Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    23/08/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Francesco Gonzaga guardava con aria stolida i due soldati che, in francese, continuavano a gridargli contro, agitando con rabbia le cambiali che lui, poco prima, aveva provato a riproporre una volta di più.

Dopo essere passato da Siena e Buonconvento, era arrivato a Viterbo e lì il Marchese si era scontrato con una realtà con cui non aveva pensato di dover fare i conti: a causa della confusione che vigeva a Roma dalla morte di Alessandro VI, per paura i mercanti non accettavano più lettere di cambio. A quel modo, però, per lui diventava impossibile ottenere il denaro necessario per pagare le truppe francesi e svizzere che stava guidando al sud.

In quel momento rimpiangeva amaramente di non essersi acculturato di più da ragazzo. Se solo avesse studiato meglio la lingua francese o anche solo la sua declinazione elvetica, probabilmente non sarebbe stato così in difficoltà nel comprendere le rimostranze dei due uomini furenti che aveva dinnanzi.

Era stata una pessima idea, da parte di Francesco, provare a pagare la truppa con le cambiali già rifiutate dai mercanti. I mercenari volevano soldi, non promesse. Solo che comunicare con loro e cercare di portarli a più miti consigli si stava dimostrando per lui un'impresa erculea.

Come aggravante, sentiva alle sue spalle il Balivo di Caen e il Sandricourt parlottare tra loro in modo fastidioso, difficile dire se per denigrarlo o per lamentarsi l'un l'altro dell'inadeguatezza del loro accompagnatore.

La goccia che fece traboccare il vaso fu una visione che attraversò la mente del Marchese all'improvviso: sua moglie Isabella che, scoperte le sue difficoltà, si metteva a ridere di lui, così forte e così accanitamente da farsi quasi mancare il fiato.

“E va bene!” sbottò all'improvviso il mantovano, infischiandosene del fatto che forse i suoi interlocutori avrebbero capito solo la metà delle sue parole: “Non volete le lettere di cambio?! Non mi interessa! Io ho fatto quello che potevo! Se non volete marciare verso Napoli, resteremo qui finché non ci sarà un nuovo papa e i mercanti ricominceranno a fidarsi e scambiare denaro! Che si montino le tende! Io mi sono stancato di tutti voi!” e, detto ciò, prese le cambiali dalle mani dei due soldati, le stracciò platealmente, e voltò loro le spalle con tanta furia da sembrare quasi un demonio fatto a uomo.

 

Non era stato facilissimo, ma alla fine i Dieci di Balia avevano accettato di rivedere Caterina. La sensazione che la Tigre aveva avuto, però, nel trovarsi di nuovo dinnanzi a quella strana corte, era stata che l'incontro fosse stato concesso al solo scopo di tenerla calma per un po' e impedirle di disturbarli ulteriormente con le sue richieste.

Cercando conferma di ciò, a un certo punto lei aveva provato a smuovere le acque, chiedendo semplicemente: “Non siete forse stati voi a dirmi che Firenze mi vorrebbe di nuovo in Romagna, per scongiurare un ritorno degli Ordelaffi almeno a Imola?”

E uno dei Dieci, senza batter ciglio, le aveva risposto: “Voi o uno dei vostri figli. Stiamo, però, vagliando le notizie che ci passa il nostro Commissario Ridolfi, che è in loco e ancora non si è espresso apertamente né a favore vostro né contro di voi.”

Con la promessa di scrivere di nuovo quel giorno stesso al Commissario per dirimere gli ultimi dubbi, i fiorentini che la squadravano dall'alto al basso come in un processo, le avevano dato il permesso di andarsene – o, meglio, l'avevano esortata a lasciarli liberi di lavorare per il bene di Firenze – e così la Leonessa dopo appena una mezz'ora di insignificante incontro, si era trovata libera di passare ciò che restava della giornata 'come più aggrada a una vedova quale voi siete', come aveva detto Machiavelli, con una sorta di cupa ironia.

Quel 10 settembre era una domenica. Fortunati, che aspettava sul carretto la Sforza, si sorprese tanto nel vederla arrivare così in fretta, quanto nel sentirle chiedere di andare un momento alla chiesa di San Lorenzo.

Felice di avvertire nella donna una volontà di raccoglimento, il piovano ribadì subito l'ordine al cocchiere e poi le chiese, con voce sottile, temendo di osare troppo: “Più tardi vorresti andare anche a trovare Cornelia? Suor Ubbidienza mi ha scritto qualche giorno fa e la bambina sarebbe molto felice di...”

“No.” rispose Caterina, secca, senza dare altre spiegazioni.

Il piovano era in ogni caso lieto di vedere la Leonessa decisa a recarsi sulla tomba di Giovanni, anche se in parte non capiva quel desiderio improvviso, dato che, di recente, la donna non aveva dato segnali particolari di ripensare al Popolano.

Solo quando la Tigre gli chiese di aspettarla fuori e si avviò da sola alla porta secondaria della chiesa, l'uomo si rese conto che all'anniversario della morte del Medici mancavano appena quattro giorni. Forse era quello il motivo che aveva spinto la milanese a volersi recare sulla sua tomba...

 

Ottaviano si svegliò con un grugnito, accigliandosi e maledicendo chiunque fosse stato a bussare alla porta. Ci mise qualche secondo per capire dove fosse – non era scontato, ormai, per lui, risvegliarsi nel palazzo in cui era ospite – e per orientarsi circa il momento della giornata.

Aveva mal di testa e una discreta nausea. L'odore stantio di quella camera gli dava il voltastomaco e gridando per far smettere colui che stava bussando, si accorse di avere la voce roca e impastata.

Nell'andare verso la porta, inciampò in una caraffa da vino vuota, rischiando anche di tagliarsi, e si innervosì ancora di più nello scoprire che l'uscio non era chiuso. In un lampo di lucidità pensò che la donna con cui aveva passato la notte fosse scappata da lì alla prima occasione, senza poter richiudere il chiavistello.

“C'era aperto...” borbottò, diretto al servo che si trovò dinnanzi: “Non c'era bisogno di far tutto quel chiasso...”

Il giovane domestico teneva lo sguardo basso, ma vide ugualmente il letto sfatto e la confusione generale. In più, se anche fosse stato cieco, non avrebbe potuto ignorare il tanfo tremendo emanato dal forlivese.

“C'è questo messaggio per voi.” disse il servo, cupo, porgendogli la lettera e poi facendo subito un passo indietro.

Il temperamento collerico del Riario era ormai ben noto ai servi del palazzo, benché il giovane uomo sapesse nasconderlo bene con coloro che quel palazzo lo possedevano. Sembrava quasi che davanti ai suoi ospiti ci fosse un agnellino, mentre per i domestici e, soprattutto, per le serve e le meretrici che occasionalmente riusciva a portare lì, c'era solo il lupo famelico e dai denti affilati.

Ottaviano, fedele alla sua nomea, strappò con violenza il messaggio dalla mano del domestico e gli fece cenno di andarsene.

Quando capì che la missiva arrivava da suo fratello Galeazzo, provò un misto di disgusto e curiosità che lo portò ad aprirla immediatamente. Doveva essere stata scritta poche ore prima, perché odorava ancora con forza di inchiostro.

Il Riario, combattendo con il cerchio alla testa che gli toglieva quasi la ragione, lesse le parole scritte nella grafia ordinata e precisa del fratello minore e già alla seconda riga si trovò a bestemmiare a voce alta.

Galeazzo, senza la minima vergogna, gli ricordava i suoi doveri, gli faceva presente che lui e Cesare l'aspettavano, se lui voleva, in Bologna, e poi gli elencava tutti i maneggi – verosimilmente solo quelli scrivibili per lettera – che si stavano facendo per rimettere lui, ossia Galeazzo, e la loro madre a Imola.

Il Riario nella lettera sottolineava come Ippolita Sforza si stesse dimostrando disponibile ad aiutarli e come fosse semplice per lui trovarsi in sintonia con lei.

In un impeto incontrollabile d'ira, Ottaviano lanciò la lettera sul letto e si alzò di scattò, dando un calcio alla gamba del baldacchino, finendo solo per farsi male.

“Tu e tua madre!” gridò, guardando il foglio stropicciato come se fosse l'incarnazione di Galeazzo stesso: “Io chi sono? Nessuno?! Sono il primogenito! Ma sei tu il preferito! Sei sempre stato tu! Che il diavolo ti porti!”

Vinto dal dolore al piede, tornò a sedersi e un conato di vomito lo colse un po' di sorpresa. Fece appena in tempo a prendere il pitale e si liberò lo stomaco da tutto il vino bevuto in eccesso la notte prima.

Tornando a respirare a fatica, sbuffò: “Il diavolo vi porti, te, tua madre, quella cagna di Ippolita Sforza e tutti quelli come voi...” poi, sconfitto definitivamente dalla stanchezza e dallo stomaco dolorante per l'ultimo rigetto, si accoccolò sul letto e si riassopì, come nulla fosse, incurante del solleone del mezzogiorno che brillava appena fuori dalla finestra chiusa.

 

Con il cuore pesante come un macigno e una velina scura in testa, Caterina camminava silenziosa verso la chiesa, sentendosi in colpa ancora prima di entrare. Sapeva bene che era quasi l'anniversario della morte del suo terzo marito, ma ciò che la stava portando lì era invece il ricordo della morte del secondo.

Il 27 agosto era riuscita a non farsi trascinare dalla tristezza, né dalla rabbia – sentimento che spesso la coglieva, nel ripensare alla morte violenta di Giacomo – ma a distanza di un paio di settimane, l'inquietudine che provava non solo non si stava attenuando, ma sembrava quasi acuirsi.

Tentare di calmarsi andando davanti alla lapide di Giovanni, per sentire più vicino sia lui sia Giacomo era solo un modo per blandirsi da sola, ma se poteva aiutarla ad alleviare almeno in parte il dolore che provava, valeva la pena fare quel piccolo sforzo.

Nel momento stesso in cui varcò il portale e si trovò come accecata da quello che sembrava un buio pesto paragonato alla luce sfolgorante che c'era fuori, Caterina ebbe un ripensamento. Tuttavia dopo un battito di ciglia appena, i suoi occhi si abituarono e si rese conto che c'era altra gente in chiesa e tornare subito sui suoi passi sarebbe stato un gesto troppo appariscente, e lei non voleva attirare più sguardi di quanti non ne stesse già attirando. Forse era per via dei suoi vestiti, troppo modesti o troppo colorati per una domenica, o forse per il fatto che il suo non fosse un volto noto...

Con un sospiro, abbassò lo sguardo e riprese a camminare in direzione della tomba di Giovanni. Si fissava la punta dei piedi, che spuntava a ogni falcata da sotto la gonna, il cui orlo impolverato cominciava a essere anche un po' sdrucito.

Sentiva l'odore dell'incenso, il parlottare dei presenti, il lontano vociare dei canonici che si preparavano alla Messa e si diede della stupida per non aver pensato che a quell'ora, di domenica, si sarebbe imbattuta in una Messa...

Si mise davanti alla lapide del suo secondo marito e, senza sollevare lo sguardo si fece il segno della croce con lentezza. Si rese conto che quel gesto le stava servendo solo per tenere le mani impegnate in qualche modo, perché la sua mente era distratta, i suoi sensi confusi. Era più attenta a percepire la presenza di altre persone, che non a concentrarsi sul motivo per cui aveva voluto andare a San Lorenzo.

Solo dopo un paio di minuti, calmati i nervi, la donna riuscì a guardare verso la pietra che nascondeva i resti mortali di Giovanni Medici. Cominciò a riflettere e si sforzò di pregare, ma all'improvviso, come se venisse colpita da una pugnalata nella schiena, si sentì tremendamente in colpa.

Si pentì di essere lì, si sentì ridicola, biasimevole, un mostro.... Si sentì una traditrice a pregare per l'anima del suo secondo marito mentre stava dinnanzi alla tomba di un altro uomo, un uomo che comunque aveva amato, ma che ancora, a distanza di anni, non riusciva a vincere il confronto con il suo grande amore, Giacomo. Era la stessa sensazione vischiosa e bruciante che aveva provato tante volte quando, già amante e poi moglie del povero Giovanni, si era trovata sotto le lenzuola stretta a lui, ma con l'animo ancora rivolto al Feo.

Colta dal desiderio impellente di andarsene e lasciarsi alle spalle la tomba del Popolano, Caterina si voltò di scatto e per poco non cadde nel tentativo di non urtare una donna che si era messa proprio alle sue spalle.

Come primo istinto le avrebbe gridato qualcosa di spiacevole, chiedendole come le era saltato in mente di mettersi così vicina a lei, ma sapeva bene che non era il caso di attirare altri occhi indiscreti. Senza contare che quella donna la fissava in modo strano...

“Siete Madonna Sforza.” disse Semiramide, vestita a lutto e con una spessa rete nera sui capelli raccolti.

La sua non era una domanda, ma un'affermazione che aveva valenza, quasi, di saluto.

“Voi siete..?” chiese la Tigre, talmente spiazzata che, forse, non avrebbe saputo riconoscere nemmeno un volto davvero noto.

“Sono vostra cognata.” sussurrò lei, e poi, nel vedere un velo di preoccupazione sul viso della milanese, aggiunse subito: “Sono felice di potervi incontrare... Non mi aspettavo di trovarvi qui...”

La Sforza ci mise qualche secondo, prima di ritrovare la parola, poi, dando una scorta in giro e vedendo come un paio di curiosi stesse fissando sia lei sia Semiramide, borbottò: “Perdonatemi, devo...” e fece per andarsene, ma l'Appiani la fermò, posandole d'istinto una mano sulla spalla.

“Vi prego, diciamo due parole. Venite di là con me... Non ci disturberanno.” fece la vedova di Lorenzo il Popolano e, prima che Caterina potesse in qualche modo ribellarsi, le fece strada verso la canonica, dopo aver ricevuto il tacito accordo di un chierico che, evidentemente, la conosceva.

La Leonessa, che la seguiva senza quasi vedere gli ambienti che attraversavano e le porte che venivano aperte e si richiudevano poi alle loro spalle, attese che fosse l'Appiani a farle capire che erano arrivate a destinazione.

“Di cosa volete parlare?” chiese la milanese, nervosa, temendo all'improvviso che quella fosse una sorta di imboscata, un pericolo che aveva sottovalutato e che ora si trovava a fronteggiare da sola.

Il tono dell'altra donna, però, la calmò quasi subito. Nel silenzio della stanza in cui si erano trovate, da sole, il respiro di Semiramide si era fatto ben distinguibile e quando parlò, ella lo fece con dolcezza e apprensione in egual misura.

“Vorrei poter vedere mio nipote, Giovannino.” sussurrò.

La Tigre, sorpresa da quell'incipit – si era convinta che la cognata volesse parlarle dei processi o dell'eredità, o, addirittura, della guerra, ma non di Giovannino in quanto bambino e nipote – schiuse le labbra e attese un paio di secondi, prima di dire solo: “Va bene.”

“Mi farete sapere voi quando..?” si informò l'Appiani, mentre gli occhi iniziavano a velarsi di lacrime di commozione e, forse, addirittura di gioia all'idea di poter vedere e abbracciare il figlio del suo amato cognato Giovanni.

“Sì.” confermò la milanese: “Prima... Prima ne voglio parlare anche con il piovano, Fortunati...”

“Certo, certo...” si affrettò ad annuire Semiramide: “Per quanto riguarda la villa di Careggi, io...” si azzardò a dire la fiorentina, ma Caterina la frenò.

“Quando ho letto la vostra proposta, ho capito che non mi volete né ingannare né prendere per i fondelli. È una proposta giusta. Sto solo aspettando a rispondere, per essere certa di avere a mia disposizione i fondi necessari.” disse la Tigre.

“I pagamenti non sono urgenti.” fece presente l'altra: “Io non sono mio marito. Io capisco la situazione. Io so quanto Giovanni vi amava e cerco di immaginare quanto sia stato tutto difficile per voi.”

“A proposito di vostro marito...” esitò la Sforza, guardando gli occhi buoni, ma terribilmente stanchi dell'Appiani: “So che arrivano in colpevole ritardo e forse non gradite, ma vi porgo le mie condoglianze.”

“Grazie.” rispose Semiramide: “E non preoccupatevi, per il ritardo. Tutte le condoglianze che ho ricevuto sono arrivate tardi, perché io ho iniziato a perdere mio marito molto tempo prima che morisse.”

“Ed è successo per colpa mia, immagino.” fece eco Caterina, non riuscendo a zittirsi.

Il tono improvvisamente combattivo della Leonessa spiazzò un po' la fiorentina, che, tuttavia, fece un sorriso mesto e ribatté: “La colpa è tutta di Lorenzo. Credevo fosse un uomo capace di capire cosa fosse l'amore, e invece mi sono sbagliata... Ha messo l'ambizione e i soldi davanti a tutto. E ne ha pagato le conseguenze.”

La Tigre, che negli anni aveva cercato, a tratti, di capire Lorenzo e il suo comportamento, si sentì in dovere di blandire la cognata: “Al posto di vostro marito, anche io avrei avuto delle perplessità... La mia nomina non era bella, e le dicerie su di me non erano del tutto infondate. Per mio fratello, anche io avrei desiderato di meglio.”

L'Appiani la guardò per un lungo istante. Da lontano si sentivano arrivare i primi canti prodromici alla Messa. Era chiaro che nella mente della fiorentina si stesse combattendo una sorta di aspra battaglia. Un lato di lei si ostinava a marchiare Lorenzo come un uomo gretto e cieco, che aveva solo voluto vedere quello che aveva voluto, mentre dall'altro cominciava a chiedersi se non avesse avuto anche lui una parte di ragione, in quella lunga contesa.

Dopo un attento ragionamento, alla fine Semiramide chiese: “Amavate davvero Giovanni?”

“Sì.” rispose d'impeto Caterina, per poi aggiungere: “Anche se sono consapevole del fatto che lui avrebbe meritato una donna migliore di me.”

“Lui era pazzo di voi.” ribatté l'Appiani, un po' più serena: “L'ho visto coi miei occhi illuminarsi nel parlare di voi. L'avete reso felice, per quel poco che gli è stato concesso di vivere. Forse avreste dovuto solo incontrarvi prima...”

“Forse.” annuì la milanese, evitando di sottolineare che, se avesse conosciuto il Medici qualche anno prima, quando ancora Giacomo era al suo fianco, verosimilmente non si sarebbe nemmeno accorta di lui.

Il suono squassante delle campane fece capire a entrambe che la funzione stava cominciando, così la fiorentina chinò appena il capo e disse: “Ora, se volete scusarmi...” le indicò la via, accompagnandola, finché non furono di nuovo nella navata della chiesa in cui si erano incontrate.

Solo a quel punto Semiramide diede mostra di voler soggiungere qualcosa, ma la cognata fu più rapida, sorridendole e anticipandola con un semplice: “Vi scriverò presto, per organizzare un incontro tra voi e vostro nipote, Giovannino. Sarete felice di vedere quanto somiglia a suo padre...”

 

Il Duca Valentino fissava Gaspare Sanseverino con severità, ma attento a ogni sua minima sfumatura.

Provava ribrezzo per se stesso. Era sporco, sudato e sfatto dalle febbri, mezzo sdraiato a letto e mezzo svestito. Nepi per lui si stava trasformando in un purgatorio e la sensazione non era tanto quella di espiare per ascendere al paradiso, ma quella di precipitare sempre di più verso l'inferno.

Cesare si chiedeva quanto fosse caduto in basso, per essere lì a pendere dalle labbra storte del Fracassa, che puzzava più di lui e ogni tanto si mangiava una sillaba, forse per colpa del troppo vino bevuto a colazione.

Sapeva che il Sanseverino era un grande condottiero, ma esulava troppo dal suo ideale di collaboratore per non fargli provare una profonda vergogna di sé. Lui, il Duca di Valentinois, che avrebbe dovuto comandare sul mondo intero, si trovava lì, in un lettuccio a decrittare le parole sdrucciolevoli di un topo di fogna come Gaspare...

“E quindi voi adesso comunque siete al soldo francese...” fece a un certo punto il Borja, per capacitarsi di quello che il Sanseverino aveva appena detto, ossia che avrebbe scortato di persona il Cardinale Giuliano Della Rovere a Napoli, per volere del re di Francia.

“Così è.” assicurò il condottiero: “E se sono qui è solo perché un soldato sveglio sa che l'aria può cambiare. Vi dico che ho accettato di fare la scorta al Cardinale, ma non ho alcun mandato per far la guerra a voi...”

“Ho capito benissimo.” annuì Cesare, che, tuttavia, sapeva di non aver tasche abbastanza fonde da potersi permettere, per il momento, i servigi del Fracassa: “Piuttosto, ripetimi le ultime novità... A parte quelle di quel cane di Giovanni Sforza e del Gonzaga... Di loro abbiamo parlato anche troppo...”

Gaspare, convinto di essersi rimediato un possibile cliente per il futuro, fece un profondo sospiro e elencò, brevemente: “Dionigi Naldi, lo sapete meglio di me, era a Cesena per conto vostro, con quattrocento fanti, alloggiato nel palazzo dei Conservatori, e ha fatto molta confusione in città... E forse è per questo che il Pandolfaccio è riuscito temporaneamente a entrare a Rimini, scontrandosi con gli uomini del Naldi, che erano senza guida. Come sia andata a finire, però, non so dirvelo, le notizie sono ancora frammentarie... Certo è che il Malatesta s'è fatto aiutare dall'altro Naldi, Vincenzo, per devastare il riminese con quattrocento provvigionati...”

Mentre il Fracassa prendeva fiato, il Borja fece una smorfia nel sistemarsi meglio sui cuscini. I fratelli Naldi, che sembravano suscitare tanto sconcerto nel Sanseverino a lui ricordavano proprio Gaspare e i suoi fratelli e cugini, sempre pronti a cambiare bandiera al tirare del vento, a costo di essere gli uni contro gli altri, anzi, forse preferendo volutamente trovarsi su più fronti, nella speranza di potersi salvare in extremis se le cose fossero andate male dall'una o dall'altra parte.

“Dicono che Guidobaldo Maria da Montefeltro sia rientrato a Urbino – continuò a spiegare il Fracassa – e dicono abbia tremila ducati prestati dal Doge... Di fatto ha attraversato Ravenna e Meldola senza alcun problema.”

“Sono vere le voci circa la sua protetta?” chiese Cesare, non riuscendo a trattenersi, benché sapesse bene che pensare a una delle tante donne lascive d'Italia serviva a poco, in un momento di simile tumulto: “La nipote di Giuliano Della Rovere, quella Maria Giovanna di cui ho sentito parlare? È vero che è l'amante di uno dei soldati del Montefeltro?”

Un po' sorpreso da quell'inatteso interessamento, il Sanseverino sollevò le sopracciglia e rispose, vago: “Si dicono tante cose, mio signore... Che sia vero o no, temo che solo Madonna Della Rovere lo possa dire...”

“A proposito di sporche meretrici, alla fine mia cognata che fine ha fatto?” ormai il Valentino aveva spostato interamente la sua attenzione sugli aspetti meno nobili, a detta del Sanseverino, di quel momento di grande confusione per l'Italia.

Non volendo adirare il Duca, il condottiero si schiarì la voce e facendo il finto tonto, chiese: “A quale cognata vi riferite di preciso?”

Cesare si fece torvo e, sentendosi raggirato dal tono innocente di Gaspare, sbottò: “La moglie di Joffré! Sancia! Quella dannata Aragona che ha portato solo guai!”

“Oh.” fu la prima reazione del Fracassa che, poi, cercò di indorare come poteva la pillola, spiegando: “Be' sembra che prima di mettersi in cammino per Napoli, Prospero Colonna, accecato dal desiderio per Madonna Sancia, l'abbia rapita con la forza, mentre lasciava Roma su ordine del Collegio Cardin...”

“Con la forza!” sbottò il Valentino, scuotendo il capo: “Quella strega non aspettava altro! Prima, mentre era a Castel Sant'Angelo prigioniera, l'ha irretito e ora s'è fatta rapire apposta! Non fosse che mi spiace per mio fratello, che fa la parte del fesso, ne sarei felice! Il Colonna vedrà che bella grana che s'è portato a Napoli!”

Il Sanseverino venne trattenuto ancora qualche minuto, per le ultime domande sui fatti di cronaca che conosceva meglio del Borja e poi, come se un fulmine a ciel sereno gli avesse fatto cambiare umore e idee in un colpo solo, il Duca gli ordinò di lasciarlo solo.

Gaspare poté solo ubbidire, augurando a Cesare una pronta guarigione e molta fortuna, e se ne andò sperando, comunque, che il Valentino si ricordasse di lui in futuro, quando ne avesse avuto bisogno.

Il Duca di Valentinois, però, in quel momento non stava più pensando né alla guerra, né ai soldati o alla strategia di campo. Parlare di Sancia gli aveva riportato alla mente il di lei fratello, Alfonso, secondo marito della sua amata Lucrecia.

Non aveva mai provato rimorso nell'esserselo tolto di mezzo, ma si chiedeva ora se il figlio dell'Aragona e di Lucrecia, Rodrigo, sarebbe rimasto sotto l'ala della zia Sancia. L'avrebbe cresciuto come un Aragona? Lo avrebbe portato a odiare i Borja e tutto ciò che avevano rappresentato?

Stringendosi i pugni contro le tempie, per combattere la cefalea che lo stava facendo impazzire, Cesare rivide per un istante i capelli d'oro di sua sorella, risentì la sua risata fresca e la sua voce morbida e lieve...

Trattenendo a stento lacrime da coccodrillo – perché nel profondo sapeva di essere stato lui a rovinare tutto quanto, peggiorando sempre di più sia la situazione della famiglia, sia il rapporto con Lucrecia – il Valentino si piegò un po' su se stesso, mentre nella sua testa l'immagine giovane e flessuosa della sorella si trasformava in una figura di donna molto diversa, statuaria, giunonica, dai capelli ormai bianchi e con una profonda ferita su una gamba. Il fantasma di Caterina Sforza lo fissava, irridendolo, dileggiandolo e sciorinando contro di lui ogni tipo di ingiuria.

Era la febbre alta a procurargli quell'allucinazione, ma Cesare aveva la certezza che la Tigre di Forlì fosse proprio lì, davanti a lui, e volesse la sua vendetta.

Era stata lei, l'inizio della fine. Se si fosse arresa subito, la campagna militare in Romagna sarebbe stata un trionfo. E invece lei aveva distrutto tutto con la sua ostinazione, con la sua cattiveria...

Quando Taddeo Della Volpe, vestito di tutto punto malgrado il caldo solo per poter sfoggiare stampigliato ovununque lo stemma dei Borja che ormai gli era concesso di portare come proprio, entrò nella stanza del Duca quando sentì un tonfo pesante. Lo trovò in terra svenuto e chiamò subito soccorso.

Messo a letto, coperto di pezze bagnate e imbevute di estratti d'erbe miracolose, il Valentino riprese conoscenza solo a sera, e borbottò, per le poche e fedeli orecchie che erano chine su di lui: “Fosse l'ultima cosa che faccio, devo impedire che il Della Rovere diventi papa...”

“State calmo, adesso...” gli sussurrò Taddeo, convinto che quella fosse un'esternazione senza un ragionamento concreto alla base: “Adesso dovete pensare a star bene...”

“Se quel ligure sodomita e spergiuro salirà al soglio – continuò imperterrito il Duca, con gli occhi chiusi – sistemerà quella meretrice di sua nipote e ridarà Forlì alla Sforza e non deve succedere, non deve... Mi è costato troppo...” e detto ciò, svenne di nuovo, colto dal torpore della febbre.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas