
L’AVVERTIMENTO
– Prima parte –
Arcanta, luglio 1914
A un mese dal matrimonio, Solomon si stupì che la sua vita non avesse subito drastici cambiamenti; come da accordi, i momenti che trascorreva con sua moglie si riducevano agli occasionali riti di famiglia, ma, a parte ciò, ciascuno era libero di gestire il proprio tempo in autonomia. E Solomon era ben intenzionato a sfruttare il suo per portarsi avanti col piano, cogliendo ogni pretesto per stare incollato al Bibliotecario.
Xavier Ascanor era un mago fuori dal comune, forse la persona più enigmatica che avesse mai incontrato in vita sua, ma era anche uno che manteneva le promesse, e fu lieto di accompagnarlo a visitare la Biblioteca tutte le volte che desiderava, trovando in Solomon un eccellente interlocutore:
«I miei antenati lasciarono la Spagna durante il Califfato di Cordova» gli raccontò una volta, con la sua voce fredda e monotona, mentre passeggiavano tra alte scaffalature e vetrine; la collezione degli Ascanor era maestosa, e non comprendeva solo libri, bensì armi, invenzioni brevettate, ricettari di pozioni, e persino opere di scultura e pittura realizzate con la magia. «Fummo tra le prime famiglie di maghi a trasferirsi ad Arcanta, al tramonto del Vecchio Mondo: arricchimmo la Cittadella con il nostro patrimonio, coi traguardi raggiunti nell’ambito della matematica e dell’alchimia, frutto del connubio con la fiorente cultura araba.»
«Molto interessante» commentò educatamente Solomon, che però faticava a nascondere la sua impazienza. In altre circostanze avrebbe trovato tutto ciò affascinante, ma al momento gli importava solo di scoprire dove fosse il Libro Nero. E in nessuna di quelle teche sembrava esserci qualcosa che avesse vagamente a che fare con il Vuoto.
Decise di deviare il discorso, per velocizzare un po’ le cose: «Il Vecchio Mondo è un argomento ancora dibattuto: i Decani lo considerano un’epoca oscura, da non ricordare. Ma a conti fatti, rappresenta la culla della nostra civiltà. Lei cosa ne pensa?»
Xavier spinse gli occhiali sulla cima del naso. «Sono uno studioso, signor Blake, non un politico: trovo che impedire agli uomini di perseguire la conoscenza sia da ottusi.»
Solomon sorrise con malizia. «Speriamo che l’Inquisitore Blackthorn non sia acquattato dietro un angolo a origliare!»
«Perché dovrebbe farlo?»
«Cosa?»
«Acquattarsi dietro un angolo. È un comportamento che non gli ho mai visto assumere.»
«Era così, per dire…»
«E poi, il Decanato si riunisce ogni giovedì alle undici in punto nella Sala del Consiglio» concluse Xavier, serissimo. «L’inquisitore sarà sicuramente lì, non è mai in ritardo.»
Il sorriso di Solomon venne meno. «Lo so. Era una battuta.»
«Oh» fece Xavier. «Domando scusa. Non avevo colto.»
«Non importa. Quindi, diceva che gli Ascanor hanno portato ad Arcanta le conoscenze del Vecchio Mondo, giusto? Ed è tutto conservato qui?»
«Sostanzialmente, sì.»
«Mi sorprende» insistette Solomon, determinato a non mollare l’osso. «Che il Decanato abbia fatto una tale concessione alla sua famiglia senza tagliare fuori qualcosa. Sanno essere molto selettivi.»
Ancora una volta, l’espressione di Xavier non tradì alcuna emozione. Iniziava a dargli un po’ sui nervi. «Come le dicevo, il nostro patrimonio è tutto qui.»
«Intendo che magari, certi manufatti non fossero proprio in linea con la Legge, e siano stati spostati in un settore meno esposto…dopotutto, quale antica famiglia non ha i propri segreti?»
Stavolta, dietro la superficie immobile di quelle iridi nere, guizzò una scintilla di sospetto. «Sono spiacente, signor Blake, adesso devo proprio lasciarla. A momenti riceverò gli studenti di Macon Ludmoore per una visita guidata.»
«Ma certo» disse Solomon. «Allora torno un’altra volta!»
«Mi troverà qui.» Il Bibliotecario gli offrì un rigido inchino e poi si dileguò nello spazio buio tra due librerie.
Ben presto, anche a Solomon toccò tener fede alla parola data, quella di aiutare sua moglie ad aprire la scuola di alchimia. Inutile cercare di dissuaderla, ancor meno di spaventarla: Isabel era fermamente decisa ad andare avanti per la propria strada come un ariete alla carica.
Così, Solomon dovette chiedere udienza al “Triumvirato”, ossia ai Decani Clodio, Vitruvio e Rabirio: senza il loro lasciapassare, nessuno poteva intraprendere alcun tipo di attività ad Arcanta, che fosse l’apertura di un negozio o l’abbellimento di un palazzo.
Si trattava di tre stregoni vecchissimi, con lunghe barbe bianche e le ossa che sporgevano da sotto la pelle giallognola e sottile come cartapecora; se ne stavano appollaiati dietro una massiccia scrivania, in un ufficio polveroso, stipato di schedari e rotoli di pergamena, e nel quale aleggiava un odore di muffa che ricordava sgradevolmente quello delle cripte. Solomon trovava assurdo che il futuro della sua specie fosse ancora nelle grinfie di quei cadaveri ambulanti.
«E così» gracchiò il Decano Vitruvio, dopo aver esaurito i convenevoli e invitato Solomon e Isabel a prendere posto su due poltroncine. «I novelli sposi hanno un progetto da sottoporre alla nostra attenzione.»
«Esatto!» rispose Isabel con un sorriso vivace, ed estrasse una tela arrotolata da un cilindro che portava a tracolla. La spiegò sulla scrivania, sotto i lunghi nasi adunchi dei Decani. Vitruvio strinse gli occhietti cisposi. «Cosa dovrebbe essere?»
«Una fucina» spiegò Isabel. «Di idee e invenzioni! Un luogo in cui donne e uomini possano incontrarsi, discutere, sperimentare! Proprio come avviene oggigiorno nelle università Mancanti…»
Alla parola “Mancanti”, le facce rugose dei Decani si rattrappirono per lo sdegno. Ecco, lo sapevo sospirò mentalmente Solomon, preparandosi al peggio.
«Mancanti?» borbottò Saggio Rabirio. «Perché dovremmo portare ad Arcanta qualcosa proveniente dal Mondo Esterno, signora Blake?»
«È contrario alle nostre leggi» aggiunse Vitruvio, mentre Clodio, che era mezzo sordo, si limitava a fissarli con aria spaesata e un corno d’ottone infilato in un orecchio. «I Mancanti sono barbari, l’ultima cosa che vogliamo è che le loro idee malsane influenzino i giovani maghi per bene!»
«So che potrà sembrare strano all’inizio» disse Isabel. «Ma sono sicura che, una volta abituati all’idea, i maghi comprenderanno la necessità di abbattere le barriere di genere, i pregiudizi e gli antiquati schemi di pensiero!»
Rabirio e Vitruvio si scambiarono uno sguardo diffidente.
«Quello che la mia adorabile signora vuole dire» intervenne Solomon, con voce melliflua. «È che speriamo di stimolare i cittadini a riflettere.»
«Io…sì, esatto!» Isabel guardò il marito, sorpresa che le stesse dando manforte. «Assolutamente sì: riflettere! Su come poter cambiare in meglio la società magica! Ed è per questo che ho deciso di aprire…»
«… un museo!» completò Solomon.
Sia Isabel che i Decani lo fissarono, a bocca aperta.
«Un museo» ripeté Solomon, annuendo. «Sulla primitiva e rozza tecnologia Mancante. Dalla ruota all’aratro, dalla macchina a vapore a quegli adorabili giocattolini volanti …»
«No!» protestò Isabel. «Non era questo che volevo dire…!»
«Sì, ma a quale scopo?» domandò Vitruvio. «Perché i cittadini di Arcanta avrebbero bisogno di un posto del genere?»
«Già» fece Isabel, indispettita. «Vorrei proprio saperlo anch’io!»
«Per dimostrare quanto ridicole siano le invenzioni Mancanti in confronto ai traguardi raggiunti dalla magia» rispose Solomon. «E ricordare l’enorme privilegio di vivere ad Arcanta.»
Il Decano parve tranquillizzato da quelle parole. Isabel decisamente meno.
Rabirio si tirò la lunga barba, dubbioso. «È un concetto insolito, signor Blake.»
«Oh, non voglio prendermene il merito!» sorrise Solomon, affabilmente. «L’idea è di mia moglie. Le donne sono delle sognatrici, sapete! Sarà lei a dirigere il museo, dopotutto, ha un sacco di tempo libero…»
Nascosta dalla gonna voluminosa, Isabel gli tirò un calcio.
Solomon continuò a parlare di come quel progetto avrebbe aumentato la popolarità della Cittadella, ignorando volutamente i tentativi di intervento da parte di Isabel. Al termine della contrattazione, strinse la mano ai tre Decani, strappando loro la promessa che ci avrebbero riflettuto su.
«È andata bene» disse, una volta lasciato l’ufficio. «Anzi, oserei dire che è praticamente fatta.»
«Fatta?» esplose Isabel, su tutte le furie. «L’accordo prevedeva che lei mi aiutasse a convincere i Decani, non che li ingannasse!»
«L’accordo prevedeva che aprisse quel suo laboratorio» ricordò Solomon. «E lo aprirà. La storia del museo garantirà una solida copertura, in modo che il Cerchio d’Oro la lasci in pace.»
«Perciò mi toccherà agire lo stesso di nascosto!» brontolò Isabel. «Come ho sempre fatto! Se solo avesse lasciato parlare me…»
«Credeva che sbandierando le sue idee di emancipazione le avrebbero steso il tappeto rosso?» chiese Solomon, inarcando il sopracciglio. «Talvolta, tenere un profilo basso è l’unico modo per ottenere ciò che si vuole.»
«Lo trovo un ragionamento da codardi.»
Stavolta fu Solomon a inalberarsi. «Ha chiesto lei il mio aiuto. Potrà trovare i miei metodi eticamente discutibili, ma si sono rivelati più efficaci dei suoi.»
Isabel storse la bocca, decisa a non dargliela vinta. «La vita non è una partita a poker: non si può sempre barare.»
«Può darsi» replicò lui con sussiego, tenendole aperta la porta. «Io però finora non ho mai perso.»
L’autorizzazione del Triumvirato fu rilasciata nel giro di un paio di giorni; a Isabel venne concesso un piccolo locale, affacciato su una stradina anonima e poco frequentata, ma malgrado l’attività fosse stata aperta a nome di Solomon, lo stregone vi mise piede per la prima volta a lavori ultimati.
L’insegna, dipinta in oro sulla vetrina, recitava Museo della Scienza: Cronache di un Mondo Senza Magia, e qualche simpaticone l’aveva già imbrattata con illusioni di bocche sogghignanti, che sfottevano e facevano le pernacchie a chiunque si avvicinasse. Solomon ne cancellò la maggior parte e poi entrò, accompagnato dal suono di un cicalino.
Nel locale regnava una discreta confusione, tra cumuli segatura e casse ancora da disimballare, ma Isabel aveva già allestito alcune macchine volanti di Leonardo da Vinci, che Solomon aveva “preso in prestito” a Milano: uccelli meccanici, dirigibili, biciclette alate, che pendevano dal soffitto come gigantesche libellule.
«Oh, signor Blake!»
Isabel sbucò sorridente da dietro un modellino di treno a vapore, reggendo sottobraccio uno scafandro. «La stavo aspettando! Venga, venga a vedere!»
Sprigionando euforia da tutti i pori, se lo prese a braccetto e lo trascinò per le sale espositive: «Da questa parte c’è la Sezione Comunicazioni, dove studieremo il funzionamento del telefono e come perfezionarlo con la magia, magari abolendo l’uso dei fili! Mentre lì ho predisposto un intero reparto sugli strumenti musicali! E qui…oh, qui c’è il pezzo forte!»
Si fermò davanti a una sfera d’acciaio che emetteva scariche elettriche e bagliori azzurrini. «Non è meravigliosa?»
«Sarebbe?» domandò Solomon.
«Non ne ho assolutamente idea!» rise lei. «Ma è così bella che starei ore a fissarla! E poi guardi qui!» Mise le mani sui lati della sfera, e i suoi capelli neri presero a fluttuare verso l’alto, sprizzando scintille. «Fa un po’ il solletico! Ci provi, è divertente!»
«Ha visto le illusioni che hanno gettato sulla vetrina?»
Isabel staccò le mani dal congegno, e i suoi capelli si afflosciarono. «Una semplice bravata.»
«Ma che potrebbe anticipare qualcos’altro» disse Solomon. «Il Triumvirato le ha concesso il museo, ma la strada è ancora lunga: dovrà persuadere i maghi a credere nel progetto, tenere a bada gli oppositori. E soprattutto, spingere qualche studentessa a presentarsi alle sue lezioni.»
«È solo questione di tempo» affermò Isabel, convinta. «La gente si incuriosirà, spargerà la voce, e presto questo posto pullulerà di menti brillanti pronte a cambiare il mondo!»
Mentre parlava, i suoi occhi rilucevano di uno splendore ardente, come se avesse un incendio dentro; Solomon non credeva di aver mai conosciuto nessuno in grado di conferire una tale passione in ciò che faceva, di sicuro non ad Arcanta. E, malgrado non fossero d’accordo su molte cose, scoprì che iniziava a nutrire nei suoi confronti una sincera ammirazione.
Si sentì comunque in dovere di metterla in guardia: «Mi dia retta, non deve sottovalutare…»
Si bloccò. Qualcosa aveva messo improvvisamente i suoi sensi in allerta, come una scossa sottopelle. «Resti qui. Torno subito.»
Accigliato, uscì in strada ed estese i confini della sua mente per connetterla a quella di Wiglaf, il suo famiglio, che aveva lasciato libero di svolazzare lì in giro. Dovevo immaginarlo.
Seguendo le indicazioni fornite dal corvo bianco, s’infilò in un vicolo sul retro del museo e lì, intento a sbirciare da una finestrella, trovò un giovane mago con indosso una tunica grigia con un sole d’oro ricamato dietro la schiena. Pochi istanti dopo, Solomon tornò dentro, tirando l’intruso per il cappuccio. «Abbiamo visite.»
Isabel, che stava cercando di annullare le illusioni sulla vetrina, lo guardò stupefatta sbattere il ragazzo sul bancone all’ingresso. «Che sta facendo? Chi è questo ragazzo?»
Solomon gli puntò contro la testa di corvo sull’impugnatura del suo bastone. «Una recluta del Cerchio d’Oro. Mandato qui a ficcanasare, ho indovinato?»
Il ragazzo deglutì, emettendo un suono strozzato. Poteva avere circa ventidue anni, ed era sicuramente fresco di ammissione; gli irsuti capelli argentei e il naso a punta lo facevano somigliare curiosamente a un riccio. «M-mi dispiace, signori Blake, non era mia intenzione! Mi è stato solo detto di passare di qua per un controllo…»
«Un controllo, eh?» inquisì Solomon. «E perché il Cerchio d’Oro dovrebbe essere interessato a questo museo?»
Visto che il ragazzo-riccio continuava a balbettare frasi sconnesse, Solomon gli spinse il becco del bastone sotto il mento. «Ti conviene parlare. Non mi piacciono gli impiccioni e non tollero che qualcuno importuni mia moglie.»
«Blake» lo riprese Isabel. «Lasci andare questo poveretto, tutto quello che può aver visto è un cantiere!»
«Infatti!» squittì il ragazzo-riccio. «Non ho visto né sentito niente, parola mia!»
«Ma non hai risposto alla domanda» disse Solomon, l’aura magica che crepitava minacciosa. «Che cosa vuole il Cerchio d’Oro? Perché ci sta tenendo d’occhio? Se non vuoti il sacco trasformerò i tuoi occhi in scarafaggi …»
«No! No, la prego!»
«Qui nessuno trasformerà nessuno!» esclamò Isabel, portando le mani ai fianchi. «Solomon Blake, lo lasci andare ho detto!»
Sbuffando, Solomon permise al giovane alchimista di raddrizzarsi, e si andò ad accomodare su un divanetto, continuando però a guardarlo male.
«Come ti chiami, caro?» gli chiese gentilmente Isabel.
«Ehm, Mortimer, signora. Mortimer Fletcher.»
«Non temere, Mortimer, nessuno qui ti torcerà un capello. Però ora ho bisogno che tu mi dica la verità.»
Mortimer esitò: «Ecco, al Cerchio d’Oro sono convinti che stiate tramando qualcosa: conoscono l’ossessione di lady Isabel per l’alchimia e non si fidano per niente del signor Blake. Credono che questa storia del museo sia una montatura. Un modo per farci concorrenza.»
Solomon indirizzò uno sguardo obliquo a Isabel. «Che le dicevo?»
«Ma non hai visto niente di tutto questo» tagliò corto lei, tranquilla. «Torna pure al Cerchio d’Oro e riferisci ai tuoi maestri che non hanno nulla di cui preoccuparsi: tutto ciò che troveranno qui sono cianfrusaglie senza valore.»
Senza farselo ripetere, Mortimer schizzò fuori dal museo, facendo scampanellare il cicalino.
«Deve stare più attenta» disse Solomon, una volta sicuro che fossero soli. «Il Cerchio d’Oro può renderle la vita molto difficile.»
«Non è con le minacce che mi guadagnerò il rispetto di questa città.»
«Allora tanto vale che chiuda bottega oggi stesso» la rimbrottò lui, severamente. «Ad Arcanta nessuno può mostrarsi debole: la schiacceranno se non dà prova di possedere artigli più affilati!»
«Non è ciò che voglio trasmettere alle mie allieve» affermò Isabel. «Insegnerò loro che una donna può farsi valere da sola, con la forza delle proprie idee.»
Solomon proruppe in una risata aspra. «Quali allieve? Le ragazze avranno troppa paura di incorrere nell’ira del Decanato e delle proprie famiglie per…»
In quell’istante, il cicalino suonò ancora.
«È permesso?» chiese una voce educata. «Ho sentito che siete aperti.»
Isabel e Solomon interruppero la discussione e si voltarono verso l’entrata, a cui si erano appena affacciate tre giovani maghe dall’aria eccitata.
«Vorremmo visitare il museo» spiegò una di loro, togliendo il cappellino. «Ne abbiamo sentito così tanto parlare e…è vero che lei è un’alchimista, signora Blake?»
«E che vuole insegnare l’alchimia alle donne?» aggiunse un’altra, speranzosa.
Solomon restò impalato a fissare le tre ragazze, senza riuscire a credere ai propri occhi. Isabel, invece, si aprì in un sorriso radioso. «Ma certo! Prego, signorine, da questa parte! Abbiamo molto di cui discutere!»
Faticando a contenere l’emozione, Isabel indicò loro la strada, ma prima di seguirle si rivolse nuovamente a Solomon: «Grazie per i consigli, marito, ma non ha nulla da temere: da qui in poi, ce la caveremo da sole!»
Quella sera, Solomon riuscì a tornare alla casa sul lago dopo due settimane di assenza. Valdar si precipitò a salutarlo, e cercò di convincerlo ad assaggiare degli stuzzichini di sua invenzione, che, da quel che Solomon era riuscito a capire, prevedevano l’impiego di lumache vive. Declinò educatamente l’offerta e si mise invece in cerca di Lucia.
La trovò in salotto, rannicchiata sul sofà nella classica posizione che assumeva quando leggeva, col libro aperto poggiato sulle gambe. Solomon tolse la giacca, sciolse il nodo alla cravatta e poi si lasciò cadere vicino ai suoi piedi, passandosi stancamente le mani sugli occhi e poi fra i capelli.
«La vita coniugale è più impegnativa del previsto?» lo punzecchiò la ragazza, restando sulle sue.
«Non ne hai idea» esalò lui, massaggiando le tempie. «Quella donna…mi sfinisce!»
Lucia fece una smorfia. «Immagino.»
«Intendo dire che è così cocciuta! Sembra che provi gusto a fare l’esatto opposto di quello che dico! E poi questa storia del laboratorio! Mi porterà un sacco di guai, come se non avessi già abbastanza pensieri per la testa!»
Terminato lo sfogo, Solomon girò la testa sulla spalliera e si mise a guardarla. «Che cosa leggi?»
«Ti interessa sul serio?»
«Sono sempre serio quando si tratta di libri.»
Lucia sospirò. «Me lo hai portato da uno dei tuoi ultimi viaggi, dall’Inghilterra. Si intitola “Peter e Wendy”.»
Solomon poggiò la guancia sul palmo della mano, un sorriso a fior di labbra. «Di che parla? Ti sta piacendo?»
«Abbastanza. Parla di un ragazzo che si rifiuta di crescere.»
Il sorriso di lui si allargò. «Sembra interessante. Dimmi di più.»
«Pur di non assumersi responsabilità, il ragazzo volò su un’isola lontanissima» raccontò Lucia. «Dove non esistevano adulti, né regole. E Peter Pan visse lì per anni, da solo, convinto di avere tutto ciò che gli serviva. Ma un giorno, stanco della solitudine, decise di tornare nel nostro mondo e, volando vicino una casa, gli capitò di ascoltare una ragazza che raccontava fiabe ai suoi fratellini.»
«La nostra Wendy» disse Solomon, dimostrandole che era attento.
«Anche Peter desiderava avere una Wendy che gli raccontasse fiabe tutte le sere, così decise di portarla con sé sull’isola. Per un po’, Peter e Wendy vissero felici …»
«…Ma?» chiese Solomon.
Lei scagliò su di lui uno sguardo colmo di rimprovero. «Wendy capì che non si poteva rimanere bambini per sempre, e iniziò a desiderare che un bacio fosse qualcosa più di un semplice ditale. Ma Peter era terrorizzato all’idea di far evolvere la loro relazione.»
«E cosa ha fatto Wendy, alla fine?»
Lucia chiuse il libro con un colpo secco. «Si è stancata di aspettarlo ed è ritornata a casa sua!»
Il sorriso di Solomon acquisì una piega colpevole. «Pensi che io sia come Peter? Che abbia paura di crescere?»
«Penso che dovresti preoccuparti di quello che provano le persone intorno a te.» Un lieve tremore le increspò la voce. «Prima di ferirle.»
«Mi dispiace.»
Lucia aggrondò la fronte, scettica.
«Dico davvero» mormorò Solomon. «Avrei dovuto parlarne prima con te, della storia del matrimonio e di tutto il resto.»
«Sì, avresti dovuto.»
«Mi perdoni?»
Lei emise una specie di risata triste. «Anche se lo facessi, cosa cambierebbe? Rimani comunque sposato con quella donna.»
«Ma adesso sono qui, no?» replicò lui, con prudenza. «Sono tornato per te. Perché mi manchi.»
«Ti prego, smettila.»
«Di fare cosa?»
«Di dire certe cose. Di guardarmi in quel modo…perché tanto so già come andrà a finire. Mi convincerai a darti un’altra occasione, come sempre.» Lucia lasciò andare un sospiro dal profondo del suo cuore, pieno di rabbia e di struggimento. «Perché tu saresti in grado di convincermi a fare qualunque cosa, e lo sai!»
Solomon subì il colpo, senza neanche provare a difendersi. Cambiò posizione, poggiando i gomiti sulle ginocchia e abbassando lo sguardo sulle proprie mani.
«So di non essere il genere d’uomo che vorresti che fossi» ammise, dopo un attimo. «E so anche che, dopo tutti questi anni, meritavi più di quello che ti ho dato.»
Lucia tacque, ma lui sentiva l’intensità del suo sguardo bruciargli addosso.
«Ma ho una missione da compiere» riprese Solomon. «Una missione a cui ho dedicato la mia intera vita. E ora che sono arrivato così vicino al traguardo, non posso fermarmi.»
Lucia continuò a tacere.
«Non pretendo che tu capisca» mormorò Solomon. «Ma per me questo ha la priorità assoluta. Io devo sconfiggere la Cittadella, distruggere tutto quello che rappresenta. Devo farlo per la nostra gente, per il bene della magia.» Prese una pausa, in lotta contro quel dolore antico e lacerante, che lo corrodeva ancora da dentro dopo tutti quegli anni. «Devo farlo per Jonathan.»
Sentì Lucia spostarsi, scivolare verso di lui dall’estremità del divano dove era accucciata.
Per un po’ rimasero seduti vicini, in silenzio. Poi, lei sussurrò: «D’accordo.»
Solomon alzò lo sguardo.
«Fai ciò che devi» disse Lucia, molto piano. «Io ti seguirò.»
Xavier Ascanor era un mago fuori dal comune, forse la persona più enigmatica che avesse mai incontrato in vita sua, ma era anche uno che manteneva le promesse, e fu lieto di accompagnarlo a visitare la Biblioteca tutte le volte che desiderava, trovando in Solomon un eccellente interlocutore:
«I miei antenati lasciarono la Spagna durante il Califfato di Cordova» gli raccontò una volta, con la sua voce fredda e monotona, mentre passeggiavano tra alte scaffalature e vetrine; la collezione degli Ascanor era maestosa, e non comprendeva solo libri, bensì armi, invenzioni brevettate, ricettari di pozioni, e persino opere di scultura e pittura realizzate con la magia. «Fummo tra le prime famiglie di maghi a trasferirsi ad Arcanta, al tramonto del Vecchio Mondo: arricchimmo la Cittadella con il nostro patrimonio, coi traguardi raggiunti nell’ambito della matematica e dell’alchimia, frutto del connubio con la fiorente cultura araba.»
«Molto interessante» commentò educatamente Solomon, che però faticava a nascondere la sua impazienza. In altre circostanze avrebbe trovato tutto ciò affascinante, ma al momento gli importava solo di scoprire dove fosse il Libro Nero. E in nessuna di quelle teche sembrava esserci qualcosa che avesse vagamente a che fare con il Vuoto.
Decise di deviare il discorso, per velocizzare un po’ le cose: «Il Vecchio Mondo è un argomento ancora dibattuto: i Decani lo considerano un’epoca oscura, da non ricordare. Ma a conti fatti, rappresenta la culla della nostra civiltà. Lei cosa ne pensa?»
Xavier spinse gli occhiali sulla cima del naso. «Sono uno studioso, signor Blake, non un politico: trovo che impedire agli uomini di perseguire la conoscenza sia da ottusi.»
Solomon sorrise con malizia. «Speriamo che l’Inquisitore Blackthorn non sia acquattato dietro un angolo a origliare!»
«Perché dovrebbe farlo?»
«Cosa?»
«Acquattarsi dietro un angolo. È un comportamento che non gli ho mai visto assumere.»
«Era così, per dire…»
«E poi, il Decanato si riunisce ogni giovedì alle undici in punto nella Sala del Consiglio» concluse Xavier, serissimo. «L’inquisitore sarà sicuramente lì, non è mai in ritardo.»
Il sorriso di Solomon venne meno. «Lo so. Era una battuta.»
«Oh» fece Xavier. «Domando scusa. Non avevo colto.»
«Non importa. Quindi, diceva che gli Ascanor hanno portato ad Arcanta le conoscenze del Vecchio Mondo, giusto? Ed è tutto conservato qui?»
«Sostanzialmente, sì.»
«Mi sorprende» insistette Solomon, determinato a non mollare l’osso. «Che il Decanato abbia fatto una tale concessione alla sua famiglia senza tagliare fuori qualcosa. Sanno essere molto selettivi.»
Ancora una volta, l’espressione di Xavier non tradì alcuna emozione. Iniziava a dargli un po’ sui nervi. «Come le dicevo, il nostro patrimonio è tutto qui.»
«Intendo che magari, certi manufatti non fossero proprio in linea con la Legge, e siano stati spostati in un settore meno esposto…dopotutto, quale antica famiglia non ha i propri segreti?»
Stavolta, dietro la superficie immobile di quelle iridi nere, guizzò una scintilla di sospetto. «Sono spiacente, signor Blake, adesso devo proprio lasciarla. A momenti riceverò gli studenti di Macon Ludmoore per una visita guidata.»
«Ma certo» disse Solomon. «Allora torno un’altra volta!»
«Mi troverà qui.» Il Bibliotecario gli offrì un rigido inchino e poi si dileguò nello spazio buio tra due librerie.
Ben presto, anche a Solomon toccò tener fede alla parola data, quella di aiutare sua moglie ad aprire la scuola di alchimia. Inutile cercare di dissuaderla, ancor meno di spaventarla: Isabel era fermamente decisa ad andare avanti per la propria strada come un ariete alla carica.
Così, Solomon dovette chiedere udienza al “Triumvirato”, ossia ai Decani Clodio, Vitruvio e Rabirio: senza il loro lasciapassare, nessuno poteva intraprendere alcun tipo di attività ad Arcanta, che fosse l’apertura di un negozio o l’abbellimento di un palazzo.
Si trattava di tre stregoni vecchissimi, con lunghe barbe bianche e le ossa che sporgevano da sotto la pelle giallognola e sottile come cartapecora; se ne stavano appollaiati dietro una massiccia scrivania, in un ufficio polveroso, stipato di schedari e rotoli di pergamena, e nel quale aleggiava un odore di muffa che ricordava sgradevolmente quello delle cripte. Solomon trovava assurdo che il futuro della sua specie fosse ancora nelle grinfie di quei cadaveri ambulanti.
«E così» gracchiò il Decano Vitruvio, dopo aver esaurito i convenevoli e invitato Solomon e Isabel a prendere posto su due poltroncine. «I novelli sposi hanno un progetto da sottoporre alla nostra attenzione.»
«Esatto!» rispose Isabel con un sorriso vivace, ed estrasse una tela arrotolata da un cilindro che portava a tracolla. La spiegò sulla scrivania, sotto i lunghi nasi adunchi dei Decani. Vitruvio strinse gli occhietti cisposi. «Cosa dovrebbe essere?»
«Una fucina» spiegò Isabel. «Di idee e invenzioni! Un luogo in cui donne e uomini possano incontrarsi, discutere, sperimentare! Proprio come avviene oggigiorno nelle università Mancanti…»
Alla parola “Mancanti”, le facce rugose dei Decani si rattrappirono per lo sdegno. Ecco, lo sapevo sospirò mentalmente Solomon, preparandosi al peggio.
«Mancanti?» borbottò Saggio Rabirio. «Perché dovremmo portare ad Arcanta qualcosa proveniente dal Mondo Esterno, signora Blake?»
«È contrario alle nostre leggi» aggiunse Vitruvio, mentre Clodio, che era mezzo sordo, si limitava a fissarli con aria spaesata e un corno d’ottone infilato in un orecchio. «I Mancanti sono barbari, l’ultima cosa che vogliamo è che le loro idee malsane influenzino i giovani maghi per bene!»
«So che potrà sembrare strano all’inizio» disse Isabel. «Ma sono sicura che, una volta abituati all’idea, i maghi comprenderanno la necessità di abbattere le barriere di genere, i pregiudizi e gli antiquati schemi di pensiero!»
Rabirio e Vitruvio si scambiarono uno sguardo diffidente.
«Quello che la mia adorabile signora vuole dire» intervenne Solomon, con voce melliflua. «È che speriamo di stimolare i cittadini a riflettere.»
«Io…sì, esatto!» Isabel guardò il marito, sorpresa che le stesse dando manforte. «Assolutamente sì: riflettere! Su come poter cambiare in meglio la società magica! Ed è per questo che ho deciso di aprire…»
«… un museo!» completò Solomon.
Sia Isabel che i Decani lo fissarono, a bocca aperta.
«Un museo» ripeté Solomon, annuendo. «Sulla primitiva e rozza tecnologia Mancante. Dalla ruota all’aratro, dalla macchina a vapore a quegli adorabili giocattolini volanti …»
«No!» protestò Isabel. «Non era questo che volevo dire…!»
«Sì, ma a quale scopo?» domandò Vitruvio. «Perché i cittadini di Arcanta avrebbero bisogno di un posto del genere?»
«Già» fece Isabel, indispettita. «Vorrei proprio saperlo anch’io!»
«Per dimostrare quanto ridicole siano le invenzioni Mancanti in confronto ai traguardi raggiunti dalla magia» rispose Solomon. «E ricordare l’enorme privilegio di vivere ad Arcanta.»
Il Decano parve tranquillizzato da quelle parole. Isabel decisamente meno.
Rabirio si tirò la lunga barba, dubbioso. «È un concetto insolito, signor Blake.»
«Oh, non voglio prendermene il merito!» sorrise Solomon, affabilmente. «L’idea è di mia moglie. Le donne sono delle sognatrici, sapete! Sarà lei a dirigere il museo, dopotutto, ha un sacco di tempo libero…»
Nascosta dalla gonna voluminosa, Isabel gli tirò un calcio.
Solomon continuò a parlare di come quel progetto avrebbe aumentato la popolarità della Cittadella, ignorando volutamente i tentativi di intervento da parte di Isabel. Al termine della contrattazione, strinse la mano ai tre Decani, strappando loro la promessa che ci avrebbero riflettuto su.
«È andata bene» disse, una volta lasciato l’ufficio. «Anzi, oserei dire che è praticamente fatta.»
«Fatta?» esplose Isabel, su tutte le furie. «L’accordo prevedeva che lei mi aiutasse a convincere i Decani, non che li ingannasse!»
«L’accordo prevedeva che aprisse quel suo laboratorio» ricordò Solomon. «E lo aprirà. La storia del museo garantirà una solida copertura, in modo che il Cerchio d’Oro la lasci in pace.»
«Perciò mi toccherà agire lo stesso di nascosto!» brontolò Isabel. «Come ho sempre fatto! Se solo avesse lasciato parlare me…»
«Credeva che sbandierando le sue idee di emancipazione le avrebbero steso il tappeto rosso?» chiese Solomon, inarcando il sopracciglio. «Talvolta, tenere un profilo basso è l’unico modo per ottenere ciò che si vuole.»
«Lo trovo un ragionamento da codardi.»
Stavolta fu Solomon a inalberarsi. «Ha chiesto lei il mio aiuto. Potrà trovare i miei metodi eticamente discutibili, ma si sono rivelati più efficaci dei suoi.»
Isabel storse la bocca, decisa a non dargliela vinta. «La vita non è una partita a poker: non si può sempre barare.»
«Può darsi» replicò lui con sussiego, tenendole aperta la porta. «Io però finora non ho mai perso.»
L’autorizzazione del Triumvirato fu rilasciata nel giro di un paio di giorni; a Isabel venne concesso un piccolo locale, affacciato su una stradina anonima e poco frequentata, ma malgrado l’attività fosse stata aperta a nome di Solomon, lo stregone vi mise piede per la prima volta a lavori ultimati.
L’insegna, dipinta in oro sulla vetrina, recitava Museo della Scienza: Cronache di un Mondo Senza Magia, e qualche simpaticone l’aveva già imbrattata con illusioni di bocche sogghignanti, che sfottevano e facevano le pernacchie a chiunque si avvicinasse. Solomon ne cancellò la maggior parte e poi entrò, accompagnato dal suono di un cicalino.
Nel locale regnava una discreta confusione, tra cumuli segatura e casse ancora da disimballare, ma Isabel aveva già allestito alcune macchine volanti di Leonardo da Vinci, che Solomon aveva “preso in prestito” a Milano: uccelli meccanici, dirigibili, biciclette alate, che pendevano dal soffitto come gigantesche libellule.
«Oh, signor Blake!»
Isabel sbucò sorridente da dietro un modellino di treno a vapore, reggendo sottobraccio uno scafandro. «La stavo aspettando! Venga, venga a vedere!»
Sprigionando euforia da tutti i pori, se lo prese a braccetto e lo trascinò per le sale espositive: «Da questa parte c’è la Sezione Comunicazioni, dove studieremo il funzionamento del telefono e come perfezionarlo con la magia, magari abolendo l’uso dei fili! Mentre lì ho predisposto un intero reparto sugli strumenti musicali! E qui…oh, qui c’è il pezzo forte!»
Si fermò davanti a una sfera d’acciaio che emetteva scariche elettriche e bagliori azzurrini. «Non è meravigliosa?»
«Sarebbe?» domandò Solomon.
«Non ne ho assolutamente idea!» rise lei. «Ma è così bella che starei ore a fissarla! E poi guardi qui!» Mise le mani sui lati della sfera, e i suoi capelli neri presero a fluttuare verso l’alto, sprizzando scintille. «Fa un po’ il solletico! Ci provi, è divertente!»
«Ha visto le illusioni che hanno gettato sulla vetrina?»
Isabel staccò le mani dal congegno, e i suoi capelli si afflosciarono. «Una semplice bravata.»
«Ma che potrebbe anticipare qualcos’altro» disse Solomon. «Il Triumvirato le ha concesso il museo, ma la strada è ancora lunga: dovrà persuadere i maghi a credere nel progetto, tenere a bada gli oppositori. E soprattutto, spingere qualche studentessa a presentarsi alle sue lezioni.»
«È solo questione di tempo» affermò Isabel, convinta. «La gente si incuriosirà, spargerà la voce, e presto questo posto pullulerà di menti brillanti pronte a cambiare il mondo!»
Mentre parlava, i suoi occhi rilucevano di uno splendore ardente, come se avesse un incendio dentro; Solomon non credeva di aver mai conosciuto nessuno in grado di conferire una tale passione in ciò che faceva, di sicuro non ad Arcanta. E, malgrado non fossero d’accordo su molte cose, scoprì che iniziava a nutrire nei suoi confronti una sincera ammirazione.
Si sentì comunque in dovere di metterla in guardia: «Mi dia retta, non deve sottovalutare…»
Si bloccò. Qualcosa aveva messo improvvisamente i suoi sensi in allerta, come una scossa sottopelle. «Resti qui. Torno subito.»
Accigliato, uscì in strada ed estese i confini della sua mente per connetterla a quella di Wiglaf, il suo famiglio, che aveva lasciato libero di svolazzare lì in giro. Dovevo immaginarlo.
Seguendo le indicazioni fornite dal corvo bianco, s’infilò in un vicolo sul retro del museo e lì, intento a sbirciare da una finestrella, trovò un giovane mago con indosso una tunica grigia con un sole d’oro ricamato dietro la schiena. Pochi istanti dopo, Solomon tornò dentro, tirando l’intruso per il cappuccio. «Abbiamo visite.»
Isabel, che stava cercando di annullare le illusioni sulla vetrina, lo guardò stupefatta sbattere il ragazzo sul bancone all’ingresso. «Che sta facendo? Chi è questo ragazzo?»
Solomon gli puntò contro la testa di corvo sull’impugnatura del suo bastone. «Una recluta del Cerchio d’Oro. Mandato qui a ficcanasare, ho indovinato?»
Il ragazzo deglutì, emettendo un suono strozzato. Poteva avere circa ventidue anni, ed era sicuramente fresco di ammissione; gli irsuti capelli argentei e il naso a punta lo facevano somigliare curiosamente a un riccio. «M-mi dispiace, signori Blake, non era mia intenzione! Mi è stato solo detto di passare di qua per un controllo…»
«Un controllo, eh?» inquisì Solomon. «E perché il Cerchio d’Oro dovrebbe essere interessato a questo museo?»
Visto che il ragazzo-riccio continuava a balbettare frasi sconnesse, Solomon gli spinse il becco del bastone sotto il mento. «Ti conviene parlare. Non mi piacciono gli impiccioni e non tollero che qualcuno importuni mia moglie.»
«Blake» lo riprese Isabel. «Lasci andare questo poveretto, tutto quello che può aver visto è un cantiere!»
«Infatti!» squittì il ragazzo-riccio. «Non ho visto né sentito niente, parola mia!»
«Ma non hai risposto alla domanda» disse Solomon, l’aura magica che crepitava minacciosa. «Che cosa vuole il Cerchio d’Oro? Perché ci sta tenendo d’occhio? Se non vuoti il sacco trasformerò i tuoi occhi in scarafaggi …»
«No! No, la prego!»
«Qui nessuno trasformerà nessuno!» esclamò Isabel, portando le mani ai fianchi. «Solomon Blake, lo lasci andare ho detto!»
Sbuffando, Solomon permise al giovane alchimista di raddrizzarsi, e si andò ad accomodare su un divanetto, continuando però a guardarlo male.
«Come ti chiami, caro?» gli chiese gentilmente Isabel.
«Ehm, Mortimer, signora. Mortimer Fletcher.»
«Non temere, Mortimer, nessuno qui ti torcerà un capello. Però ora ho bisogno che tu mi dica la verità.»
Mortimer esitò: «Ecco, al Cerchio d’Oro sono convinti che stiate tramando qualcosa: conoscono l’ossessione di lady Isabel per l’alchimia e non si fidano per niente del signor Blake. Credono che questa storia del museo sia una montatura. Un modo per farci concorrenza.»
Solomon indirizzò uno sguardo obliquo a Isabel. «Che le dicevo?»
«Ma non hai visto niente di tutto questo» tagliò corto lei, tranquilla. «Torna pure al Cerchio d’Oro e riferisci ai tuoi maestri che non hanno nulla di cui preoccuparsi: tutto ciò che troveranno qui sono cianfrusaglie senza valore.»
Senza farselo ripetere, Mortimer schizzò fuori dal museo, facendo scampanellare il cicalino.
«Deve stare più attenta» disse Solomon, una volta sicuro che fossero soli. «Il Cerchio d’Oro può renderle la vita molto difficile.»
«Non è con le minacce che mi guadagnerò il rispetto di questa città.»
«Allora tanto vale che chiuda bottega oggi stesso» la rimbrottò lui, severamente. «Ad Arcanta nessuno può mostrarsi debole: la schiacceranno se non dà prova di possedere artigli più affilati!»
«Non è ciò che voglio trasmettere alle mie allieve» affermò Isabel. «Insegnerò loro che una donna può farsi valere da sola, con la forza delle proprie idee.»
Solomon proruppe in una risata aspra. «Quali allieve? Le ragazze avranno troppa paura di incorrere nell’ira del Decanato e delle proprie famiglie per…»
In quell’istante, il cicalino suonò ancora.
«È permesso?» chiese una voce educata. «Ho sentito che siete aperti.»
Isabel e Solomon interruppero la discussione e si voltarono verso l’entrata, a cui si erano appena affacciate tre giovani maghe dall’aria eccitata.
«Vorremmo visitare il museo» spiegò una di loro, togliendo il cappellino. «Ne abbiamo sentito così tanto parlare e…è vero che lei è un’alchimista, signora Blake?»
«E che vuole insegnare l’alchimia alle donne?» aggiunse un’altra, speranzosa.
Solomon restò impalato a fissare le tre ragazze, senza riuscire a credere ai propri occhi. Isabel, invece, si aprì in un sorriso radioso. «Ma certo! Prego, signorine, da questa parte! Abbiamo molto di cui discutere!»
Faticando a contenere l’emozione, Isabel indicò loro la strada, ma prima di seguirle si rivolse nuovamente a Solomon: «Grazie per i consigli, marito, ma non ha nulla da temere: da qui in poi, ce la caveremo da sole!»
Quella sera, Solomon riuscì a tornare alla casa sul lago dopo due settimane di assenza. Valdar si precipitò a salutarlo, e cercò di convincerlo ad assaggiare degli stuzzichini di sua invenzione, che, da quel che Solomon era riuscito a capire, prevedevano l’impiego di lumache vive. Declinò educatamente l’offerta e si mise invece in cerca di Lucia.
La trovò in salotto, rannicchiata sul sofà nella classica posizione che assumeva quando leggeva, col libro aperto poggiato sulle gambe. Solomon tolse la giacca, sciolse il nodo alla cravatta e poi si lasciò cadere vicino ai suoi piedi, passandosi stancamente le mani sugli occhi e poi fra i capelli.
«La vita coniugale è più impegnativa del previsto?» lo punzecchiò la ragazza, restando sulle sue.
«Non ne hai idea» esalò lui, massaggiando le tempie. «Quella donna…mi sfinisce!»
Lucia fece una smorfia. «Immagino.»
«Intendo dire che è così cocciuta! Sembra che provi gusto a fare l’esatto opposto di quello che dico! E poi questa storia del laboratorio! Mi porterà un sacco di guai, come se non avessi già abbastanza pensieri per la testa!»
Terminato lo sfogo, Solomon girò la testa sulla spalliera e si mise a guardarla. «Che cosa leggi?»
«Ti interessa sul serio?»
«Sono sempre serio quando si tratta di libri.»
Lucia sospirò. «Me lo hai portato da uno dei tuoi ultimi viaggi, dall’Inghilterra. Si intitola “Peter e Wendy”.»
Solomon poggiò la guancia sul palmo della mano, un sorriso a fior di labbra. «Di che parla? Ti sta piacendo?»
«Abbastanza. Parla di un ragazzo che si rifiuta di crescere.»
Il sorriso di lui si allargò. «Sembra interessante. Dimmi di più.»
«Pur di non assumersi responsabilità, il ragazzo volò su un’isola lontanissima» raccontò Lucia. «Dove non esistevano adulti, né regole. E Peter Pan visse lì per anni, da solo, convinto di avere tutto ciò che gli serviva. Ma un giorno, stanco della solitudine, decise di tornare nel nostro mondo e, volando vicino una casa, gli capitò di ascoltare una ragazza che raccontava fiabe ai suoi fratellini.»
«La nostra Wendy» disse Solomon, dimostrandole che era attento.
«Anche Peter desiderava avere una Wendy che gli raccontasse fiabe tutte le sere, così decise di portarla con sé sull’isola. Per un po’, Peter e Wendy vissero felici …»
«…Ma?» chiese Solomon.
Lei scagliò su di lui uno sguardo colmo di rimprovero. «Wendy capì che non si poteva rimanere bambini per sempre, e iniziò a desiderare che un bacio fosse qualcosa più di un semplice ditale. Ma Peter era terrorizzato all’idea di far evolvere la loro relazione.»
«E cosa ha fatto Wendy, alla fine?»
Lucia chiuse il libro con un colpo secco. «Si è stancata di aspettarlo ed è ritornata a casa sua!»
Il sorriso di Solomon acquisì una piega colpevole. «Pensi che io sia come Peter? Che abbia paura di crescere?»
«Penso che dovresti preoccuparti di quello che provano le persone intorno a te.» Un lieve tremore le increspò la voce. «Prima di ferirle.»
«Mi dispiace.»
Lucia aggrondò la fronte, scettica.
«Dico davvero» mormorò Solomon. «Avrei dovuto parlarne prima con te, della storia del matrimonio e di tutto il resto.»
«Sì, avresti dovuto.»
«Mi perdoni?»
Lei emise una specie di risata triste. «Anche se lo facessi, cosa cambierebbe? Rimani comunque sposato con quella donna.»
«Ma adesso sono qui, no?» replicò lui, con prudenza. «Sono tornato per te. Perché mi manchi.»
«Ti prego, smettila.»
«Di fare cosa?»
«Di dire certe cose. Di guardarmi in quel modo…perché tanto so già come andrà a finire. Mi convincerai a darti un’altra occasione, come sempre.» Lucia lasciò andare un sospiro dal profondo del suo cuore, pieno di rabbia e di struggimento. «Perché tu saresti in grado di convincermi a fare qualunque cosa, e lo sai!»
Solomon subì il colpo, senza neanche provare a difendersi. Cambiò posizione, poggiando i gomiti sulle ginocchia e abbassando lo sguardo sulle proprie mani.
«So di non essere il genere d’uomo che vorresti che fossi» ammise, dopo un attimo. «E so anche che, dopo tutti questi anni, meritavi più di quello che ti ho dato.»
Lucia tacque, ma lui sentiva l’intensità del suo sguardo bruciargli addosso.
«Ma ho una missione da compiere» riprese Solomon. «Una missione a cui ho dedicato la mia intera vita. E ora che sono arrivato così vicino al traguardo, non posso fermarmi.»
Lucia continuò a tacere.
«Non pretendo che tu capisca» mormorò Solomon. «Ma per me questo ha la priorità assoluta. Io devo sconfiggere la Cittadella, distruggere tutto quello che rappresenta. Devo farlo per la nostra gente, per il bene della magia.» Prese una pausa, in lotta contro quel dolore antico e lacerante, che lo corrodeva ancora da dentro dopo tutti quegli anni. «Devo farlo per Jonathan.»
Sentì Lucia spostarsi, scivolare verso di lui dall’estremità del divano dove era accucciata.
Per un po’ rimasero seduti vicini, in silenzio. Poi, lei sussurrò: «D’accordo.»
Solomon alzò lo sguardo.
«Fai ciò che devi» disse Lucia, molto piano. «Io ti seguirò.»
CONTINUA...