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Autore: pansygun    29/08/2023    4 recensioni
My first obsession is you.
My second is having sex with you.
• • •
DISCLAIMER: questa storia ha rating 🔞 per i contenuti espliciti in essa descritti (sesso).
A mio discapito, se siete sensibili vi invito a non affrontare questa storia.
• SPOILER per chi non avesse letto il fumetto o guardato l'anime! •
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{Deku x Bakugo}
Angst
Mild-spicy
• • •
Tutti i diritti riservati ©️ veciadespade | 2023
I personaggi originali di My Hero Academia sono di proprietà di Kōhei Horikoshi.
Genere: Comico, Erotico, Hurt/Comfort | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou
Note: Lemon | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Mamihlapinatapai*



 

Tu, girasole impazzito di luce,
ogni volta che i tuoi occhi si sollevano si accende il firmamento.

~ La tigre e la neve ~



 

30 giugno

La gente accorsa per l’ultimo giorno di festival era davvero tanta.

Ricordava di aver visto così tante persone solo a Roma, dove c’era quella bellissima fontana piena di statue e le monetine nell’acqua.

L’aveva tirata pure lui, una monetina, perché dicavano che serviva per esprimere un desiderio.

Così s’era rivolto di spalle e aveva gettato un soldino di rame oltre la spalla destra, chiudendo gli occhi. Ma non ricordava il desiderio, o, meglio, lo confondeva con tanti altri espressi nel corso di quell’anno e mezzo, come a cavallo del meridiano zero a Greenwich o deponendo pietre all’ingresso della Moschea Ak a Chikment.

Non era superstizioso, ma gli piaceva provare a dare una mano alla propria fortuna (o a combattere le proprie sfighe, che forse era cosa più logica da fare, visto ciò che era successo fin da quando era bambino!).

Così Izuku si lasciò trasportare dalla folla, fluttuando ad una ventina di centimetri dal manto stradale alla spasmodica ricerca di una testa bionda in mezzo a tutto quel casino.

Non voleva volare più in alto: aveva già fatto fin troppo quella sera e, di certo, il giorno successivo Hawks gli avrebbe fatto una bella ramanzina. Ma non gli importava.

Non aveva litigato con Kacchan per qualcosa di stupido, o per delle incomprensioni o delle prese di posizione infantili. L’aveva difeso, e a lui era andato bene. Solo per questo avrebbe sopportato tutti i demeriti del mondo, se fosse stato necessario!

E l’avrebbe rifatto, forse altre mille volte.

Rimise i piedi a terra e continuò a camminare, chiedendosi dove fosse il palco principale e maledicendo il fatto di non aver letto con attenzione né i dettagli del programma né la piantina del festival.

Guardò verso sinistra per un istante e notò uno stand senza troppa coda: un piccolo tiro al bersaglio fatto con vecchie lattine che ormai non stavano neppure in piedi. Appeso sulla parete di destra vi era un pannello pieno di portachiavi di ogni forma e dimensione.

Ne vide uno che gli piacque e deviò il percorso. “Cinque minuti.”, si disse, sorprendendo l’uomo che gestiva il baracchino.

«De-Deku! Quale onore averla qui!».

Izuku sorrise e indicò la parete: «Quanti punti per un portachiavi?».

«Ma… Ma non serve! Mi dic-».

«Vorrei vincerlo. Mi dica per favore quanti punti.».

«Cinque. Un punto a lattina.».

L’eroe allungò duemila yen sul bancone: «Allora mi dia dieci colpi, per favore. E tenga pure il resto».

 

•••

 

Aveva provato una strana sensazione quando quella signora l’aveva preso per mano e gli si era ancorata al braccio, sorridendogli e parlandogli come se fosse suo nipote. Non gli arrivava alla spalla e aveva i capelli canuti raccolti in una specie di nido voluminoso e ordinato sopra la testa e profumava di fiori.

«Sono stati davvero dei villani!».

Il ragazzo trattenne una risata a quell’espressione: «Decisamente.».

«E mi vergogno che siano miei concittadini!».

Katsuki mugugnò, rallentando ancora per stare al passo con la vecchia, che, evidentemente, l’aveva braccato appena uscito dal vicolo o non si spiegava tutta quella improvvisa confidenza. Certo, poteva essere sua nonna vista l’età, ma erano perfetti estranei e lui sapeva di essere odiato da quei vecchi di merda che lo ritenevano solo un mascalzone dalla parlata troppo colorita per dare il buon esempio. Ecco.
Tutti tranne la signora appollaiata come un’arpia al suo braccio destro, mentre lo conduceva fino al cancello di una delle casette affacciate sulla via che fiancheggiava il palco.

«E quel tuo collega è stato troppo duro.».

Katsuki alzò un sopracciglio: «Sì. Ma aveva le sue buone ragioni.».

«Non ho mica detto che ha fatto male!».

«Oh... Va bene.».

«Ho solo detto che certe cose vanno dette con le parole giuste. Ecco, tesoro. Siamo arrivati.», e la signora aprì il portoncino in legno laccato di casa sua.

«Non doveva prendersi questo disturbo…», bofonchiò Katsuki, armeggiando con gli stivali per entrare.

«Tienili addosso o perderai il doppio del tempo! Il bagno è in fondo al corridoio sulla sinistra. Gli asciugamani puliti sono sul ripiano accanto al lavandino.».

Il ragazzo la osservò dall’alto: «Perché lo fa?».

La signora lo guardò di rimando con un sorriso dolce a deformargli le guance: «Hai salvato i miei nipoti. E il mondo, come ha detto Deku.».

«Io non ho salvato il mondo. È stato lui a farlo.».

«Ma c’eri pure tu e l’hai aiutato. Hai reso possibile il miracolo. E noi a volte diamo tutto troppo per scontato e ci dimentichiamo che eravate solo dei ragazzini. In realtà lo siete ancora. Quanti anni avrai? Venti?».

«Ventitré.».

«Ecco. – la donna gli toccò appena il braccio, invitandolo a proseguire – Hai un anno in meno del mio Kentaro. Potete atteggiarvi a uomini fatti e finiti, mostrare con orgoglio tutte le vostre cicatrici. Ma siete solo dei ragazzini che stanno ancora imparando a capire come si sta a questo mondo. E noi ce lo dimentichiamo fin troppo spesso. – fece una breve pausa e con un gesto della mano gli indicò il bagno - Darti la possibilità di ripulirti un po’ dallo schifo che ti hanno gettato addosso mi sembra il minimo che io possa fare per ringraziarti. È una cosa che dovremmo imparare a fare tutti.»

Katsuki non sapeva bene come controbattere e si limitò a chinare il capo e tirare le labbra con un mugugno, muovendosi oltre la soglia del bagno.
Non era abituato a quelle gentilezze. Non lo era mai stato.
Di solito erano gli altri ad essere cercati dalla gente, che leccava il culo ad eroi meno scontrosi di lui.

Mentre si insaponava la faccia pensò un po’ a quei giorni di festa, in cui aveva visto crescere il numero di persone che si approcciavano allo stand dove era stato messo a fare il pupazzo. Avevano paura di lui, ma lo cercavano, i ragazzini gli sorridevano tremolanti mentre allungavano foto o copertine di riviste in cui lui figurava a tutta pagina.
La fama era una cosa collaterale a cui non aveva pensato. Perché l’unico obiettivo era primeggiare, essere “una spanna sopra gli altri”, come l’aveva accusato Deku.

Già, Deku.
Quel ragazzo lo destabilizzava, perché non lo riusciva a comprendere.

Era tornato dall’America con la testa piena di stronzate, lo sguardo inquieto e ogni volta gli sembrava di parlare con un estraneo sia che si affrontassero argomenti inerenti alla società o al loro lavoro, sia che provassero ad essere normali. Due ragazzi normali che provano ad affrontare la vita. Era Deku, ma al contempo non lo era.

O, forse, era solo lui ad essersi fossilizzato in dinamiche che l’avevano reso solo più statico di prima. Come la paura di affrontare le novità. Come le occasioni perse per stupide prese di posizione. O come il loro rapporto, congelato a prima della partenza di Izuku, ma che li aveva trovati entrambi cambiati al suo ritorno.

Si sciacquò il viso, osservando il riflesso nello specchio, sfiorando i contorni della cicatrice lungo la guancia destra, sentendo la pelle raggrinzita sotto i polpastrelli. Passò una mano sul viso umido e poi fin nei capelli, inspirando profondamente con gli occhi chiusi.

A mente fredda, aveva compreso che, entrambi, per ogni cazzata che facevano, c’era qualcosa che però riuscivano a controbilanciare. Di poco, eh, ma ci provavano.

E di fronte al suo riflesso stanco in quel vecchio specchio di una casa sconosciuta, Katsuki si disse che, forse, ora toccava a lui controbilanciare.

 

•••

 

Adorava i festival.
Amava parteciparvi da civile, ma, anche con la sua tenuta da eroe, quell’evento aveva il suo fascino.

C’era qualcosa di magico in ciascun festival: ogni matsuri è unico e si distingue dagli altri per la sua storia, i suoi rituali e le sue danze.
Più che le processioni, adorava i figuranti, in costumi variopinti, che ballavano lungo la strada.
A volte gli piaceva unirsi alle danze, come facevano tanti altri e come stava avvenendo il quel momento, mentre il sole calava piano e colorava tutto il cielo di arancio e viola e il frinire delle cicale del parco si mescolava al vociare della gente, alle risa, ai battiti di mani e dei tamburi, al suono acuto dei flauti.

I festival giapponesi gli erano mancati.
Nulla a che vedere con le feste dei piccoli paesi dell’Italia, con le processioni spagnole o con le feste nelle aperte campagne del Texas, ugualmente emozionanti. Ma casa era... casa.

Costeggiare l’ultimo pezzo di strada prima del palco gli mise una strana allegria, tanto che ondeggiava la testa a ritmo e improvvisava un breve fischiettio, salutando di rimando chi lo salutava.
Anche i figuranti danzavano e sorridevano ed era tutto così bello e sgargiante e-

«E che ti avevo detto che ci saremmo visti dal palco!».
La voce aspra di Kacchan gli arrivò come una stilettata dritta nelle orecchie, prima ancora che si potesse girare e vederlo.
La faccia era stanca, ma sembrava stare meglio.

«Stavo arrivando.».

«Lo so. Volevo solo romperti le palle. Andiamo! Dobbiamo finire il giro di ronda.», e lo osservò fare un gesto d’invito col capo e sgomitare tra la folla.

«I tuoi gauntlet? Dove li hai lasciati?», gli chiese, affiancandolo. Istintivamente inspirò, ma non percepì il solito odore di Kacchan. Che aveva fatto?

Izuku si era attardato a uno dei chioschi di giochi e aveva fatto qualche foto con i fan… Ma lui?

«Ho fatto un salto in centrale. Li ho lasciati lì. Sono troppo ingombranti con tutta questa folla.».

«Oh. Capisco.».

«E tu? Perché ci hai messo tanto?», gli chiese il biondo, voltandosi appena verso di lui, che stava armeggiando con una delle tasche sul cinturone, rallentando il passo.

Izuku attirò di nuovo la sua attenzione con una leggera gomitata: «Per questi.» e aprì il palmo della mano.

Katsuki arrestò il passo, le persone che lo sfioravano non gli importavano.

Sul palmo del guanto bianco di Deku erano adagiati due portachiavi.

«Ho pensato che fossero carini.».

Due orrendi portachiavi, probabilmente scarti dei rispettivi merchandise, perché quel Dynamight aveva un difetto di attaccatura tra la testa grossa e il resto del corpo e il pupazzetto di Deku aveva il costume di un pantone totalmente sbagliato, troppo sbiadito. L’occhio destro gli tremolò. «Carini?». Dio! Erano davvero obbrobriosi!

Ma Deku continuava a sorridere con le labbra tirate e gli occhi luccicanti e ci rivide il bambino che per la prima volta lo osservava emanare scintille dalle mani.

«E che ci vuoi fare, scusa?». Domanda scema, ma lui idiota non era e aveva già intuito.

«Le chiavi di casa – e gli porse il piccolo Dynamight – Così non confondiamo le mie con le tue, no?».

Katsuki diede un’occhiata intorno a sé e lo stesso fece Deku, ma la folla si muoveva tranquilla e la sfilata sulla strada principale stava quasi per iniziare. Poi tornò a osservare i due portachiavi fatti male (malissimo) e snobbò con disgusto la sua raffigurazione in miniatura, agguantando in fretta il piccolo Deku, tenendolo tra due dita e ruotandolo per osservarlo con più attenzione: aveva pure un’orecchia del cappuccio sbeccata!

«Prendo questo. – decretò e gli puntò l’indice sulla spalla – Anche se il colore è sbiadito ed è mezzo crepato.».

«È il meno sgorbio dei due, insomma.», lo corresse il verdino, trattenendo una risata e stringendo nel pugno il pupazzetto di Dynamight, avanzando di qualche passo, facendogli un cenno col capo per proseguire.

«Non montarti la testa.».

«Va bene.».

«E non dire va bene con quel tono!», berciò il biondino, faticando nel raggiungere il compagno di squadra, che lo stava palesemente prendendo in giro.

«Va bene, Kacchan.».

«E non chiamarmi così in pubblico, cazzo!»,  e gli diede una spallata, oltrepassandolo in mezzo al casino di persone che si erano affollate attorno al palco principale per vedere lo spettacolo.

Spettacolo che pure loro due si gustarono da distante, sempre in allerta verso la folla che assisteva all’esibizione variopinta e musicale.

«È bello questo festival!».

«Tsk! Devi metterti gli occhiali!».

«Oh! Eddai! Ma guardali! - e con un gesto della mano Izuku indicò i figuranti sul palco - Sono bravi! E guarda come si muovono! Non dirmi che non ti viene neppure voglia di ballare!».

«No.».

«Sei un musone, Kacchan.», e incroció le braccia al petto, strappando una flebile risata a Katsuki, che scosse la testa, forse preso da esasperazione.

«Sei sempre il solito…».

«Ah?».

«Oh! Ed dai! Ma guardali! - e con un gesto della mano Izuku indicò i figuranti sul palco - Sono bravi! E guarda come si muovono! Non dirmi che non ti viene neppure voglia di ballare!».

«No.».

«Sei un musone, Kacchan.», e incrociò le braccia al petto, strappando una flebile risata a Katsuki, che scosse la testa, forse preso da esasperazione.

«Sei sempre il solito…».

«Ah?».

«Niente. Schiodati da lì. Dobbiamo finire il giro.».

Izuku lo seguì, un occhio sempre rivolto a quel palco variopinto, o alla strada, dove la processione stava scemando e ricominciava la sfilata danzante.

Katsuki lo osservava da sopra la spalla, due passi avanti a lui, e si maledisse perché il suo viso non rispondeva ai comandi del cervello e sentiva le labbra costantemente tirate in un sorriso.

Come poteva un ragazzone di ventidue anni, quasi un metro e novanta di muscoli e un concentrato di superpoteri, avere la stessa espressione di un bambino di quattro anni? Come poteva avere gli stessi occhi luccicanti e ricchi di meraviglia dopo tutti gli orrori che aveva visto?

O forse era solo lui ad aver perso la meraviglia e aver messo a tacere quel suo bambino interiore che diceva più cose giuste del suo psicologo? La signora Okade (così aveva scoperto chiamarsi quella vecchia tanto gentile) aveva avuto ragione: egli stesso s’era dimenticato di essere un ragazzo, un marmocchio che giocava a fare l’adulto.

Il mix di canzoni reggaeton gli fece riportare lo sguardo sulla strada, assieme alle urla e a piccoli scoppi di coriandoli che accompagnavano quella musica irritante.
Alzò gli occhi al cielo e sbuffò a vedere tutta la crew maschile della Oki Mariner fare un balletto a tempo di una vecchissima canzone di Daddy Yankee (impossibile da dimenticare per quanto gli aveva fatto ribrezzo). Con sue dita si premette una tempia, un’espressione di puro fastidio e disgusto in volto, impossibilitato a distogliere lo sguardo dalle camicie in stile hawaiano dai colori improponibili che indossavano Selkie e Mick, il suo secondo in comando e che ai suoi occhi fecero perdere almeno un milione di punti, oltre ad impressionargli la retina con mossette e sculettamenti raccapriccianti.

Inspirò profondamente dal naso e si sforzò di proseguire con il proprio percorso, ma si bloccò di nuovo a sentire dei cori che inneggiavano a Deku e si voltò, appena in tempo per vederlo trascinato in mezzo alla strada proprio da Selkie, che ora gli stava spiegando un paio di mosse in modo che potesse seguirli per un pezzo della parata.

«DEKU! - prese fiato - DEKU TORNA SUBITO QUI!», urlò, con le mani a coppa per amplificare quel suono, fallendo miseramente. Così si avvicinò alla transenna e alzò le braccia al cielo: piccole esplosioni controllate che parevano fuochi artificiali attirarono finalmente l’attenzione del proprio collega, che alzò le spalle mentre ballava in un muto segnale di “non è colpa mia, mi hanno incastrato”.

Avrebbe bestemmiato, ma c’era gente e non poteva: le note di demerito erano sempre dietro l’angolo!

La musica sfumò e ci fu uno scroscio di applausi e di fischi e piccole urla mentre una nuova canzone partiva e anche altre persone si buttavano in strada a ballare.
E quello era davvero un bel guaio. Scavalcò la transenna con un balzo agile, con l’unico obiettivo di recuperare Deku e la sua stupidità in una volta sola.

D’un tratto vide le orecchie azzurre di Shiriusu e sperò – sperò davvero – che almeno le ragazze di quella ciurma di idioti avessero più sale in zucca. Invece pure lei era stata contagiata dalla stupidità degli altri e ballava schiena contro schiena con Toru, o a quello che si intuiva di lei: indossava uno di quei top striminziti che andavano tanto di moda e lasciavano la pancia scoperta, le maniche lunghe in rete e un paio di pantaloni aderenti, neri, lunghi fino al ginocchio.

Poi, d’un tratto, si sentì strattonare per la canotta e si sbilanciò in avanti, afferrando le spalle esili di Tsuyu, che l’aveva trascinato in pista.

Sentì il suo nome urlato in più punti della folla e un applauso, unito a un «Vai Kacchan!» urlato al suo orecchio da un Deku fin troppo sorridente e su di giri, che faceva volteggiare con una mano una ragazza che sembrava più sconvolta dello stesso Katsuki in quel momento.

«Balla Baku-chan!», lo incitò Tsuyu afferrandogli le mani e alzandole, intrecciando le dita con le sue e muovendo le braccia a tempo, i piedi che danzavano piano facendole muovere i fianchi. Almeno lei era vestita decentemente, combat boot neri, cargo mimetici larghi sulla gamba e una specie di canotta bianca, corta e aderente.

Katsuki si sporse verso di lei mentre la musica cambiava ancora e partiva uno strumentale di percussioni in crescendo: «Non farmi questo…».

«Sciogliti un po’, Dynamight! – si rivolse alla folla, le mani che battevano a tempo sulla sua testa, incitando la gente – DY-NA-MIGHT! DY-NA-MIGHT! DY-NA-MIGHT!», e il pubblicò la seguì nel battito e in quel coro folle e imbarazzante, che lo fece fermare in mezzo alla strada, pizzicandosi il naso con due dita, mentre la ragazza gli sorrideva con la lingua dalle labbra, ondeggiando al ritmo che aumentava.

«Rendi fiero Sero-bro!», gli urlò Hagakure mentre strusciava la spalla sulla sua, rigorosamente a ritmo, prima di dargli piccoli colpetti con i fianchi sui suoi.

Tsuyu gli riprese le mani e seguì il testo della canzone, invitandolo a muoversi: «Con calma, yo quiero ver cómo el lo menea… Mueve ese boom-boom, boy!».

Se uno sguardo avesse avuto la capacità di uccidere, in quel momento Katsuki avrebbe fatto una strage.

Ma tutti si stavano divertendo…

Fanculo!

Cominciò a muovere le braccia a tempo, poi i piedi, improvvisando dei passi di salsa e provando a guidare Tsuyu, facendola volteggiare con una mano prima di riprenderla di nuovo per la vita, dedicandole un sorrisino sardonico prima di cantare un pezzo di quel ritornello che gli stava entrando in testa: «Es un asesina cuando baila, quiere que to’ el mundo la vea… I like your boom-boom, girl!».

Quando Izuku si voltò per un momento verso di lui, a canzone quasi finita, lo vide ondeggiare i fianchi in cerchi concentrici, flettendosi sulle ginocchia, richiamando accanto a lui e afferrando per la vita sia Tsuyu che Hagakure, che gli si spalmarono addosso, tenendosi sulle sue spalle, un sorrisino soddisfatto su quelle labbra perfette quando quegli occhi cremisi si fissarono nei suoi per un soffertissimo momento.

E gli mancò il respiro per un attimo quando vide entrambe le ragazze girargli attorno e strusciare il culo su di lui. Semplicemente perché avrebbe voluto essere al posto loro.

Il suo cervello non registrò altro, né la musica che si affievoliva, né gli applausi o le urla o i cori.

Registrò solo Kacchan, che veniva verso di lui, il volto lucido di un velo di sudore e le guance rosse, forse più per l’imbarazzo che altro.

Si sentì afferrare per un braccio, lo sentì alzarsi e udì solo un: «Saluta e sorridi, coglione. A casa facciamo i conti.». E quelle parole lo riportarono alla cruda realtà della cazzata madornale che aveva appena fatto.

Finirono il giro di ronda in silenzio. Salutarono gente, ritrovarono Selkie e la sua crew, risero con le ragazze e percularono Katsuki per il suo talento come ballerino da strip club.
Ma Kacchan non se la prese e a Izuku sembrò strano. Quella minaccia subito dopo il loro essersi resi totalmente ridicoli cos’era? Solo un modo per schiodarlo da quella pista improvvisata?

Lui s’era sentito per un momento libero.
Libero da etichette. Libero da incombenze e da responsabilità.
Tre minuti di libertà erano troppi?
Non si era forse sentito libero anche quel musone di Kacchan? Non si era divertito?

Si chiese, mentre camminavano in silenzio fino ai docs del porto, se a Kacchan sarebbe piaciuto ballare, in discoteca magari; a tutte le feste lui non c’era mai. Pure al loro ultimo anno, a quella specie di prom ripreso dalle feste americane fatto in onore di All Might lui era venuto e poi era andato via presto, quasi subito.

Non l’aveva mai capito.

«Ti sei divertito?».

«Ahn?».

«Prima, ballando, ti sei divertito?», e lo vide alzare le spalle e fare una piccola smorfia con le labbra.

«Dura divertirsi mentre si è in servizio.».

Izuku roteò gli occhi: «Che palle che sei!». E a Katsuki sfuggì un risolino di naso, che non passò inosservato.

«Che ti ridi?».

«Mi hanno detto una cosa, oggi.»

Izuku rabbrividì a ripensare a quei quattro ubriaconi del cazzo e provò a incalzarlo, sperando che tutte le cose brutte che gli avevano urlato contro non l’avessero reso di cattivo umore. Ma non gli pareva proprio. «Cioè?».

«Che siamo solo… Solo dei ragazzini che stanno ancora imparando a capire come si sta a questo mondo.».

«Non capisco il nesso…».

Il biondo scosse la testa e guardò Izuku di sbieco, l’espressione stranamente serena per uno come lui. «A volte mi dimentico di quanti anni ho. Forse perché mi sembra di aver vissuto troppe cose e troppo brutte… - si grattò il centro del petto – Dovrei schiodarmi un po’ di più. Lasciarmi… Darmi tregua, ecco.».

«Darti… Tregua?».

«Darmi tregua. Lasciarmi un po’ andare. Vivere la mia età.».

Izuku si fermò, accigliato, lasciandolo andare un po’ avanti, da solo, osservando quella schiena che per lui era sempre stata un punto fermo.

«Quindi non ti sei arrabbiato? Per il ballo?».

Kacchan si voltò: «Oh, sì. Perché sei il solito idiota che si fa trascinare in cose stupide. – prese un profondo respiro – Ma è stato divertente come fuori programma, te ne do atto.», e inclinò la testa, un cenno impercettibile del collo per invitarlo a proseguire.

Izuku incespicò nei propri passi, come faceva da bambino, lo stupore negli occhi a vedere di nuovo Kacchan tanto calmo e quasi… sereno?

Si addentrarono fino all’ultimo capannone lungo il porto, scortando le poche persone che volevano godersi i fuochi d’artificio della fine del festival in santa pace, senza il chiasso del centro cittadino.

Dopo lo spettacolino, alla ciurma della Oki Mariner era andato il compito di sorvegliare le postazioni più vicine al cuore del festival. Katsuki, invece, aveva richiesto con largo anticipo quella zona defilata perché sapeva di mal sopportare la troppa calca, i bambini urlanti e la puzza di fritto da quattro soldi che s’era dovuto sorbire sulla strada principale.

Lì era calmo, e l’aria salmastra che saliva dal mare gli raffrescava un po’ la pelle appiccicaticcia.
Andò più avanti, lontano dall’ultimo lampione, dove c’erano le transenne e i cancelli per raggiungere le barche alla fonda.

Si tolse i guanti e li infilò nella cintura, arpionando il metallo fresco della ringhiera con un sospiro di sollievo, dondolandosi un po’ sui piedi, stirando un po’ le gambe nel portarle indietro.
Quella missione si stava rivelando troppo statica e, con molta probabilità, tutti i timori della Commissione sui criminali di quel luogo erano solo fuochi fatui.

Partì un primo petardo, un botto luminoso che illuminò la baia, accompagnato da un coro stupito della gente assiepata molto distante da loro.

Deku gli si affiancò appena partì un altro fuoco d’artificio: «Adesso ho capito perché hai voluto questo pezzo della ronda!», lo canzonò con una gomitata, prima di portarsi alla sua sinistra e incrociare le braccia al petto mentre lo spettacolo cominciava e partivano pure i razzi dalle piattaforme galleggianti sull’acqua, creando fontane colorate e scintillanti.

«Ehi, Kacchan.».

«Mh.».

«Ma secondo te… È più spaventoso rimanere da soli o finire con la persona sbagliata?».

Perché fai queste domande proprio adesso?

Katsuki voltò di poco la testa, osservando il profilo del ragazzo che aveva preso posto alla sua sinistra e s’era chinato, posando gli avambracci sulla transenna di metallo.

I colori degli scoppi gli illuminavano il volto e facevano brillare i suoi occhi grandi, spalancati di ammirazione verso quello spettacolo.

Odiava le domande a bruciapelo di Deku. «Perché lo chiedi?», e Izuku alzò le spalle.

«Dai rispondi…».

Dove voleva andare a parare quell’idiota? «Non lo so.».

«Oh, andiamo! Non è possibile! Non ci credo che tu non abbia un pensiero al riguardo!», sbottò Izuku, voltandosi a sua volta, beccandolo a guardarlo, poco prima che lui voltasse di scatto la testa a osservare i fuochi.

«Finire con la persona sbagliata. – disse il biondo dopo una breve pausa in cui ci aveva riflettuto un poco - Credo che sbagliare persona in amore sia facile come bere un bicchier d'acqua. E sarebbe spaventoso esserne consapevoli.»

«Mah… Sognare una persona con cui stare bene è lecito ed è quello che tutti cercano di fare. Non credi?».

«E allora che fai, ah? Continui a sbagliare fino a che non trovi quella giusta?».

«La vita è fatta di tentativi, Kacchan. Non può sempre essere un “buona la prima”.».

«E se non la dovessi trovare mai?».

Izuku alzò le spalle e sporse in avanti il labbro inferiore, prima di arcuare le labbra in un’espressione di stupore per dei fuochi particolarmente elaborati e coreografici.

«Se non la dovessi trovare mai? Bah… Meglio che restare da soli.».

«Tu e le tue idee del cazzo.».

«Perché?».

Si osservarono l’un l’altro, di sottecchi. La posizione che avevano assunto sulla transenna era la stessa. Il riverbero degli scoppi dei fuochi d’artificio riempiva la baia, dove tutti osservavano in religioso silenzio quella meraviglia pirotecnica.

«Se in questa vita non esistesse la persona giusta?».

«Esiste. Esiste per tutti. Solo che non l’abbiamo incontrata. Allora saremo più fortunati nella prossima.».

«Bella merda.».

«Perché dici?».

«Perché magari la tua persona giusta è impegnata con la persona sbagliata. E tu non lo saprai mai, perché la tua esistenza si è fottuta appresso a tutte le persone sbagliate nella spasmodica e vana ricerca dell’unica anima gemella, che ha l’esistenza fottuta da un altro stronzo come te.».

Izuku mugugnò e affondò la bocca tra le braccia conserte, chinandosi di più, lasciando che solo gli occhi si perdessero nei riflessi dei fuochi sull’acqua.

«Meglio stare da soli. - decretò Katsuki – Da soli si sta bene. Al massimo puoi fare del male solo a te stesso.».

«La solitudine è spaventosa, Kacchan.», bofonchiò l’eroe, guardando l’amico per un interminabile minuto in cui anche Katsuki s’era perso a guardarlo a sua volta, non prestando più attenzione ai colori nel cielo.

«Lo so. Poi però ci si abitua.».

Izuku mugolò e tornò a fissare i riflessi colorati nella baia.

«…a volte vorrei essere un pesce rosso.»

«Un pesce rosso?»

«Il pesce rosso è l'animale più felice della terra e sai perché? Ha una memoria di 10 secondi.».

«Tsk! Non citare Ted Lasso come se non conoscessi la reference.».

«Giusto. Dimentico che a volte sei più nerd di me.».

«Devo pur fare qualcosa se non esco la sera, no?».

Izuku lo osservò ed arricciò le labbra in una specie di sorriso forzato, annuendo, prima di tornare a guardare i fuochi d’artificio che illuminavano il mare antistante alle bocche di porto di Hamacho dove la gente s’era assiepata per lo spettacolo pirotecnico. «Sta di fatto che non vorrei ricordare questa conversazione nei prossimi dieci secondi, Kacchan. E vorrei che tu chiudessi la tua bocca per il resto della sera. Hai già parlato abbastanza per oggi.».

«Sei tu che mi hai fatto quella domanda.», e udì un grugnito esasperato provenire dal ragazzo al suo fianco. «Non fare il bambino, Deku.».

«Sono deluso. Ma la tua risposta avrei dovuto aspettarmela.».

«Perché?».

«Perché non sei cambiato di una virgola. E perché so benissimo che ami stare da solo e che questa convivenza forzata ti sta logorando. E mi dispiace. Mi dispiace sul serio. – si guardarono di nuovo – Perché ero contento di questa missione con te. Contento e spaventato.».

«Spaventato? Da cosa? Da me? Non ritira-».

«No. – Izuku scosse la testa e si alzò, stringendo con forza la transenna - Non fraintendermi. Non ero spaventato da te. Ma da… Questo. Da noi che litighiamo, come se non ci fosse stato tutto un percorso o una presa di coscienza dietro. Ero spaventato perché so come sono, mi conosco… E perché non avevo più la libertà di prima e nemmeno tu ce l’avevi… - si passò le mani nei capelli - E sto parlando a vanvera e dicendo cose senza senso come al mio solito… Ma nella mia testa hanno un senso!», e si accasciò di nuovo sulla transenna con gli avambracci che ne sostenevano il peso del busto e le mani che si torturavano l’un l’altra.

«Se ti fa stare più tranquillo ero spaventato pure io. - disse Katsuki con calma, senza neppure guardarlo, anche se sentiva i suoi occhi di smeraldo addosso - Perché con poche battute ti avevo inquadrato e sapevo che non sarebbe stato facile convivere con te. Solo… Non pensavo fosse così…».

«Così?».

«…snervante.», e rimase in silenzio a vedere i colpi sparati in aria che scoppiavano in volute dorate con un sibilo acuto.

«Scusami, Kacchan.».

«Non saresti tu, giusto?», e Izuku annuì a stento, gli occhi umidi che erano fissi sul cielo e gli rendevano tutte le luci tremule e liquide.

Poi cinque colpi vennero sparati, uno dietro l’altro, mentre fontane colorate sul bordo del molo dipingevano di rosso e blu il riflesso dell’acqua.
«Questi! - esclamò Katsuki, con la stessa enfasi di un bambino - Questi sono i miei preferiti!».

Lo scoppio dei fuochi, alti nel cielo, creò fontane eleganti di luce aranciata, le scie che si mescolavano l’una sull’altra, in un intreccio luminoso che sembrava volesse toccare la terra o la superficie nera del mare.
Ad ogni scoppio, l’aria tratteneva il fumo, creando una cornice evanescente dietro i nuovi fuochi, più numerosi, più frizzanti nel loro espandersi, dai colori vivi e dai suoni assordanti.

«Li ho visti anche mentre ero via…», azzardò Izuku, continuando ad osservare il tripudio di colori che illuminava il cielo notturno, mentre le scintille, effimere come farfalle, precipitavano spegnendosi a varie altezze. «E un po’ mi ricordavano te.».

Ma dal posto accanto al suo non arrivò altro che un sospiro, sovrastato da uno scoppio potente. Poi un altro. E poi l’ultimo, un boato forte che sembrava far tremare pure la transenna.

Era finito.
Il festival. La ronda. Quella giornata.

«Se tu fossi davvero un pesce rosso e perdessi la memoria ogni dieci minuti…Cosa vorresti?».

«Che intendi?».

«Hai dieci minuti, poi la tua mente si azzera. Vorresti che qualcuno ti facesse ricordare qualcosa?».

Deku si alzò dalla transenna, fronteggiando Katsuki, mentre si passava le mani nei capelli per poi massaggiarsi il collo, pensieroso. Katsuki, di contro, la transenna la stringeva forte con la mano, eco del nervosismo che aveva accumulato.

I fuochi, per quanto belli, erano stati per lui solo immagini colorate, frame che aveva osservato senza averle veramente vissute. Ed era la prima volta che gli succedeva.
Di solito li apprezzava molto, ma quella sera erano stati solo scoppi distanti che non gli avevano causato alcun brivido o critica delle sue.
Erano stati splendidi e perfetti e lui li aveva quasi snobbati.

«Mh… Non so nemmeno se potrei vivere qualcosa di significativo in dieci minuti!».

Katsuki guardò l’ora sul cellulare: «Due minuti.».

«Eh?».

«Da quando ti ho fatto la domanda sono passati circa… Due minuti. Prendiamoli come convenzione. Elencami le cose che potresti fare nei prossimi otto minuti.».

E Izuku spalancò gli occhi, colto alla sprovvista: «Oh, mamma! Eeehm… Cucinare un uovo! No, ma non sarebbe significativo! Ma ho fame, quindi potrebbe… No! - e si mise a camminare attorno a Katsuki, che lo osservava un po’ divertito - Potrei chiamare mamma, ma la telefonata durerebbe più di otto minuti!».

Katsuki controllava l’ora mentre Izuku sproloquiava e gesticolava, e ridacchiava talvolta, dandosi dello stupido.

«Dio! Neanche del buon sesso si può fare in dieci fottutissimi minuti!», sembrò incazzarsi, prendendo per le spalle Katsuki, scuotendolo più per nervosismo che per altro. «Quanto manca?».

«Tre minuti. Circa. - Katsuki lo osservò torturarsi l’unghia del pollice - Deve essere qualcosa che vorresti ricordare. Che ti raccontassero dopo che hai resettato la memoria…». Adorava metterlo in difficoltà, vedere quasi fumare quella testa dura piena di idee di merda.

Izuku era lì che provava a trovare qualcosa da ricordare, di cui valesse la pena mantenere viva la memoria. Smise di camminare e si mise a riflettere, incurvando di poco la schiena, una mano a sostenere il mento e gli occhi fissi a terra, accigliato, mentre borbottava infinite possibilità di azioni da compiere in dieci minuti.
Passò in secondo piano il sadismo di quella domanda che era stata posta più come una sfida, una di quelle un po’ bastardelle alla Katsuki maniera, che, il più delle volte, l’aveva lasciato pensoso e se l’era svignata. Forse l’aveva fatto pure quell-

Una pressione lieve sulla spalla destra e un tocco umido sulla guancia, dallo stesso lato. Il piccolo suono di uno schiocco gli arrivò all’orecchio.

Le ombre lunghe, proiettate dal lampione dietro di loro, gli permisero di capire solo che Kacchan gli si era avvicinato e aveva posato un bacio delicato sulla sua guancia, tenendosi alla sua spalla per mantenere l’equilibrio sulle punte dei piedi.

Ed era durato poco, una frazione di secondo forse. O forse di più, ma non lo capiva, perché il tempo sembrava essersi improvvisamente dilatato.

«Grazie per oggi. Dico sul serio.», avvertì in un sussurro, mentre percepiva il naso che premeva morbido sulla sua guancia.

«Ti aspetto a casa.», gli aveva detto poi, così vicino all’orecchio da provocargli un brivido lungo tutto il collo e la schiena.

E il suo tocco sulla spalla si fece evanescente, quasi un ricordo, mentre osservava l’ombra di Kacchan allontanarsi con calma.

«Ka-acchan! - balbettò - Ma che…».

«Ah! I dieci minuti sono scaduti, lo sai? Meglio se muovi il culo da lì! - il biondo lo osservò da sopra la spalla - E smettila di fluttuare che abbiamo finito il turno!».

Izuku tornò con i piedi per terra, rintronato da una cosa di cui non aveva ben capito né il senso né tantomeno la dinamica.Che scherzo gli aveva giocato?
O era una vendetta?

Mentre affrettava il passo per raggiungerlo si ritrovò a sorridere e a toccarsi con la mano il punto della guancia dove lui l’aveva baciato, sentendosi davvero come una scolaretta delle medie.
Ma invece del solito imbarazzo, mentre il suo cuore sembrava aver ripreso a battere regolarmente, si ritrovò ad essere divertito e compiaciuto della sagacia del giovane.

«Ti muovi!», berciò Kacchan, alzando un braccio e facendogli cenno di raggiungerlo, senza mai voltarsi.
Aumentò il ritmo e il con esso il sorriso che gli illuminava il volto.

«E pesce rosso sia.»
 

Steal it with a kiss
Our fate engraved
Scar enslaved
As we mutually destruct
Repose, my love, I've sinned enough
For the both of us
~ Motionless In White ~


 

 

- - -

 

* Mamihlapinatapai è una parola della lingua degli Yamana (tribù quasi estinta della Terra del Fuoco, tra Patagonia, Cile e Argentina)..

Il vocabolo è noto per essere una delle parole più concise e di difficile traduzione al mondo.

Il termine descrive l'atto di «guardarsi reciprocamente negli occhi sperando che l'altra persona faccia qualcosa che entrambi desiderano ardentemente, ma che nessuno dei due vuole fare per primo».

 

   
 
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