciogliendosi poi un sorriso, mentre Giovanni Andrea le prendeva una ciocca di capelli tra le dita, giocherellandoci e si sporgeva in avanti per baciarla.

“Non so nemmeno io che augurarmi... Che il papa muoia? Che si salvi?” sospirò lui, guardandola malinconico: “Se morisse, per noi potrebbero cambiare tante cose...”

“Il mio amore per te non cambierà mai, quale che sia il papa in carica...” ribatté Maria Giovanna, decisa.

All'improvviso, mentre i due amanti stavano ricominciando a stringersi l'un l'altra, un certo trambusto li mise in allarme. Era evidentemente che la Malatesta era già tornata.

“Vestiti!” ordinò la Della Rovere, mentre lei stessa scattava in piedi e si infilava la veste da notte e la rete per i capelli: “E vattene...” concluse, indicando la porta secondaria, che dava sulla camera adiacente, che, per fortuna, non veniva usata da nessuno.

La Malatesta, per fortuna, era troppo sconvolta da tutto quello che il Montefeltro le aveva detto, sia per rendersi conto, quando arrivò nella stanza della nuora, che il letto era troppo sfatto, per aver ospitato solo una giovane donna con la nausea, sia per capire che il rossore e l'agitazione della giovane poco avevano a che fare col suo malessere.

“Il papa è morto!” riferì: “Il mio parente, il Pandolfaccio, vuole riprendersi Rimini! E Guidobaldo vuole chiedere un prestito da tremila ducati e lasciare Venezia per marciare verso sud!”

La Della Rovere registrò quelle notizie, ma rimase in silenzio, immobile. Il Valentino – e di riflesso il papa – era stato colui che le aveva permesso di liberarsi di suo marito Venanzio, dunque non poteva dire di essere felice di sapere morto Alessandro VI.

Non poteva, però, esprimere apertamente il suo pensiero. Lasciò quindi che la suocera le desse della donna inutile, capace solo di stare male, quando, invece, era necessario essere al massimo delle proprie forze. Giovanna chiese anche se la nipote Porzia stesse meglio e quando la nuora le disse di non saperlo, essendo stata così male da non aver potuto badare a lei, la Malatesta borbottò qualcosa su quanto fosse stato sbagliato far sposare Maria Giovanna al suo povero Venanzio e lasciò la camera.

Solo a sera fatta, dopo cena, quando il palazzo sul canale taceva come le acque tranquille che l'avviluppavano fin nelle fondamenta, la Della Rovere e il Bravo riuscirono a restare di nuovo soli.

Per prima cosa, vinti dal desiderio che avevano dovuto reprimere prima del previsto quel pomeriggio, si abbracciarono e si baciarono, lasciando che per qualche istante il loro amore li portasse via, ma poi si fecero entrambi seri e pensierosi.

“Credi che tuo zio Giuliano abbia qualche possibilità di diventare papa?” chiese Giovanni Andrea.

“Non lo so...” ammise la giovane che, di fatto, non avrebbe saputo dire nemmeno il nome di un componente del prossimo Conclave, se non quelli di alcuni suoi parenti.

“Se lo diventasse, credi che ti chiamerebbe a Roma da lui?” domandò Bravo.

“Non lo so...” rispose di nuovo lei, afflitta all'idea che potesse capitare.

Iniziava a stare davvero bene a Venezia. Anche se doveva sottostare a sua suocera e anche se i suoi tre figli erano sempre lì a ricordarle di come una volta fosse la moglie di Venanzio da Varano, alla fin fine nella Laguna ci stava bene... Perché c'era il suo Andrea, come ormai lo chiamava.

“Credi che ti cercherà un nuovo marito? Magari per comprarsi qualche alleanza o qualche amicizia?” indagò il veronese.

“Non dirlo nemmeno per scherzo.” si difese lei, oltraggiata anche solo all'idea che potesse essere messa sul mercato come un pezzo di carne.

Le era già successo una volta, quando era poco più di una bambina, e non avrebbe sopportato di vedersi vendere al miglior offerente di nuovo.

“Potrebbe capitare.” le fece presente lui, cupo.

“Non mi interessa.” ribatté allora lei, prendendo le mani del suo amante nelle proprie: “Io resterò con te, qualsiasi cosa accada.”

Evidentemente era ciò che Bravo si aspettava di sentire. Le baciò le labbra e poi la fronte e infine la strinse a sé.

“Non ti lascerò nemmeno io, qualsiasi cosa accada.” promise.

Accolta dalle braccia forti e calde del suo amante, Maria Giovanna si sentì inaspettatamente forte e sicura di sé e, all'improvviso, fu sicura che quale fosse il suo destino, con Andrea al suo fianco, sarebbe stato più facile da sopportare.

“Posso venire in camera tua stanotte, o hai paura che ci scoprano?” chiese lui, occhieggiando la sala buia in cui erano.

“Staremo attenti.” fece lei, iniziando ad avviarsi già, tenendolo per mano: “Non ho intenzione di rinunciare più nemmeno a un minuto con te... E poi stasera hanno festeggiato tutti, hanno mangiato e bevuto... Mia suocera starà dormendo come un sasso.”

Bravo sorrise e commentò: “Dormisse sempre così, giorno e notte, non mi allontanerei dal tuo letto nemmeno per mangiare...”

La Della Rovere represse una risata, per paura che qualcuno la sentisse, e, continuando a camminare, appena più veloce, si permise di fantasticare, dicendo: “Sai, in fondo non mi dispiacerebbe se mio zio diventasse papa... A Roma ci sono palazzi tanto grandi, con stanze tanto lontane l'una dall'altra, che non dovremo nemmeno fare attenzione a non farci sentire... E se Giuliano fosse papa, di certo mi scrollerebbe di dosso quell'arpia di mia suocera...”

“E il nuovo marito?” chiese Giovanni Andrea, quando già erano arrivati a destinazione: “Ti faresti scrollare di dosso anche lui?”

“Alcuni mariti provano poco interesse per le mogli... Se dovesse dimostrarsi incline a frequentare certe osterie e i bordelli, di certo non lo scoraggerei. Più tempo concederà ai suoi vizi, più ne avremo noi per amarci come vogliamo...” rispose lei: “Ma adesso non pensiamo al futuro. Abbiamo qui e adesso.”

Il giovane convenne con lei e, senza aspettare altro, la baciò e sussurrò: “Alla memoria del Santo Padre... Scommetto che, per l'uomo che era, apprezzerebbe di più il nostro modo di rendergli omaggio, che quello tributatogli dai chierici...”

   
 
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