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Autore: Adeia Di Elferas    03/10/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina era rimasta un po' perplessa nel sentir dire da Scipione che Creobola si era fermata a San Secondo, dopo la sua infruttuosa missione a Forlì.

La Tigre sapeva bene che inviare la sua serva in Romagna non avrebbe portato a molto – se così non fosse stato, avrebbe di sicuro scelto qualcuno di più affidabile e rappresentativo – e dunque si era mossa in solitaria, anche all'insaputa di Fortunati. Aveva innanzitutto preso fortunosamente i contatti con il suo fratellastro Ottaviano Maria Sforza, figlio di Lucia Marliani, facendo leva sul loro sangue comune e sulla possibilità di ottenere entrambi grandi benefici, se fossero riusciti a influenzare gli eventi in modo tale da far tornare la vipera a Milano. L'aveva pregato di recarsi a Venezia, dove la Leonessa aveva come amici sia Antenore Giovannetti, sia un certo Bonaparte, che si era offerto alla sua causa e che la donna, momentaneamente, teneva a discreta distanza, pur sperando di potersene servire quando fosse stato necessario.

Nei suoi progetti, tre uomini molto diversi tra loro avrebbero perorato a dovere la sua causa presso il Doge e in un tempo ragionevole avrebbe avuto se non un esercito, almeno una credibilità dinnanzi agli altri Stati italiani, in primis Firenze e Roma.

In quei giorni, comunque, aveva ricevuto varie lettere di Antenore, che la teneva costantemente aggiornata sia sugli affari Veneziani – con tanto di pettegolezzi sulla scarsa morigeratezza, per esempio, di Maria Giovanna Della Rovere, ormai pubblicamente compromessa con un soldato del suo protettore, Guidobaldo Maria da Montefeltro – sia sulle notizie che gli arrivavano dal Conclave, che, però, restavano nebulose proprio per via della segretezza di quel consesso.

La Sforza aveva evitato di rispondergli spesso, sia per paura di essere intercettata, sia perché attendeva sviluppi, tra cui il resoconto di Creobola, che stentavano ad arrivare.

Quel giorno però, un'ulteriore missiva di Giovannetti e le notizie portate da Scipione l'avevano in fretta portata a una cercare una risoluzione. Il Riario le aveva fatto capire molto chiaramente che, per quanto avessero la simpatia dei Bentivoglio e l'appoggio, ovvio, dei De Rossi, e malgrado tanti altri Signori decaduti avessero interesse a vedere la Tigre tornare al comando, di fatto, al momento, nessuno di loro poteva concretamente aiutarli né a influenzare il Conclave, né tanto meno a reperire in fretta armi e uomini senza una spesa notevole che, al momento, era fuori questione.

Così, a tarda sera, dopo cena, mentre Fortunati ancora non l'aveva raggiunta in camera, la Tigre si mise allo scrittoio. Era indecisa, comunque, se vergare la sua corrispondenza o aspettare ancora qualche minuto, per non farsi trovare a metà di una lettera che non avrebbe voluto mostrare al piovano, proprio mentre suddetto piovano fosse entrato in camera.

Attese paziente almeno venti minuti, poi pensò che, forse, in un eccesso di pudore, Francesco quella sera avrebbe disertato le sue stanze, per paura che la presenza di Scipione – ospite gradito, ma ormai abbastanza estraneo alla quotidianità familiare – potesse in qualche modo portarlo a scoprirsi troppo.

Iniziò facendo presente ad Antenore di aver ricevuto tutte le sue lettere e spiegò, grossomodo, i motivi che l'avevano portata a rispondere solo quella sera. Poi, pensò che metterlo a parte di alcune sua mosse non fosse sbagliato, prima, magari, di portarlo a incorrere in qualche incidente diplomatico alla corte del Doge.

'Piacemi quanto mi scrivi et te ne commendo assai: et sappi che per havere io mandato di costa el nostro fratello Vescovo di Lodi per fermare bene le cose nostre et tochare con mano in quanta acqua semo, io non te ho risposto fino qui ad nessuna tua, expectando da sua S.a et da te la conclusione del tutto' scrisse.

Ribadì che aspettava notizie più sicure e soggiunse: 'per intendere particularmente quello che occorre, et che favore ce abbiamo, et subito monterò ad Cavallo, et in questo mezzo non attendo che mettermi in ordine'. Mentre scriveva quelle parole, Caterina provò davvero, per qualche istante, il desiderio bruciante di montare a cavallo, incurante di tutto, e presentarsi in piazza a Forlì, correndo i tre giri che l'avrebbero reso di nuovo signora delle sue terre. In quell'attimo di furore, si convinse che la popolazione l'avrebbe acclamata, com'era successo la prima volta...

Dopo un paio di frasi di ordine pratico, la Leonessa riprese il concetto che più le stava a cuore, ossia il riappropriarsi di ciò che il Valentino le aveva strappato: 'Et tenete tutti per fermo che quelli stati hanno ad essere del Signore Ottaviano e mia, come sua matre, et faccino li altri mia boni Figlioli quello che pare loro, et ogni altro chi ci si voglia malingniare, perchè ho fermo le cose per tutto in modo che ogni cosa andrà per l'ordine suo'.

Chiuse con i soliti convenevoli, raccomandandosi con Antenore di ricordarla a tutti quanti e promettendo che tutti i suoi amici avrebbero goduto con lei degli Stati riconquistati. Stava firmando, subito sotto alla formula di rito che recitava ' Florentie die 18 7bris 1503' quando la porta della camera si aprì.

“Perdonami se ho fatto tardi...” borbottò Fortunati, richiudendosi subito l'uscio alle spalle: “Ma il tuo figlioccio aveva necessità di confessarsi e ha chiesto a me...”

“Per averci messi così tanto – ribatté Caterina, affrettandosi a a chiudere la lettera, sperando quasi che il piovano non l'avesse notata – significa che mentre era al nord ne ha combinate di cotte e di crude...”

Francesco arrossì appena e fece notare: “Io devo osservare il segreto della confessione...”

“Mi bastano le tue guance color fuoco per capire che ho ragione io...” sorrise la donna, rimettendo a posto le cose dello scrittoio e infilando la missiva, già chiusa, nel cassetto: “Forse hai ragione, quando insinui che non dovrei affidargli Bernardino per troppo tempo...”

“Scipione è un uomo buono.” si sentì in dovere di difenderlo Fortunati: “Ma è giovane e ha il sangue che gli ribolle... Non ha fatto nulla di male, si è solo concesso qualche capriccio...”

“Non eri legato al segreto della confessione?” scherzò la Tigre, lasciando la sedia e avvicinandosi al fiorentino: “In ogni caso, non voglio sapere come passa le sue notti il mio figlioccio.”

Dopo quella battuta, il piovano non seppe più cosa dire, e lasciò che la Sforza gli prendesse le mani nelle sue e lo distraesse come solo lei sapeva fare. Innescando un meccanismo che ormai era consolidato in ogni suo più minimo ingranaggio, Fortunati e la Leonessa si lasciarono quella giornata alle spalle dedicandosi unicamente l'uno all'altra.

La loro, pensava Caterina, era quel genere di relazione che difficilmente poteva essere capita da chi non aveva vissuto ogni passaggio. Qualche anno addietro, quando Francesco ancora le faceva solo da confessore e si presentava prima di tutto come amico di Giovanni Medici, le sarebbe sembrato semplicemente impossibile poter provare verso di lui quel genere di desiderio e invece adesso, ormai da tempo, la sua presenza era diventata indispensabile. Non poteva dire di amarlo, non come aveva amato altri uomini nel corso della sua vita, né avrebbe potuto affermare di vivere per lui una passione bruciante, ma lui le dava esattamente quello di cui aveva un disperato bisogno. La tranquillizzava, saperlo accanto a sé, e l'aiutava a sopportare tutto il resto.

Dal canto suo, il piovano aveva scoperto e ormai viveva appieno una dimensione che fino a non molto tempo prima gli era stata del tutto estranea, e mai avrebbe potuto rinunciare all'unica donna che avesse mai amato in vita sua.

Era ormai quasi mattina e Fortunati, che si era svegliato ormai da un po', si accorse che la Tigre si stava agitando nel sonno. Attese qualche istante, per capire se l'incubo sarebbe finito da solo, come a volte capitava, ma quando si rese conto che la donna cominciava a borbottare i nomi che invocava quasi sempre quando faceva brutti sogni, con dolcezza la smosse un po' e la fece svegliare.

La milanese, che aveva dato disposizione al suo amante di fare esattamente così, quando l'avesse vista troppo agitata, schiuse gli occhi con il respiro ancora affannoso, soffiò un paio di volte, lasciandosi scappare un'ultima volta il nome del suo primo marito e poi si mise a sedere. Nel buio, cercò per qualche istante di ritrovare la calma e deglutì rumorosamente più volte, finché fu certa di aver riacquistato il pieno controllo di sé.

“Perdonami se ti ho svegliato...” sussurrò, rimettendosi coricata, apprezzando il tepore che si era creato sotto il lenzuolo di lino che, sulla sua pelle nuda, scivolava liscio come seta, per via dei tanti lavaggi a cui era stato sottoposto per sua irrevocabile decisione.

“Ero già sveglio, tranquilla.” rispose lui, con la voce altrettanto bassa.

Da che non era più riuscito a chiudere occhio, il fiorentino aveva iniziato a farsi delle domande sulla lettera che la Leonessa stava scrivendo quando lui era arrivato in stanza. Era indeciso se nominargliela o meno, ma quando fu certo che anche la donna – forse ancora immersa nel ricordo del suo incubo – non aveva intenzione di riaddormentarsi subito, decise di provare a indagare.

“A chi stavi scrivendo?” domandò, senza particolari inflessioni.

“A nessuno.” rispose immediatamente lei, subito sulla difensiva.

“Caterina...” il tono di dimesso rimprovero dell'uomo fece scattare qualcosa nella Sforza che, però, riuscì a controllarsi.

Sottraendosi appena dal contatto con lui, finse di sistemarsi meglio il cuscino e ribatté: “A Galeazzo...”

“Non mentirmi, per favore...” la riprese Fortunati, sicuro che quella fosse solo una scusa.

Caterina, a quel punto, sospirò e cercò nel buio la mano del piovano, stringendola nella sua, avvicinando poi le labbra al suo collo, bisbigliando, appena udibile: “Lasciami fare quello che credo, Francesco...” siccome lui stava per ribattere, la milanese gli diede un rapido bacio appena accanto all'orecchio, e riprese: “Con tutto il rispetto, tu hai sempre gestito la contabilità di una pieve, io ho governato su uno Stato...”

Fortunati avrebbe voluto ribattere in modo duro, facendo presente che la pieve che lui amministrava era ancora florida, malgrado il poco tempo che ormai le dedicava, mentre lo stato dei Riario era andato a farsi benedire da più di tre anni, ma riuscì a mordersi la lingua prima di scatenare quella che sarebbe stata una lite veramente pesante.

“Dormiamo ancora un po', cosa ne dici? Mancano almeno un paio d'ore al sorgere del sole...” fu la proposta, pacifica e un po' inattesa, che uscì dalle labbra della Leonessa.

Francesco valutò in fretta la situazione. Non voleva la pena battibeccare di nuovo con lei, né aveva senso cercare di farla ragionare a quell'ora, mentre fuori – ormai si sentiva nettamente – iniziava a piovere, e mentre sotto le coperte si stava così bene...

“Fai bei sogni...” le augurò e poi rimase in silenzio, ascoltando solo il respiro sempre più tranquillo della Tigre e la pioggia che batteva piano contro la finestra.

 

L'accusa mossa, con sempre maggior veemenza e convinzione, da parte di Giuliano Della Rovere nei confronti del Cardinale D'Amboise aveva portato nel giro di pochi giorni anche i Cardinali spagnoli a rinnegarlo, malgrado gli accordi vigenti con il Valentino, che aveva spinto per il francese per conto di re Luigi XII.

Ciò che il Della Rovere aveva osato dire e ribadire più volte circa il Cardinale francese non era, a giudizio di molti, corrispondente a verità, dato che la maggior parte dei presenti in Conclave riteneva quanto meno improbabile che un papa, per quanto francese, potesse realmente trasportare la Santa Sede in Francia. Tuttavia, quell'accusa era stata utile come scusa per evitare una votazione cui molti già si erano piegato controvoglia.

Passare dall'Amboise a Giuliano sarebbe stata una giravolta troppo estrema, ma convogliare tutti quei voti sul tranquillo e innocuo Piccolomini di Siena era stato un gioco da ragazzi, per il ligure.

La Capitolazione Elettorale che era stata approvata dai Cardinali prevedeva che il nuovo pontefice convocasse un concilio per la riforma della Chiesa entro due anni dalla sua elezione, andando a programmare poi incontri a cadenza triennale per far sì che Roma tornasse a essere un faro di fede e non più solo un simbolo di sfarzo e corruzione.

Francesco Nanni Todeschini Piccolomini sembrava tenere particolarmente a quel progetto e mostrarsi entusiasti per quelle risoluzioni andava a legittimare ancora di più il cambio di rotta di molti Cardinali. Tutti i sottoscriventi sapevano anche troppo bene che quelle in realtà sarebbero state solo parole al vento, ma era un modo come un altro per prendere le distanze dal pontificato di Alessandro VI che, a conti fatti, di santo e casto non aveva avuto pressoché nulla.

Ascanio Sforza, poi, si dimostrò un'ulteriore spina nel fianco, per l'Amboise. Incupito dalla prigionia del fratello Ludovico Sforza presso i francesi e impensierito per la scarsa salute che, dicevano, stesse affliggendo il nipote Ermes Maria rifugiato presso l'Imperatore, l'Amministratore Apostolico di Pavia, Novara e Cremona sembrava aver deciso di schierarsi anche contro il favorito di re Luigi e di appoggiare la linea del Della Rovere che, comunque, restava un suo parente alla lunga, essendolo di sua nipote Caterina. Per farlo, non gli diede apertamente contro, limitandosi a proporsi silenziosamente come possibile candidato al soglio, andando così a indebolire anche una possibile candidatura di Giuliano.

La sera del 21 settembre, la votazione del Conclave portò alla luce una situazione critica: i voti erano suddivisi in blocchi granitici, un po' diversi da quelli attesi, e del tutto inconciliabili. Il senese Piccolomini, che era parso tra i favoriti, era stato votato solo da quattro Cardinali, tra cui Alessandro Farnese e Raffaele Sansoni Riario.

Giuliano Della Rovere iniziava a temere che quell'elezione si sarebbe tramutata per lui in una catastrofe, così preferì passare alle vie di fatto. Innanzitutto, grazie ai suoi modi persuasivi, convinse l'Amboise, prima che si dichiarasse lo scioglimento della riunione per il riposo notturno, a dire che, in fondo, un papa italiano sarebbe stato la scelta migliore, dopo quello che era successo con il Borja, che arrivava da un paese straniero agli usi e ai costumi di Roma, e poi combinò un incontro con tre uomini che riteneva fondamentali per la riuscita del suo progetto.

“Quello che sono venuto a dirvi, fratelli miei, è che il nostro Piccolomini non è solo il miglior papa possibile oggi, ma che è il papa migliore possibile per costruire l'Italia di domani.” disse il Della Rovere, quando si trovò seduto a un tavolo con Giovanni Medici, Ascanio Sforza e Giovanni Colonna.

Il figlio di Lorenzo il Magnifico, con i suoi ventisette anni, era il più giovane della compagnia e sembrava il più impaziente di portare a termine quella discussione: “Che intendete dire? Che quel vecchio porterà una ventata di novità?”

Sia il quarantasettenne Giovanni Colonna, sia il quarantottenne Ascanio Sforza fecero una breve risata composta, ma poi rimasero in attesa di una risposta.

“Una cosa accomuna tutti noi – spiegò Giuliano, sporgendosi un po' in avanti, in modo che la luce delle candele illuminasse appieno il suo viso – la voglia di cancellare dalla faccia della terra quello che è stato il pontificato di Rodrigo.”

Il Medici, il Colonna e lo Sforza rimasero immobili, ma era evidente che tutti e tre gli stessero dando intimamente ragione.

“Al momento, però, l'Italia è un formicaio e noi tutti siamo troppo concentrati a pensare al bene delle nostre famiglie, per essere abbastanza lucidi, e magari non ancora abbastanza capaci, da guidare la Sacra Chiesa di Roma.” riprese il Della Rovere, con finta modestia: “Voi, Sforza, dovete pensare ai vostri parenti sfortunati, decimati e umiliati dal figlio di Rodrigo... Vostra nipote Caterina vive da reclusa a Firenze, vostro fratello Ludovico è ancora prigioniero... Se diventaste papa, vi accuserebbero di voler rifondare il Ducato di Milano e far riemergere dalla polvere i vostri parenti...”

Ascanio non disse nulla, anche quella volta, ma le sue guance incavate si fecero ancora più scarne, mentre i suoi occhi cerchiati di scuro sfuggirono a quelli del Della Rovere.

“Voi, Colonna...” riprese Giuliano: “Vostro fratello Prospero è scappato a Napoli con la sua amante, quella Sancia che sarebbe la moglie di uno dei figli del defunto Rodrigo... Che scandalo sapere papa voi o chi voi volete sulla sedia di Pietro... I Colonna che prima sono amici dei Borja, poi nemici, poi amici e poi rubano loro le mogli... Vi siete mescolati così tanto a quei dannati valenciani che la gente direbbe che nulla è cambiato e governare sarebbe davvero complicato...”

Anche il romano non disse nulla, mordendosi il labbro e alzando appena le mani, come a dire che non poteva negare nulla di ciò che era stato detto.

“E voi, Medici...” Giuliano fissò con intensità il figlio del Magnifico e fece un lungo sospiro, prima di dire: “Firenze ha combinato un vero pasticcio, con l'alleanza con i francesi prima e col Valentino poi, non è vero? Vostra sorella Lucrezia è sposata con quel Salviati che vorrebbe tanto diventare Gonfaloniere... Che direbbero tutti? Hanno eletto un Medici per far tornare i Medici a Firenze da padroni... Ecco, cosa direbbero. Pensate che sarebbe facile tenere il potere, con una simile diceria sulle spalle, ora che tutti vogliono solo dimenticarsi un papa come il Borja, che ha passato il suo pontificato a cercare di fare dei suoi familiari i nuovi padroni d'Italia?”

Giovanni sporse in fuori il mente e fu sul punto di dire qualcosa, probabilmente, qualcosa di arguto, che avrebbe fatto tacere il Della Rovere, e proprio quella consapevolezza portò il ligure ad anticiparlo.

“Senza contare che la Tigre di Forlì, la nipote del nostro caro Ascanio, ormai è anche parente vostra... Uno dei suoi figli porta il vostro stesso cognome, e la gente ci metterebbe poco a mettere in relazione anche voi...” disse il Cardinale: “Io invece dico che il Piccolomini, un senese che non ha grandi aspirazioni personali, né familiari, un vecchio, come l'avete chiamato voi... Lui sì che sarebbe il papa giusto. Italiano, con pochi anni da vivere, integerrimo, addirittura un vero uomo di fede, con pochi parenti agguerriti e poco conosciuto dal popolino... Addirittura lui stesso ha dissuaso il fratello Andrea dal venire qui a Roma a far pressioni per la sua elezione!”

Colonna, Medici e Sforza restarono in silenzio per qualche minuto, finché Ascanio non si schiarì la voce e chiese: “E quando Piccolomini morirà? Voi parlate di anni, ma potrebbe essere anche tra pochi mesi, per quello che ne sappiamo...”

“Se è per quello – tuonò Giuliano, perdendo la pazienza per la prima volta – domani potrebbe colpirvi un fulmine o il nostro Medici, qui, che è nel fiore degli anni, potrebbe venir travolto da una carrozza e morirne! Che possiamo saperne, noi? Solo il buon Dio lo sa!”

“La domanda resta valida.” si impuntò Ascanio, senza scomporsi.

“Quando Piccolomini morirà, allora riapriremo i giochi. Roma e l'Italia saranno pronte, avranno dimentica il Borja, e chi di noi avrà più potere, più soldi e più intelletto, vincerà e farà prevalere il suo candidato.” concluse il ligure: “Converrete con me che conviene a tutti fare come ho detto io.”

La riunione si sciolse poco dopo, con tante risposte non date e tanti interrogativi non espressi. La strategia scelta dal Della Rovere, lui stesso se ne rendeva conto, non era l'unica percorribile, ma la riteneva quella più semplice. Avrebbe potuto far leva anche sui loro interessi comuni, dicendo che, a ben guardare, alcuni di loro erano imparentati, anzi, lui stesso, lo Sforza e il Medici potevano dirsi riuniti sotto l'egida della Leonessa di Romagna, e il Colonna sarebbe diventato forse superfluo nella loro alleanza. Facendo come aveva fatto, però, aveva evitato di mettere la loro sorte in mano a una donna che, a suo avviso, aveva dato più volte segni di squilibrio e scarsa affidabilità, rimandando il tutto a una questione tra gentiluomini, che si accordavano con senno e calma, per temporeggiare in attesa che arrivassero tempi più favorevoli per tutti.

La mattina del 22 settembre, dopo una votazione rapida ed estremamente pacifica, il Conclave espresse il nuovo papa: Francesco Nanni Todeschini Piccolomini, che prese il nome di Pio III.

Gli elettori si trovarono tutti soddisfatti di quella scelta, e ciascuno per motivi diversi. Chi pensando di aver preso tempo necessario, come era stato suggerito dal Della Rovere, chi felice di non aver visto vincere il candidato francese e chi ancora di non aver visto eleggere uno straniero, chiunque egli fosse.

Dal canto suo, Piccolomini prese quella vittoria come un segno divino e ci tenne a dichiarare, per scansare qualsiasi possibile erronea aspettativa su di lui, scrisse subito una breve in cui difendeva perfino il Valentino, in quanto figlio di Dio come chiunque altro, pur tenendosi ben lontano dall'idea di dargli soccorso armato.

'Perché – scrisse di suo pugno – non volemo esser Papa de arme, ma tutto el studio nostro volemo sia in pacificar le cose de la Cristianità.'

E per togliere anche il più piccolo dubbio sul suo desiderio di neutralità, aggiunse anche: 'né volemo che alcun, sotto ombre de volerne favorir, se fazzi pensier de condur arme in Italia.', il che gli valse il plauso di tutti, perfino del bellicoso Giuliano Della Rovere, che quel giorno, dinnanzi al nuovo pontefice, si sentiva felice come un bambino dinnanzi a un giocattolo nuovo.

 

   
 
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