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Autore: Adeia Di Elferas    14/09/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fortunati aveva dovuto aspettare che il cielo si placasse, prima di mettersi in cammino. La figlia più piccola dei Salviati non si era ancora ripresa, ma tutti sembravano ottimisti riguardo la sua salute e così il piovano non si era sentito più di tanto in colpa nell'interrompere le preghiere per la piccola e correre a controllare che alla villa fosse tutto sotto controllo.

Il suo timore riguardava in particolare i possibili danni fatti dai fulmini. La tempesta, durata quasi due giorni, era stata di una ferocia inaudita e aveva scatenato la sua furia soprattutto con saette ripetute e violentissime.

Si temeva che la campagna fosse stata colpita ancor più duramente della città, e questo era tutto dire dato che a Firenze, per esempio, in appena mezzora erano caduti ben sette fulmini fatali, di cui uno si era scaricato sulla Porta di San Pietro Gattolino, danneggiandola in modo serio, e un altro su San Giovanni, facendo staccare la croce, che era rovinata in terra, e un altro ancora era caduto in via Gora, dove si diceva avesse fatto grandi danni.

Da fuori le mure erano giunte, per il momento, ben poche notizie, ma nessuna di essere era rassicurante. Francesco aveva sentito con le sue orecchie raccontare che, a Pretola, un certo Bartolomeo Nelli, che era a cavallo, era stato centrato in pieno da una saetta, che aveva incenerito all'istante sia lui sia l'animale, spaventando un altro cavallo che avevano al seguito che, nella fretta di scappare, s'era spezzato una zampa. Anche a Poggio A Caiano si contava una vittima certa e così pure a Calenzano... In Mugello, addirittura, una casa era stata colpita da una scarica e sotto le macerie erano morti una coppia di coniugi con tutti i figli.

Dinnanzi a quei catastrofici resoconti, il piovano non aveva potuto non sentire un fremito di paura nel pensare alla villa in cui viveva la sua Caterina. Poteva essere successo qualcosa di brutto a Castello... Doveva accertarsene il prima possibile.

Così, incurante della strada ancora disagevole e dei piovaschi che, di quando in quando, ancora imperversavano, aveva lasciato Firenze e aveva spronato senza sosta il suo ronzino fino ad arrivare a destinazione.

Non appena il fiorentino vide profilarsi la villa, si rese conto che non dovevano esserci stati grossi danni, anche se un paio di servi si stavano affaccendando con una scala per sbarrare una delle finestre d'angolo nel piano terra, verosimilmente in attesa della sostituzione di un vetro rotto.

Man mano che si avvicinava, l'uomo fu lieto di vedere che i volti dei due domestici erano sereni e poi scorse anche la balia di Pier Maria, intenta a parlare con una delle cuoche, e anche loro sembravano tranquille.

“Sicché per levare il sangue dalla camicia io farei come ho detto, specie se mi dite che la macchia l'è così grande...” stava dicendo la cuoca, mentre Francesco finalmente arrivava a tiro d'orecchio.

L'uomo, salutando con un cenno le due donne, guardò interrogativo la balia, che, congedandosi con la cuoca, si avvicinò al piovano e disse: “Messer Fortunati... Non vi aspettavamo così presto...”

“Cos'è questa storia di una camicia macchiata di sangue?” chiese Fortunati, a voce bassa: “Forse è successo qualcosa a Madonna..?”

La balia si affrettò a scuotere il capo e, arrossendo, forse capendo di aver sbagliato anche solo a chiedere alla cuoca un consiglio, peggio ancora a farsi sentire dal piovano, spiegò: “No, no, stanno tutti bene... Devo solo levare del sangue d'animale da alcuni abiti di Madonna e di messer Giovannino e sto facendo fatica, perché sono macchie molto estese... Ho domandato alla cuoca, perché credo che nel suo lavoro le sia capitato spesso...”

“E come mai gli abiti di Madonna e del figlio sono così sporchi di sangue?” si informò Francesco, già immaginando l'ovvia risposta che, comunque, non arrivò dalle labbra della balia.

“Ho già detto troppo – fece lei, abbassando lo sguardo, di colpo spaventata dalla possibile reazione della sua padrona, se fosse venuta a sapere della facilità con cui aveva raccontato in giro un qualcosa che le era stato chiesto di tenere privato – non posso dire oltre, vi prego, ne va della mia vita!”

Fortunati trovò quell'esclamazione un po' eccessiva, ma poi si ricordò che era della Tigre di Forlì che si stava parlando e l'ipotesi di uno scatto d'ira con conseguente punizione della balia se non mortale, almeno molto violenta, non gli parve del tutto irreale.

“Non importa... Vi ho già chiesto troppo.” concesse e, con un sospiro pesante, entrò nella villa, deciso a chiarire quella questione direttamente con la Leonessa.

 

Caterina ci aveva pensato molto a lungo, leggendo e rileggendo la lettera di Tonello e si era risolta a scrivere una lettera da inviare a Galeazzo, con cui, sperava, si potesse convincere Ottaviano a ridestarsi e fare qualcosa di utile.

Anche se lei per prima non credeva che il suo primogenito fosse gradito alla popolazione, sapeva comunque che la sua presenza sarebbe stata vista come un preludio al suo ritorno e finché non le fosse stato possibile recarsi a Forlì o almeno a Imola di persona, l'unica carta che aveva da giocare era quel figlio che mai era riuscita ad accettare davvero.

In tutta onestà, non avrebbe mai voluto scomodare Ottaviano – specie perché non si fidava affatto di lui e del suo operato – ma finché non le arrivavano buone notizie né da Scipione, che era ancora in Emilia, né da Gian Piero Landriani, che monitorava il milanese, né, tanto meno, da Baccino a Roma, si vedeva costretta a tentare quel passo.

Conoscendo abbastanza il suo primogenito da sapere che parole provare a usare per smuoverlo un po', aveva deciso di redigere personalmente la missiva e di inviarla a Galeazzo affinché lui e Cesare semplicemente la firmassero, come se fossero loro gli autori, e la inviassero al fratello.

La Tigre, già tentata di chiudere la lettera così com'era, facendo solo attenzione a non sigillarla in modo che quell'ultima importante operazione potesse essere portata a termine da Galeazzo, si ritrovò a rileggere quello che era, a suo modo di vedere, il cuore del messaggio: 'intendemo qualche operacione de la Ill.ma nostra Matre quale non ne poseno sumamente dispiacere per continuar Lei in li termini primi non che emendarsi de li pasati come ricercharia el bisogno: et a nui potissime se osptano li populi nostri per la suspicione hano de la restauracione di Madona qual mai admetarano se non cum la morte'.

Trovò che le parole usate fossero sufficientemente dure da accendere il desiderio di rivalsa di Ottaviano nei suoi confronti, ma allo stesso tempo fossero abbastanza misurate da sembrare davvero scritte da Galeazzo o, al più, da Cesare. Stava quasi per alzarsi dalla sedia, quando sentì la porta aprirsi e, non avendo udito prima bussare, seppe in anticipo chi fosse arrivato a disturbarla.

“Credevo saresti rimasto a Firenze più a lungo.” disse, senza sollevare lo sguardo verso Fortunati.

Siccome l'uomo rimase in silenzio, la Leonessa per qualche istante fece finta di nulla, ripiegando con cura la lettera, ma poi si impensierì e si voltò a guardarlo.

“La bambina dei Salviati..? Non sta ancora bene? È peggiorata? Non dirmi che...” cominciò a dire, non trovando altra spiegazione al volto cupo del piovano.

Francesco scosse il capo: “Davvero ti interessa di quella bambina?” chiese, ma non attese risposta, ricominciando subito: “La piccola Salviati per ora è stazionaria... Non so dirti come andrà a finire, in realtà... Ma so che mentre io non c'ero, qualcuno è andato a caccia.”

“Cosa te lo fa credere?” chiese Caterina, alzandosi e mettendosi sulla difensiva.

“La balia sta disperatamente cercando di capire come togliere del sangue dai suoi abiti...” fece l'uomo, sollevando le sopracciglia e incrociando le braccia sul petto.

“Ha fatto a botte con... Un ragazzo della servitù.” provò a dire la Sforza, con scarsa convinzione.

“E poi ci hai fatto a botte anche tu?” chiese Francesco, sospirando: “So che ne saresti capace, ma la balia ha detto che i vostri abiti sono coperti di sangue animale.”

“E allora?” chiese Caterina, schiva: “Ha quasi cinque anni e mezzo... Io non ero più grande di lui, quando mio padre mi ha portata a caccia la prima volta.”

“E credi che tuo padre abbia fatto bene, con te?” inquisì il piovano, serio.

“Giovannino è mio figlio, non tuo. Decido io come educarlo.” chiuse la questione la Tigre.

“Certo... Porta un bambino di cinque anni a caccia... Lascia un ragazzino di nemmeno tredici alle cure di un fratellastro, che nemmeno è suo fratellastro, che lo porta per bordelli, manda quello di nemmeno diciotto a trattare di politica internazionale... Uno passa le sue giornate su libri che conosce a memoria, e non fa altro che mangiare... Uno l'hai dato in pasto alla Chiesa, come se non fosse tuo, l'altro è un perdigiorno che sa solo correre dietro a tutte le sottane che vede...” cominciò a elencare il fiorentino: “Hai lasciato che tua figlia si portasse a letto chi le pareva finché non si è trovata un vecchio con uno Stato decadente che se l'è sposata...”

Lo schiaffo arrivò più forte e più improvviso di quanto Caterina avesse voluto, ma se aveva potuto passare sopra alle allusioni a tutti gli altri figli, non era riuscita a sopportare l'ultima, riguardante Bianca. Non solo era l'allusione che l'aveva scottata di più, perché la riteneva profondamente ingiusta, ma anche perché temeva che dopo i figli in vita, Fortunati sarebbe passato perfino a Livio.

“Perché fai così?” gli chiese, rabbiosa: “Sei tornato in anticipo da Firenze solo per farmi la predica?”

“Sono tornato prima da Firenze perché ero preoccupato per te! Perché questo dannato temporale ha ammazzato della gente!” sbottò Francesco, diventando rosso in viso: “E invece scopro che mentre io ero in ansia per la tua salute, tu vagavi per il bosco a cacciare come una sconsiderata, mettendo a repentaglio anche la vita di Giovannino!”

Caterina sentiva ancora la mano che aveva dato lo schiaffo friggere. Si era pentita all'istante di quel gesto, ma era troppo tardi per rimangiarselo.

Tenendo lo sguardo basso, disse: “Sono andata a caccia perché non ce la facevo più a restare da sola... Dovevo tenermi impegnata.” poi si morse il labbro e provò a cambiare argomento: “Mia cognata, domenica scorsa, in chiesa, mi ha chiesto se possiamo organizzare un incontro tra lei e Giovannino. Vorrebbe vederlo.”

“Tu cosa le hai risposto?” chiese il piovano, accettando il cambio di registro e pentendosi a sua volta di essere stato così aggressivo.

La Leonessa era per lui ancora qualcosa di misterioso e ancestrale, qualcosa che riusciva a smuovere lati del suo carattere che lui per primo non aveva mai conosciuto. La rabbia, la gelosia, tutto quel groviglio di umori estatici e ansiogeni che lei gli provocava erano per lui come una potente droga della quale non sapeva più fare a meno, ma da cui restava sempre scottato.

“Che per me andava bene.” sussurrò Caterina.

“In tal caso, faremo in modo di organizzarci.” annuì l'uomo e poi, nel disperato tentativo di ritrovare una connessione, le si avvicinò e le prese una mano.

Non vedendosi rifiutato, provò a baciarla e anche quella volta la Leonessa si fece trovare ricettiva e collaborante, anzi, quando lui fece per ritrarsi, lo tenne stretto a sé qualche secondo in più.

“Non litighiamo. Non adesso.” bisbigliò lei: “Ci sono notizie interessanti da Firenze? Si sa qualcosa del Conclave?”

Quella repentina virata verso la politica italiana strappò un sorriso a Fortunati che, felice di riconoscere di nuovo la Tigre nella donna che aveva davanti, si prestò volentieri a farle il resoconto delle piccole novità che aveva appreso mentre era dai Salviati.

 

Baccino, come quasi tutti gli abitanti di Roma, quel giorno non riusciva a fare altro che rivolgere il proprio sguardo verso i confini del Vaticano.

Il Conclave stava per cominciare e quel sabato l'Urbe era avvolta da un'aria immobile e irreale, da un silenzio che poco si sposava con il fragore dei cortei che fino al giorno prima avevano animato pressoché ogni momento della vita dei romani. Sembrava quasi impossibile che il via vai di Cardinali e servitori fosse finito... Erano entrati tutti negli enormi palazzi pontifici e da lì non sarebbero usciti finché un nuovo papa non fosse stato eletto.

Baccino non serviva un uomo così potente da poter entrare in Conclave e così era rimasto fuori, come tutti gli altri, in attesa. Avrebbe voluto poter fare di più per la causa della Tigre di Forlì, ma ogni via gli era preclusa, in quei giorni. Aveva solamente potuto vedere da lontano il calesse di Giuliano Della Rovere, ma non era neppure riuscito a scorgere il volto del Cardinale.

Dopo l'ultimo incontro con Tonello, fidato partigiano della Sforza, si sentiva ancor più inutile di prima. La proposta, arrivata tramite l'uomo, di raggiungere la Leonessa a Castello lo aveva allettato, ma alla fine aveva preferito fingere di non averla ricevuta. Da un lato si vergognava moltissimo della propria inutilità, e dall'altro aveva paura che la donna non sarebbe stata felice di vederlo arrivare nella villa in cui viveva con alcuni dei figli. Caterina era sempre stata una donna volitiva e difficile da comprendere. L'ultima cosa che Baccino voleva fare, era adirarla per qualche motivo.

Era ormai primo pomeriggio. Il cremonese era ancora per strada e continuava, come tutti, a buttare un occhio in direzione di San Pietro, quasi si aspettasse già un segno di elezione.

Scuotendo tra sé il capo, si disse che sarebbe stato meglio per lui portare a termine il compito datogli dal suo padrone, così si avvicinò a una delle bancarelle di spezie che gli era stata indicata e cominciò a contrattare per un po' di zucchero e un po' di pepe.

Mentre faceva spesa, si rese conto che i romani, come lui, continuavano a chiedersi chi sarebbe stato il nuovo papa, perché da quel nome sarebbero dipesi benefici, feste e fortune, così come tasse, guerre e disgrazie. Il popolino, però, aveva una grande attenzione anche per qualcosa di molto più triviale.

“La più furba è stata quella Sancia!” stava dicendo una popolana un po' sdentata: “Che li ha gabbati tutti e s'è fatta rapire dal Colonna!”

“Almeno è a Napoli a prendere un bel sole!” commentò il mercante.

Baccino si trattenne dal commentare, soprattutto perché poi sentì chiamare in causa un nome che gli interessava molto: “Quella Maria Della Rovere di cui parlano, la nipote del Cardinale, lei si che ci darà di che sparlare...” prese a dire un'altra acquirente, col volto rugoso di chi aveva vissuto abbastanza primavere da saper dare simili valutazioni senza problemi: “Vi immaginate se venisse fatto papa il Della Rovere? Si porterebbe qui la nipote, coi figli e con l'amante di lei!”

“Sì e troverà anche qualche pollo da farle sposare, così da mettere in ordine tutto e farla sembrare rispettabile!” rise il mercante, chiedendo poi proprio a Baccino: “Quanto ve ne do, di zucchero?”

“Dovranno scegliere un marito sordo e cieco, o senza spina dorsale...” tornò a commentare la vecchia: “Altrimenti quel bel soldatino che dicono sia il suo amante troverà il ferro della spada, qui a Roma!”

“Col papa che lo vendicherebbe per amor della nipote?” rise un viandante, che si era fermato a origliare ogni cosa: “Sarà anzi bene che scelga questo marito bello e somigliante a quell'altro, o quando la Maria avrà un pupo, sarà un problema spiegare perché non somiglia al padre putativo!”

Mentre tutti ridevano sguaiatamente, Baccino prese nota mentale di tutto quanto era stato detto su Maria Giovanna Della Rovere, pagò, ringraziò e tornò al palazzo del suo padrone. Era pur vero che le sorti di quella giovane interessavano solo marginalmente alla Tigre, ma suddetta Tigre aveva più di un figlio maschio celibe e, sentite certe cose, al cremonese non parve tanto strano pensare che Giuliano, se eletto, sarebbe stato capace di avanzare qualche strana proposta alla Sforza.

“Un figlio docile, di buon carattere e disposto a sopportare – borbottò tra sé – in cambio, se non dello Stato suo, almeno almeno di qualche favore...”

Per età e per carattere, a Baccino venne subito in mente Galeazzo Riario. Non lo vedeva da anni, ma non era difficile immaginare che giovane uomo stesse diventando.

Ormai arrivato a destinazione, però, lasciò perdere ogni suo proposito di scrivere i suoi dubbi a Caterina, pensando che si trattasse solo di voli pindarici e, servile come si richiedeva al suo ruolo, andò in dispensa a sistemare le spezie acquistate, mettendosi il cuore in pace, in attesa di sapere chi sarebbe stata il nuovo pontefice.

 

“E dunque, come ci si sente a essere Camerlengo e Protodiacono di un Conclave?” chiese Giuliano, guardando Raffaele con aria quasi divertita.

La sera era scesa su quel primo giorno di Conclave e il Della Rovere non aveva resistito all'idea di poter parlare a quattrocchi con quel parente che, seppur non suo consanguineo, tanto poteva essergli utile, vista anche la sua funzione in quel consesso.

“Io sono qui solo affinché tutto si svolga nel modo corretto.” si schermì il Cardinale Sansoni Riario, che, a quarantadue anni, sembrava un pulcino spelacchiato, con la chierica incoronata di capelli grigi e le spalle smilze strette come a volersi difendere da chissà cosa.

“Fate sempre il modesto – rise Giuliano, versando da bere a entrambi – ma siete sopravvissuto già a più di un papa... E c'è chi pensa che potreste, un giorno, diventare pontefice voi stesso.”

Raffaele, che aveva sempre fatto della prudenza la sua arma migliore, sollevò le sopracciglia e ribatté, tranquillo, ma con una certa decisione: “Non rientra nei miei progetti, diventare pontefice.”

“Ma diventarlo rientra nei miei.” disse subito il Della Rovere guardandosi un attimo attorno, quasi che avesse paura che nella stanza del cugino di potesse essere qualche spia nascosta: “E so che voi siete tra i pochi che possa dirmi quante sono le mie reali possibilità.”

“Non vedo come potrei...” provò a dire il Cardinale Sansoni Riario, deglutendo un paio di volte: “E poi manco da Roma da parecchio, quindi...”

“So che conoscete bene ogni schieramento. Scommetto che non avete fatto altro, da che è morto quel diavolo di Borja, se non cercare di capire da che parte avrebbe tirato il vento!” sbottò Giuliano, il collo taurino che prendeva colore per l'agitazione: “E dunque vi dico, parliamone! Siamo dalla stessa parte!”

Siccome Raffaele taceva, il calice ancora colmo in mano, il Della Rovere comprese che fosse il caso di tentare un approccio diverso. Erano anni, ormai, che non si confrontava apertamente con il parente, ma non lo trovava molto cambiato. Certo, a differenza di tanti anni prima, quando, forse, il suo unico punto debole era davvero la paura di finire ucciso per qualche motivo, adesso c'era un'altra corda da poter toccare, per convincerlo a collaborare.

“Se io potessi diventare pontefice – cominciò a dire Giuliano, guardandosi distrattamente l'anello cardinalizio – rimetterei le cose a posto. A partire dalla spiacevole condizione di nostra cugina, Madonna Caterina...”

Il Cardinale Sansoni Riario, seppur ancora poco convinto, a quelle parole parve decidere che, in fondo, un parente – seppur per lui acquisito – come il Della Rovere poteva in effetti dimostrarsi una delle poche carte da giocare per provare a favorire in qualche modo la Tigre e, di riflesso, i di lei figli.

Così, con molta calma, cercando sempre di non sbilanciarsi con giudizi personali, Raffaele cominciò a spiegare tutto quello che aveva saputo o intuito, sperando che Giuliano potesse far buon uso di tutte quelle preziose informazioni.

Gli disse di come il re di Francia spingesse molto per Georges d'Amboise, Cardinale Presbitero di San Siro e Arcivescovo di Rouen. Luigi XII sperava che per lui, a parte l'altro francese presente, ossia Amanieu d'Albret, avrebbero votato in massa i dodici Cardinali spagnoli. Sembrava un controsenso, visto che anche il re di Spagna fomentava una propria fazione, capitanata da Juan De Castro, Cardinale Presbitero di Santa Prisca e Vescovo di Agrigento, e da Bernardino Lopez de Carvajal, Cardinale Presbitero di Santa Croce in Gerusalemme, Vescovo di Siguenza e Amministratore Apostolico di Avellino e Frigento.

La chiave di volta dei francesi, secondo il papa, sarebbe stato Cesare Borja che, seppur ancora debilitato per le febbri, aveva giurato di essere in grado – seppur a distanza – di influenzare il voto dei Cardinali spagnoli. Era difficile, secondo il Cardinale Sansoni Riario, che questo giochetto riuscisse, dato che il Valentino non era solo debilitato nel fisico e nell'animo, ma aveva anche perso la maggior parte dei suoi amici nel momento stesso in cui suo padre Rodrigo era morto.

C'era da dire, però, che sia Juan De Castro, sia Bernardino Lopez de Carvajal avevano già dato prova di aver paura di potersi inimicare qualche vecchio simpatizzante dei Borja e, allo stesso tempo, non volevano dare l'idea di propendere per la Francia, che era loro nemica nella guerra di Napoli.

“E dunque, tutti questi spagnoli, per chi sarebbero disposti a votare?” chiese Giuliano, dato che il cugino sembrava non voler continuare.

Raffaele, un po' perplesso sul da farsi, alla fine sospirò e ammise: “Ebbene, vorrebbero, sembra, appoggiare il filone italiano, proposto da alcuni Cardinali nostri...”

“Quindi..?” insistette il Della Rovere.

“Francesco Nanni Todeschini Piccolomini.” rispose il Camerlengo: “Secondo gli spagnoli sarebbe una scelta prudente e secondo alcuni italiani sarebbe una scelta addirittura indispensabile, perché il papato lasciato agli stranieri, l'ultimo pontefice ne è stato una prova evidente, porta solo guai.”

I milanesi Giovanni Antonio Sangiorgio, Vescovo di Parma, Antonio Trivulzio, e perfino Ascanio Maria Sforza... Tutti i milanesi erano di quell'idea. Anche ai due fiorentini, Francesco Soderini e Giovanni Medici, quell'idea non dispiaceva.

“Ai genovesi penserò io.” tagliò corto Giuliano.

“Credevo che ci tenesse a diventare voi papa...” sussurrò Raffaele, mentre il Della Rovere vuotava il suo calice e si alzava, per l'agitazione e non per congedarsi.

“Piccolomini non ha ancora sessantacinque anni, ma è un vecchio... Con un po' di fortuna, nel giro di un anno ci sarà un nuovo Conclave. E chi votare, se non l'uomo che è riuscito, pochi mesi addietro, a mettere tutti d'accordo sul nome del defunto papa?” chiese, teatrale, Giuliano: “Li farò convergere e andare d'accordo. Appianerò i dissidi con Francia e Spagna, facendo capire che un francese vorrebbe portare il trono di San Pietro in Francia, il che sarebbe peccaminoso agli occhi di Dio, mentre uno spagnolo rischierebbe di essere inviso al mondo, ricordando troppo da vicino il nostro caro Alessandro... Un italiano, com'è giusto che sia: ecco chi serve a Roma. E Piccolomini è anziano e ha quella faccia raggrinzita che ci si aspetta di vedere in un saggio. Piacerà. Vinceremo, cugino.”

Sentirsi tirare in mezzo così a quel genere di giochi fece sudare freddo Raffaele che, tuttavia, con un sorriso un po' tirato, convenne: “Vinceremo.”

“Bene, è deciso.” concluse, soddisfatto, il Della Rovere: “E tu, come Camerlengo, farai in modo che le cose vadano come devono andare.”

Il Cardinale Sansoni Riario quasi non aveva colto il momento esatto in cui il cugino era passato dal voi al tu, ma ne era intimidito, più che irritato o felice. Togliere la patina di distanza che c'era stata fino a quel momento tra loro, a suo modo di vedere, lo comprometteva.

“Per il resto, come va? Tutto bene?” domandò Giuliano: “Sono stato così zotico da parlare subito di affari, senza chiedere nemmeno come andassero le cose...”

“Tutto bene.” annuì subito Raffaele, per evitare altre domande, poi chiese, in un eccesso di intraprendenza: “Ho saputo che, invece, vostra nipote è rimasta vedova non molto tempo fa...”

“Quel cane del Borja le ha ammazzato il marito. Non credo sia stata una grave perdita, ma sappiamo come sono le giovane donne di oggi...” il Della Rovere tentennò un momento, prima di addentrarsi troppo in certi dettagli, e alla fine riassunse nel modo più elegante che gli riuscì: “Le serve presto un nuovo marito, prima che succeda qualcosa di irreparabile. Ha il sangue caldo di noi Della Rovere, in fondo, non posso sperare che se ne stia chiusa in un monastero a pregare...”

Non riuscendo a trattenersi, Raffaele chiese: “Dunque è vero che ha un amante..?”

Giuliano si rabbuiò un istante appena e poi, nel tentativo di sembrare lui per primo poco impensierito da quella faccenda, ribatté: “Si sta prendendo un capriccio. Finché non arrivano figli a complicare tutto, faccia quello che le pure. Quando avrà un marito che ne difenda il nome e la rispettabilità, allora saranno solo affari loro...”

Il Cardinale Sansoni Riario, a disagio nel parlare di quel genere di argomenti, stava per cambiare discorso, ma il cugino non glielo permise.

“A tal proposito...” disse, con tono casuale: “Madonna Sforza ha dei figli celibi che potrebbero avere l'età giusta per sposare mia nipote Maria Giovanna...”

“Dovreste chiedere direttamente a lei.” fu la risposta dietro cui Raffaele si trincerò subito.

“Ho capito. Non volete fare da sensale.” rise Giuliano, tornando al voi: “Per ora vi lascio. S'è fatto tardi. Ma ricordate quello che ci siamo promessi. Il nuovo papa che uscirà di qui sarà un italiano e si chiamerà Piccolomini, intesi?”

“Intesi.” sussurrò il Cardinale Sansoni Riario, trattenendo il fiato e tornando a respirare solo quando il cugino ebbe lasciato la stanza.

   
 
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