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Autore: Adeia Di Elferas    06/08/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Galeazzo era stato messo in attesa in una delle sale del palazzo dei signori di Bologna. Da un lato, le spesse pareti di quella dimora lo stavano difendendo dal caldo tremendo che ancora attanagliava la città, ma dall'altro, proprio la loro coriacea corazza lo stavano come isolando dal resto del mondo, in una bolla di silenzio e trepidazione che gli incuteva timore.

Il Riario era un po' in pensiero all'idea di incontrare Ippolita Bentivoglio. Era stata la cugina a chiedere di vedersi da soli, e il Riario era stato felice di quell'invito, che gli aveva evitato l'imbarazzo di farsi avanti per primo per chiedere un abboccamento. Tuttavia, l'intraprendenza della giovane, che aveva la stessa età di sua sorella Bianca, aveva quasi spaventato il ragazzo.

I Bentivoglio erano stati scortati a Bologna giusto il giorno prima da Bartolomeo d'Alviano, che era, si diceva, ripartito immediatamente per raggiungere la Toscana, dove avrebbe dovuto ricongiungersi col cognato, Giampaolo Baglioni, probabilmente per poi marciare alla riconquista di Perugia.

Galeazzo aveva inizialmente sperato di poter incontrare direttamente Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, ma questi aveva dato precedenza a un altro ospite, molto più illustre di lui, ossia il Marchese di Mantova, Francesco Gonzaga.

Questi era arrivato in città con cinquanta armigeri e duecento altri uomini tra stradiotti e cavalleggeri. Era stato Giovanni Bentivoglio stesso a chiedere di poterlo ospitare qualche giorno in Bologna, nel suo palazzo. Non capitava tutti i giorni, in fondo, di poter avere sotto al proprio terro il comandante delle truppe italiane che il re di Francia stava inviando a Napoli contro gli spagnoli.

Galeazzo aveva sentito dire che il Gonzaga, però, già il giorno del proprio arrivo, aveva manifestato qualche sintomo di malaria, anche se ciò non aveva impedito al Bentivoglio di dedicarglisi completamente.

In realtà il Riario aveva avuto mandato, da parte della madre, di parlamentare in primis con Ippolita, quindi le cose stavano andando meglio del previsto, anche se al giovane avrebbe fatto piacere confrontarsi con il signore della città in persona. Sperava che, prima della fine della sua missione diplomatica, si riuscisse comunque a organizzare un incontro e, in quel caso, avrebbe fatto sì che anche suo fratello Cesare presenziasse.

Era da molto tempo che stavano lontani, ma, seppur con una certa freddezza, avevano ritrovato in fretta una discreta confidenza. Discorso diverso, invece, per Ottaviano, che in quei giorni era vicino a Piacenza e non aveva voluto sentire ragioni, rifiutandosi in ogni modo di raggiungerli a Bologna.

Galeazzo si stava ormai perdendo nei suoi pensieri, quasi incapace di misurare il tempo che stava trascorrendo ad aspettare la cugina Ippolita, quando sentì un leggero sferragliare di armature e, subito dopo, la voce di una giovane dire: “Siete mio cugino, vero? Perdonatemi, se vi ho fatto attendere, non ho potuto liberarmi prima...”

Il Riario fece un profondo inchino e accettò la mano della cugina, per baciagliela. Ippolita guardava con curiosità a quel giovanotto di quasi diciotto anni, cercando in lui qualche tratto comune al proprio volto. In fondo, era figlio di sua zia Caterina, era plausibile riscontrarvi qualche somiglianza.

Galeazzo aveva un bel viso, il naso greco e uno sguardo vivo e intelligente, con due iridi di un verde molto acceso. Aveva i capelli abbastanza corti, castano chiaro, appena mossi, e le guance, per quanto ben rasate, tradivano qualche rado accenno di barba biondiccia.

Aveva un bel fisico, era alto e slanciato, muscoloso, ma armonioso, come qualcuno che avesse passato buona parte della propria vita a fare esercizio fisico, ma senza mai esagerare in una o nell'altra disciplina.

Le sue mani, quando avevano preso quella di Ippolita, si erano dimostrate forti e gentili allo stesso tempo. Di certo, pensò la Sforza, quello era il diamante su cui sua zia Caterina avrebbe potuto puntare e non il fratello maggiore, Ottaviano, che lei aveva solo intravisto, e di cui, pur ammettendone una certa bellezza di fondo, aveva notato solo ed esclusivamente lo sguardo spento e il corpo sfatto.

“Come trovate Bologna?” chiese la moglie di Alessandro Bentivoglio.

“Una città molto bella.” rispose il Riario, con serietà: “Somiglia molto più di Firenze alla mia città natale, in Romagna... In Toscana ci sono solo cipressi e statue...”

“Cipressi e statue...” sorrise la Sforza, trovando piacevole il tono profondo della voce del cugino e particolare il suo modo di descrivere la terra che l'aveva ospitato: “Vostra madre sta bene?” chiese.

Mentre le rispondeva, asserendo che la madre stava bene, anche se soffriva molto per la situazione che si era creata dopo la caduta di Forlì, Galeazzo osservò con attenzione la cugina.

Gli ricordava molto sua sorella Bianca, anche se aveva un tratto meno delicato. Aveva un che inestricabile di sua madre Caterina e anche di sua nonna Lucrezia, eppure non avrebbe potuto dire che assomigliasse né all'una né all'altra. Aveva il volto luminoso, le labbra rossissime sempre pronte a inarcarsi in un sorriso, e la sua postura tradiva una sicurezza di sé quasi spaventosa. Malgrado fosse abbastanza minuta e dai tratti fini, quella giovane donna emanava un'aura di potenza e sfrontatezza pari a poche altre.

Il Riario aveva sentito dire che anche lei, come la Tigre di Forlì, da ragazza avesse combattuto, per difendere la sua città, Casteggio, dagli invasori. Si raccontava che, spada in mano ed elmo in testa, avesse sbaragliato da sola interi manipoli di uomini, dovendo poi soccombere solo perché lasciata al suo destino da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi alleati.

“So che avete avuto da poco una figlia – si ricordò Galeazzo, subito dopo aver terminato il resoconto dei malumori materni – state bene? Vostra figlia sta bene?”

Il parto, avvenuto circa due mesi prima, per Ippolita era già un ricordo lontano. Già dopo pochi giorni si era ripresa e lei e suo marito Alessandro avevano già ricominciato a dedicarsi l'uno all'altra ogni volta che ne avevano occasione.

“Mia figlia Ginevra sta benissimo, grazie a Dio.” annuì lei e poi, con un ampio gesto della mano, fece strada al cugino, dicendo: “Ma ora andiamo a sederci e parliamo delle cose che contano davvero: la guerra e la politica.”

Quell'ultima affermazione strappò un mezzo sorriso a Galeazzo che, all'improvviso, trovò una somiglianza più che spiccata tra sua cugina Ippolita e sua madre Caterina.

Con naturalezza i due cugini instaurarono subito una notevole intesa e discussero molto a lungo della situazione dell'Italia in generale, di Roma in particolare, per poi passare alla situazione delle rispettive famiglie, cercando di capire quali fossero concretamente i loro margini di manovra e cosa andasse detto e fatto prima per cercare di riacquistare una posizione centrale nello scacchiere della penisola.

Senza accorgersene, i due giovani avevano fatto quasi arrivare la sera, tra una dissertazione e l'altra, e proprio mentre stavano tornando alla questione più importante e urgente di tutte, ossia il Conclave, una serva dall'aspetto mortificato arrivò nella sala, fece un profondo inchino, scusandosi, e andò a bisbigliare qualcosa all'orecchio di Ippolita.

La donna ascoltò in silenzio, stringendo le labbra con un certo disappunto e alla fine disse: “Può occuparsene anche mio marito. Sto parlando di questioni importanti.”

La serva sembrava interdetta, così Galeazzo, per gentilezza, scosse il capo e provò a dire: “Se dovete andare, lo capisco... Possiamo continuare il nostro discorso anche domani.”

“Non ce n'è bisogno.” rispose la Sforza, congedando la domestica e aspettando che uscisse, prima di spiegare: “Mia figlia Ginevra, la più piccola, sta piangendo da un po', ma sappiamo che sono solo i fastidi normali di ogni neonato... Ha solo pochi mesi, basta consolarla un po' e aspettare... Qui abbiamo cosa più importanti di cui parlare.”

Il Riario arrossì violentemente e, prima di trattenersi, mise la cugina a parte di un suo ricordo d'infanzia: “Anche mia madre faceva spesso così...”

“E..?” chiese Ippolita, curiosa.

“Per certi versi ci ha insegnato determinati principi, ma d'altro canto... Per un bambino non è semplice capire perché un genitore lo metta in secondo piano rispetto alla politica.” ammise lui, con un'alzata di spalle.

Quell'affermazione rabbuiò un attimo Ippolita che, quando parlò, cambiò argomento: “C'è qualche giovane, nel tuo cuore?” chiese a bruciapelo, toccando una tematica che fino a quel momento non era stata nemmeno sfiorata.

Colto alla sprovvista, il ragazzo scosse la testa e rispose: “No.”

In realtà la Sforza aveva posto quella domanda primariamente per capire se nella mente del cugino ci fosse già una donna con cui formare una famiglia e, quindi, mettere in pratica uno stile d'istruzione ed educazione dei figli fatto o meno a impronta di quello utilizzato dalla Tigre. La risposta del Riario, però, la portò a indagare un pochino di più.

Aveva sentito dire – erano pettegolezzi decisamente secondari e che le erano arrivati per purissimo caso – che Galeazzo non era mai stato promesso a nessuna e che, a quanto si vociferava, fosse molto diverso dalla madre, in tema sentimentale. Era difficile capire come certe voci su di lui e sulla sua apparente inesperienza fossero uscite da una casa isolata come la villa di Castello, ma così era, e anche a Bologna qualcuno tra i pettegoli più incalliti a volte ne discuteva, trovando ironico il confronto con la famigerata fame della Leonessa di Romagna.

Così la Sforza pose qualche piccola domanda, con tono casuale, senza essere aggressiva, e capì in fretta che le voci sul Riario erano più che fondate. Di per sé non sarebbe stato un problema, ma nella società in cui vivevano quella notoria ingenuità di Galeazzo lo avrebbe potuto penalizzare. Se qualcuno, per esempio, avesse voluto proporre una figlia come sua sposa, di certo avrebbe potuto farlo credendolo un uomo più facile da raggirare... Di conseguenza avrebbe potuto attrarre qualche malintenzionato che, in estremo, avrebbe potuto addirittura usarlo per arrivare a sua madre Caterina per qualche motivo...

Desiderosa di fare qualcosa per avvantaggiare il cugino e la zia, Ippolita, con discrezione, quando stavano per congedarsi, provò a dire: “Bologna è una città molto ospitale... Se volete, vi farò indicare qualche posto in cui divertirvi stanotte... O, volendo, potremmo far arrivare qui a palazzo qualcuno...”

Il Riario, capendo anche troppo quale fosse lo scopo della cugina, scosse il capo e, con grande fatica, ma senza recedere minimamente, ribatté: “No, grazie. Al momento non ho intenzione di accettare questo genere di proposte. Non me la sento.”

Intenerita dall'espressione imbarazzata di Galeazzo, la Sforza sorrise comprensiva e abbandonò in fretta l'idea di potersi vantare di essere stata colei che aveva contribuito a rendere il Riario uno Sforza a tutti gli effetti.

“Quando mi hanno fatto sposare Alessandro – iniziò a dirgli, con tono confidenziale e con lo sguardo basso – avevo molta paura di tutto quello che il matrimonio avrebbe portato con sé. Sono stata fortunata, però. Lui è un uomo comprensivo e buono, mi ha permesso di fare come preferivo e ha aspettato che io fossi pronta.”

Galeazzo la osservò per un lungo istante, aprì la bocca, ma poi tacque, proprio quando si trovò sul punto di far notare che per un uomo era diverso, perché il mondo aveva una precisa visione di come dovesse comportarsi e se una sposa poteva essere scusata, anzi, poteva essere addirittura vista con tenerezza dal mondo se cercava di sottrarsi ai doveri coniugali e veniva assecondata dallo sposo, a parti inverse lo sposo sarebbe come minimo stato tacciato di essere impotente o di preferire un altro genere di compagnia.

“Ognuno ha i propri tempi.” sospirò Ippolita, sollevando una mano, quasi a impedirgli di dire cose spiacevoli di sorta: “So che sarete in grado di dimostrare il vostro valore, quando sarà il momento.”

Detto ciò, il Riario comprese che l'incontro si stava concludendo e così domandò: “Potremo parlare ancora come oggi, prima che io parta da Bologna?”

“Troveremo il modo di farlo.” annuì lei: “Intanto discuterò con mio marito delle cose più interessanti che siamo detti e farò il possibile per far sì che i Bentivoglio siano amici non solo degli Sforza, ma anche dei Riario.”

Il giovane fece un profondo inchino e la ringraziò per l'ospitalità, per l'ascolto e per l'amicizia offerta.

Ippolita accettò i ringraziamenti e sussurrò: “Ora vado da mia figlia Ginevra... Quello che mi avete detto riguardo l'impegno politico di vostra madre mi ha fatto pensare. Anche se non intendo abbandonare la vita pubblica, posso provare a conciliarla meglio con quella privata.”

“Un tentativo è sempre meglio di nulla.” concordò Galeazzo e, con un ultimo ringraziamento, si lasciò accompagnare fuori.

 

Mentre raggiungeva il perugino, dopo essersi congiunto con il cognato Bartolomeo a Marsciano, Giampaolo Baglioni aveva sentito dire che Dionigi Naldi, dopo essersi impossessato della Val di Lamone, avesse ceduto suddetto territorio a Venezia e non a Firenze, come in molti si aspettavano.

In quell'ottica, pensava il Baglioni, forse gli abitanti di Perugia sarebbero stati più propensi ad arrendersi a lui, visto che i rapporti tra l'Alviano e Venezia erano ancora buoni: forse i nobili della città avrebbero capito che il Doge stava facendo sempre più proseliti in centro e sud Italia e avrebbero favorito un signore non inviso alla Serenissima.

La corsa verso Perugia, però, era stata vana. Carlo Baglioni, infatti, si era in fretta asserragliato dentro le mura, chiudendo fuori il parente e il suo esercito, e così Giampaolo aveva ripiegato su Spello. Malgrado l'intervento congiunto di l'Alviano e Ludovico Degli Atti, Spello non si era piegata e così il condottiero, per tenere calme le truppe, aveva permesso loro di razziare il bestiamo nei pressi di Castel Delle Forme, dopo aver messo a sacco il paese stesso, che si era rifiutato di consegnarsi volontariamente al Baglioni.

Quel giorno, mentre ancora si occupava di suddividere equamente i proventi dei saccheggi, Giampaolo venne raggiunto da una delle sue spie, che lo informarono che Muzio Colonna stava per giungere in soccorso di Carlo Baglioni, passando dal passo di Bastia Umbra o da quello di Collestrada. A quel che pareva, l'idea era quella di stringere in una morsa Giampaolo, facendolo attaccare dal Colonna frontalmente mentre Carlo lo avrebbe preso di spalle.

L'occasione era troppo ghiotta, per non afferrarla al volo. Cogliendo di sorpresa i nemici e scompaginando i loro progetti li avrebbe indeboliti e avrebbe quindi sferrato il suo, di attacco.

“Voglio che mettiate dei blocchi al passaggio – ordinò il perugino, a Ludovico Degli Atti, che aspettava disposizioni – uno al passo di Bastia Umbra e uno al passo di Collestrada.”

“Dobbiamo portare anche i cavalleggeri?” chiese il condottiero.

Il Baglioni ci ragionò un secondo e poi, con un sospiro, rispose: “Non credo che Muzio cercherà lo scontro. Appena vi vedrà, proverà a cambiare strada. Prima proverà un passo e poi l'altro, e a quel punto avrà già perso da un bel po' l'appuntamento con Carlo.”

“E quindi quanto dobbiamo aspettare prima di rompere il blocco?” chiese Ludovico, cercando di capire il da farsi.

“Vi farò raggiungere da mio cognato Bartolomeo, quando sarà il momento. Dai due passi, correrete verso di noi. Ci riuniremo e attaccheremo Perugia.” concluse Giampaolo, con sufficiente sicurezza di sé da convincere anche il prudente Degli Atti.

 

Il 29 agosto a Firenze erano arrivati quattromila fanti svizzeri, che erano stati fatti alloggiare fuori dalle porte della città, per motivi di ordine pubblico. Erano stati mandati dal re di Francia, per dar man forte alle truppe che già combattevano al sud contro gli spagnoli e, quando lo venne a sapere, Caterina ne fu molto felice.

“Non capisco come mai tutta questa allegria nel sapere che Luigi sta mandando altri uomini a Napoli...” borbottò Fortunati, dopo che la Tigre si era fatta portare del vino per brindare a quello che a lui sembrava solo un fatto come un altro legato a una guerra che per loro era lontana e poco importante.

“Ma non lo capisci?” fece lei, versandosi tre dita di trebbiano e sorridendo: “Se il re sta spendendo così tanto per continuare la sua guerra al sud, significa che gli importa molto poco del Conclave a Roma... O avrebbe usato i fondi che aveva non per quattromila svizzeri, che costano un patrimonio, ma per influenzare i voti a Roma!”

Il piovano, che in effetti non aveva pensato a quell'aspetto della situazione, sporse in fuori le labbra e poi guardò verso Sforzino, chino sui suoi libri, senza dire altro.

Erano nella sala delle letture, e fuori, malgrado il caldo asfissiante, il cielo si stava facendo nero e minaccioso. Tutto lasciava presagire che di lì a poco sarebbe scoppiato un temporale anche se, in realtà, era da un paio di giorni che a quell'ora si addensavano nubi nere per poi andarsene senza far alcun danno. Proprio per questa sequela di allarmi che non avevano ancora portato a un concreto pericolo, a Bernardino era stato dato il permesso di uscire in cortile assieme a Giovannino, purché venissero controllati a vista dalla balia di Pier Maria e rientrassero nel momento stesso in cui fosse scoppiato un eventuale temporale.

Il piccolo De Rossi, invece, se l'era tenuto Caterina, mettendoselo accanto sulla poltrona in cui si era appollaiata, cercando tranquillità nella sala delle letture con Sforzino e Fortunati. Solo da una mezz'ora si era unito a loro frate Lauro che, sistematosi su alcuni morbidi cuscini davanti alla finestra, aveva preso un libro, e aveva finito per addormentarsi pian piano senza leggere nemmeno una riga, e neppure le chiacchiere della Leonessa e del piovano sembravano poter scalfire il suo sonno granitico.

“Comunque anche Bologna dovrebbe essere dalla nostra parte...” cominciò a dire la Sforza, sorseggiando lentamente il suo calice: “Galeazzo mi ha mandato una lettera, come sai, e mi ha riferito che tra lui e mia nipote Ippolita è nata subito una solida amicizia e lei ha avuto modo di discutere del nostro progetto con il marito, che si è detto disposto a fare il possibile per aiutarci...”

“Abbiamo poco da mettere sul piatto della bilancia, però...” fece notare Francesco: “Finché chiediamo l'aiuto dei tuoi parenti è un conto... Ma Ippolita adesso è una Bentivoglio...”

“Una Sforza resta una Sforza, a prescindere dal cognome del marito.” ribatté aspra Caterina.

Fortunati intravide Sforzino sollevare un momento gli occhi dal suo librone, e, dopo una sonora russata di frate Lauro, si permise di dire: “Certo, ma gli interessi di Bologna sono più ingombranti di un cognome... Giovanni Bentivoglio vorrà qualcosa in cambio. Garanzie, promesse...”

“E noi garantiremo e prometteremo.” fece eco la donna: “Piuttosto, vorrei scrivere a Baccino. Mi servirebbe che mi mandasse più spesso resoconti sui fatti di Roma... Lui lavora in casa di un prelato, ha accesso, da quello che ho capito, a molte notizie e gli fa anche da guardia, quindi sa meglio di altri certi dettagli...”

Grattandosi il mento, lo sguardo che stavolta correva alla finestra, che lasciava intravedere un cielo sempre più nero, il fiorentino provò a opporsi: “Così non lo metterai nei guai? Finora hai sempre voluto che si riducesse al massimo il rischio che qualcuno lo collegasse a te...”

“Il papa è morto, ormai.” gli ricordò, con una certa soddisfazione, Caterina, rivolgendosi poi al nipotino che se ne stava accoccolato accanto a lei: “Vero, Pier Maria? Il papa è morto e noi siamo tutti felici e contenti...”

“Il papa è morto – concesse il piovano – ma suo figlio Cesare no.”

Nel sentire il nome del Valentino, la Tigre si irrigidì di colpo e si fece secca nei toni: “A lui non gliene frega più nulla di tutta questa storia... Non ricorderà nemmeno più dei sospetti che aveva avuto sulla reale identità di Baccino... Senza contare che quel maledetto codardo è ancora malato e potrebbe morire a breve. Gli conviene pregare per la sua anima, piuttosto che importunare il mio amante...”

Ancora una volta, Sforzino sollevò appena lo sguardo dal suo libro, arrossendo appena, per poi tornare alle proprie letture, mentre Fortunati avvampò e parlò senza riuscire a controllare del tutto la propria voce, che si fece acuta e tagliente: “Non trovi imprudente chiamare a quel modo un uomo che era stato nel tuo esercito?!”

“Ho avuto molti amanti, nel mio esercito, quindi non vedo chi potrebbe scandalizzarsi nel sentirmi ammettere che Baccino aveva il permesso di...” iniziò a ribattere lei, ma un tuono profondo e roboante coprì il resto della frase.

Nel giro di pochi istanti, tra le vive proteste di Bernardino, che sosteneva che anche quella volta non avrebbe piovuto, e la voce ancora sottile di Giovannino, che dava ragione al fratello, nella sala delle letture arrivarono i due ragazzini con la balia e con Creobola che, disse subito, era andata fuori a chiamarli quando aveva visto un lampo 'squarciare in due il cielo come la spada del Signore'.

Il tuono aveva svegliato anche frate Lauro, che, colto di sorpresa dalla quantità di gente che vide nella sala delle letture, si accigliò e si mise in piedi, per sgranchirsi un po' le gambe.

La balia riprese Pier Maria, su concessione della Leonessa che sembrava essersi arrabbiata di recente per qualcosa. Come Bossi, anche Caterina si alzò in piedi, calice in mano e disse a Bernardino e Giovannino che, se volevano, potevano andare avanti a giocare lì. Sforzino, per la terza volta, sollevò lo sguardo, ma non disse nulla: anche se tutta quella confusione un po' lo disturbava, gli faceva piacere avere vicino parte della sua famiglia.

“A proposito...” fece a un certo punto la Sforza, guardando il piovano: “Con il papa morto e il figlio morente, Ferrara cosa sta facendo? C'è una possibilità che si schieri con i Borja rimasti? O propenderanno per una sorta di neutralità?”

Francesco sollevò le spalle e schiuse le labbra per dire che, purtroppo, non ne aveva idea, ma fu Creobola a prendere la parola: “No, no, non c'è possibilità che Ferrara si schieri per il Duca.”

Accigliandosi, la Tigre le chiese: “E come fai a dirlo?”

“Sembra che la corte rinneghi il lutto per il papa. Si dice che non permettano nemmeno alla povera Lucrecia di vestirsi pubblicamente a lutto... A me questo pare eccessivo e solo una chiacchiera, ma di certo Alfonso e suo padre non si mostrano addolorati.” spiegò la serva, con aria cospiratrice: “E sembra che la giovane Borja passi le sue giornate chiusa in camera, da sola, in lacrime, piangendo di nascosto il padre, senza che le sia concesso di farlo liberamente, per non irritare il Duca di Ferrara... Passa le serate in compagnia, almeno, delle sue dame... E non solo.”

“Che intendi?” indagò Caterina, incuriosita da quell'ultimo inciso.

“Dicono che l'unico che la consoli sia quel bel Pietro Bembo che dicono abbia fatto impazzire qualche anno fa anche la Marchesa di Mantova...” sussurrò Creobola, gli occhi rivolti ai figli della Tigre, quasi a dire che bisbigliava per non far sentire loro certe sconcezze: “Pare che quel Bembo passi ogni notte con lei e che al mattino lei sembri alquanto sollevata, non so se mi spiego... Salvo poi disperarsi di nuovo nell'attesa che il bel poeta torni a... leggerle poesie...”

La Sforza detestava quei giri di parole e quelle reticenze che spesso venivano usate dalle cortigiane chiacchierone, ma in quel momento le interessava di più conoscere la fonte di tutte quelle informazioni così potenzialmente compromettenti: “Come fai a sapere tutte queste cose?” chiese, con una certa urgenza.

Creobola roteò gli occhi un paio di volte e poi, con il suo consueto modo strambo di dire le cose, fece spallucce e spiegò: “Oh chiacchiere, chiacchiere, mia signora... Se non uscite mai da qui non potete sapere... Mi mandate al mercato una volta a settimana a comprare quel che manca, giusto? E io al mercato compro cibo e ascolto chiacchiere...”

“E il volgo chiacchiera di questo genere di cose?” chiese la Tigre, ricordandosi, però, di come a Forlì avesse, per esempio, sentito mille volte la gente comune profondersi in pettegolezzi su di lei e sulle sue abitudini più private.

“Amori, tradimenti, tresche, figli segreti, bei poeti che sgattaiolano nei letti delle belle future Duchesse di Ferrara... Di che altro volete che parli il popolo?” rise Creobola, alzando di nuovo la voce, tanto che tutti si misero a fissarla: “Di strategie politiche e tattiche belliche? E sì che siete una donna di mondo!”

La milanese, bel lungi dallo scomporsi, le porse il calice di vino da cui stava bevendo e le disse, rapida: “Te lo sei meritato. Finisci pure la caraffa.” poi guardò un istante il piovano: “Vado in camera mia a scrivere un paio di lettere. Questa storia di Ferrara devo appurarla. Se fosse vera, il Conclave sarebbe ancor più a nostra portata...”

 

   
 
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