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Autore: Adeia Di Elferas    04/09/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Domenica, dopo aver aspettato Caterina fuori da San Lorenzo, Fortunati aveva detto che si sarebbe fermato in città per qualche giorno. La Sforza non aveva chiesto molte spiegazioni, le era bastato sapere che il piovano, proprio nel corso della sua paziente attesa, aveva saputo che la figlia nata da poco di Jacopo e Lucrezia Salviati non stava molto bene e così aveva desiderio di star loro vicino e pregare con loro per la piccola.

Ovviamente la Tigre non aveva potuto opporsi a una simile scelta di umana carità e anzi, intimamente si trovò a pensare una volta di più a quanto fosse un uomo di buon cuore il suo Francesco, ma di fatto già quella sera stessa si era pentita di non aver provato a farlo tornare a Castello con sé.

Il lunedì era passato tra il caldo impressionante di un 11 settembre che sapeva ancora di piena estate e la noia. Nemmeno passare del tempo con Pier Maria – che cresceva sano e forte e sempre più curioso – aveva alleviato il malessere della Leonessa che, nel capire quanto l'assenza di Fortunati le stesse pesando, si sentiva ancora peggio.

Non era bastato a distrarla nemmeno un messaggio da Creobola, che chiedeva licenza dalla Romagna, dato che le possibili trattative con il castellano a cui la Sforza era stata maldestramente promessa in sposa da Firenze sembravano poco meno che 'bagatelle da sora o da prevosto' come aveva scritto la serva. Caterina, anzi, aveva messo da parte la missiva e non l'aveva, momentaneamente, nemmeno degnata di una risposta.

Il culmine dell'agitazione era arrivato nella notte tra lunedì e martedì. Insonne, nervosa e incapace di star ferma anche un solo istante, la Tigre aveva cercato di distrarsi guardando fuori dalla finestra, ma, forse per qualche nuvola che si mescolava al nero del cielo, forse per la vista fiaccata dal pomeriggio passato – inutilmente – a cercare di leggere per distrarsi, la donna non riusciva a vedere altro se non macchie e ombre, nella volta celeste e quindi si trovò solo più frustrata di prima.

Non sapeva dire nemmeno lei quale fosse la causa principale del suo nervosismo, forse perché, probabilmente, si trattava di un insieme di fattori. Dalla mancanza del piovano, alle preoccupazioni per il Conclave che stava per iniziare, dall'attesa di notizie da Bianca, prossima al parto, agli incubi che erano tornati a visitarla ogni notte... La Leonessa sapeva bene di aver più di una ragione per essere nello stato in cui era.

Guardò un momento il letto, ma abbandonò subito l'idea di provare a dormire. Era stanca, e forse sarebbe anche riuscita a prendere sonno, ma era esasperata dagli spettri che infestavano i suoi sogni... Non voleva imbattersi più nell'ombra di Girolamo Riario, nel cadavere sfatto di Giacomo o, forse ancora peggio, nel diavolo che tutti chiamavano Valentino.

Caterina si strinse una mano nell'altra e poi, non potendo vincere l'istinto che la guidava, indossò in fretta abiti da giorno e gli stivali e uscì dalla stanza. Fortunati non voleva che uscisse a cavallo nei boschi, men che meno di notte, ma il piovano non era lì a controllarla e, grazie alla sua mezza amicizia con lo stalliere, sarebbe riuscita ad andare e tornare senza che nessuno lo sapesse.

Silenziosa come un'ombra, abbastanza sicura di non essere seguita da nessuno, la donna fece una breve deviazione verso il piccolo magazzino dove tenevano per lo più gli attrezzi di falegnameria.

Aveva fatto nascondere lì dai suoi figli una piccola lancia artigianale, che aveva ricavato lei stessa di nascosto da un vecchio paletto di legno e da una lama scartata dalle cucine. Era un'arma a dir poco rudimentale, completamente differente dalla bellissima lancia da cinghiale che Giovanni le aveva regalato anni addietro come pegno d'amore, ma le sarebbe bastata, specie se unita al pugnale che nascondeva sotto le vesti.

Da lì, andò alla stalla, coperta dal cielo che si scuriva sempre di più, malgrado ci si stesse lentamente avvicinando all'aurora.

La Leonessa entrò senza far rumore, cercando con lo sguardo lo stalliere, ma, nel buio, non lo vide.

In un angolo, dove di norma il giovane stava a dormire la notte, c'era solo la sua lanterna accesa, ma di lui non c'era traccia. Accigliandosi, la donna si chiese se fosse o meno il caso di preoccuparsi.

In fondo, poteva essere che lo stalliere si fosse solo allontanato un momento per espletare qualche bisogno corporale, o che fosse uscito dalle stalle per prendere aria...

“Lui è nella villa, con la serva che piace a Galeazzo.” la voce di Bernardino fece sobbalzare la Sforza che, in risposta, si voltò di scatto.

“E tu come fai a saperlo?” chiese, cercando di moderare il respiro, anche per non far capire al figlio quanto l'avesse spaventata.

“Li ho visti...” rispose il ragazzino, con un sorrisetto divertito.

Valutando tra sé che quella serva era molto più disinibita di quanto avesse creduto, la Tigre fece un sospiro e cambiò discorso: “Cosa ci fai in piedi a quest'ora?” chiese, mettendo le mani sui fianchi, con tono inquisitore.

“Potrei farvi la stessa domanda.” rispose prontamente Bernardino, nella penombra della stalla.

“Che insolente che sei...” lo rimproverò appena la madre, senza trattenere un sorriso.

“State uscendo a cavallo?” chiese il Feo, con tono più mesto.

Caterina si morse le labbra, indecisa se dire o meno la verità, poi annuì e disse: “L'idea era quella...” poi soggiunse: “Vorresti venire anche tu?”

Il Feo sapeva che quella proposta era nata spontaneamente e non per comprare in qualche modo il suo silenzio, tuttavia, per quanto tentato di accettare, declinò e rilanciò con una proposta diversa: “E se invece portaste con voi Giovannino?”

La milanese strinse un po' gli occhi, mentre un cavallo, svegliatosi di soprassalto, emetteva un piccolo nitrito: “Non vorresti venire tu?”

Il ragazzino era sempre più tentato, desideroso come non mai di trascorrere del tempo da solo con la madre, ma l'affetto che provava verso il fratellino e la consapevolezza dei suoi bisogni lo portarono a dire: “Portate lui... Alla sua età mi sarebbe piaciuto uscire a caccia con voi, noi due da soli... Adesso lui ne ha più bisogno di me. È importante per una leonessa e per il suo cucciolo, uscire a caccia insieme.”

Caterina guardò a lungo il figlio, in parte sorprendendosi per quella inattesa apertura. Bernardino era sempre stato agitato e a volte attaccabrighe, ma non era semplice sentirlo parlare così francamente di alcuni argomenti. Malgrado mancasse un mese al suo tredicesimo compleanno, in quel momento alla madre parve molto più grande e maturo di altri suoi figli, ben più cresciuti.

La donna stava per ribattere, quando qualcosa la fermò. Se ne accorse con un istante di ritardo, ma a bloccarla era stato un nodo alla gola, arrivato al pensiero che il Feo, per quanto fosse poco più di un bambino, avesse già affrontato il male del mondo.

'Io stessa – pensò la Leonessa – gli ho fatto male tante volte, senza volerlo, senza capirlo, pur amandolo con tutta me stessa.'

Dato che la madre non parlava, alla fine il ragazzino si schiarì la voce e propose: “Se volete vi porto qui mio fratello. Sarà felice di seguirvi, anche se assonnato...”

Benché la sua parte più razionale volesse rifiutare – sia per non coinvolgere il piccolo Medici in quell'uscita tutto sommato pericolosa, sia per desiderio di stare da sola – alla fine Caterina annuì e si mise a preparare il cavallo, nell'attesa del ritorno di Bernardino con Giovannino.

La giumenta che aveva scelto era un po' addormentata, ma reagì bene quando la Tigre l'accarezzò la fronte: “Andiamo in passeggiata – le sussurrò e poi, occhieggiando in giro per vedere se ci fosse una sella adatta a quel genere di uscite, aggiunse – e se riusciamo, cacciamo anche qualcosa...”

 

Giovan Battista Ridolfi aveva passato anche quella notte insonne. Non capiva nemmeno come mai fosse così agitato per un motivo tanto futile... Alla fine, cosa sarebbe cambiato per Firenze? Avere Caterina Sforza o Antonio Maria Ordelaffi a Forlì che differenza avrebbe fatto?

Eppure si sentiva un impostore a favorire la fazione che non voleva la Leonessa di Romagna. Il vil denaro era davvero un'arma così potente, su di lui? O erano state le minacce e le pressioni?

Cercando di lavarsi di dosso la sensazione di essere un impostore, Ridolfi si sedette alla scrivania e accese un paio di candele in più. Era ancora notte, ma prima avesse scritto quelle poche righe, prima avrebbe portato a termine il suo compito.

Prese la penna e la intinse nell'inchiostro, per poi restare con il calamo a mezz'aria per un po'. In fondo, pensò, lui avrebbe solo espresso un'opinione... Era compito dei Dieci di Balia, e solo loro, prendere una decisione concreta in merito al da farsi.

Se anche lui avesse avvallato le teorie di alcuni nobili romagnoli, che lo volevano convincere con le buone – e con le cattive – di essere nel giusto, alla fin fine non avrebbe comunque avuto alcun potere decisionale... Si sarebbe trattato solo delle parole di un uomo, per quanto investito della carica di Commissario in Romagna...

Con un sospiro pesante, Giovan Battista lanciò un'occhiata alla finestra aperta, che lasciava vedere il cielo un po' coperto che vegliava su una Castrocaro ancora addormentata, e poi iniziò a scrivere, scegliendo accuratamente ogni singola parola: 'Circa alla requisitione fate di Madonna di Imola per più mie n'ho decto alle S. V. ritragho che e' non ci hanno parte. Comprendo bene che, se madonna fussi morta, a parte del contado et del popolo di Furli non dispiaceria el Sig. Optaviano, quale hanno per bono homo.'.

Ridolfi si sistemò meglio sulla sedia, chiedendosi se qualche lettore più attento, come magari quella volpe di Niccolò Machiavelli, avrebbe capito già da quella frase che il suo suggerimento non era da prendere per buono. Era un modo sciocco per sollevarsi almeno in parte dal peso di coscienza di cui si stava facendo carico mentendo...

'Ma vivente madonna ognuno che se ne intrametterà havendoli ad indurre per volontà n'harà malgrado perchè lei vi è forte odiata e temonla assai.'. Concluse e poi passò ad altri argomenti, inutili e di diversa natura, fino ad arrivare in un soffio alla chiusura e alla firma.

Conclusa la missiva, l'uomo la sigillò con cura e poi la lasciò sulla scrivania, rimettendosi a letto, nella speranza di dormire un po', prima che arrivasse l'alba. Non c'era fretta, per spedire il messaggio. A maggior ragione calcolandone il contenuto, ossia, a suo modo di vedere, una serie di frasi senza valore.

 

Giovannino, assonnato, ma euforico, era arrivato alla stalla mano nella mano del fratello maggiore, che, appena aveva visto che la madre li guardava, aveva lasciato la presa.

“Mi raccomando – disse Caterina, prendendo in custodia il piccolo Medici – se qualcuno dovesse chiedere di me e di lui, prova a coprirci...”

“Dirò che siete da Pier Maria.” rispose prontamente il Feo: “La balia non avrà problemi a reggerci il gioco.”

Alla Tigre non sembrava un piano ottimale, ma in quel momento non le veniva in mente nulla di meglio, così annuì e caricò sulla sella Giovannino, montando poi a sua volta.

“Carlo non viene con noi?” chiese il bambino, accigliandosi un po'.

Come sempre, la Leonessa ci mise una frazione di secondo di troppo per collegare quel nome al suo settimo figlio, ma rispose con naturalezza, dicendo: “Tuo fratello ci tiene che io e te passiamo un po' di tempo insieme da soli... Ma prova a chiederglielo ancora, se vuoi.”

Giovannino eseguì e Bernardino, con fermezza, ribadì quanto anticipato dalla madre e poi augurò loro una buona caccia.

Caterina e Giovannino uscirono nel clima irreale della notte di Castello, lasciandosi lentamente alle spalle la stalla silenziosa e inoltrandosi quasi subito nel bosco che si apriva accanto a loro.

La donna non disse nulla per parecchi minuti, persa nei suoi pensieri, quasi dimentica del bambino che si aggrappava alla sella e guardava nel buio pieno di paura e meraviglia. L'aria era più fresca del solito e la luce scarseggiava, anche per via delle nuvole che si addensavano sempre di più. Non era facile tenere un'andatura regolare, dato che anche la giumenta faticava ad appoggiare le zampe in terra, vedendoci poco, così la Tigre si premuro di non scostarsi mai troppo dal limitare della vegetazione, tenendo abbastanza a tiro d'occhio le due grandi torce che segnalavano la presenza della villa.

Si erano ormai addentrati da un po', quando la Sforza sussurrò: “Ti va di provare a cacciare qualcosa?”

Il Medici si chiedeva come avrebbero fatto, con quel buio, ma non osò rifiutarsi, anzi, gonfiando appena il petto, il cinquenne ribatté, in un soffiò: “Sì, cacciamo.”

Con calma, la Leonessa mise in atto tutte le conoscenze che negli anni aveva sedimentato nella sua anima. Favorita da una breve occhiata di luna che squarciò le nubi, legò la cavalla in un punto che le sembrava tranquillo e facile da ritrovare, e imbracciò la lancia, facendo cenno al figlio di starle vicino, facendo caso al vento, in silenzio, nascosto da un cespuglio.

Giovannino stava vivendo una vera e proprio avventura. Sentiva il cuore battere veloce e anche se provava un po' di ansia, la presenza rassicurante di sua madre gli permetteva di non essere troppo spaventato. I rumori del bosco, i suoi odori e quell'aria immobile che sapeva di notte e ancora di estate lo stavano trasportando in un mondo lontano.

Erano ormai appostati da un po', quando Caterina colse un movimento anomale del fogliame. Con il caldo che aveva fatto in quelle settimane, la secchezza della vegetazione rendeva gli animali più rumorosi e facili da individuare, ma, allo stesso tempo, complicava il loro riconoscimento. Quel fruscio, per esempio, poteva essere stato causato tanto da una bestia piccola, come una volpe o un lupo, come da un animale molto più grosso, come un cinghiale o un cervo.

Quale che fosse la bestia che aveva smosso il fogliame la prima volta, quando lo fece di nuovo, portò la Tigre a far segno al figlio di stare in silenzio, mentre lei, lentamente, si sceglieva una postazione migliore per cercare di capire in cosa si fossero imbattuti.

A quella seconda valutazione, la Sforza comprese che davanti a loro si stagliava un animale imponente, probabilmente un cinghiale di media stazza.

All'improvviso la milanese sentì le gambe farsi molli e il respiro accelerare e si rese conto in un istante che se fosse stata da sola, non avrebbe avuto la minima paura. Realizzò di essere stata un'incosciente a portare un bambino piccolo come Giovannino in quel bosco, di notte.

La cavalla, legata non molto lontano, dovette sentire l'odore del cinghiale, perché nitrì furiosa, battendo uno zoccolo a terra. Quel rumore improvviso ebbe l'effetto di scatenare la bestia selvatica che si lanciò in avanti, verso la Tigre.

In un solo istante, svanirono la preoccupazione per la sorte del figlio e per la propria e anche la rabbia verso se stessa e la sua poca avvedutezza. Tutto ciò che rimase fu il mero istinto.

Come aveva fatto innumerevoli volte in passato, Caterina uscì allo scoperto, la lancia in posizione, e sfruttando lo slancio dell'animale, gli si gettò addosso.

I suoi muscoli conoscevano ancora alla perfezione i movimenti da fare, ma si erano fatti più lenti e meno potenti. La lancia non era adatta a quel genere di sforzo e, in più, il buio era più denso di quanto le fosse sembrato. Tutti questi fattori fecero sì che quando la Sforza sferrò il suo colpo andò a segno, ma solo in parte.

La bestia emise un gemito roco e poi un grido stridente e continuò la sua corsa, ma per poco. Era quasi al cespuglio dietro cui era nascosto Giovannino, quando le zampe cedettero e cadde in terra.

Il respiro del cinghiale era pesante e irregolare, la sua massa scura si sollevava e abbassava di continuo, sempre più in fretta. La Leonessa odiava uccidere a quel modo un animale. Aveva sempre cacciato e onorato la sua caccia mangiando le sue prede, ma aveva sempre cercato di non far soffrire mai troppo alcuna bestia. Aveva sempre lasciato tutta la sua crudeltà solo ai suoi prigionieri umani.

Si avvicinò quindi al cinghiale, con cautela, per paura che mosso dal terrore e dal dolore provasse a morderla comunque, anche così, ferito a morte e senza più forze. La donna, toccandolo, capì che la lancia si era spezzata al primo impatto, da qui la ferita tanto estesa, ma così poco profonda.

Deglutendo, prese il pugnale che teneva sotto le gonne e fece per dare il colpo di grazia alla sua preda, senonché si accorse che suo figlio era arrivato accanto a lei e guardava in basso in silenzio.

“Non bisogna mai lasciare nulla a metà. È bene che lo impari già stanotte.” sussurrò la milanese al figlio, ripercorrendo in parte quello che un tempo le era stato insegnato da suo padre, il Duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza: “Prendi.” gli disse, porgendogli il pugnale.

Il Medici, come paralizzato, riuscì comunque a prendere l'arma, ma rimase immobile al suo posto.

Siccome il cinghiale continuava a grugnire e piangere sommessamente, la Tigre perse la pazienza e sbottò: “Avanti! Non possiamo farlo soffrire così! Se non sai come fare, avvicinati e ti farò vedere come e dove infilare il pugnale...”

Giovannino, comprendendo la necessità di una sua pronta risposta, si accucciò accanto alla madre, e poi, tenendo il pugnale con entrambe le mani, lasciò che lei lo guidasse fino a un punto ben preciso della gola dell'animale e poi, guidato sempre dalla Tigre, colpì con tutta la sua forza. Il sangue caldo che uscì a fiotti gli sporcò le dita, le braccia, perfino il volto, ma il bambino non indietreggiò.

Provava una sorta di ribrezzo per quello che stava facendo, eppure non riusciva a sottrarvisi. Anche Caterina notò l'indugiare del figlio, quasi sorpresa del fatto che non ritraesse subito le mani, al contatto con il sangue caldo del cinghiale.

Il rantolo dell'animale non si sentiva più e le sue carni erano interamente rilassate. Ora che non era più pericoloso, la Sforza si permise di indagarlo meglio e valutò una stazza media, inferiore a quella che le era parsa durante il loro breve scontro, e si accorse che si trattava senza alcun dubbio di un maschio.

“Dovremmo eviscerarlo.” disse piano, ravviandosi soprappensiero i capelli con le mani sporche di sangue: “Così peserà meno... Povera cavalla, già ha sopportato noi, non voglio metterle una carcassa troppo pesante sulla groppa...”

Si stava alzando il vento e la visibilità era peggiorata. In lontananza, Caterina non ne era sicura, sembrava di sentire dei tuoni. La velocità doveva essere una prerogativa della loro azione.

“Te la senti di aiutarmi?” chiese la donna, cercando lo sguardo del figlio nel buio.

Questi, in tutta risposta, accusando in ritardo l'impatto emotivo di quanto fatto poco prima, innanzitutto l'abbracciò, stando attento a non mettere in pericolo la madre con il pugnale che ancora stringeva in mano. La Leonessa non lo respinse, anzi, ricambiò la stretta con trasporto, ma poi gli chiese ancora se fosse pronto ad aiutarla.

“Mostratemi come.” fu la risposta, un po' roca, del bambino.

Siccome era sempre più evidente che l'aria stesse cambiando e che si stesse avvicinando il temporale, la milanese cercò di essere il più rapida ed efficiente possibile. Si fece aiutare, per quanto possibile, dal figlio, spiegandogli a voce bassa ogni passaggio. Fu difficile portare a termine il lavoro con quel buio, illuminati solo da qualche sporadico lampo, ma quando le viscere dell'animale furono tutte in terra e la carcassa pronta per essere issata in sella al cavallo, Caterina si sentì abbastanza soddisfatta del risultato raggiunto.

“Muoviamoci, prima che piova...” sussurrò, chiedendo a Giovanni di aspettarla un momento vicino alla preda.

Tornata con la cavalla, prese le carni non badando a sporcarsi l'abito – già ampiamente sporco di sangue – e le issò in sella. Ci riuscì, ma la fatica che fece la spaventò ancora una volta. Solo qualche anno prima, era stata in grado di sollevare con relativa facilità sacchi da un quintale, a volte anche più pesanti... Era stata capace di recuperare da sola dei cadaveri appesi alle mura cittadine...

Trovarsi senza fiato e senza forze dopo quel singolo sforzo la mise davanti come non mai alla grande differenza rispetto a prima che fino a quel momento aveva solo intuito da alcuni indizi minori.

Cercando di dissimulare, prese le redini con la destra e la mano del figlio con la sinistra e disse, schiarendosi la voce: “Andiamo, non dobbiamo farci trovare dal temporale...”

Il Medici la seguì senza indugio, anche perché si stava alzando un forte vento e i lampi, dapprima rari, si stavano facendo così frequenti da illuminare il cielo a giorno di continuo.

Arrivarono alle stalle proprio quando stava iniziando a piovere e, prima ancora che il giovane stalliere – finalmente ritornato al suo posto – potesse correre loro incontro per aiutare, lo prime goccioline si trasformarono in uno scroscio assordante.

Caterina rimase sorpresa di vedere anche Bernardino nelle stalle. Si era convinta che, dopo averli salutati, fosse tornato a dormire o, al massimo, a girovagare per la villa.

Il ragazzino, invece, fece i complimenti alla madre e al fratello per la bestia che avevano cacciato e li aiutò a scaricare le carni.

“Appena rientreremo alla villa – ordinò la Tigre, guardando Bernardino – dovresti andare dalla balia di Pier Maria e chiederle di passare nella mia stanza, in modo che le possa dare disposizioni per pulire i miei abiti e quelli di tuo fratello... Preferirei che non ci vedessero in molti, coperti di sangue...”

“E per il cinghiale?” chiese lo stalliere, che stava cercando di ripulire la sella della giumenta.

“Lo porterete voi stesso nelle cucine – decretò la Leonessa – in fondo siete giovane e forte... Direte di averlo cacciato voi stesso.”

Dati questi ordini, la donna prese con sé i due figli e chiese loro se se la sentissero di correre fino alla villa, nella speranza di inzupparsi di pioggia il meno possibile. L'ingresso non era lontano, ma il diluvio che li circondava era veramente troppo intenso per attraversarlo indenni.

Sia Bernardino sia Giovannino si dimostrarono corridori molto più veloci di lei. Avrebbe dovuto aspettarselo, eppure, quando arrivò ansante dopo di loro, con i capelli intrisi di pioggia, provò dapprima un innato orgoglio materno nello scoprire nei figli una simile dote, ma immediatamente dopo provò una strana invidia e, ancora, una profonda delusione verso se stessa. Malgrado la sua stazza, da sempre notevole, era sempre stata brava nella corsa, potente nella falcata... Quella volta, invece, aveva quasi fatto fatica a coprire la breve distanza tra le stalle e il portone della villa.

Una volta al coperto, salutò Bernardino ringraziandolo per tutto e raccomandandosi di andare a cercare la balia, come detto, affinché la facesse passare nelle sue stanze per avere ordini in merito agli abiti, e poi accompagnò Giovannino verso la sua stanza.

“Poi la balia può venire nella mia stanza?” chiese il bambino, vergognoso.

“Hai ancora paura a dormire da solo?” gli chiese la madre, appena udibile, mentre camminavano silenziosi nel buio della casa, frastornati dai lampi e dai tuoni che si inseguivano sempre più insistentemente.

Il piccolo Medici attese un istante, poi ammise: “Da quando Galeazzo è partito, non mi piace la mia stanza...”

In un modo un po' articolato, quello era un modo per rispondere di sì alla domanda della madre. Si notava come il piccolo avesse timore del giudizio della Leonessa e dunque la donna non se la sentì di riprenderlo per quella piccola debolezza.

In fondo la paura del buio e l'incapacità di prendere sonno se nella stanza con lui non c'era nessuno erano due inezie, calcolando gli anni confusi e disarmonici che aveva passato Giovannino. Senza contare che proprio quella notte, nel corso della loro battuta di caccia, aveva dato prova di essere un bambino coraggioso e pronto a tutto.

“Va bene, ti manderò la balia...” disse quindi Caterina, con una certa dolcezza, per poi rimangiarsi tutto e proporre: “Visto che sono da sola anche io... Vuoi dormire nella mia camera, questa notte?”

Esaltato all'idea di poter avvalersi della presenza della madre – per lui simbolo assoluto di forza e sicurezza – in quella notte di tempesta, il piccolo accettò senza esitazione alcuna e concesse addirittura: “Se proprio la luce vi dà fastidio, per questa notte posso farne a meno...”

La Leonessa, alla quale pur premeva togliere quell'abitudine al figlio, non se la sentì di negargli quella rassicurazione, specie in una notte di tempesta, e così, con un sorriso tranquillo, rispose: “Se preferisci lasciare accesa una candela o due, per me va bene...”

Madre e figlio erano in stanza da pochi minuti, quando qualcuno bussò alla porta. Avevano appena cominciato a togliersi gli abiti sporchi e Giovannino si era subito accoccolato sul letto, guardando rapito verso la finestra che si apriva sul temporale, mentre la milanese era in sottoveste, cercando qualcosa da mettere.

Convintissima che alla porta si trattasse della balia mandata a chiamare tramite Bernardino, la Tigre andò ad aprire senza chiedere nulla.

Restò perciò un attimo stupita nel trovarsi davanti frate Lauro. L'uomo, con il suo sorriso perenne, la guardò per un solo istante, evitando di indugiare oltre il lecito sulla sua figura, e poi venne distratto dalla sensazione che ci fosse qualcun altro in stanza.

Prima che potesse scorgere il piccolo Medici, Bossi si trovò a dire, imbarazzato: “Credevo che essendo Fortunati a Firenze, voi foste sola a quest'ora...”

“C'è mio figlio.” spiegò la Tigre, aprendo di più la porta e permettendo al frate di vedere il bambino che, in brachette, lo fissava incuriosito appollaiato sui cuscini del letto della madre: “E comunque, perché mai il fatto che io fossi sola sarebbe stato subordinato all'assenza del piovano?” soggiunse la donna, piccata.

Bossi, resosi conto di essersi spinto troppo oltre nelle supposizioni, recuperò il suo solito sorriso e scosse appena il capo: “Non saprei proprio...” disse e poi le porse una lettera, che era il vero motivo della sua visita notturna: “Hanno recapitato poco fa questa. Era tutta bagnata, quindi prima l'ho fatta asciugare... Sembra che verso Firenze il tempo sia molto più brutto che qui...” e proprio nel dire ciò il frate si ritrasse un po' al rombo di un tuono.

Caterina prese la lettera, e vide che era di Tonello. Ringraziò il frate e richiuse la porta. Si mise alla scrivania e aprì il messaggio. L'uomo la spronava a muoversi, a sfruttare il momento, le ricordava che gli altri signori spodestati dal Valentino non si stavano facendo problemi a reclamare le loro vecchie terre, e la rassicurava sul fatto che se avesse mandato almeno Ottaviano con dei soldati, avrebbe capito che gli uomini di Imola non volevano 'così male a Vostra Signoria come altri dice'.

Si rese conto solo alla fine che la lettera era stata spedita da Roma. Dunque Tonello era nell'Urbe...

Ripiegando la lettera, la Sforza si sentì addosso lo sguardo interrogativo di Giovannino e così, prendendo carta e inchiostro, si sentì in dovere di spiegargli: “Un nostro caro amico è a Roma e devo scrivergli cose importanti... A breve verrà eletto un nuovo papa e dobbiamo fare in modo che sia un papa a noi amico...”

Dubitava che il figlio potesse capire il senso di quelle frasi, non nella loro pienezza, almeno, perciò non si stupì nel vederlo aggrottare la fronte e mordersi il labbro.

“Tu riposa... Dopo che sarà stata qui la balia, ci metteremo a dormire... Manca ancora un po' all'alba e anzi, credo che con questo tempaccio il sole nemmeno si vedrà per tutto il giorno...” disse la Leonessa e, come per darle ragione, una nuova raffica di lampi aprì il cielo e lo scroscio della pioggia si fece tanto forte e continuo da coprire ogni altro rumore.

 

   
 
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