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Autore: Adeia Di Elferas    24/09/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Finché non usciranno da lì, è impossibile sapere chi verrà eletto...” borbottò Bianca, sedendosi sul letto e provando a protendersi verso gli stivali, per toglierseli.

Vedendo che la moglie, a causa del ventre ormai teso e pronto al parto, non riusciva nel suo intento, Troilo, con premura, le si avvicinò e, inginocchiandosi dinnanzi a lei, l'aiutò con pazienza, sospirando: “Lo so che non si può sapere... Ma tuo cugino è il Camerlengo... Credevo che sarebbe stato più semplice avere qualche indiscrezione.”

La Riario, ormai a termine della gravidanza, accolse con un sospiro di sollievo la liberazione dagli stivali che aveva indossato per tutto il giorno, per fronteggiare il terreno fangoso che circondava la rocca di San Secondo, e poi si abbandonò sul materasso: “Raffaele sarà anche Camerlengo, ma non ha abbastanza fegato per rischiare qualcosa inviando a noi messaggi con indiscrezioni che, tanto, non ci servirebbero a molto...”

Il De Rossi fece un suono gutturale d'assenso e poi si prese un momento per guardare la sua sposa.

Arrivata a sera, la giovane era stanca, ma visibilmente felice. Si stava confermando sempre di più una donna attiva, pratica e intraprendente e Troilo amava alla follia quegli aspetti del suo carattere.

Avevano trascorso la giornata assieme ai costruttori, per valutare alcuni danni della cinta muraria, e la Riario si era dimostrata in più di un'occasione indispensabile. Seppur amante del ricamo e della letteratura, gli anni che aveva trascorso a Ravaldino l'avevano segnata, nel bene e nel male, e le avevano insegnato moltissime cose, parte delle quali, adesso, le risultavano estremamente utili.

“Forse dovresti cominciare a riguardarti di più.” fece il De Rossi, accigliandosi: “Manca molto poco al parto e...”

“E lo so io cosa devo e non devo fare.” ribatté Bianca, gli occhi chiusi e le braccia allargate sulle lenzuola pulite: “Presto verrà l'autunno e voglio che i lavori siano già a buon punto, per quando inizierà a nevicare... E poi mi sento bene.”

L'uomo annuì, ma stava per ribattere, nella speranza di convincerla a rallentare un po' i ritmi, quando la porta della stanza si aprì, cogliendolo di sorpresa.

“Ho portato il decotto per Madonna.” disse Creobola, sfoggiando la sua voce più zuccherosa, gli occhi acuti puntati sulla Riario.

La serva della Tigre si era presentata a San Secondo qualche giorno addietro, dicendo di essere di ritorno dalla Romagna e di aver voluto fare quella deviazione per poter poi riferire di persona le ultime novità sulla figlia direttamente alla Sforza. Di fatto, per il momento, si era caseggiata alla rocca e, seppur si stesse dimostrando una servitrice solerte, iniziava comunque a essere percepita come un po' troppo invadente dalla coppia.

Troilo, nel vedere Creobola dirigersi verso Bianca, non disse nulla, ma lasciò che il suo disappunto trapelasse proprio grazie al suo ostentato silenzio.

La Riario, a sua volta infastidita, non voleva irritare la strana donna che era al servizio di sua madre, dato che non aveva ancora ben capito che tipo di persona fosse, e dunque mise in atto la buona creanza che aveva imparato a esercitare anche contro voglia. La ringrazio, prese la bevanda offerta, assicurando che l'avrebbe bevuta prima che fosse fredda e poi la congedò.

La serva, dopo un solo momento di esitazione, chinò il capo e, un po' delusa dall'essere stata subito liquidata, salutò 'i miei signori Marchesi' e li lasciò di nuovo soli.

“Sei sicura che quel decotto ti faccia bene?” chiese il De Rossi, guardando con sospetto la coppa fumante.

“Sì, è una ricetta di mia madre... Lei la scalda e basta, lo sai che la preparo io...” sospirò la giovane, accarezzandosi lentamente il ventre.

“Comunque non capisco perché sia necessario che lei stia qui...” fece Troilo, andandosi a sedere accanto alla moglie, massaggiandole con dolcezza le spalle: “Non potevi obbligarla a tornarsene a Castello assieme a tuo fratello?”

L'allusione a Scipione, che era stato a San Secondo giusto un paio di giorni prima, facendo quella deviazione prima di tornare in Toscana dopo il suo soggiorno al nord, fece sorridere la Riario, che ribatté: “Povero Scipione... Credo che abbia paura di quella donna.”

“Be', se la mettiamo così, anche io non mi sento molto tranquillo, quando è nei paraggi.” confessò Troilo: “Anche se in passato mi è stata utile, e anche se è stata lei a portarmi la notizia della nascita del nostro primogenito, lei mi mette a disagio...”

“Non piace nemmeno a me.” convenne Bianca: “Ma mi fido di mia madre. E, dopo tutto, per il momento Creobola non ci ha dato modo di lamentarci dei suoi servizi, anche se a volte è un po' sinistra e a volte è logorroica...”

Il De Rossi strinse le labbra e poi, con un sospiro pesante, chiese: “Che ne dici? Riposiamo? Ti sei stancata molto, oggi...”

La Riario sospirò a sua volta: “Bevo il mio decotto e poi mi stendo.” convenne.

Mentre la giovane prendeva la coppa e cominciava a bere, l'uomo la guardò per un lungo istante e poi domandò: “Credi che sia quasi tempo..?”

Era superfluo specificare per cosa dovesse essere giunto il tempo, infatti la moglie sorrise e, seppur con cautela, rispose: “Quando è nato Pier Maria... Io mi sentivo così giusto un paio di giorni prima che nascesse.”

“Domani chiederò alla levatrice di cominciare a stare alla rocca... Non si sa mai.” disse allora Troilo.

“Se ti fa stare più tranquillo...” sorrise lei e poi, con calma, finì di bere il suo decotto, sperando che l'aiutasse a lenire un po' sia la stanchezza, sia il dolore alla schiena che, con il pancione che aveva, era ogni giorno più marcato.

 

Giampaolo Baglioni era sicuro che il suo piano avrebbe avuto successo. Erano stati giorni tremendi, così pieni che quasi non aveva avuto nemmeno il tempo di informarsi sulle novità che arrivavano da Roma.

Ricordava ancora con gioiosa furia la battaglia che aveva dato, lungo il Tevere, a Bernardino Antignola, ferendolo al volto e ancor di più gli veniva da sorridere nel ripensare alla battaglia, aspra, ma vinta, contro Muzio Colonna a Torgiano. Era stato facile, dopo quelle due dimostrazioni di forza, ottenere senza dover combattere Pattoli, Culummella, Civitella e alcuni altri piccoli castelli...

Quel giorno di metà settembre circa, però, era arrivato alla grande prova della sua abilità militare.

Si era coordinato al meglio con suo cognato Bartolomeo, che avrebbe attaccato Perugia dalla Porta della Mandola, mentre lui, alla testa di settecento uomini, avrebbe sfondato Porta San Girolamo e la Porta del Pino, ricongiungendosi poi con Gentile Baglioni, attaccando anche Porta San Pietro.

L'aria fremeva d'attesa e Giampaolo sentiva sempre di più la tensione salire. Era quasi l'alba e lui e il cognato, fuori dalla sua visuale, attendevano il segnale convenuto, ossia l'arrivo dei primi raggi di sole, per scatenare l'attacco.

La città era a sua volta in allerta, ma il suo vecchio signore era certo che nessuno si aspettasse un attacco così aperto e plateale. Erano finiti i tempi degli indugi, e al Baglioni non importava nemmeno più sapere quale nome sarebbe uscito dal Conclave: Perugia doveva tornare sua immediatamente, tutto il resto non contava.

Percepì una piccola variazione, nella luce soffusa di quell'ora antelucana. Erano fortunati, non c'erano nuvole in cielo, dunque l'alba sarebbe stata ben visibile.

Accarezzò con la mano guantata di ferro il collo del suo cavallo da guerra e poi, facendo un cenno agli ufficiali che aveva accanto, si calò la celata dell'elmo, e indicò il cielo.

Passarono forse due minuti, al massimo tre, e all'orizzonte si profilò la linea pallida del sole di settembre.

Dando di sperone, Giampaolo disse, a voce bassa, quasi non ci fosse bisogno di dare davvero ordini: “All'attacco.”

 

Semiramide, tramite i suoi portavoce, aveva fatto sapere a Caterina di essere pronta alla transazione per la cessione della villa di Careggi. La Leonessa non aveva capito del tutto se fosse stata la vedova di Lorenzo, ad accettare un pagamento posticipato, o se davvero il Gonfaloniere avesse avuto un peso in tutta quella faccenda.

Le sembrava strano che Soderini si scaldasse tanto per lei, ma non poteva dimenticare che quell'uomo aveva alle spalle anche i Salviati che, seppur in un momento particolare, avendo ancora una figlia molto piccola e molto ammalata, dovevano aver comunque pensato anche a lei.

Fortunati aveva avuto un'idea molto brillante, facendo sì che, proprio tramite il Gonfaloniere, il pagamento dei quattromilaottocento ducati fosse messo sulle spalle di Ottaviano, che dava come garanzia quella di poter riavere a breve i suoi Stati e, con essi, nell'immediato almeno diecimila ducati di facile consumo.

Francesco aveva scritto subito a Ottaviano, in modo da renderlo edotto su ogni cosa, benché i toni usati fossero tali da poter indurre in inganno il Riario. Seguendo il consiglio di Caterina, infatti, aveva vergato frasi sibilline, in cui sembrava quasi che il palazzo così pagato sarebbe andato nelle mani di Ottaviano stesso e non certo del fratello Giovannino.

Nella missiva, inoltre, il piovano faceva cenno al fatto che le chiavi sarebbero state ritirate subito, per non dare il tempo a nessuno di depredare la villa, com'era successo, a suo tempo, con quella di Castello. Francesco aveva poi chiuso il discorso in un modo che, sperava, avrebbe smosso un filo di amor proprio del Riario, sottolineando come, per quella specifica questione, la madre avesse deciso di rimettere 'tucta questa cosa' a lui, dimostrando una fiducia che verso il suo primogenito non aveva mai – o quasi – mostrato.

“Quindi oggi hai mandato il tuo amico a ritirare le chiavi?” chiese la Tigre, guardando fuori dalla finestra, verso il cielo nero di quel 18 settembre.

I temporali erano finiti, ma l'estate infuocata era già un lontano ricordo e le temperature si erano abbassate, di pari passo con l'arrivo di nuvole fitte e, addirittura, già qualche accenno di nebbia nelle ore antelucane. La scoperta di quella bruma, fatta dalla Sforza in uno dei suoi momenti di insonnia, le era stato di conforto. Anche se la Toscana non era terra di nebbie com'era Milano, quella foschia l'aveva fatta tornare bambina per qualche ora.

“Sì, anzi, a quest'ora le chiavi immagino siano già nelle sue mani...” ragionò Fortunati: “Anzi, ormai starà facendo controllando l'inventario assieme all'incaricato di tua cognata...”

La Tigre si morse le labbra. Da un lato non le era piaciuto muoversi con tanta rapidità, perché il suo ultimo incontro con Semiramide le aveva fatto capire quanto quella donna, in fondo, fosse stata dalla sua parte anche quando era stato molto difficile esserlo. Tuttavia comprendeva anche come l'Appiani avesse molti soggetti mal definiti a ruotarle attorno e, soprattutto, un figlio ormai grande che avrebbe potuto benissimo fare il furbo e svuotare la villa da ogni masserizia. In quel caso, un eventuale inventario sarebbe servito a poco o a nulla...

“Comunque sia, anche se abbiamo le chiavi – sospirò la Tigre – ci passeranno mesi, prima che potremmo occuparcene...”

“Intanto metteremo a regime le terre connesse alla villa, e inizieremo a incamerare un po' di soldi, che non guastano mai – la corresse il piovano, mettendo a frutto la sua lunga esperienza di amministratore – e poi penseremo a tutto il resto.”

Caterina stava per ribattere, quando arrivò nella stanza frate Lauro, tenendo per mano un recalcitrante Giovannino: “Mi spiace importunarvi, mia signora – disse, con un tono gioviale che poco si sposava con il volto arrossato del piccolo Medici – ma sono qui per due motivi. Il primo è consegnarvi vostro figlio, nella speranza che lo distraiate tenendolo, almeno per il momento, lontano dalle cucine...”

“Perché, che ha fatto?” chiese la Leonessa, prendendo il suo ultimogenito in custodia, mentre quest'ultimo teneva gli occhi bassi e, contrariamente al suo solito, non le correva incontro per abbracciarla.

“A quanto pare si divertiva, assieme al fratello Carlo, a far spaventare le cuoche con dei rospi e delle bisce reperiti chissà dove...” spiegò il frate, sollevando le sopracciglia.

“E adesso Bernardino dov'è?” si informò la Sforza, valutando che tra i due era il Feo il più grande e quindi quello che avrebbe dovuto capire che non fosse il caso di sprecare tempo e fatica in scherzi tanto stupidi.

“Corre troppo veloce per un vecchio frate quale sono io.” sorrise Bossi: “Immagino fosse diretto alle stalle. Comunque... La seconda questione è che è appena arrivato il vostro figlioccio, Scipione, e chiede di potervi parlare.”

“Fatelo venire qui. E prima chiedetegli se ha fame o sete, se sì, fategli preparare qualsiasi cosa chieda.” ordinò repentinamente la Tigre, senza accorgersi dello sguardo che il frate aveva appena lanciato a Fortunati, quasi a chiedersi se il piovano sarebbe rimasto lì o meno, malgrado di norma i colloqui tra Scipione Riario e la Sforza fossero di stampo prettamente riservato.

Solo quando Bossi ebbe lasciato la stanza, la milanese si rese conto di due cose: innanzitutto, della presenza di Francesco, e non era sicura di volere che il fiorentino ascoltasse eventuali novità portate da Scipione prima che lei stessa le elaborasse e, in secondo luogo, di quella di Giovannino, che le stringeva ancora con forza la mano, probabilmente in attesa di una punizione per la sua condotta.

“Per favore – fece allora la donna, rivolgendosi a Francesco, trovando il modo di liberarsi momentaneamente di entrambi senza dare l'impressione di volerli solo tenere lontani durante il suo colloquio con il Riario – potresti portare mio figlio in camera sua? Assicurati che faccia almeno due pagine di esercizi di scrittura. Visto che gli costa fatica trascrivere correttamente l'alfabeto, due pagine saranno la giusta punizione per aver fatto perdere tempo alle cuoche...”

Il piovano comprese anche troppo bene la sottigliezza di quella decisione, ma preferì non mostrarsi irritato e, porgendo la mano al bambino, disse: “Andiamo, hai sentito cos'ha detto tua madre...”

Giovannino, colto da un improvviso moto di rimorso per la sua marachella, si gettò per un momento contro la Tigre, portandola ad abbracciarlo, e sussurrò, con voce spezzata: “Non... Non lo farò più...”

“Sappiamo entrambi che non sarà così.” sorrise Caterina, che non avrebbe voluto dover punire mai quel figlio che, a suo avviso, aveva già sofferto a sufficienza nella sua breve vita: “E comunque, scrivere un po' ti farà solo bene... Tra non molto avrai sei anni... È giusto che ti applichi anche alle lettere, e non solo alla corsa o alla spada...”

“Ha ragione tua madre – disse Scipione, entrando in stanza con discrezione, ma non riuscendo a trattenersi dal riprendere le poche parole che aveva fatto in tempo a origliare – solo un soldato capace di leggere i dispacci è un soldato utile!”

Giovannino, guardando quello che in buona parte considerava un fratello o una specie di zio, mantenne un'espressione dura e ribatté, fiero: “Io sarò il comandante!”

Il Riario, dopo uno sguardo divertito d'intesa con Caterina, tornò a guardare il piccolo Medici e chinandosi per essere alla sua altezza, gli rivelò: “Allora è ancor più importante: un comandante che i dispacci non li sa scrivere, non riuscirà a vincere mai nemmeno una scaramuccia!”

Rosso in viso, ma finalmente convinto, Giovannino lanciò uno sguardo di sottecchi alla madre, come a controllare se anche lei fosse d'accordo con quell'ammonimento, e poi si rivolse al piovano ed esclamò: “Andiamo a fare esercizi di scrittura!”

Scipione e la Tigre attesero che Fortunati, paziente, seguisse il bambino fuori dalla sala, per poi abbandonarsi a una breve risata.

“Quel bambino è già tutto fuoco, armi e cavalli, secondo me...” commentò il Riario, mantenendo un mezzo sorriso: “Credo che suo padre sarebbe felice di vedere quanto ti somiglia.”

“Chi può dirlo...” fece, vaga, la donna, pur ammettendo con se stessa che, probabilmente, Giovanni avrebbe davvero apprezzato quel tratto nel loro unico e amatissimo figlio.

Siccome dopo quel breve scambio Scipione si era fatto taciturno e molto più serio, la Leonessa gli chiese come mai fosse lì e se portasse con sé brutte notizie.

“Non necessariamente brutte...” rispose lui: “Lo sai che questa penisola è un calderone e non c'è notizia che non si possa leggere sia come bella sia come brutta... Ma prima di parlare di grande politica... Sono stato da Bianca, prima di venire qui.”

“Come sta?” il tono della Sforza si era fatto morbido, come se anche solo il tono della voce, se troppo aspro o spigoloso, potesse intaccare la figlia lontana.

Era sicura che la giovane non stesse male, altrimenti Scipione non solo non avrebbe avuto alcuna voglia di scherzare con Giovannino, ma sarebbe subito giunto al dunque nel momento stesso del suo arrivo. Tuttavia, sapendola ormai vicina alla gravidanza, non poteva zittire il senso di ansia che covava in lei da mesi.

“Manca davvero poco al parto...” riassunse il Riario, rivedendo davanti a sé il bel volto roseo della sorellastra e, ancor di più, il suo pancione, così prominente da far quasi credere che potesse ospitare due bambini e non uno solo: “Però sta bene. È felice, a San Secondo... Si tiene impegnata, è entusiasta dei lavori che devono fare e non si lascia spaventare da nulla... Per quello che posso capirci io di matrimoni, credo che il suo, per il momento, si possa definire riuscito.”

La Tigre annuì soddisfatta. Sapeva bene che Bianca, per quanto di aspetto delicato e dedita ad attività prettamente muliebri come il canto o il ricamo, non era donna da tirarsi indietro quando c'era da faticare o da impiegare l'ingegno.

“Di certo il De Rossi non poteva trovare moglie più utile alla sua condizione.” commentò, senza malizia, ma dando solo voce a un pensiero che le pareva quasi ovvio.

Scipione lesse come ingiusta una valutazione così utilitaristica della situazione e ci tenne a precisare: “Lui e Bianca mi sembrano molto affiatati...” poi, per voler togliere ogni dubbio riguardo all'interpretazione delle sue parole, aggiunse: “Non dormono nemmeno in stanze separate. Dal tramonto all'alba, nessuno ha il permesso di entrare nella loro camera da letto, salvo questioni della massima urgenza. Io stesso ho visto come entrambi si cerchino anche quando sono impegnati in altre attività, come quando...”

La Leonessa sollevò l'angolo delle labbra e lo frenò: “Non ho dubbi che si amino e che il loro sia un rapporto molto passionale. Ricordo bene quando ancora erano entrambi sotto questo tetto.”

Il Riario si grattò un istante la nuca e concluse: “Ecco, sappi che nulla è cambiato tra loro, malgrado sia cambiata la loro condizione e malgrado la gravidanza.”

“Mi fa piacere.” ribatté, con estrema sincerità, la Sforza: “E adesso, avanti, raccontami tutte le novità da quel gran calderone ribollente che è l'Italia...”

 

Carlo Baglioni sentiva come un peso sul cuore. Non era all'oscuro del fatto che fuori dalla città incombesse Giampaolo, con forse quasi mille uomini, pronto non solo a riprendersi la città, ma anche a ucciderlo.

Era stato uno stupido, uno sprovveduto, a credere alle promesse vane dei Borja. Ora che Alessandro VI era un ricordo, nessuno più era lì per proteggerlo.

Mosso da un terrore che non avrebbe dovuto trovare spazio nell'animo di un soldato, Carlo, quando aveva saputo che gli uomini di Giampaolo erano riusciti ad appoggiare le scale alle porte della seconda cerchia di mura, si era rintanato in Duomo con i suoi uomini più fedeli e aveva ordinato al primo prete che gli era capitato sotto mano, di dire Messa.

Ormai erano passate quasi quattro ore da quando aveva ricevuto la notizia del raggiungimento della seconda cinta. Non era poco tempo... Poteva essere che i difensori avessero avuto la meglio? In quel caso, però, qualcuno sarebbe arrivato a dirglielo...

Il prete stava sollevando l'ostensorio in direzione dell'altare, pronunciando a parole stentate e poco udibili le formule di rito, quando il portone del Duomo si spalancò di colpo.

Colto da un guizzo di ottimismo, Carlo si convinse di aver ricevuto la grazia e che, voltandosi, avrebbe visto i suoi uomini euforici e pronto a portarlo in trionfo.

Invece, quando i suoi occhi si abituarono alla luce che il portone aveva lasciato entrare all'improvviso, si trovò a guardare dritto in faccia proprio Giampaolo, che se ne stava altero a cavallo, la spada insanguinata ancora alta.

La scena che seguì fu surreale. Circa la metà degli uomini che Carlo aveva considerato suoi fedelissimi, andarono incontro a Giampaolo come se rivedessero un vecchio amico.

Il vecchio signore di Perugia smontò di sella e ricambiò a uno a uno i saluti, dedicando particolare calore al Vescovo di Forlì, che si era addirittura gettato ai suoi piedi.

Carlo occhieggiò verso il prete sull'altare che, con ancora l'ostensorio in mano, si era bagnato il vestone di urina e aveva cominciato a piangere dalla paura.

La decisione fu rapida e senza esitazione: Carlo fece un cenno a quelli che erano rimasti davvero al suo fianco e, invece di cercare lo scontro immediato col parente, mentre Giampaolo era ancora impegnato con abbracci e risate cameratesche, condusse i suoi fuori dal Duomo, per una porta laterale.

Gridando e ritrovando di colpo tutto l'ardire che gli era venuto meno fino a quel momento, Carlo Baglioni chiamò a gran voce ciò che restava del suo esercito, correndo per le strade e radunando anche dei perugini disarmati, vecchi, bambini, chiunque fosse disposto ad aiutarlo pur di non tornare nelle mani del vecchio tiranno.

La risposta fu più corale del previsto, ma anche così le sue forze erano nettamente inferiori a quelle degli invasori.

Tra la Porta Marzia e la Cornea guidò un ultimo disperato assalto ai nemici, ma capì subito che la sorte gli sarebbe stata avversa.

I suoi, compresa la piega che stava prendendo la battaglia, cominciarono a sparpagliarsi, scappando o addirittura cambiando fronte, e Carlo, senza capire da dove arrivasse il colpo, sentì una lama ferirgli una coscia e un'altra colpirlo appena sopra il bordo della corazzina, pericolosamente vicino al collo.

Bernardino da Marciano, che non l'aveva lasciato nemmeno un secondo in quella folle battaglia, riuscì a strappare un cavallo dalle mani di un nemico e vi saltò in groppa. Passò accanto a Carlo e gli tese una mano, incitandolo.

Il Baglioni, lottando per la propria vita, riuscì a far comunque forza sulla gamba ferita e a issarsi goffamente sul cavallo. Bernardino diede di speroni, con tutta la sua forza, finché non vide, nella polvere, gli Oddi, che scappavano a loro volta su cavalli di fortuna.

Quando attraversò Porta Sant'Angelo, riverso su un sauro che scalciava di continuo e sconfitto, come uomo e come soldato, Carlo Baglioni provò una sensazione che non aveva mai provato in vita sua: si trattava di gioia pura, gioia incontenibile, perché era ancora vivo, ma era indistricabilmente legata a un senso di colpa profondo e ineluttabile, nel sapere di aver fallito su ogni fronte.

Quando, ormai fuori dalla città, riuscì a mettersi in sella dritto, alle spalle di Bernardino da Marciano, si permise di respirare e di guardare verso il cielo. Le nuvole di quella mattina erano sparite: splendeva il sole più bello che avesse mai visto.

   
 
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