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Autore: aurora giacomini    23/07/2023    1 recensioni
La scomparsa di una persona cara, l'incontro con una ragazza misteriosa: piccoli e grandi misteri si mescolano al dedalo di emozioni, di rapporti interpersonali e intrapersonali nel tentativo di capire cosa sia vero e cosa no, cosa reale e cosa no.
A narrare il ricordo è Andrea, ora adulta, che ricostruisce e prova a ricordare cosa significhi essere nell'età più confusa e magica dell'esistenza.
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11 Capitoli per 42,7oo parole circa
Genere: Avventura, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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      Epilogo

 

 

Questa storia, questo ricordo l’avevo scritto, come detto, quindici anni dopo le vicende.

Ci rimetto mano oggi - cinque anni ancora in avanti - dopo averlo abbandonato in una chiavetta USB e aver rinunciato a ogni proposito di pubblicazione - anche amatoriale - perché non mi sentivo di pubblicare un lavoro del genere, con una fine che non era davvero una fine... per me sì, ovviamente, ma penso sia chiaro ciò che voglio esprimere.

Ci rimetto mano perché ora ho l’occasione di scrivere l’ultimo capitolo, la fine, il vero epilogo di una storia agrodolce.

Rileggendo e correggendo il testo, ho deciso di non cambiare nulla: ho solo aggiunto qualche dettaglio, per esempio il fatto che ora sono mamma e poco altro.

 

In questi vent’anni sono successe molte cose, ma per raccontarle tutte e come si deve, ci vorrebbe una storia a sé; non ho intenzione di tediare nessuno, dunque mi ricollegherò alla storia principale nel minor numero di battute possibili.

Prima, però, due parole le devo spendere, altrimenti sarà arduo per l’eventuale lettore capirci qualcosa.

 

All’età di ventinove anni ho preso la decisione di prendere e partire: mi sono trasferita in una cittadina a sud del Canada, verso il confine; chissà, forse seguendo l’esempio di qualcuno che, a quanto pare, trovava tutto troppo stretto...

Per un po’, però, ho dato la colpa alla mia Luna Nera in Ariete: ho demolito il mio passato e ricostruito il mio presente; stadio dopo stadio, senza mai trovare la pace, l’equilibrio che cercavo.

Poi è arrivata Svenna, e tutto ha cominciato ad avere un senso.

 

Svenna e io ci siamo conosciute un paio d’anni dopo il mio arrivo, nel paesino che ora chiamo casa. 

Ero seduta ai tavolini di un bar, sorseggiando il cappuccino che si era gelato non appena me l’ero portata fuori - erano gli ultimi di marzo, ma faceva un freddo becco - e lei aveva attirato da subito la mia attenzione.

Ma guarda questa, mi ero detta, perché scuoteva la testa e vocalizzava a caso suoni incomprensibili, ascoltando qualcosa dalle cuffiette.

Me n’ero stata buona per un po’; poi, vinta dalla curiosità, mi ero avvicinata con la scusa di chiederle se avesse da accendere.

Per ovvi motivi, la conversazione si svolse in inglese, ma tradurrò il tutto.

«Scusami, hai l’accendino?»

Non riaprì neppure gli occhi.

Sfido io che non mi senta... pensai, dato il volume che mi permetteva di ascoltare perfettamente la canzone, anche se le cuffiette erano nelle sue, di orecchie.

Bon, in fondo volevo sapere cosa stesse ascoltando, e ora lo so: Mina. Brava, ottima scelta.

Mezza soddisfatta, dunque, feci per girarmi, ma lei mi parlò:

«Posso aiutarti?»

Mi voltai e incontrai due lucidi - per il freddo - occhi nocciola spruzzati di un verdognolo scuro, un po’ tristi, un po’ furbi e indagatori, racchiusi in un volto pallido e incorniciato da capelli biondissimi. Prima ancora di chiederglielo, avevo già capito fosse della Bilancia: quello specifico modo di guardare ce l’hanno tutti i segni d’aria, con alcune distinzioni fra i tre che non mi metterò a elencare.

Le dissi che mi ero avvicinata per chiederle da accendere - in seguito, le avrei rivelato il vero motivo.

Non aveva da accendere, dato che non fumava.

Ma mica demorsi! Nossignore: quegli occhi mi avevano catturata... e poi stava ascoltando Mina, voglio dire!

Feci tanto, che mi invitò a sedermi con lei.

«E così ti piace la musica italiana, eh?»

La replica la lascio così, com’è stata pronunciata, perché se no non avrebbe senso:

«Per me the best! Mi piaciii Mina! Ti amo pazza, mamma mia!», esclamò, congiungendo tutte le dita e agitando le braccia.

Era il momento di spiegare una cosa, al popolo d’oltreoceano, una benedetta volta:

«Quel gesto serve a dire ‘‘cosa dici?’’, ‘‘cosa vuoi?’’ eccetera, non per ogni frase, per quanto enfatica...»

Credo di averla conquistata nel momento esatto in cui le ho detto di essere italiana. Potrei chiederglielo, dal momento che ce l’ho davanti - è stravaccata sul divano e penso che ormai il libro serva solo a ripararla dalla luce - ma mi piace troppo la mia teoria e non intendo farmela rovinare da una possibile verità scomoda.

Parlammo per tutta la mattina e pranzammo insieme. Alla fine del pasto, le chiesi se potessi invitarla a uscire per cena. 

Ovviamente accettò. Accettò molte volte - non sto dicendo che pagassi solo io, ben inteso... anche se non mi avrebbe fatto differenza: volevo solo stare con lei.

Se dovessi mettermi a parlare di lei e del perché mi sia innamorata, non la finiremmo mai più; quindi dico solo questo: ha un’anima millenaria - sulla teoria delle anime vecchie e nuove ho in mente di scriverci un romanzo - è intelligente, ironica e, ai miei occhi, la donna più bella dell’Universo. Il colore del suo calore è un verde smeraldo molto scuro: la cosa più rara che mi sia mai capitata di vedere a quel modo, anzi, unica.

 

A tre mesi dal nostro primo incontro, cominciai a notare fosse più tonda. Me lo tenni per me, perché è da aprir bocca solo per dire che sono dimagrite, se no è da tacere - scherzo. 

Man mano, però, cominciai a capire non fosse colpa delle nostre cenette...

Comunque, quella piccola creatura, lì dentro, non ce l’avevo messa io... Lo so, è scioccante, ma giuro di non essere stata io.

E’ un cliché dire che mi trovai di fronte alla decisione più difficile della mia vita? Sì? Molto bene, perché quella fu la decisione più semplice della mia vita!

Ben è nato il giorno di Santo Stefano: un Capricorno - ascendente Ariete.

Rintracciammo il padre - un bravo ragazzo con cui, però, le cose con Svenna non avevano funzionato - e vedemmo di capire se voleva avere un ruolo nella vita del piccolo. Non lo voleva, anche perché progettava di partire per l’Europa - dov’era nato - e di restarci. Così Svenna dichiarò di non conoscere l’identità del padre e... pace, vé.

Tre anni fa ho potuto adottare ufficialmente Benjamin e dormire tranquilla, senza il terrore che, per qualche assurda ragione, il padre biologico cambiasse idea e avanzasse pretese. A far parte della vita di Ben glielo permetteremmo sempre, ovvio; ma che ognuno stia al suo posto, perché i figli non sono robe che molli e riprendi a piacere... e questa non era una frecciatina casuale. Bon, ne parliamo dopo.

 

Sto scrivendo quest’ultimo capitolo dalla mia vecchia casa, in Friuli. Il perché è presto detto: la Lilla si è sposata! Sì, quella bestiolina bionda che manco mi arrivava al bacino - non che ora sia chissà che più lunga, eh: un metro e cinquantaquattro con le scarpe, per capirci.

Ha sposato un toscano - del Leone o della Vergine, mica l’ho capito, ma dopo glielo chiedo per bene, una volta per tutte - che devo ancora decidere se mi vada o meno a genio; finché la tratterà con rispetto e la farà ridere, di sicuro da me non avrà rogne... in caso contrario... Oh, c’avrà pure ventisei anni, ma quella rimane la mia sorellina! 

Se non altro, però, il Massimo mi fa crepare dal ridere ogni volta che apre bocca: l’hai mai sentito parlare, un toscano? Ecco! Quando si emoziona - e succede spesso, da quel che ho visto - per me è la fine.

Al momento, mio suocero, la mia sorellina e la mia creatura sono nel cortile: dagli schiamazzi, direi che si stanno divertendo un botto. Eh niente, Ben si è innamorato da subito della zia Lilla - ho idea sia per la statura simile... scherzo... più o meno.

Svenna si è addormentata, esausta com’era. La lascio dormire e vedo di continuare e di finire.

 

Erano i primi di agosto di quest’anno, quando la Lilla mi ha chiamata per dirmi che, sì, si sposava. Per tutto l’anno precedente mi aveva fatto una testa così su questo Massimo, ma non mi aspettavo finisse per sposarselo davvero, o meglio: per sul serio davvero davvero!

Mi aveva chiesto se volessi farle da testimone... come se ce ne fosse stato bisogno, dico io! Chi altri, se non la sorellona, no? Eh!

Due giorni prima del matrimonio, la mia famiglia e io abbiamo fatto le valigie e siamo partiti. Sia per Svenna che per Ben era il primo volo in assoluto: la mia compagna ha passato l’intero tempo di volo artigliata un po’ al bracciolo e un po’ al mio braccio, bianca come un cencio; Ben, invece, era preso d’un bene che non saprei manco descrivere. Sarà un pilota, da grande, so già!

Arrivati a Ronchi - dopo l’ennesimo scalo - ho noleggiato una macchina e siamo saliti.

A casa ho potuto riabbracciare tutti: il papà, la Patrizia, la Lilla e il Pietro; e rifilare una carezza al Leonardo - no, non è immortale: all’inizio della storia aveva poco più di un annetto; è solo un distinto vecchiaccio.

Massimo, vedendo che abbracciavo tutti escluso lui - perché avrei dovuto, dico io - mi ha detto: «La venga quie sellaunvò’ piglià la scahaiòla!» e subito dopo mi ha stretta. Ho ricambiato, seppur un po’ imbarazzata, chiedendomi se avessi capito giusto il riferimento ai problemi intestinali che avrebbe potuto causarmi il privarlo del mio affetto. E ne ho avuto quasi conferma, quando stessa sorte è toccata alla Svenna.

Il papà e la Patrizia hanno sequestrato immediatamente Benjamin - Beniamino, per il papà - e se lo sono portato in salotto, a mostrargli i balocchi che gli avevano preso per l’occasione. Già un paio d’anni prima, quando erano volati a conoscerlo, ci avevano riempito casa di peluche, macchinine e libri... questa volta, mi sa, dovrò noleggiare una seconda macchina...

Svenna, Pietro e Massimo si sono uniti al resto della famiglia, mentre io sono uscita con la Lilla, in cortile.

 

«E tu, Andrea, quand’è che le chiedi la mano?», mi ha chiesto Lilla, sedendosi in veranda accanto a me, sulla panca.

«Eh, ché non lo sapevo, io?», ho fatto. «Non sta a cominciare con i soliti riti di famiglia: e quando ti sposi, e quando fai fi- Ahi!», ho ridacchiato, perché la Lilla mi aveva dato una spallata.

«Sei tutta scema, Andrea! Sempre detto, io! Il figlio ce l’hai, ora ti tocca di sposarti!»

«Non c’è fretta...» ho brontolato, evitando di dirle che per me il matrimonio è solo una firma su un pezzo di carta; non mi è parso il caso, visto quello che si stava apprestando a fare. «La vedo più come il Pietro: con calma, le cose.»

«Bon, allora dimmi, Andrea: hai pensato a quell’altra cosa?»

«Di tornare stabile in Italia, dici? Non so. Ne ho parlato con la Svenna e lei, lo sai, è innamorata del nostro Bel Paese; però penso voglia che Ben faccia le prime scuole in Canada.»

«E tu cosa vuoi?»

«Non conservando un bel ricordo, anch’io preferisco faccia fin le medie là. Poi si vedrà, anche perché, finite le medie, sarà abbastanza grande da vedere cosa vuol fare. Sono intenzionata ad ascoltare il parere della mia creatura; sai, come la Patrizia ha fatto con noi.»

«Non ti riesce ancora di chiamarla mamma, eh?»

Apro una piccola parentesi, che poi è il motivo per il quale sto riportando il dialogo: a diciassette anni ho chiesto alla Patrizia di adottarmi; ma lo vediamo dopo, in caso.

«Eeeh», ho sospirato, senza aggiungere altro.

«Scusami, Andrea», ha mormorato.

Le ho messo un braccio attorno alle spalle e me la sono tirata addosso, stringendola a me, per farle capire che era tutto apposto.

Abbiamo passato il resto del pomeriggio a parlare, prima lei e io, poi tutti insieme, facendo i preparativi.

 

Non mi dilungherò troppo sul matrimonio, anche perché ho già fatto danni sopra, con la mia narrazione sconclusionata.

E’ stato celebrato in chiesa, per forte desiderio di entrambi gli sposi - soprattutto Lilla, che era da quando aveva otto anni che disegnava il suo bianco vestito.

Per l’occasione ho rivisto Mario, anche lui con la fede e con una bambina dell’età di Ben. Si è sposato con la Martina - che avevo detto, io? Eh! - che ora sulla fronte non ha più la Costellazione del Cigno.

Credo che il cuore di mio figlio sia diviso in due metà: la zia Lilla o la Benedetta - la figlia di Mario e Martina - davvero un bel dilemma, dico anch’io!

 

Prima di arrivare a quello che è successo ieri pomeriggio, ovvero la ragione per cui ho ripreso in mano questo testo, vorrei spendere due parole sulle persone che hanno ornato questa storia, giusto un breve riassunto delle loro vicende, in questi vent’anni.

 

Il papà è andato in pensione l’estate dopo quella in cui ho conosciuto Nevrè e si è fatto operare; ora cammina col bastone, ma cammina.

La Patrizia continua a dare lezioni di yoga e meditazione. Dieci anni fa ha ultimato e pubblicato il suo romanzo ‘‘L’Io curioso, l’Io dimenticato’’: un racconto spietato come solo la verità, sulle dinamiche umane e i suoi demoni. L’avrò riletto venti volte, minimo. E’ stato accolto bene sia dalla critica che dal pubblico, mancando per un soffio il Premio Strega. Continuo a vederlo nelle vetrine, anche in Canada.

Il Pietro, dopo il fallimento della fabbrica, ha trovato lavoro come imbianchino e muratore giù a Roma, dove attualmente convive con la Scarlett - il pesciolino rosso che ha deciso essere una lei. Continua a guidare la Panda verde chiaro.

La Francesca? E chi lo sa! Io, dal canto mio, ipotizzo abbia messo il culo sul Ferrari di qualche essere arrogante; eh, Marco, che dici?

Con Federico sono rimasta in contatto fino la primavera di due anni fa, quando è partito come missionario da qualche parte in Asia. Non so che ne sia stato di lui, ma voglio immaginarlo felice e appagato, mentre svolge la sua missione.

Il Peppino è scomparso sei anni fa, alla veneranda età di novantatré anni; fino il giorno prima di addormentarsi per sempre, mi han raccontato, in paese, ha rifilato l’insegnamento. Be’, mi dà che avesse ragione.

Il Luigi, il ‘‘buon cittadino’’ è sempre su quella veranda a vedere se qualcuno o qualcosa gli dà motivo di chiamare i Carabinieri; lo so, perché ieri, passando di lì, ci è stata rivolta la minaccia.

Il mostriciattolo si è assopito molto tempo fa. Credo abbia brontolato un’ultima volta durante l’esame per la patente: l’istruttore era un isterico e un incompetente, parola mia; persino l’esaminatore aveva dovuto dirgli di stare un momentino calmo e di lasciarmi fare.

Di Lilla e di Mario ne ho appena parlato, dunque possiamo andare avanti.

 

Ieri pomeriggio, dopo esser passata in un negozio di articoli sportivi, per trovare una corda d’ottima qualità - non ho mai dimenticato la promessa fatta a Nevrè - ho chiesto alla Svenna se volesse venire con me, a conoscere il luogo di cui le avevo tanto raccontato. Mi son sentita rispondere che, se ci avessi messo ancora un po’ a chiederglielo, mi avrebbe mollata... chissà se scherzava - scherzo. Così abbiamo lasciato Ben ai nonni - tanto non c’era scelta: l’avevano di nuovo sequestrato; e poi è ancora troppo piccolo per la Cascata e la sua storia.

Mano nella mano come due ragazzine, Svenna e io ci siamo incamminate.

L’ho portata dapprima al mulino, così che potesse vedere coi suoi occhi fisici la struttura-rifugio della mia infanzia e adolescenza. 

Le ho svelato il segreto di quel luogo, ovvero l’incendio: era stata colpa mia, ora posso anche dirlo. Non l’avevo fatto apposta, ovviamente: stavo bruciacchiando qualche filo d’erba secca, tendomeli in mano, ma mi erano scappati per un soffio di vento; da una roba grande come un pallone da calcio, era diventato l’intero campo nel giro di qualche minuto, dato il vento che tirava quel giorno. Non aveva fatto troppi danni, perché da una parte c’era il torrente, dall’altra il sentiero di terra battuta. Fino ieri, lo sapeva solo la Patrizia.

Tornando lì, giorni dopo, avevo visto fra i verdissimi germogli nuovi una coppia di carboni... un po’ carbonizzati, ancora aggrovigliati per l’atto. Anni dopo, parlandone col mio terapeuta, era uscito fuori che la cosa avesse contribuito ai miei disturbi comportamentali, alle mie ansie e al mio disturbo post traumatico da stress... incredibile. Ovviamente quello ricopriva solo una piccola parte, nel tutto, dal momento che ben altri fattori, soprattutto nell’estate di Nevrè e dopo, mi avevano arrecato danni ben più gravi.

Svenna e io siamo passate, come dicevo, davanti al ‘‘buon cittadino’’. Lei, non capendo che lui non voleva semplicemente che la gente andasse dalla Cascata, ma pensando a un insulto perché ci tenevamo per mano, gli ha mostrato il medio. Il Luigi è filato dritto in casa, a chiamare i Carabinieri - non li ho ancora visti... poveri cristiani: chissà quante decine di migliaia di chiamate, in tutti questi anni...

Poi gliel’ho spiegato, eh, che non è un omofobo, ma solo un... buon cittadino.

 

Ci siamo inoltrate nel bosco, che in questi anni si è fatto a dir poco selvaggio: nessuno lo sta curando e molti alberi, soffocati dagli altri, si sono seccati in piedi. Ci ero stata, l’ultima volta, una decina di anni prima e già allora avevo cominciato a intuirne il destino.

«E’ lugubre», ha mormorato Svenna, rabbrividendo appena.

Le ho fatto un cenno, per concordare.

Dopodiché nessuna delle due ha più detto nulla, fino alla Cascata. Lei era impegnata a guardarsi attorno, io a ripercorrere i ricordi. 

 

Arrivando in prossimità delle due spiaggette, per un fugace momento, ho rivisto Nevrè, seduta sulla sua solita pietra a contemplare chissà che cosa.

Tornando lì, come ogni altra volta, mi aspettavo davvero di vederla.

«Aspettami qui», ho detto alla Svenna. «Cambio la corda e torno giù.»

Lei ha guardato un po’ me e un po’ la cima che le stavo indicando, smarrita e preoccupata.

«Starò bene», ho assicurato, prima di darle un bacio.

Lei ha stretto le labbra, come ogni volta che non è sicura se le mie siano o meno delle buone idee. Alla fine, comunque, ha annuito.

Da quando era diventata mamma si era fatta più apprensiva; non la biasimo, dato che anch’io mi sono molto calmata e fatta più responsabile.

 

Sono arrivata su, passando per il sentiero nel bosco. 

Il vento ha cominciato a soffiare, richiamando a sé suoni e immagini lontane.

Guardando giù ho visto una giovanissima me, che brontolava e che lavava un calzino. 

Di fianco a me, Nevrè ha esclamato: ‘‘Ti piace parlare da sola!’’

Da sotto, l’altra Andrea: ‘‘Che cosa stai facendo? Parli per caso italiano?’’

E Nevrè: ‘‘Sì, parlo un po’ di italiano!’’

Poi sono svanite entrambe, in un nuovo soffio di vento, dissolvendosi e tornando al passato a cui appartengono; lassù sono rimasta solo io, laggiù è rimasta solo Svenna. 

Le ho fatto segno che andasse tutto bene e mi sono messa a cambiare la corda che, probabilmente, avrebbe retto ancora qualche annetto. Ma non sapevo quando avrei avuto occasione di tornare, e poi ormai ero lì.

 

Stavo osservando compiaciuta il risultato, arrotolando la corda vecchia per portarmela via e buttarla nelle immondizie, quando un luccichio ha catturato l’attenzione della mia visione periferica.

Ce n’erano tanti, di luccichii, invero, dal momento che ero accanto a un corso d’acqua; ma quello lì era in qualche modo diverso... più fioco e artificioso.

Mi sono avvicinata, capendo che proveniva dalla parte più stretta della scanalatura nella roccia, allontanandosi dalla cascata.

Mi sono inginocchiata e ho infilato il braccio, non riuscendo a capire che cosa fosse solo con gli occhi, dato che da quella nuova prospettiva era piuttosto buio.

Dapprima ho toccato qualcosa di estremamente liscio e bagnato, poi una superficie più concava, anch’essa bagnata. Due materiali diversi, ma nessuno dei due mi è parso pietra o roccia.

Già mentre lo stavo afferrando, avevo cominciato a farmi un’idea; tirandolo fuori, ho visto che effettivamente non mi ero sbagliata: era un barattolo. In parte ricoperto di muschio e di calcare, ma integro.

Prima ancora di poter formulare la bozza di un pensiero riguardo l’inquinamento, ho visto che sul tappo c’era stato inciso qualcosa. L’acqua aveva levigato e cancellato, ma si potevano ancora intuire delle lettere.

L’ho scosso: dall’interno è venuto un suono leggero e un po’ appuntito, ma nulla che mi dicesse che ci fosse qualcosa di davvero duro, al suo interno.

Stavo per mettermi a grattare il calcare, per vedere di capire meglio, ma Svenna mi ha chiamata, preoccupata perché ero sparita completamente dalla sua vista.

Sono tornata subito verso la cima e le ho fatto capire che stavo scendendo.

 

«Che cos’è?»

«Vorrei saperlo», ho risposto, rigirandomelo fra le mani. «Dimmi, me lo sogno, oppure qui si può intuire il mio nome?»

«C’è scritto ‘‘Andrea’’, senza dubbio», ha confermato Svenna, osservandolo attentamente e curiosamente. «Chi può averlo lasciato?»

«Vorrei sapere anche questo. Se solo riuscissi ad aprilo... Niente, torniamo a casa e proviamoci là, magari con qualche attrezzo.»

Sì, perché il vetro si era così deteriorato e colorato che, anche grattando via il calcare, rimaneva bianchiccio e continuava a nascondere l’eventuale contenuto. Il tappo, tra calcare e ruggine, era impossibile da aprire. 

 

Le due spiaggette stavano per scomparire dietro di noi quando, d’improvviso, ho avuto l’istinto di voltarmi... e meno male!

«Amore, guarda!», ho esclamato, prendendola per mano e invitandola a girarsi.

Era da vent’anni che aspettavo quel momento... ma alla fine, con qualcuno che non sapevo neppure esistesse fino a cinque anni prima, ero riuscita a vedere gli infiniti arcobaleni...

 

«Che faccio, lo spacco?», ho chiesto ai presenti - il papà, la Patrizia e la Svenna; Ben era con la Lilla e il Massimo, dato che era stato il loro turno di sequestrarlo.

«Decidi tu, tesoro», mi ha detto la Patrizia. «E’ destinato a te. Da molto tempo, sembra.»

«Spaccalo! Un colpo secco!», ha esclamato papà, forse persino più curioso di me, agitando il bastone.

Svenna ha semplicemente annuito, guardando un po’ l’oggetto e un po’ la finestra, oltre la quale si vedevano i tre, intenti a giocare a palla.

«Bon», ho sospirato, avvolgendolo nello straccio e alzando il martello.

«Che c’è scritto?», ha chiesto papà, che è stato il primo ad accorgersi del foglio - rivestito di quello che sembrava scotch; chiunque fosse stato, aveva preso ogni precauzione, affinché si conservasse.

L’ho preso su.

«Non so, ora te lo dico...» 

«Allora?», mi ha esortata papà.

«Amore, lasciala fare», ha consigliato la Patrizia, poggiandogli la mano su quella che lui aveva sul legno ricurvo.

«E’ di... Nevrè...» ho esalato, incredula.

Papà non voleva saperne, ma la Patrizia è riuscita a trascinarlo via, per darmi un po’ di privacy.

«Vuoi un momento?», mi ha chiesto Svenna, dolce.

L’ho presa per mano e le ho chiesto di rimanere. Anche nella vita di coppia, il singolo ha e deve avere i suoi segreti, ma quello non era uno di quelli.


 

Chère Andrea,

 

temo proprio che dopo non verrai... 
Ho questo fortissimo presentimento da tutta la notte e quasi non mi ha fatto dormire. 
Ho preso un barattolo e ci metterò dentro questa lettera per te, nel caso i miei timori dovessero rivelarsi fondati. Se ti vedrò arrivare, però, lo nasconderò e tu non saprai mai nulla, perché non servirà, oui? Così non saprai mai che ho dubitato di te... Scusa xD
Voglio che tu sappia che ho passato proprio dei bei momenti con te, nonostante tutte le tue assurdità e il tuo essere matta da buttare via la chiave ;)
Ero tutta sola col fantasma del mio dolore; ma sei arrivata e hai dato un altro senso a quegli ultimi tre giorni e a quel bellissimo posto fuori dal tempo, di questo ti sono tanto grata.

Ti scrivo qui la mia e-mail. Aspetterò con ansia tue notizie! 

 

Ti sto abbracciando <3

 

- Nevrè 

 


«Devo essere gelosa?», ha scherzato Svenna.

Ho mandato fuori una risatina a scoppio, rendendomi conto fosse umida.

«Uh, Signor...» ho sbuffato poi. «Mi sono commossa...»

«Lo vedo... Non fare così...» e ha preso a sfregarmi la schiena.

«E’ che per vent’anni mi sono mangiata il fegato, per non essere riuscita a dirle addio...» Ho tirato su col naso. «Per vent’anni, questa lettera è rimasta là, in attesa di essere trovata. Vent’anni, Svenna... ti rendi conto? Sai quante volte sono tornata lassù, a cambiare la corda? Non l’avevo mai visto...»

«Mi piace pensare che solo ora fosse il momento giusto. Anzi, ne sono sicura.»

«Perché dici?»

«Pensaci: se tu l’avessi trovata prima, magari saresti volata in Francia o chissà dove, invece che in Canada... non ci saremmo mai conosciute. Un effetto farfalla che sono felice tu non abbia mai attivato prima.»

Mi sono girata e l’ho baciata, per poi tenermela stretta, provando il desiderio di non separarmi più da lei.

 

«Hai una mail da scrivere», mi ha detto, dandomi un bacio sulla guancia e cercando i miei occhi. «Sono vent’anni che aspetta di essere scritta.»

Ho fatto di sì con le testa e ho riletto le poche righe.

«Pensi mi dovrei firmare col nome intero - Andreana Paolina Ghirrì - o come Andrea o, ancora, solo Apg?»

La risposta la lascio come l’ha detta, senza tradurla - tanto ci ha pensato lei - perché mi spacca:

«Dude, the fuck? Cazzo dici?», ha sbottato, ridendo e radunando le dita.

Visto? Alla fine ha imparato come usare il gesto!

Sono innamorata pazza di lei, soprattutto perché mi ribalta. Adoro il fatto che un momento sia lì, tutta ninnina... e quello seguente diventi una bestia! Mi uccide... non ci posso fare niente.

Comunque non ero seria: volevo solo smorzare il momento e fare la cretina. E’ ovvio che avrei firmato solo col mio nome... come mi ha conosciuta.

 

Un’ora fa, più o meno, Nevrè mi ha risposto.

Fino all’ultimo l’ho creduto inutile, invero, perché in vent’anni ne succedono di cose e se ne cambiano di indirizzi. Ma lei aveva aspettato, sicura che prima o poi le avrei scritto.

Anche lei è caduta precocemente nella trappola del matrimonio ed è pure mamma: due gemelli identici, come lo erano lei e Nicole.

Mi ha raccontato di essere tornata una sola volta qua in Friuli; una settimana col marito e i figli, in occasione del compleanno suo e di Nicole. Tornata dalla Cascata - dopo aver appeso una collanina con una tartaruga (non l’ho vista; forse è caduta o qualcuno l’ha presa su) aveva visto che il barattolo era ancora dove l’aveva lasciato otto anni prima. Non l’ha rimosso e non ha provato a cercarmi, ha solo sperato nel caso. E il caso, dodici anni dopo, aveva risposto all’appello.

Ora finisco di scrivere e le allego tutto il PDF di questo racconto nella risposta: varrà più di mille spiegazioni.

Voglio che sappia cosa lei abbia significato per me e mostrarle quanto sono felice e appagata con la mia famiglia, ora più grande e unita che mai.

 

E’ arrivato il momento. C’è un’ultima cosa che devo scrivere, solo una. Riguardo qualcuno di cui non ho più parlato...

 

Dopo l’episodio degli antidepressivi, Lucrezia ha cercato di essere una madre più presente: le domeniche uscivamo tutti insieme, per la pizza; i compleanni li passavamo insieme, così come i Natali e i Capodanni.

Le riunioni sono diventate chiamate, che sono diventate SMS, che sono diventati cartoline dalla Sicilia, che sono diventate... silenzio.

Sono diciott’anni che Pietro e io aspettiamo di sapere dove sia Lucrezia, nostra madre.

Cinque anni fa, mentre scrivevo di quell’estate, avevo ancora un’idea romantica di quella donna, ero ancora innamorata come solo una figlia può essere innamorata della propria madre. 

Mi ero detta che ero stata io a scegliere il papà, la Patrizia e la Lilla: non è mai stato vero. Forse me n’ero convinta perché, una parte di me, sapeva già allora che avrei ottenuto in cambio solo rifiuto.

Scrivendo del suo ritorno, mi ricordo, ho riportato fedelmente i fatti, come avevo fatto fino a quel punto... ma a parte le mie idee, le mie idealizzazioni e le mie riflessioni, cosa c’è di lei? Cosa si capisce di Lucrezia, del suo carattere? Quello che ho capito io: niente. Non c’era davvero nulla da dire. Quella parte è asettica e distaccata, non sembra la descrizione di una madre e di una figlia che si ritrovano... Sul finale ho scritto che ‘‘abbiamo parlato delle nostre robe’’ ... Io, ho parlato e pianto, lei non mi guardava neppure in faccia, limitandosi a qualche ‘‘sì’’ ogni tanto.

Nonostante tutto, come ho detto prima, il testo l’ho solo corretto: non ha senso cambiare quello che fu il mio sentire, per quanto patetico e disperato.

I farmaci erano sbagliati, questo è stato dimostrato; ma non sono mai stati i farmaci o i suoi disturbi: è sempre stata lei, che non ha mai voluto essere madre. Chiaramente, sono serviti due figli, per capirlo.

Oggi dubito persino che Brizio il Tizio sia davvero esistito - a Cividale nessuno l’ha mai sentito nominare (l’ho cercato, perché cercavo lei) - e chissà quante altre bugie, mi aveva rifilato quella sera, chissà se stava già progettando di sparire per bene... chissà se, quella volta, quella settimana, fu solo una prova, prima del gran finale.

Cinque anni fa ero solo ancora figlia, ora sono anche madre... e riesco a vedere le cose per come stanno.

‘‘«Il sangue non è così forte, (...), spesso non significa nulla: le persone dobbiamo sceglierle, affinché per noi sia davvero possibile amarle o farci amare da loro»’’*, scriveva una che si firmava Esmeralda; forse non riesco a condividere totalmente la sua visione, ma ora credo d’aver capito la sua rabbia, perché è la mia: violenza, fisica o psicologica, sempre violenza rimane.

 

Alla fine, in questa storia c’era davvero un fantasma: il suo amore.

 

 

 

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N.d.A: Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.

‘‘IL PICIUL’’ (Cap. 5-6) non esiste: è stato inventato per la storia e pensato per ricordare un famoso giornale; significa ‘‘piccolo’’.

Nessun francese è stato maltrattato durante la stesura di questo lavoro... non si può dire lo stesso della lingua, mi rendo conto. Je suis désolé.

* E’ un riferimento a un mio lavoro, in parte già pubblico e in parte inedito (la seconda parte, che però è un prequel) dato che ci sto ancora lavorando; il discorso compare e comparirà in tutte e due le parti.


Rivolgo un ringraziamento speciale alla dolcissima e forte donna, nata sotto il magico segno dei Pesci, a cui mi sono liberamente ispirata per creare il personaggio - come direbbe Andrea - della Patrizia.

 


-Agp.

 

  
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