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Autore: Adeia Di Elferas    25/07/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bartolomeo D'Alviano non riusciva a non ripensare allo sguardo triste che sua moglie Pantasilea Baglioni gli aveva dedicato nel momento in cui aveva capito che l'avrebbe lasciata a Conegliano e non l'avrebbe portata con sé in Romagna.

Il condottiero si sentiva in colpa, specie perché nelle ultime settimane, pur non essendo mai andati oltre a qualche breve stretta di mano, lui e la consorte stavano cominciando a conoscersi meglio e ad andare davvero d'accordo. Che tra loro potesse scoccare la passione o accendersi un interesse reciproco concreto, per il momento, era fuori discussione, almeno per l'uomo, ma la compagnia l'uno dell'altra era stata una piacevole costante dell'ultimo periodo.

Anche se Pantasilea era al sicuro e non sarebbe stata di certo raggiunta dal fratello Giampaolo – il che era sempre il suo più grande cruccio – l'Alviano aveva la sensazione di abbandonarla a se stessa in un mondo denso di pericoli.

Malgrado tutti questi rimorsi morali, però, era stato proprio Bartolomeo, quando aveva saputo della morte del papa, ad accettare all'istante il consiglio di Fabio Orsini, di lasciare il servizio dei veneziani e di mettersi in prima linea per ribaltare lo strapotere dei Borja.

Non era stata tanto la voglia di aiutare Pandolfo Malatesta, che l'aspettava non lontano da Rimini per riprendere la città, quanto più un riflesso sentimentale, che l'aveva portato ad ascoltare le parole di Fabio molto di più di quello che avrebbe fatto se il suo cognome non fosse stato Orsini. Anche se era una cosa stupida, per Bartolomeo era un po' come se la sua prima moglie, la sua amatissima Bartolomea, cercasse di dargli un'indicazione per tramite del parente.

“Quando ci fermeremo per la notte?” chiese a un certo punto uno dei quindici cavalieri che lo seguivano.

La giornata stava volgendo al termine, e il sole calava all'orizzonte, anche se il caldo di quella fine d'agosto non demordeva nemmeno per un istante.

“Voglio arrivare a Cesenatico presto.” disse il condottiero, parlando lentamente per far sì che la sua povera lingua non si aggrovigliasse come spesso faceva, da che era stato ferito: “Cavalchiamo ancora due ore e ripartiamo prima dell'alba.”

Avvezzi al suo stile di vita spartano e ordinato, gli uomini che lo seguivano non ebbero nulla di ridire, e solo un cavallo nitrì in segno di impazienza. L'Alviano era soddisfatto dei soldati che aveva con sé e sperava che aiutare il Pandolfaccio fosse solo l'inizio di un riscatto che aspettava ormai da anni. A volte ripensava ancora a come lui e la sua prima moglie fossero stati a un soffio dall'uccidere i giovani Borja e, quindi, dal distruggere sul nascere quel diabolico castello di carte che il papa aveva creato grazie al Valentino...

Tutto quello che poteva fare era cercare di rimediare dando tutto se stesso per distruggere quanto creato dal pontefice e da Cesare. Una volta che si fosse rifatto una posizione solida, allora avrebbe tenuto Pantasilea sempre con sé, difendendola com'era suo dovere di marito fare e, con l'aiuto di Dio, si sarebbe sentito di nuovo un uomo degno di farsi chiamare tale, come quando era sposato con la sua adorata Bartolomea.

 

Caterina si passò una mano sulla fronte, e lisciò ancora una volta la lettera di Giambattista Tonello, come se le fosse indispensabile per capire ancora meglio le parole di quel suo partigiano che, di concerto con Numai e con altri, la invocava e la pregava di ritornare a Imola e a Forlì.

La Tigre non poteva certo non dirsi tentata dal rispondere subito e con toni entusiastici, assicurando la sua partenza, la sua disponibilità a guidare un esercito e ritornare in Romagna... Ma era una donna abbastanza intelligente da capire che quelle, per ora, erano solo fantasie. C'erano ancora troppe cose da definire, e troppe incognite legate al nuovo papa. Cosa poteva fare lei, in concreto, quasi senza soldi e senza più né un titolo né un aggancio sicuro a Roma?

Galeazzo era partito e con lui Scipione e la Sforza sperava che, tramite loro, almeno Bologna si dimostrasse un appiglio stabile, ma per il resto tutto era ancora fumoso e confuso. La donna sperava che il figlio potesse trovare il modo di sussurrare le parole all'orecchio della cugina Ippolita Sforza, che, come tutti ormai sapevano, aveva molta influenza sul marito, Alessandro Bentivoglio, che, a sua volta, cominciava a influire molto sulle scelte del padre, Giovanni Bentivoglio.

Galeazzo era sveglio e sapeva bene quale fosse il suo compito, e Caterina confidava nel fatto che sua nipote Ippolita fosse una giovane acuta e pragmatica, come veniva descritta da tutti, ma anche dai modi dolci, all'occorrenza, e potesse quindi vincere un po' la timidezza del Riario, portandolo a esprimersi con lei in modo diretto e schietto.

Se almeno lui fosse riuscito a ingraziarsi Bologna, la Tigre avrebbe potuto ragionare meglio sul caos che imperversava in Romagna.

Tonello scriveva che a Imola, più ancor che a Forlì, in molti aspettavano di sapere chi sarebbe stato il nuovo pontefice, prima di schierarsi apertamente per questa o quella fazione. Alcuni, addirittura, invocavano il ritorno di Antonio Maria Ordelaffi almeno a Forlì, anche se la sua presenza sarebbe stata sinonimo di una fortissima ingerenza da parte di Venezia. Altri volevano Caterina e solo Caterina. Altri ancora volevano chiunque, tranne Caterina. La maggior parte, però, ancora non si decideva.

Stando a quello che riportava Tonello, il Commissario Generale in Romagna di Firenze, ossia Giovan Battista Ridolfi, stava cercando di spingere molto affinché i forlivesi propendessero per la Leonessa e non per l'Ordelaffi. Alla milanese non dispiaceva affatto quest'indicazione, tuttavia si chiedeva cosa Firenze si aspettasse in cambio da lei, per una simile pubblicità.

Non sapendo più cosa pensare, venuta in parte meno la distrazione che le dava Galeazzo nel far addestrare Bernardino e Giovannino – che, lasciati senza la guida del fratello maggiore, passavano buona parte del tempo a rincorrersi e fare la lotta – la Tigre decise di provare a cercare una attimo di pace in compagnia di Pier Maria.

Il bambino era sempre tranquillo e di rado si lamentava per qualcosa. Non aveva ancora un anno, ma dimostrava una viva intelligenza e il suo profilo si stava facendo sempre di più un misto di quelli della madre e del padre, quindi per la Sforza era un po' come riavere con sé Bianca.

Congedata la balia, che dichiarò di voler usare quel momento libero per riadattare un abito di Sforzino, diventato ormai un po' stretto, la Leonessa restò sola con il nipote che, stremato dal caldo ancora asfissiante, non riusciva a dormire.

Catturata in fretta la sua attenzione, la nonna iniziò a raccontargli una delle storie che più erano piaciute anche alla Bianca bambina, quella di Bianca Maria Visconti. Ricordava molto bene quando narrava le vicende della bisnonna alla figlia, quando ancora vivevano a Roma. Era uno dei pochissimi momenti in cui era riuscita a trovare una breve connessione coi suoi tre figli maggiori da piccoli.

Anche il De Rossi sembrava apprezzare molto e, anche se era ovvio che non potesse capire appieno la storia, ogni tanto emetteva un gorgoglio o un versetto di apprezzamento, specie quando la Leonessa cambiava voce per imitare il forte Francesco Sforza o lo scostante Filippo Maria Visconti.

“Allora? Ci sono novità?” chiese Caterina, quando vide entrare in stanza Fortunati, che teneva lo sguardo basso, con espressione seria.

L'uomo aveva aspettato un po', prima di andare a cercare la milanese, dopo aver ricevuto e letto una missiva da parte dei Salviati. C'erano alcune novità che doveva condividere con lei, ma da un lato temeva il momento in cui gliene avrebbe parlato, perché conosceva la natura della sua amante e immaginava che alcune delle notizie che le avrebbe riportato l'avrebbero gettata nell'agitazione più totale, facendole dapprima desiderare la battaglia, l'impeto e la furia e poi facendola deprimere, nel momento in cui si fosse resa conto ancora una volta della propria momentanea impotenza.

“Da Firenze stanno passando alcuni Cardinali diretti a Roma per il Conclave, ma i Salviati non mi hanno specificato chi di preciso, tranne il Cardinale Ippolito Este...” iniziò a dire Francesco.

“E come mai il suo nome l'hanno fatto?” chiese la Tigre, un po' stupita: “Pensano che possa favorire in qualche modo la nostra causa?”

“Anche volendo, dubito che potrebbe farlo...” rispose il piovano, scuotendo il capo: “A quanto pare è caduto da cavallo, a Montebuono, e la bestia gli si è rovesciata addosso, rompendogli una gamba...”

La Sforza, che pur non credeva molto che un ferrarese avrebbe spinto troppo per il Della Rovere come nuovo papa – malgrado, in linea teorica, dovesse avere più interesse all'elezione di Giuliano che di un romano o, peggio ancora, di uno straniero, francese o spagnolo che fosse – rimase comunque contrariata da quella notizia.

“Sembra che stia abbastanza bene, ma si è fermato a Firenze, per curarsi...” concluse Fortunati.

“Immagino ci sia altro, che tu debba dirmi.” lo incalzò allora Caterina, dando distrattamente una carezza a Pier Maria, che la guardava in ansia, quasi percepisse la sua tensione: “Non credo che la gamba rotta di un Cardinale ti preoccupi tanto...”

“Dicono che Giampaolo Baglioni abbia lasciato Firenze...” cominciò allora il fiorentino.

“Non sapevo nemmeno che si nascondesse in città...” ribatté la donna, con tono d'accusa, quasi a voler rimproverare Francesco per non averle fatto sapere prima quel dettaglio che, per lei, in fondo, aveva una rilevanza relativa.

“Lui e suo cugino Gentile... Hanno fatto ricostruire il ponte di Chigi sul Chiana – spiegò il piovano, cercando di essere rapido, per evitare domande e reazioni scomode – e si sono diretti con trecento fanti e cento cavalli verso Castiglione e da lì, forse, alla torre di Beccatiquello...”

“Vuole riprendersi Perugia?” chiese Caterina, fredda.

“Così sembra.” annuì lui.

“E Firenze lo aiuterà?” chiese ancora lei, guardando verso il nipotino, che aveva ricominciato a giocherellare, mettendosi in bocca il cavaliere di legno che gli aveva lasciato suo zio Galeazzo.

“Così sembra.” ripeté Francesco.

“E il Pandolfaccio si sta per riprendere Rimini.” sospirò la Leonessa.

“Sempre che riesca ad andare oltre Cesenatico... Pare che abbia saccheggiato il porto, ma la città potrebbe non dichiarare la resa... Troppi l'hanno odiato, quando ne era signore...” ribatté Fortunati.

“Intenderesti dire che capiterebbe lo stesso anche a me? Mi sono fatta odiare troppo?” lo pungolò la donna.

“In realtà...” l'uomo sapeva di non poter tacere quel genere di cose a Caterina, anche se avrebbe preferito poterlo fare, per tenerla tranquilla: “In realtà Firenze vorrebbe puntare su di te per fare della Romagna una terra amica della Signoria.”

“Che intendi dire, di preciso?” chiese lei, dimenticandosi per un istante di Pier Maria che, confuso dall'improvvisa disattenzione della nonna, aveva aggrottato la fronte per qualche secondo, tornando poi a giocherellare da solo.

“I Dieci di Balia, anche tramite Machiavelli, stanno prendendo contatti sempre più frequenti con Giovan Battista Ridolfi, che è il Commissario Generale per Firenze in Romagna, per capire quanto spazio di manovra ci sarebbe per rimetterti a capo di Imola e Forlì, magari usando Ottaviano come alfiere, ma tenendo te come vera regnante.” disse il fiorentino, rapido e secco come un barbiere intento a estrarre un molare dolorante.

“Mi darebbero un esercito..?” domandò la Tigre, posando una mano sulla testa bionda di Pier Maria, per farlo stare in silenzio, mentre attendeva la risposta.

Il piovano sollevò le sopracciglia: “Io questo non lo so...”

“Voglio vedere i Dieci.” dichiarò la donna, ferma: “Li voglio vedere il prima possibile. Vogliono che io sia una loro serva in Romagna? Staremo a vedere. Mi diano un esercito, e riprenderò Imola e Forlì. Quello che sarà poi, lo decideremo io e loro parlandone di persona. Non esiste che loro decidano per me e mi usino come un burattino...”

Il piovano, che temeva una presa di posizione simile, alzò entrambe le mani e la pregò, con tono quasi supplice: “Ragiona, Caterina... Non prendere sempre tutto di petto... Non sappiamo nemmeno che papa sarà eletto...”

“Faremo eleggere Giuliano. Sarà anche più facile del previsto, se Firenze ci aiuterà. E Giuliano non mi potrà certo ostacolare...” fece lei, cercando di non alzare la voce, sia per non far agitare il nipotino, che la fissava in silenzio, sia per evitare che qualcuno entrasse nella stanza per controllare che stesse accadendo: “Siamo parenti, in fondo.” soggiunse, ricordandosi anche di come, molti anni addietro, il Della Rovere fosse stato l'unico a concordare con lei, all'aggravarsi della salute di Sisto IV sulla necessità di fare qualcosa, pur contro il volere di Girolamo Riario.

“Hai passato anni a gettare fango sui Riario...” cominciò a dire Fortunati, e a quelle parole, la Tigre ringhiò con tutta la sua veemenza, senza più curarsi né di Pier Maria né di eventuali curiosi.

“Sono i Riario che hanno gettato fango su di me! Sono loro che mi hanno rovinato la vita!” sbottò e poi, sempre accaldata, ma appena più controllata, proseguì: “Il mio erede designato, Galeazzo, porta quel cognome. È un dato di fatto. Giuliano non potrà rifiutarsi di agevolare un suo cugino in un momento in cui ha bisogno del sostegno di chiunque.”

Il piovano stava per ribattere di nuovo, ma la Sforza non aveva alcuna voglia di ascoltarlo. Capiva la sua cautela, ma vi vedeva dietro anche il classico modo di pensare e agire di un uomo di pensiero e non d'azione. Se lei era riuscita a mantenere il controllo di uno Stato da sola, per anni, era stato anche perché, quando ce n'era stato bisogno, aveva saputo agire.

“Organizzami un incontro coi Dieci di Balia e basta.” concluse quindi lei, prendendo in braccio Pier Maria, quasi che fosse un gesto adatto a sancire la fine della discussione: “Voglio vederli il prima possibile.”

“Non ti riceveranno mai.” provò a ribattere Francesco.

“E perché no? Sono loro, alla fine, che mi hanno tirata in mezzo...” la voce di Caterina era ferma, quasi ironica, mentre Fortunati si era fatto ancor più cupo.

“Perché sei una donna e loro, comunque, vorrebbero che fosse Ottaviano a guidare un eventuale esercito e non...” iniziò a dire lui, ma venne subito fermato.

“Vogliono Ottaviano, ma pretendono che poi sia io a gestire tutto quanto...” sbuffò la Leonessa: “Io sono entrata alla Signoria, anche se le donne là non possono andare... Andrò anche dai Dieci di Balia. Non mi spaventano. Ho affrontato uomini ben più pericolosi di loro... Organizza l'incontro e basta.”

“Altrimenti?” chiese il fiorentino, più per provare a prendere ancora tempo, che non perché intendesse davvero ribellarsi a un ordine della sua amata.

“Altrimenti – rispose la milanese, ormai alla porta, col nipotino stretto al collo – scordati di passare la notte nella mia camera per un bel po' di tempo...”

 

Giampaolo Baglioni aveva la spiacevole sensazione che il tempo stesse scorrendo troppo veloce, così veloce da non poterlo afferrare nemmeno con la punta delle dita. Tutto concorreva contro di lui, benché si fosse mosso il prima possibile.

Aveva lasciato Firenze con il cugino Gentile non appena era stato certo che il papa fosse morto, eppure non era stato abbastanza veloce a fare tutto il resto. Prima aveva dovuto ricostruire il ponte di Chigi, poi da Castiglione era stato alla torre di Beccatiquello, da lì era corso a Panicale e poi a Magione, dove aveva dovuto fermarsi, in attesa dei rinforzi promessi sia da Firenze sia da Siena.

Quella, forse, era stata la pausa fatale. Carlo Baglioni aveva saputo della sua presenza e l'aveva sfidato in campo aperto a San Manno. Battere Carlo sarebbe stata la soluzione a tutti i suoi problemi, dato che era lui, al momento, ad avere in pugno Perugia... Ma Giampaolo aveva potuto solo sfilarsi, evitando lo scontro, non avendo soldati a sufficienza per reggere un confronto e, nottetempo, si era messo in marcia per Marsciano. Solo una volta arrivato lì era stato raggiunto dagli – sparuti – aiuti promessi, portati da Francesco Dei Barzi, Ludovico Oddi, coi suoi soldati di Foligno, e uomini di Piero Del Monte.

Aveva ordinato le fila, si era incamminato verso Torgiano, sicuro che là lo aspettasse Baldassarre Signorelli, ma non poteva esserci marcia sufficientemente veloce per vincere contro lo scorrere incessante del tempo.

A Roma, lo sapeva bene, si stava preparando il Conclave. Doveva essere ormai questione di giorni, e le chiacchiere davano per vincente un francese, il Cardinale d'Amboise, che avrebbe fatto da protettore dei Borja, mantenendone, per certo, il dominio in centro Italia.

Che poteva fare, a quel punto? Invece che cercare di riprendersi il perugino, avrebbe dovuto dare un disperato assalto a Roma? E per far eleggere chi? Un Orsini, sperando che la famiglia romana ricordasse il vecchio legame matrimoniale tra il suo attuale cognato Bartolomeo D'Alviano e la defunta Bartolomea Orsini? Doveva sperare in uno spagnolo, che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di cancellare ogni opera borgiana dalla faccia della Terra? O magari un ligure, un Della Rovere, una carta inattesa, che avrebbe riportato lo status quo? O, perché no, un Medici, che avrebbe fatto di Roma una piccola Firenze?

“Voglio che mio cognato ci raggiunga subito.” disse, quella sera, davanti al fuoco da campo, guardando le fiamme: “Alla fine gli ho concesso di sposare mia sorella Pantasilea solo per potermi servire di lui in guerra, in caso di bisogno.”

Il cugino Gentile, che era un po' meno in pena di lui in quei giorni, sollevò le sopracciglia e domandò: “Credi sia una buona idea? Non sta già aiutando il Pandolfaccio a Rimini?”

“Il Pandolfaccio è stato rifiutato dalla città... Dagli qualche giorno, al massimo una settimana, e capirà che la sua campagna è fallita, e mio cognato sarà libero.” ribatté il Baglioni: “Con lui sarà più facile... Sa come muoversi, davanti a una città chiusa...”

“Vuoi usare la sua abilità in un assedio? Credevo avremmo attirato Carlo fuori Perugia, per sfidarlo lontano dalle mura e...” cominciò a dire Gentile, ma il cugino scosse il capo.

“Io non so più nulla – disse, incrociando le braccia sul petto – so solo che le nostre speranze potrebbero finire con l'elezione di un nuovo papa e quindi voglio fare qualcosa, qualsiasi cosa, prima che il Conclave si riunisca e si sciolga eleggendo un nuovo Pietro...”

“Allora chiama qui Bartolomeo. Non ti dirà di no.” concluse Gentile, con tono di ovvietà.

Giampaolo fece un sospiro pesante e poi, più confuso di prima, malgrado sentisse di aver già preso la decisione, si alzò e borbottò: “Vado a dormire. Il sonno è un pessimo consigliere, anche in guerra...”

 

Pandolfo Malatesta si scostò una ciocca di lunghi e unticci capelli neri dal viso e poi si abbassò a bere un po' d'acqua direttamente dal secchio del pozzo.

Ora che era di nuovo in una città – Pesaro, e non Rimini, purtroppo – avrebbe dovuto tornare a farsi avvezzo a modi più civili, ma non aveva né voglia né tempo per aspettare che qualcuno gli porgesse un calice. Aveva sete, era stanco ed era arrabbiato.

I riminesi non l'avevano voluto e avevano avuto il coraggio di respingerlo con le armi e non solo con le invettive. Forse avrebbe potuto aver la meglio su di loro, specie avendo a dargli manforte Bartolomeo D'Alviano, Giampaolo Manfrone e Filippo Albanese, ma poi come avrebbe fatto a mantenere l'ordine?

Tutto ciò che era riuscito ad agguantare, in quei folli giorni di marcia e battaglia, erano i proventi del saccheggio di Cesenatico. Se non altro, aveva razziato abbastanza cibo e denaro da sfamare e soddisfare il suo esercito per qualche tempo, ma poi, come avrebbe fatto a placarli?

L'unica cosa sensata che sentiva di poter fare era riorganizzare le truppe, scoprire esattamente chi stesse guidando la resistenza a Rimini e poi attaccare di nuovo, questa volta tentando il tutto e per tutto.

Tuffò una mano nel secchio e si buttò un po' di acqua sul viso, per rinfrescarsi, dopo quella giornata di sole cocente. Quell'agosto sembrava non finire mai. Da che era morto il papa, poi, il Malatesta aveva la sensazione che il sole mordesse con ancor più ferocia, quasi che il defunto Borja volesse vendicarsi su tutti loro tramite i suoi raggi incandescenti.

Pesaro era una città, secondo il Pandolfaccio, allo sbando. Non voleva fermarsi lì più dello stretto necessario. Certo, il grosso problema era che, scaduto l'accordo primario per l'aiuto nel riprendere Rimini, Bartolomeo D'Alviano l'aveva già salutato, per un incarico più remunerato, ossia scortare alcuni dei Bentivoglio in Bologna.

Poteva sempre chiedere aiuto a Venezia... Dopotutto era già indebitato con il Doge fino al collo, uno zero in più o in meno sulle sue cambiali non avrebbe fatto poi tutta questa differenza...

“Mio signore – fece Manfrone, raggiungendolo accanto al pozzo – avete altri ordini, per oggi? O devo chiedere di servire il rancio della sera?”

Il Malatesta, con la barba incolta che grondava acqua, simile a un leone che avesse appena sollevato la criniera dal sangue di una preda, lo guardò per un lungo secondo e poi sussurrò: “Per oggi si serva il rancio e basta. Che domattina tutti gli uomini siano pronti, due ore prima dell'alba, per una rassegna. Voglio ricostruire i ranghi, prima di rimetterci in marcia.”

Il mercenario avrebbe voluto chiedere 'in marcia per dove?' ma si trattenne e, chinando appena il capo, disse solo: “Come comandate.”

 

Caterina era molto più nervosa di quanto non avrebbe creduto di essere. Il viaggio verso Firenze era stato più semplice del previsto, ma abbastanza lungo, e le aveva dato troppo tempo per ragionare sul da farsi.

Paradossalmente, se fosse partita da Castello in sella a un cavallo veloce, galoppando fino in città, probabilmente sarebbe arrivata dai Dieci di Balia senza fiato, ma con ancora la mente lucida e la lingua sciolta, sicura di quello che avrebbe dovuto dire e fare. Il dondolio della carrozza, invece, e le mille raccomandazioni di Fortunati, che le aveva ricordato di continuo di quanto fosse stato complicato farle avere quel colloquio e in così breve tempo, avevano fatto sì che la sua mente si impantanasse sempre di più in dubbi e ansie, tanto che, alle porte di Firenze, quasi fu tentata di chiedere un retro front e tornare alla villa.

Si chiese il perché di quello sprazzo di paura. Prima non avrebbe avuto quel genere di tentennamenti. Era forse perché ora, morto Lorenzo il Popolano, stava finalmente raggiungendo una parvenza di stabilità? Era la sensazione di mettere a rischio quella specie di tranquillità che aveva trovato alla villa, dopo aver recuperato anche Giovannino?

La Leonessa si stava ancora interrogando silenziosamente, quando dovette scendere dal calesse e farsi guidare fino alla sala in cui i Diedi di Balia l'avrebbero accolta.

Mentre avanzava a passi distesi, sentendo la voce che l'annunciava, Caterina ebbe la sensazione di presentarsi alla giuria di un processo, più che a un organo di Stato che fosse lì per collaborare con lei.

Gli uomini che le stavano davanti, assisi ciascuno su di un alto scranno, la fissavano in silenzio, in modo tanto torvo che la Tigre, suo malgrado, si trovò ad abbassare lo sguardo. Era così tesa che non aveva focalizzato nessuno dei loro volti. Se anche in mezzo a loro ci fosse stato qualcuno di noto, non se ne sarebbe accorta.

Benché nessuno parlasse, si sentiva giudicata. In quel momento si pentì di aver raccolto i capelli bianchi alla guisa fiorentina, e di non averli lasciati sciolti, così come aveva sempre fatto in vita sua.

Si domandò se quegli uomini la trovassero vecchia e grassa, diversa dalla donna che era sempre stata loro descritta, di versa, anzi, irriconoscibile rispetto a quando si era presentata alla Signoria, alla vigilia della campagna del Valentino, per metterli in guardia con una minaccia.

Nervosamente, si prese una mano nell'altra e si schiarì la gola, ma, appena prima che riuscisse a dire una parola, una voce che riconobbe all'istante, chiese: “Non avete nulla da dire? Avete chiesto voi questo incontro...”

Quasi felice di poter avere in interlocutore non sconosciuto – per quanto a lei poco gradito – la Sforza finalmente alzò gli occhi, seguendo la direzione della voce, e trovò quelli un po' sporgenti di Machiavelli.

Tronfio nel suo ruolo, felice di essere nel manipolo di uomini che potevano in parte decidere le sorti di Firenze, Niccolò la squadrava dall'alto al basso, con un mezzo sorriso di scherno, eppure, tra tutti, era stato l'unico a decidere di rompere il silenzio e l'aveva fatto anche per venire in soccorso della Leonessa. Malgrado l'antipatia reciproca che li aveva sempre allontanati, nel profondo la stimava e dunque non voleva metterla inutilmente in difficoltà. Senza contare che la milanese serviva a Firenze più di quanto probabilmente lei stessa comprendesse, quindi non era il caso di spaventarla oltre.

“Ho chiesto questo incontro – prese allora la parola Caterina, continuando a fissare Machiavelli, come se nella stanza ci fossero solo loro due – perché so che volete rimettermi a Imola e a Forlì.”

Ci fu un breve brusio che Niccolò, ormai padrone della discussione, mise a tacere con un cenno della mano, per poi rivolgersi di nuovo alla donna: “Stiamo solo valutando se sia opportuno favorire una vostra restaurazione.”

“Potevate interpellarmi, comunque.” ribatté pronta la Tigre, sentendo un po' del vecchio ardire tornare a scorrerle nelle vene.

“Il nostro Commissario a Forlì sostiene che voi possiate essere una buona scelta – riprese Machiavelli, cauto – nella vostra stessa persona o in quella di vostro figlio Ottaviano... Ma non ci è ancora chiaro se la popolazione vi acclamerebbe o vi caccerebbe, com'è successo qualche giorno fa a Pandolfo Malatesta a Rimini...”

La Leonessa incassò quella notizia senza fare una piega, benché dentro di sé si sentisse morire. Le importava relativamente la sorte del Pandolfaccio, ma in quel caso specifico una sua riuscita sarebbe stata una fiamma di speranza anche per lei. Sapere che la riconquista di Rimini era fallita per il dissenso popolare, la spense un po'.

Tuttavia, allargando le spalle, sporse in fuori il mento e, ostentando una gran sicurezza di sé, fece notare: “I forlivesi mi vorrebbero, così come gli abitanti di Imola.”

“Ne siete sicura?” il tono di Niccolò parve quasi speranzoso, più che canzonatorio, come si sarebbe invece attesa la donna.

“Certo.” annuì lei, ferma.

“Eppure quando il Duca Valentino vi ha attaccata, la popolazione vi si è ritorta contro a Imola e vi ha abbandonata a Forlì...” fece presente il fiorentino: “Qualcuno dice che al momento sarebbero più propensi a farsi comandare da Antonio Maria Ordelaffi, che non da voi...”

“Mettersi sotto l'Ordelaffi sarebbe come mettersi nel pugno del Doge!” sbottò la Tigre, sorvolando sulla prima parte del discorso di Niccolò.

“Intanto, visto che siete qui, diteci se sareste disposta a collaborare con Firenze in questo senso, perché se, invece, avete deciso di fare la nonna e mettervi a cucire davanti al camino, come sarebbe giusto per una donna, specie della vostra età, allora cercheremo altrove...” tagliò corto il fiorentino.

“A quarant'anni una donna come me non ha ancora voglia di mettersi a cucire davanti al camino, Machiavelli.” ribatté Caterina, aspra: “Datemi un esercito, e riconquisterò Forlì in un giorno.”

“Non correte.” sospirò Niccolò: “Comunque abbiamo inteso le vostre proposizioni e ne siamo lieti.”

La Tigre si accorse solo in quel momento che il discorso era concluso. I Dieci di Balia, uno dopo l'altro, le fecero un breve cenno col capo, e poi arrivarono due guardie armate e la scortarono fuori dalla sala.

“Voglio degli incontri regolari con questi dieci idioti.” fece la Leonessa, non appena fu di nuovo con Fortunati, che aveva atteso per tutto il tempo sotto al porticato, in fibrillazione.

“Com'è andata?” chiese lui, apprensivo.

“Hai sentito quello che ho detto?” ribatté lei, rabbiosa, incredula di essere stata liquidata tanto in fretta da una nullità quale era Machiavelli: “Vai da loro e fissami un altro incontro. Voglio essere messa costantemente a parte di quello che fanno. Se usano il mio nome, lo voglio sapere. Non sono una bambola di pezza da usare e gettare secondo il loro capriccio...”

Siccome Francesco restava lì immobile, le labbra appena schiuse, forse incerto se dire qualcosa o meno per provare a calmarla, Caterina non riuscì più a trattenersi.

Sfogando la frustrazione sull'unico uomo su cui in quel momento poteva riversare ogni suo malessere, esclamò: “Muoviti! Corri a sentire quando potrò tornare qui a discutere! Così poi potremo tornare alla villa... Non ho più voglia di stare a Firenze...”

Fortunati, non avendo né il coraggio né la forza per contrastarla, si morse il labbro e partì per eseguire quanto ordinato.

Solo in quel momento, rimasta sola, la donna si rese conto di quanto caldo facesse, di quanto sole ci fosse, di quanto lo sterco dei cavalli in terra, poco lontano dalla carrozzina che l'attendeva, puzzasse e soprattutto di quanto lei si sentisse stanca e sudata.

Era così presa da tutte quelle sensazioni che, nel sentire dei passi alle sue spalle, fu così certa che si trattasse di Fortunati, da parlare prima di accertarsi dell'identità dell'uomo che l'aveva appena raggiunta: “Allora? Quando avrò il piacere di parlare ancora con quei dieci idioti?”

“Per quello dovete aspettare che torni quell'asceta di quel vostro pretino...” ribatté Machiavelli, a voce bassa, arrivandola accanto: “Ma vi consiglio di stare attenta alle parole che usate... Siamo a Firenze, non a Forlì. Qui se sentono una donna parlare come facevate voi nella vostra rocca, non reagiscono bene.”

La Leonessa si maledisse per essere stata tanto leggera, ma poi si accigliò e chiese: “Perché siete qui?”

“Tra me e voi non c'è mai stata molta amicizia.” iniziò a dire Niccolò, sussurrando, gli occhi bassi e il capo un po' chino: “Ma a volte bisogna mettere da parte le proprie propensioni e decidere in base alle convenienze e credo che al momento convenga a entrambi essere in accordo.”

“Parlate.” gli concesse la milanese, trovandosi d'accordo con lui.

“Firenze non può rischiare, checché ne dicano gli altri, di trovarsi Venezia in Romagna. L'Ordelaffi a molti piace, perché lo ritengono un fantoccio molto più manovrabile di voi, ma proprio perché è così, il Doge, che ne è il protettore, lo userà contro di noi alla prima occasione.” riassunse Niccolò, parlando in fretta, ma assicurandosi, con uno sguardo ogni tanto, che la sua interlocutrice lo seguisse e lo capisse: “Fate quindi in modo che vostro figlio Ottaviano o chi per lui si dimostri un uomo sufficientemente valido affinché Firenze si senta avvantaggiata nel fornirgli il necessario supporto per riprendere sia Imola sia Forlì.”

“Lasciando stare i miei figli, ci sono io.” si propose Caterina.

“Forlì, in particolar modo, deve acclamare a furor di popolo il nuovo governo... E sappiamo entrambi che voi non sareste acclamata a furor di popolo. Non vi si lascerebbe nemmeno fare due giri di piazza su tre, probabilmente.” sospirò Machiavelli, sistemandosi con una mano il ciuffo ribelle di ricci scuri.

“Questo lo dite voi.” rispose Caterina, offesa.

“Questo lo pensa la maggior parte della gente e quindi è la verità per il pensare comune. E Firenze non ha abbastanza mezzi e forze per mettersi contro il pensare comune.” disse l'uomo, allargando appena le braccia: “Pensateci. Al prossimo incontro ne discuteremo meglio.”

Detto ciò, le fece un inchino ossequioso ai limiti del sarcastico, e la lasciò. Fortunati, che stava tornando, fece in tempo a vedere solo quella mossa e la smorfia della Tigre.

“Cosa voleva?” le chiese, mentre l'aiutava a salire sul calesse: “Cosa ho appena visto, di preciso?”

“Hai visto una volpe che cerca di rendere appetibile l'uva alla tigre affinché l'aiuti a prenderla in cambio di qualche chicco.” borbottò la Sforza: “Andiamo a casa, sono stanca.”

“Vuoi passare da San Lorenzo, sulla tomba di Giovanni?” chiese, premurosamente, il piovano.

La donna ci pensò un attimo e poi scosse il capo: “No. Voglio andare a casa. Giovannino mi aspetta...”

   
 
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