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Autore: EmmaJTurner    24/09/2023    6 recensioni
"Cercasi AMMAZZAMOSTRI
per raccolta di sambuco
la prossima luna piena.
Pagamento 200 nk
50% in anticipo, 50% a lavoro ultimato.
Per info chiedere di Meli"

[REVISIONE COMPLETATA]
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Cercasi Ammazzamostri'
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Addio?

Meli se ne stava seduta accanto al cespuglio di lamponi sui gradini della casa di Meimei — che ancora una volta li aveva accolti e rimessi in sesto con dedizione e un accattivante sorriso sdentato — e ammirava le montagne della Catena Bianca tingersi di corallo alla luce del tramonto. Era l’ora dell’enrosadira: il fenomeno quotidiano che dipingeva, all’alba e al tramonto, le montagne della Catena BIanca di un tripudio di sfumature rosa, rosso e arancione. Secondo la leggenda, l’enrosadira avveniva ogni giorno a causa di un re che non aveva saputo nascondere a dovere il suo giardino di rose — o qualche stronzata del genere. Meli non aveva buona memoria per le storie inventate.

Aveva dovuto portare Logan di peso fino a Costoi, e non era stato affatto facile. Soprattutto perché l’ammazzamostri, grondante sangue da tutta la parte destra del corpo, non aveva mai smesso di lamentarsi del puzzo del rigurgito verde che “gli si sarebbe attaccato ai capelli”, tanto che Meli, esasperata, aveva valutato di finire lei il lavoro del nekorai scagliando l’ammazzamostri giù per un dirupo. La vecchia Meimei per fortuna non aveva perso la mano con ago e filo e lo aveva ricucito quasi come nuovo; certo gli sarebbero rimaste un bel po’ di cicatrici, ma quelle andavano forti tra gli ammazzamostri, e Logan le pareva un tipo abbastanza vanesio da farsene lustro nelle osterie di campagna.

Grazie all’ospitalità di Meimei potevano contare in un letto caldo anche per quella notte, e il mattino seguente sarebbero ripartiti alla volta di Berg, la tappa iniziale del loro strano viaggio insieme, per vendere il sambuco e infine separarsi. 

Meli si stava stiracchiando i muscoli indolenziti quando qualcosa di morbido e peloso le sfiorò il polpaccio: era uno dei quattro gattini salvati dalle strigi. Questo in particolare era grigio con il muso e le zampine bianche, come se portasse dei minuscoli calzini. Il gattino fece un miagolio acuto e si arrampicò su per i pantaloni di Meli.

La donna rise. “Che fai, vuoi venire a casa con me?”. Il micio, imperturbabile, si acciambellò sul suo stomaco e lì rimase, soddisfatto, a fare le fusa.

Il cielo si stava facendo color lilla, i grilli frinivano, e il freddo della sera cominciava a infilarsi sotto i vestiti. Meli, gli occhi pieni dello spettacolo del tramonto, sospirò soddisfatta. Presto sarebbe tornata a casa.

***

“Trecento per il sambuco, seicento per sei artigli di strige”.

Gli occhi lattiginosi di Victor strabuzzarono da dietro le lenti degli occhiali che teneva in bilico sulla punta del naso adunco. “Meli, sono prezzi folli; tua sorella mi fa la metà”.

“Mia sorella lavora per la gloria, io per il contante”.

La botanica litigò con Victor, il farmacista di Berg, per parecchi minuti prima di farsi comprare il sambuco. Il vecchio non ne volle sapere, però, di prendere gli artigli di strige; dopo quello che avevano rischiato per ottenerli! Non se li meritava, decise Meli. Li avrebbe venduti al negozio di zia Fernanda; a fatica, visto che Pecul era un paesino più piccolo e meno frequentato di Berg, ma almeno avrebbe potuto venderli al prezzo congruo. Con buona pace di Victor. Vecchio barbagianni. 

Meli uscì stizzita dal negozio stipato di spezie, erbe e unguenti; sbatté la porta e cacciò in mano i navok ad un Logan dall’espressione impassibile.

“Questa è la tua parte per il sambuco; per gli artigli di strige ancora niente da fare, ti toccherà passare in negozio da me più avanti”.

L’ammazzamostri fece un grugnito infastidito.

“Non li svendo a chi fa il difficile” si lamentò Meli a sua volta, avviandosi giù per la strada verso il mercato. Arrivarono davanti alla locanda di Berg dove si erano incontrati per la prima volta. “Bene. Questo” disse Meli, scribacchiando su un pezzo di carta, “è il mio indirizzo a Pecul. Direi che puoi passare tra due mesi; per allora avrò venduto sicuramente buona parte degli artigli ad un prezzo degno, e troverai il tuo compenso ad aspettarti”.

Logan afferrò il biglietto, lo lesse e lo intascò. “Il sessanta percento, a Pecul, tra due mesi. Non pensare che me ne dimentichi” scandì l’uomo in tono minaccioso.

“Non l’ho pensato nemmeno per un secondo. Anzi, scommetto che sei il tipo di uomo di cui, una volta entrato in scena, è impossibile liberarsi” lo prese in giro lei.

Logan la fissò accigliato, come se non sapesse come interpretare quel commento. E, si disse Meli, in effetti non lo sapeva nemmeno lei.

“Bene, ammazzamostri. È stato un piacere. Sei licenziato”.

Logan le scoccò un’occhiataccia. “Ottimo. Addio”.

Meli lo guardò allontanarsi mesto giù per la via principale. Aveva la spalla destra fasciata stretta, ma si vedeva che era rigida e dolorante anche sotto il farsetto e gli spallacci. Le dispiaceva un po’ vederlo andare via: era un ammazzamostri coi controcazzi, come non se ne trovavano tanti in giro, e sarebbe stato utile poterlo assumere ancora. Ma non poteva dargli torto, se preferiva non lavorare più per lei: se l’erano davvero vista brutta con quel nekorai.

Appoggiata a braccia conserte al muro della taverna di Berg, Meli osservò Logan farsi largo tra le bancarelle chiassose del mercato e, infine, sparire.

Polpetta, il neo battezzato micino grigio, miagolò da dentro la tasca del suo gilè. Meli scosse la testa. Quel gattino che avrebbe dovuto diventare la cena di uno stormo di donne demoniache — da cui il nome edibile — si era trasformato in un efficace diversivo grazie alle ridicole conoscenze di un ammazzamostri fuori dal comune. Ripensò al pignoleto e al bigaaso; alle strigi e alla succube; al nekorai e a tutta quella stramba vicenda che le era piombata addosso a rotta di collo solo perché aveva accettato di sostituire sua sorella per qualche giorno.

Meli si staccò dal muro e guardò il sole alto nel cielo. Partendo ora, in un paio di giorni di cammino sarebbe arrivata a casa. 

Addio, aveva detto Logan. Cazzate! pensò Meli, e sorrise: volente o nolente, si sarebbero rivisti molto presto.

***

Arrivò al Pecul che era notte inoltrata. Meli si incamminò tra le vie silenziose del paese, godendosi il freddo montano e il profumo degli abeti rossi.

La porta del negozio era sbarrata, ma Meli si era portata via le chiavi di riserva. Mentre le infilava nella toppa osservò l’insegna sbiadita sopra la sua testa: Emporio di Erbe e Pozioni di zia Fernanda.

Entrò e un familiare odore di legno bruciato, terra umida e funghi essiccati la accolse come un apprezzatissimo abbraccio di benvenuto. Meli recuperò una gemmaluce dalla mensola accanto alla porta e la svolse. Alla flebile luce gialla la donna guardò con affetto il bancone di legno scuro, gli scaffali strabordanti di barattoli e ampolle colorate, i mazzi di erbe appesi a seccare sul soffitto e i libri ammucchiati vicino alla poltrona gialla di fronte al camino spento, i cui i tizzoni, ancora ardenti, brillavano di rosso tra la cenere. L’unico rumore era il lieve russare di Zeno, il garzone, che dormiva nello stretto spazio tra le file di scaffali. Scavalcandolo con cautela — facendo particolare attenzione a non pestargli la coda squamosa — Meli andò nel retrobottega. 

Qui l’odore di terra arricchita e umida era più forte. Due larghi banconi da lavoro erano sommersi da strumenti di laboratorio e piante in vasi di terracotta. Viticci di piante esotiche scendevano da vasi tondi appesi al soffitto e correvano lungo i ripiani più alti degli scaffali di legno scuro che ricoprivano le pareti; le mensole erano cariche di libri, pergamene, bilance, bottiglie e barattoli di rame pieni di erbe sminuzzate. Alla sua sinistra, una seconda debole gemmaluce illuminava le piante più rare e velenose, chiuse dentro una teca di vetro. A destra, il secondo camino, spento probabilmente da tutto il giorno, faceva entrare spifferi spiacevoli. Meli non si stupì che Zeno, parte kon dal sangue freddo, avesse preferito dormire nel calore del negozio.

Lasciò cadere lo zaino accanto alla brandina che era diventato il suo letto. Quel negozio-laboratorio era passato a lei dopo la morte di zia Fernanda, pace all’anima sua, ormai tre anni prima. Zia Fernanda, che era stramba ma mica scema, non si era mai sposata e non aveva avuto figli. Non di cui si sapesse, almeno. Meli era quindi l’erede legittima più diretta dell’intera famiglia, in quanto nipote — zia Fernanda era la sorella di sua madre — e la maggiore tra le sue sorelle. 

Meli controllò che tutto fosse in ordine — non che avesse molti dubbi, con Zeno a fare da guardia: il bastardello era piccolo, ma meticoloso e feroce. 

Estrasse il gattino e lo posò sulla branda. Il micio, instabile sulle zampette, miagolò assonnato. Meli non lo biasimò: anche lei era stanchissima. Da ragazzina era stata una viaggiatrice instancabile, ma ora che quel negozio era diventato una sua responsabilità non si allontanava mai più di qualche giorno di cammino dal distretto di Pecul. E, inaspettatamente, la cosa le piaceva. Le piaceva avere un posto dove tornare, scuotere la polvere dai calzoni e poter chiamare, seppur impropriamente, casa.

Meli si diresse verso un mobiletto con le ante da cui recuperò una scaldapietra. La liberò dal panno in cui era avvolta e la saggiò. Il ciottolo nero e butterato era stato di recente ricaricato di potere magico e emanava ora un piacevole calore omogeneo. Meli appoggiò la pietra di fianco al gatto, che vi si arrotolò lesto tutt’attorno per carpirne il calore. Cominciò a fare le fusa. Era, anche lui, felice di essere a casa.

   
 
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