Capitolo 63
La pellicola dei ricordi
Seconda parte
- “Ma l’amore no” -
“Lontano, qualcuno canta. Lontano.
La mia anima non si rassegna d’averla persa.
Come per avvicinarla, il mio sguardo la cerca.
Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.”
Pablo Neruda
Chiesa
di Santa Maria del Rosario di Pompei, Roma
Ritrasse
la mano Hermann, colto da una fulminea sensazione di vergogna legata al senso
di colpa. La sua mano stringeva quella di una vittima, resa da lui tale,
essendo corresponsabile nei crimini del regime nazista contro il popolo ebraico
ch’ella, adesso, simbolicamente rappresentava in toto e nel trasferimento della
figlia ad Auschwitz, fatale per una ragazzina così piccola.
Se
solo la donna avesse saputo la verità su colui che aveva innanzi, non gli
avrebbe parlato con modi affabili e voce vibrante di empatica apprensione.
“Circa
un annetto fa Sarah ha fatto pervenire una lettera al parroco, nel caso la sua
famiglia e suo fratello fossero ritornati. Si è trasferita a Napoli, in una
città che si chiama… Mmh”, s’interruppe, portando un dito sotto il mento per
sforzarsi di ricordare, “il nome ha a che fare con il mare.”
Le
palpebre strette a focalizzare vanamente il ricordo non esularono lo sguardo
della donna dall’incontro con due occhi spalancati, rugiadosi d’improvvisa
delusione ch’ella credé esser soltanto paura di non riuscire a ricongiungersi
con la persona cara.
La
stanchezza del viaggio, la frustrazione per il mancato ricongiungimento con Sarah
tolsero lucidità alla mente e fu incapace Hermann di riflettere che il parroco
avrebbe saputo dirgli con esattezza dove lei fosse, come infatti lo rassicurò
la donna.
Ella
tolse il dito da sotto al mento con movenza ed espressione quasi di chi vien
colto da un’illuminazione per proferire l’ovvia verità: “Don Carmine ha la
lettera e vi dirà precisamente dove si trova adesso Sarah. Vado a chiamarlo.”
Le
ultime parole pronunciate su un celere passo ed egli fu subito solo in un
silenzio interiore di vuoto che gli provocò inquietudine.
Era
paura di ritrovarsi a fare i conti con il proprio passato senza poter porre
rimedio al corso degli eventi ed ecco che gli ritornava alla mente l’immagine
di sé innanzi all’anziano sacerdote che parroco fu di quella chiesa e che
invano presso di lui intercedé per la salvezza dei bambini, supplicandolo
infine, almeno, di non separarlo da loro. E fra essi c’era Agnese la cui madre,
ignara della sua vera identità, adesso, correva per aiutarlo.
Il
senso di colpa per le crudeltà un tempo inferte, la vergogna per le menzogne or
ora proferite, per di più avvalendosi del buon nome di Sarah, lo attanagliavano
alle viscere in una morsa bruciante, ma sapeva che cedervi avrebbe significato
farsi scoprire e mai più ricongiungersi a lei.
Si
lasciò distrarre dalla vibrazione di una nota stonata e rivolse nuovamente lo
sguardo indietro verso la cantoria e al tempo passato e fu forse per evasione
dalle angustie presenti che ad esso erano legate che riuscì ad afferrare il
ricordo che stava cercando.
Campo
di Fossoli, giugno 1944
Indugiando
sull’uscio della propria stanza ch’ella era indaffarata a rassettare, gli
piaceva osservarla di soppiatto per cogliere le espressioni del suo viso.
D’abitudine, labbra serrate e cipiglio di concentrazione accompagnavano le
movenze fluide di corpo fasciato da un colore che proprio non le donava, ma
stavolta aveva svestito la divisa da cameriera per indossare un abito floreale
con merletti ricamati da lui regalatole.
Seppur
visibilmente segnato dalla stanchezza, il viso le si era disteso in
un’espressione serena e la bocca dischiusa nel canto, mentre passava il panno
imbevuto di acqua e aceto sul comò.
“Ma
l’amore, no, l’amore mio non può disperdersi nel vento con le rose, tanto è
forte che non cederà, non sfiorirà.” Ella cantava con voce flebile e piacevole
all’ascolto e fissò per un attimo la rosa essiccata, dopo ch’ebbe rimesso il
vasetto al suo posto. “Io lo veglierò, io lo difenderò da tutte quelle insidie
velenose che vorrebbero strapparlo al cuor, povero amor.”
Ripose
gli altri oggetti sul comò, poi tornò alla rosa, toccandone con un dito lo
stelo che le era parso forse in procinto di staccarsi e un sorriso di tenerezza
gli nacque dentro, prima di tremare sulle labbra.
In
lui, si ridestò la voglia di giocare, ma non seppe manifestarla se non con uno
scherzo di cattivo gusto e, ostentando un tono di comando – ovvero, il proprio
–, le gridò: “Stillgestanden!”[1]
Sarah
sobbalzò e, seppur lo avesse riconosciuto incrociandone lo sguardo gioviale, irrigiditasi,
quasi non eseguì l’ordine fintamente impartitole, per poi giungere le mani al
petto ed esalare il suo nome in un muto sospiro di sollievo. E fu come richiamo
che lo attirò a lei.
Le
circondò le spalle con un braccio e la strinse a sé, nascondendo in una
risatina l’incapacità di chiedere scusa. Ed era più lui a sentir il desiderio
di confortarla che Sarah ad aver bisogno di conforto in tale circostanza.
“Hai
una bella voce”, ruppe il silenzio, senza metterci troppa enfasi, ma suscitando
un reciproco sguardo d’intesa, “canti bene. Dove hai imparato?”
Un’ombra
di tristezza le attraversò il viso, eppure non si spense il suo lieve sorriso,
mentre gli diceva: “Sin da bambina, ho cantato nel coro della mia parrocchia,
finché non sono diventata apolide. Ho imparato lì.”
Nel
gesto di una carezza, le spostò una ciocca ribelle dietro l’orecchio ed ella
accolse, ricambiandolo, il suo sorriso come dono di conforto.
Aveva
sorriso Hermann, immaginandola nella cantoria, con il velo bianco a coprirle la
testa e gli spartiti musicali tra le mani, come avvolta da un’aura di angelico
candore, poi la voce della madre di Agnese lo riportò alla
realtà presente.
“Signor
Bonanni”, ripeté la donna ed egli trasalì, strappato al ricordo e alla visione
di Sarah, immemore del suo nuovo nome. “Don Carmine vi aspetta in canonica.”
“Di noi resteranno soltanto ricordi confusi,
pezzi di vetro.
Mi spegni le luci, se solo tieni gli occhi chiusi.
Mi rendi cieco.
Ti penso con me per rialzarmi,
’sto silenzio potrebbe ammazzarmi.”
Lazza, Cenere