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Autore: Adeia Di Elferas    15/08/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Semiramide teneva ancora in mano la lettera che le annunciava di come suo fratello, Jacopo IV d'Appiano, avesse ripreso il potere a Piombino, richiamato dal popolo.

Di per sé quella sarebbe stata una bella notizia, e, in senso lato, andava a confermare il vento a tratti entusiasmante che stava soffiando sull'Italia tutta, un vento che prometteva di riportare in auge tutte quelle Signorie che erano state soppiantate dai perniciosi Borja, tuttavia per la vedova di Lorenzo il Popolano quella era solo una chiacchiera in più che la tangeva appena.

Sapeva benissimo che da suo fratello lei personalmente non avrebbe avuto alcun beneficio, né credeva che la sua situazione sarebbe mai migliorata per opera di un qualsiasi altro signore d'Italia intento a riprendersi le proprie terre. Le sembrava tutto un gioco insulso e senza regole, qualcosa che andava saputo, per convenienza, ma che non avrebbe mai influito sulla sua quotidianità.

Suo figlio Pierfrancesco, invece, complice la giovane età, da qualche giorno sembrava essere uscito dalla sua apatia e aver messo momentaneamente un po' da parte i vizi in cui si stava annegando, per interessarsi della politica della città e non solo.

“A che ora torni?” chiese Semiramide, guardando il figlio che si sistemava al fianco, ben nascosto sotto la mantella estiva, un pugnale.

Era contraria, in linea di principio, al fatto che il ragazzo portasse con sé delle armi, ma d'altro canto Firenze si stava trasformando in un porto di mare e non sarebbe stato prudente uscire per strada senza qualcosa con cui difendersi da un'eventuale rissa.

“Non lo so...” fece Pierfrancesco, evasivo: “Credo presto... Ma voglio vedere il corteo del Marchese fino alle porte!”

Francesco Gonzaga era arrivato a Firenze il giorno prima, aveva passato la notte a casa di un soldato del re di Francia, un certo Tovaglia, e quel giorno sarebbe ripartito con il suo seguito. Si trattava di uno spettacolo troppo importante, per il giovane Medici, che aveva subito messo in chiaro che, malgrado il rischio di tafferugli, sarebbe andato a vedere coi suoi occhi non solo il Marchese di Mantova, ma anche i suoi formidabili cavalli, che erano famosi in tutto il mondo.

La madre non si era opposta, sia perché sapeva che sarebbe stato inutile, sia perché conveniva con lui sul fatto che per un giovane uomo fosse importante presenziare a eventi che, forse, un giorno sarebbero stati ricordati come importanti.

Così, soprassedendo anche sulla vaghezza della risposta di Pierfrancesco, l'Appiani, fece un breve sorriso e sospirò: “Stai attento.”

Il giovane fece un cenno con il capo e si avviò verso il cortile interno del palazzo. La donna lo seguì, a passo lento, per non dargli l'impressione di volerlo inseguire, ma si fermò dopo pochi passi, quando sentì le voci dei suoi assistenti legali. Si trattava per lo più di uomini di fiducia ereditati da Lorenzo, e, quindi, non sempre ben disposti nei suoi confronti, avendo lei preso a tratti decisioni diametralmente opposte a quelle a cui si era ancorato il marito per anni.

Con un sospiro pesante, Semiramide si strinse nelle spalle e andò loro incontro: “Seguitemi, vi prego...” disse loro, facendo strada.

Gli uomini parlottavano tra loro, quasi che lei non esistesse, e dalle poche parole che carpì intuì di come si stesse spargendo la voce che anche il Valentino fosse morto. Una notizia così eclatante, però, secondo lei sarebbe arrivata con toni più ufficiali, com'era successo per il papa, quindi decise fin da subito di non darvi peso.

“Possiamo cominciare?” chiese, quando li ebbe condotti tutti nello studiolo.

Svogliatamente, i legali estrassero dalle cartelle in cuoio i documenti che servivano per discutere delle ville di cui ancora il tribunale non aveva disposto con chiarezza la sorte. In particolare, la villa di Careggi non era proprietà esclusiva di Giovanni, quindi per metà era nell'asse ereditario di Lorenzo. I legali avevano cercato di convincere l'Appiani a comprare a prezzo ribassato la metà del cognato, ma la donna non era d'accordo, anche se la comproprietà, visti i trascorsi tra i due rami della famiglia, non era accettabile.

“Ho pensato molto alla questione di Careggi...” fece Semiramide, dopo che uno degli uomini ebbe riassunto una volta di più la situazione: “Madonna Sforza non solo è mia cognata e la madre di mio nipote, ma è anche una cittadina di Firenze...”

I legali si guardarono l'un l'altro perplessi. In altre occasioni avevano avvertito una sorta di simpatia dell'Appiani per la Tigre di Forlì, e questo per loro era irritante, dato che per anni, al servizio di Lorenzo, avevano cercato ogni più piccolo cavallo legale per strapparle la potestà del figlio e, di conseguenze, l'eredità del marito defunto.

“Io non voglio passare per stupida – riprese la donna, seria – e non voglio regalare ad altri le cose che sono mie di diritto. Tuttavia non voglio nemmeno approfittarmi di una povera vedova, in difficoltà come me.”

“Questo è molto umano, da parte vostra, ma...” cominciò a dire uno degli avvocati, ma la padrona di casa lo zittì con un cenno della mano.

“Intendo offrire a mia cognata la possibilità di acquistare la mia parte della villa per quattromilaottocento ducati larghi. Se li pagherà in tempi ragionevoli, sarà sua.” decretò l'Appiani.

I legali si guardarono di nuovo, in modo simile a come avevano fatto poco prima, ma nei loro occhi, quella volta, c'era anche un velo di ilarità.

“Quattromilaottocento ducati larghi?” chiese uno di loro, trattenendo visibilmente le risate: “Vi rendete conto che Madonna Sforza non ha quasi di che mangiare, al momento?”

“Potrebbe riacquistare in fretta potere e i suoi figli potrebbero riottenere i loro Stati in Romagna, che porterebbero loro non meno di diecimila ducati...” scosse il capo lei: “Le lascerò la scelta.”

“E se non dovesse accettare?” chiese allora l'uomo, tornando serio.

“Scommetto che accetterà.” ribatté lei, che, nel profondo, era convinta che la Leonessa avesse ancora una solida rete di amici e amanti in mezza Italia, pronti a farle prestiti a vario titolo che le avrebbero permesso di prendersi quella villa.

“Comunque, calcolando anche i campi e il resto... Metà della villa di Careggi varrebbe ben più di quattromilaottocento ducati larghi...” soppesò a quel punto il legale che poco prima si era quasi messo a ridere.

L'Appiani lo fissò per un lungo istante, poi disse: “L'avete detto voi, o sbaglio, che Madonna Sforza non ha quasi di che mangiare? Le offro il prezzo minimo possibile. Più di questo non posso fare, per venire incontro a una povera vedova che, comunque, è madre di un Medici.”

Detto ciò, Semiramide si alzò e, salutando tutti, ricordò loro di portare quanto prima la sua proposta alla cognata e di farle sapere quale sarebbe stata la sua risposta.

 

Caterina era assorta, seduta in silenzio nel mezzo di una delle stanze più solitarie della villa di Castello. Settembre era iniziato sotto il segno del caldo e sembrava che l'estate, invece di andare a spegnersi pian piano, volesse ricominciare da capo.

La Tigre aveva con delicatezza rifiutato di assecondare le insistenze di Giovannino, che voleva che lo facesse cavalcare, usando la scusa del caldo e sostenendo di essere troppo stanca per stare all'aperto a fare attività fisica. Aveva lasciato che fossero Bernardino e Fortunati a seguire la lezione del figlio, sotto la guida – più esperta – dello stalliere.

Sforzino era con frate Lauro a studiare e per il resto nessuno, in quella casa, aveva il permesso di andare a disturbarla.

Era da qualche giorno che i suoi pensieri la attanagliavano come una morsa e anche di notte, nonostante la presenza assidua e volenterosa del piovano, aveva ripreso a soffrire di insonnia e, quando si addormentava, finiva per sognare Girolamo, il Valentino, le donne massacrate a Mordano o, ancora peggio, il suo Giacomo fatto a pezzi come un animale da macello.

Continuava a pensare alle notizie che arrivavano dal resto d'Italia e da Roma in particolare. Sapeva che Jacopo d'Appiano aveva ripreso Piombino e che domenica 3 settembre Giovanni Sforza era rientrato trionfalmente a Pesaro. Aveva come la sensazione che tutti si stessero riprendendo facilmente ciò che era loro di diritto grazie ai loro eserciti, mentre lei, chiusa tra quattro mura come una carcerata, dipendeva da intrighi e chiacchiere come l'ultima delle cortigiane.

Suo figlio Galeazzo stava facendo un ottimo lavoro a Bologna, ma forse attendere il Conclave per capire se il nuovo papa fosse o meno incline a favorirli era una mossa sbagliata. Ci voleva velocità, ci voleva intraprendenza...

Nel suo piccolo, la Sforza stava cercando di far girare le ruote nel verso giusto, ma non potendo inforcare la sella in prima persona e sguainare la spada, sarebbe davvero riuscita a far sì che altri imbracciassero le armi per lei?

In più l'incertezza che albergava nel suo animo era esacerbata dall'incertezza delle notizie che giungevano quotidianamente da fuori. Addirittura qualche giorno prima era arrivata la diceria che il Valentino fosse uscito da Roma in lettiga, dopo aver stipulato il giorno prima un accordo segreto col re di Francia, e che poi fosse spirato tra le braccia di Taddeo della Volpe, che l'aveva accudito fino all'ultimo, guadagnandosi il permesso di utilizzare lo stemma dei Borja come proprio stemma.

Purtroppo solo la questione dello stemma era vera, e per il resto il Valentino era ancora per certo vivo e vegeto, rifugiato a Nepi, in attesa, come tutti, di sapere il nome del nuovo pontefice che sarebbe uscito dal Conclave.

Come se non bastasse, ormai era questione di giorni prima che sua figlia Bianca arrivasse al termine della gravidanza. Da un momento all'altro avrebbe potuto arrivare una lettera da San Secondo, per annunciare la nascita di un bambino o di una bambina... Nel primo caso, sarebbe stato un grosso problema, nel secondo sarebbe stato più semplice, ma comunque complesso... Inoltre c'era una terza possibilità, molto più drammatica, che la Leonessa non voleva nemmeno provare a prendere in considerazione.

Senza quasi accorgersene, seduta sulla sua sedia isolata dal mondo, la donna si era ripiegata su se stessa come una foglia accartocciata. Si teneva il volto tra le mani e respirava lentamente, sforzandosi di calmare la velocità dei suoi pensieri.

Sobbalzò quando sentì una mano sulla spalla e, vittima di un riflesso condizionato che aveva esercitato fin da bambina, scattò in piedi e cercò il pugnale che aveva ricominciato a nascondere sotto le gonne.

Fortunati, spaventato da quella reazione, sollevò le mani e indietreggiò: “Non volevo spaventarti.”

“Sei più silenzioso di un gatto.” lo rimproverò lei: “Non farlo mai più.” disse, rimettendo a posto l'arma e facendo un paio di lunghi sospiri.

Quasi a volersi far perdonare, l'uomo allungò di nuovo la mano, prendendo quella della Tigre che, in un primo momento, se la lasciò stringere, salvo poi scostarsi e chiedere, secca: “Perché sei venuto a cercarmi?”

“Mi fai passare quasi ogni notte nel tuo letto – si risentì lui, sorprendendo un po' la milanese – e poi mi tratti con questa freddezza...”

Grattandosi il mento, la Tigre ribatté: “Te l'ho detto, mi hai spaventata.”

“Non solo adesso...” fece lui, mordendosi il labbro: “Anche stamattina... Anche ieri, per esempio, quando ho provato a posarti una mano sul braccio e tu ti sei tolta subito...”

“C'era Sforzino.” rispose, pronta, Caterina.

“Credo che i tuoi figli abbiano capito tutti benissimo.” controbatté il fiorentino, piccato.

“Ma i servi no...” disse la Leonessa, conscia quanto lui di come i suoi figli, eccetto Ottaviano e Cesare – e ovviamente Giovannino – avessero capito benissimo tutto quanto: “E credevo fossi tu il primo a voler tenere la cosa solo per noi. La servitù è impicciona e in parte non sappiamo ancora se è dalla nostra parte...”

“A proposito di impiccioni – cambiò discorso il piovano, rinunciando al mezzo scontro che aveva quasi intavolato – non vedo Creobola da tre giorni. Dov'è finita? Volevo chiedertelo prima, ma...”

Siccome la milanese cambiò espressione, mettendosi a fissare un punto indefinito del muro, Francesco si allarmò.

“Caterina... Dove l'hai mandata?” chiese l'uomo, intuendo dal silenzio come vi fosse qualcosa di strano sotto quell'improvvisa assenza.

“Non sono affari tuoi.” furono le parole dure dell'amante.

“Caterina...” riprese lui, paziente, ma fermo: “Se c'entra qualcosa con Forlì e Imola, dovresti dirmelo, o come farò a starti accanto se mi taci cose importanti?”

“Ti ricordi il castellano di Forlì, quello a cui la Signoria mi aveva promessa in moglie senza dirmi nulla?” chiese allora la Sforza, riportando alla mente quella spiacevole parentesi di cui erano stati edotti tramite una breve di Jacopo Salviati.

Il tentativo dei fiorentini risaliva a qualche giorno addietro, da quel che sapevano, ma non aveva portato a nulla, perché malgrado il castellano fosse ritenuto dai più un uomo semplice, messo a Forlì dal Valentino proprio perché facile da manipolare, era improbabile che credesse a una simile profferta. La Signoria aveva solo cercato invano di fargli credere che la Tigre, 'ancora bella, seducente e piena di prestigio' fosse lì pronta a sposarlo, con l'ulteriore incentivo di crearlo Governatore della città, se avesse strappato Forlì al Valentino per renderla alla Leonessa o, ancor meglio, donarla a Firenze.

“Ebbene gli ho mandato Creobola a parlare in vece mia.” rivelò Caterina: “Ecco, a sentire Giovanni Dalamasa, che mi ha scritto da poco, anche il popolo sarebbe a favore... Se io lo sposassi, mi darebbe la città, strappandola al figlio del papa e...”

“Sposeresti quell'uomo?” chiese Fortunati, allibito: “Senza averlo mai nemmeno visto?”

La milanese strinse le braccia sul petto e poi rispose: “Io non mi sposerò mai più, con nessuno.”

“E allora perché hai mandato Creobola a parlargli?” domandò l'uomo, ancor più confuso: “Lo vuoi ingannare? Gli vuoi far credere che saresti disponibile, per poi prenderti gioco di lui?”

“Ho mandato Creobola a Forlì solo per capire quanto c'è di vero in tutta questa storia e, soprattutto, per vedere in che condizioni è la città e se davvero il popolo sarebbe dalla mia parte, se decidessi di marciare in armi in Romagna e riprendermi quel che è mio.” spiegò la Tigre, sempre più nervosa: “Ecco perché non te ne volevo parlare, perché sapevo benissimo che avresti travisato.”

“E ci sono altre manovre di cui non sono stato messo a parte?” chiese il fiorentino, tenendo sempre gli occhi fissi sulla milanese.

“Ho chiesto ad Antenore Giovannetti di andare a Venezia a nome mio e di Ottaviano.” confessò la donna, con la riluttanza di un paziente in attesa di farsi cavare un dente dal barbiere.

“E cosa dovrebbe dire costui al Doge?” domandò il piovano, massaggiandosi la fronte, mentre un fastidioso mal di testa iniziava a farsi sentire.

Si chiedeva come fosse stato possibile che la Sforza avesse messo in atto tutti quei sotterfugi sotto ai suoi occhi senza che lui si accorgesse di alcunché. Forse si era concentrato troppo su Giovannino, anche spinto dalla Leonessa a farlo, e l'aveva lasciata da sola troppo tempo...

“Gli dirà che se Venezia ci aiuta, siamo disposti a fare qualsiasi cosa per loro.” disse Caterina: “In fondo è la stessa cosa che ha promesso loro anche Antonio Maria Ordelaffi, no? Perché a noi dovrebbero negare un prestito e dei soldati?”

“E faresti davvero tutto quello che il Doge ordinerebbe?” si informò il piovano, esasperato: “Ti piegheresti al volere della Serenissima, dopo aver assicurato ai Dieci di Balia che tu saresti esattamente un'alternativa a un servo di Venezia e non il suo alter ego con le sottane?”

“Ovviamente no!” sbottò lei: “Lo sai anche tu che in guerra si possono fare delle promesse ai disonesti, partendo dal presupposto che non si onoreranno. Non bisogna mai essere leali e giusti con chi non lo è. Venezia è un covo di vipere. Sarei una pazza a stringere accordi con loro con l'intento di rispettarli...”

Fortunati stava per ribattere, quando frate Lauro, con il suo consueto sorrisetto serafico, si affacciò sulla porta, dicendo: “Madonna Sforza, ho un messaggio appena arrivato per voi da Firenze. Se avessi saputo che eravate in compagnia, non vi avrei disturbata...”

Il piovano tenne le spalle a Bossi, senza dire nulla, mentre Caterina, a lunghi passi, raggiunse il frate, lo ringraziò e prese il biglietto, congedandolo con un semplice: “Ora lasciatemi in pace...”

Il milanese fece un mezzo inchino, si massaggiò la guancia coperta di radi ciuffi di barba bianca e poi salutò: “Vi lascio in pace, mia signora...”

La Tigre, con un sospiro, tornò alla sua sedia e aprì la lettera, che era stata scritta da Lucrezia Medici in persona. Era, fondamentalmente, un resoconto abbastanza freddo delle ultime novità di Firenze. Quel tono distaccato stupì un po' la Sforza, ma poi si ricordò che la moglie di Jacopo Salviati aveva partorito relativamente da poco e si diceva che la bambina non godesse di ottima salute. Le era bastato avere per figlio Livio, che era stato da sempre cagionevole, per capire quanto in una donna amorevole e attenta come Lucrezia, quel pensiero potesse far diventare tutto il resto un mero dettaglio.

Nel messaggio si parlava in ordine cronologico di molti personaggi illustri passati in città negli ultimi giorni, a partire da Francesco Gonzaga, che dopo una notte appena e ripartito alla volta di Siena, diretto ancora più a sud.

Dopodiché si parlava del Cardinale Giovanni Antonio Sangiorgio, milanese, Vescovo di Parma, Cardinale del Titolo dei Santissimi Nereo e Achilleo, che aveva proseguito la sua cavalcata per Roma senza nemmeno fermarsi a mangiare un piatto di maccheroni o bere un calice di vino. Era uno di quei Cardinali ordinati a suo tempo dal defunto Alessandro VI, pur essendo milanese, e probabilmente a Firenze non aveva voluto passare più del tempo strettamente necessario solo per paura di qualche attacco personale.

Il giorno dopo il passaggio del suddetto, a Firenze era arrivato Monsignor Della Tramoia, alloggiando proprio in casa Salviati, ma ripartendo subito, per andare il più in fretta possibile a Napoli, dove era stato mandato dal re in persona.

Un paio di giorni dopo ancora, fermandosi una notte appena in casa di Giovanni Tornabuoni, erano passati il Cardinale Georges d'Amboise, Arcivescovo di Rouen e il Cardinale Luigi d'Aragona, entrambi creature del defunto Rodrigo Borja. Con loro, lesse con un certo sconcerto Caterina, viaggiava anche il Cardinale Ascanio Sforza. Sapere che suo zio fosse passato da Firenze senza nemmeno avvisarla – per non parlare di passare a salutarla e parlare con lei dell'imminente Conclave – la fece arrabbiare più di quanto fosse lecito.

Infine la Medici sottolineava come il Cardinale Raffaele Sansoni Riario sarebbe stato il Camerlengo del Conclave, nonché il Protodiacono e tutta un'altra serie di cariche le quali, tutte assieme, stavano a significare che il savonese avrebbe avuto nelle sue mani grossomodo l'intera organizzazione, gestione e amministrazione del Conclave stesso.

“Se solo Raffaele fosse un uomo di un'altra pasta – borbottò Caterina porgendo il messaggio a Fortunati, affinché lo leggesse anche lui – avremmo dalla nostra il papa perfetto.”

“E come mai non sarebbe adatto?” domandò, ma senza troppo interesse, Francesco, mentre si accingeva a leggere l'elenco di personalità passate da Firenze.

“Perché Raffaele è bravo coi sotterfugi e a farsi i propri conti, ma se solo dovesse schierarsi apertamente o affrontare a viso aperto una guerra o una qualsiasi faida...” la Tigre sollevò un sopracciglio e, non trattenendo un sorrisetto di scherno, concluse: “Ebbene, in tal caso credo che una tonaca bianca non sarebbe molto adatta perché mostrerebbe subito a tutti i risultati della sua paura.”

Comprendendo solo in un secondo momento a cosa alludesse la donna, il piovano fece un'espressione schifata e provò a riprenderla con un debole: “Caterina, ma che volgarità... Come ti vengono in mente certe cose..?”

“Ho vissuto per anni in mezzo ai soldati.” ribatté lei, andando verso la porta: “Credi che non abbia mai visto un uomo farsela nelle brache dalla paura? È evidente che non sei mai stato in battaglia...”

Il fiorentino borbottò qualcosa, mentre finiva di leggere la lettera di Lucrezia Medici, ma tornò a farsi comprensibile solo quando, arrivato ai saluti e alla firma, chiese: “Io, comunque, se fossi in te, a questo punto, visto che è tuo cugino Raffaele ad amministrare il Conclave, aspetterei di saperne l'esito, prima di rischiare di compromettermi con il castellano che ti vorrebbe a Forlì come sua sposa...”

Ormai quasi all'uscio, la Leonessa si voltò e strinse gli occhi in direzione di Fortunati: “Lo sai che non ti si addice?”

“Cosa?” chiese lui, confuso.

“Essere geloso.” ribatté lei: “Non abbiamo quel genere di rapporto.”

Interdetto, Francesco ripiegò la lettera e mosse un paio di passi verso l'amante, domandando: “E che genere di rapporto avremmo?”

“Lo sai...” rispose la milanese, già pentita di aver affrontato il discorso.

“No, evidentemente non lo so.” insistette lui.

“Che diamine, Fortunati...” sospirò lei, stanca: “Sai benissimo che ho scelto te perché ero convinta che non mi avresti mai fatto problemi, docile come sei...”

“Docile.” fece eco lui, fermo come un alabastro.

“Sono stanca, e nervosa. Non discutiamo, per favore...” concluse lei, allungando una mano e sfiorando la guancia dell'amante: “E comunque stai tranquillo: non sposerò più nessuno, mai più, di questo puoi essere sicuro.”

A quel punto il piovano poté solo annuire debolmente e guardare la Tigre uscire dalla stanza, lasciandosi alle spalle un grande silenzio e una profonda inquietudine.

 

Giovambattista Tonello ringraziò Caterina Paolucci per il vino che aveva portato e poi tornò a guardare il di lei marito, l'anziano Luffo Numai, che restava mesto e con lo sguardo basso.

“Non potete restare insensibile a questo progetto...” disse Tonello, allibito dinnanzi all'improvvisa riottosità di colui che era stato per tanti anni uno dei più importanti e fidati uomini della Tigre di Forlì.

“Non sono insensibile...” sospirò Numai, lanciando una breve occhiata alla moglie che, cupa quanto lui, sollevò appena le spalle: “Ma io ormai sono vecchio. Io e mia moglie ci siamo già fatti costruire la tomba quasi un anno fa...”

“Mi risulta che fino a poco fa, però, scrivevate a Madonna, per farla tornare!” sbottò Giambattista, sempre più nervoso: “Adesso... Adesso che tutti si muovono, adesso che il papa è morto... Non mi verrete a dire che proprio adesso l'abbandonate!”

“Se vorrete, parlerò ancora con il Commissario fiorentino, per caldeggiare di nuovo il ritorno dei Riario, ma...” provò a dire Luffo: “Io conto poco. Ho cambiato, apparentemente, almeno, troppe volte bandiera... Quando è stato necessario fingere il tradimento per permettere a Madonna di far scappare i suoi figli, tutti mi hanno visto e sentito favorire il Valentino...”

Tonello stava per ribattere dicendo che ormai tutti conoscevano la verità e nessuno gli avrebbe mai fatto una colpa, visto che era stata la Leonessa in persona a ordinargli di agire a quel modo, ma non fece in tempo a parlare, perché l'anziano riprese, a voce più alta, tornando per qualche istante l'uomo deciso e forte che era stato da giovane.

“In questa casa, in questa mia casa, ho permesso che il Duca Valentino facesse quello che gli pareva con la donna che avevo giurato di servire e proteggere!” urlò Numai, urtando il tavolo con tanta violenza da rischiare di rovesciare il vino: “Con che coraggio dovrei chiederle di tornare e rimettermi al suo servizio? Ho lasciato che quel diavolo si servisse di lei come avrebbe fatto con l'ultima delle schiave e ho lasciato che lo facesse qui, in una delle mie stanze!”

Caterina Paolucci, evidentemente non nuova a quel genere di esclamazioni da parte del marito, strinse le labbra e attese che sbollisse un po', prima di provare a calmarlo prendendolo per una mano.

Deglutendo, ancora paonazzo e sudato, Luffo sbatté la palpebre un paio di volte e poi, solo in apparenza più calmo, concluse: “Se Madonna Sforza dovesse tornare qui, avrebbe tutto il mio appoggio, ma io lascerei Forlì. È troppa la vergogna che mi copre...”

“Se aveste provato a opporvi – provò a dire Giambattista, che non aveva mai immaginato che fosse quello il fulcro del tormento che negli ultimi anni aveva reso Numai un uomo anziano e senza più voglia di vivere – vi avrebbero ucciso...”

“E sarebbe stato meglio.” concluse lapidario il nobile forlivese.

“Vi capisco.” sussurrò Tonello, malgrado in realtà non condividesse i tormenti dell'amico: “Ma vi chiedo almeno di aiutarmi a scrivere questa lettera con cui voglio spronare Madonna a tornare qui da noi... Voi sapete che corde toccare. Nessuno qui la conosce meglio di voi...”

Luffo, sollevando lo sguardo, non poté contraddire l'ospite. Forse solo Andrea Bernardi, detto il Novacula, poteva dire di aver conosciuto meglio di lui l'animo di Caterina Sforza, ma il barbiere ormai s'era fatto uno storiografo a tutti gli effetti e aveva rinnegato la sua vecchia padrona in cambio di una moglie e di molto, troppo oro...

“Va bene.” sospirò alla fine l'uomo, sotto lo sguardo severo della moglie, che, evidentemente, avrebbe preferito saperlo estraneo a tutti quei nuovi maneggi.

Così, dopo aver deciso come impostare la lettera, e, soprattutto, di tacere il coinvolgimento di Numai nella sua stesura, i due uomini si misero alla scrivania e mentre Luffo dettava, Giambattista scriveva.

Iniziarono con una breve introduzione in cui le ricordavano di come tutti i principi stessero tornando nelle loro rispettive terre, 'perchè non hanno havuti tanti rispetti como ha voluto fare Vostra Signoria'.

Citarono anche Guido Vaini, come un suo partigiano, lamentandosi della sua assenza, ma per farle capire, con quel singolo nome, che come lui ce n'erano tanti e non tutti erano morti e scomparsi dal mondo politico.

Dopodiché, per farle comprendere appieno quanto la popolazione fosse ancora dalla sua parte, Numai suggerì di usare una strategia lessicale che la donna avrebbe di certo compreso. Per convincerla dell'assoluta fedeltà dei romagnoli, bisognava farle capire che anche la peggiore delle sue emanazioni sarebbe stata vista come la salvezza.

Perciò Numai dettò e Tonello scrisse: 'Mandi almeno Ottaviano con milizie et in questo modo conoscerà che li homeni de Imolla non voleno così male a Vostra Signoria come altri dice'.

“Questa la spedirò a Madonna non appena sarò a Roma.” sospirò Giambattista.

“Da Roma? E come mai?” chiese Caterina Paolucci, accigliandosi.

“Voglio andare subito a Roma, per essere là quando inizierà il Conclave... E poi là c'è quel cremonese, quel Bartolomeo che si faceva chiamare Baccino... Voglio vedere se sarebbe disposto a portare di persona la nostra lettera a Madonna.” spiegò Tonello: “Credo che potrebbe essere più convincente lui che tutti noi messi assieme...”

“State attento a quel che farete e direte a Roma...” si raccomandò Numai.

“Sempre.” annuì l'altro: “Ma dobbiamo giocarci ogni carta possibile, se vogliamo scongiurare il ritorno in queste terre dell'Ordelaffi, che sarebbe solo un Doge travestito da romagnolo...”

Luffo si disse d'accordo e poi, appena prima di lasciare andare l'amico, lo prese per un braccio, con urgenza e, sussurrandogli all'orecchio, per non far capire le proprie parole alla moglie, disse: “Se quel Baccino accetterà di fare da tramite... Pregatelo di dire a Madonna che non passa giorno che io non mi penta di non aver impedito quello scempio... Non passa giorno che non mi ricordi di quando i nostri sguardi si sono incrociati e io non ho fatto nulla per liberarla...”

“Lo farò.” assicurò Tonello, e poi, rivolgendosi sia a Luffo, sia alla Paolucci, che era rimasta in disparte, si congedò una volta per tutte con un semplice: “A Dio.”

   
 
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