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Autore: Loony_is_in_love    04/10/2023    0 recensioni
[John Doe]
Che Lyssa fosse nel giusto o nel torto, che ciò che era successo in Italia fosse stata effettivamente colpa sua non importava più a molto, e non perché ciò non avesse comportato un cadavere, ma perché Alyssa sarebbe morta lo stesso.
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[John Doe/NotYou!Oc]
Genere: Horror, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Il turno di notte rendeva il tuo lavoro strano, lo rendeva eccitante ed eccentrico, lo caricava di un qualcosa che, sebbene di seconda mano, ti dava l’energia di presentartici ogni giorno -meglio dire ogni notte- alla medesima ora, quasi mai in ritardo. 
Oggi c’è differenza però, oggi hai pianto ben due volte prima di attaccare.
Meg è già sulla soglia a tamburellare il piede a terra, carica di una energia contagiosa ma snervante.

«Bonjour Lyssa!
Che hai fatto ieri?» Meg ingrana la quinta e parte all’attacco, cinguetta le sue domande non davvero interessata ma comunque vagamente curiosa.
«Giorno Meg, ho dormito, nulla di eclatante, tu?.»
Non le dirai come stai, e lei probabilmente non te lo chiederà, forse per timore forse per menefreghismo; non ti importa saperlo, vorresti solo poter mettere in pausa la tua esistenza e darti venti meritatissimi minuti di silenzio, raggomitolata su te stessa o stesa a quattro di bastoni sul pavimento, in qualsiasi posizione purché non sia eretta.

Ma lo sai che la prima vera nottata di sacrosanto riposo la farai in una bara, e tu per ora respiri.

«Ieri sono tornata assieme a Gerard, è tornato a casa piangendo e ubriaco, dovevi vederlo è stato dolcissimo, mi ha detto che mi ama.
E poi-» smetti di ascoltare alla prima cazzata sparata dalla tua collega, storcendo la bocca e forse anche il naso, sicuramente scuoti il capo ma tanto Maggie è troppo intenta a rimettere a posto la sua pettorina per rendersene conto; a proposito di rendersi conto di ciò che ci accade attorno, sei finita nello spogliatoio, Meg ti ha trascinata -e tu l’hai seguita istintivamente- dentro la stazione del gas, poi dietro al bancone -sempre continuando a rintronarti di chiacchiere vuote- ed alla fine dentro la stanzetta per lo staff.

Cerchi di non farti troppe domande, senza medicine sei ancora più imbranata e nervosa del solito e l’accoppiata: collega mezza nuda e nervosismo non ha mai giocato a tuo favore.
Non che importi, Meg è etero, etero e stupida visto che è tornata assieme a quella red flag su due gambe di Gerard, ma tu non sei nessuno per ficcarti nelle relazioni degli altri, a malapena riesci a capire se sei asessuale o semplicemente timida, figuriamoci se puoi avocare per le relazioni altrui.
Insomma il punto è che non importa, a te Meg non piace, eppure ti senti nervosa e inadatta così stupidamente immobile.
Pertanto ficchi le mani congelate nelle tasche della giacca di pelle, beandoti della sua confortevole pesantezza, pesa 4 chili da sola, è uno dei tuoi indumenti preferiti, ti ancora alla realtà come pochi altri sanno fare, è calda ed era di tuo padre.

Lanci la borsa nel fiume, capire che in essa vi sono ancora anche i tuoi documenti ed il tuo portafogli è un pensiero troppo complesso per l’ora.
Pensi solo alle siringhe sparse e alle mini size dei tuoi liquori preferiti.
Qualcuno sta ridendo con te, non di te, solo con te, una risata familiare e allegra.


«Lyssa stai bene?» 
La luce sopra di voi sibila, pianti gli occhi su Maggie e non vedi più le sponde del fiume nei suoi occhi azzurri.
«Sì, sì scusa ti stavo ascoltando, ho solo fatto le ore piccole.»
«Non avevi detto di aver dormito tutto ieri?»
Lo sguardo inquisitorio di Maggie è uno sguardo penetrante, colpevolizzante, ti senti attaccata mentre la tua collega decisamente piccata scuote il capo e continua a guardarti negli occhia alla ricerca di una scusa valida.
Questo è uno dei motivi per cui Meg è numerosi gradini sotto You nella tua piramide della simpatia sebbene con le due la tua cerchia di conoscenze inizi e si concluda.
Non puoi iniziare a dire ora ai tuoi colleghi che ti sfondi di Olanzapina, non puoi dire che il sonno che ti procuri con i farmaci ti spoglia completamente da ogni forza mentale possibile ed immaginabile, non sai nemmeno se sia legale ingerire così tante pasticche in un colpo solo -figuriamoci se credi sia anche solo vagamente salutare-, non puoi perdere questo lavoro, almeno non finché non ne hai un altro.
Pertanto sorridi falsa e mastichi un: “Devo aver dormito male” stretto tra i denti e avvelenato dall’odio.
Meg non se lo beve -strano- e con l’insistenza irritante che la caratterizza fa la cazzata del secolo: ti afferra i polsi e li gira verso l’alto.
Ovviamente non vi sono fori nuovi ma lo schiaffo all’orgoglio è già partito ed atterrato.
Strappi dalla presa della tua collega il braccio smilzo e getti una gamba in un primo passo minaccioso verso di lei.
«Levati dal cazzo Meg.» Sibili, come un serpente a sonagli pronto all’attacco, pronta a saltarle alla giugulare.
Meg sembra rinsavire, e lo stupore sembra sostituirsi in fretta all’amarezza del non essere stata ascoltata.

Ti guarda all’improvviso, con quell’espressione sgranata di chi sa di aver appena fatto un buco nell’acqua grande come una casa.
«Io-» inizia.
«Sparisci.
Il tuo turno è finito.»

Meg raccoglie le sue cose, timbra il suo cartellino e fugge senza nemmeno guardarti in faccia. 
Sai dovrai chiederle scusa tu, Meg è troppo orgogliosa per farlo, o forse è solo troppo ottusa per vedere il danno che le sue accuse fanno. 
Speri John passi a trovarti sia una giornata piena, da sola, con la notte buia che ti aspetta famelica al di fuori delle vetrine della stazione ti senti debole.
Lavori lì da quattro mesi, quattro mesi e Maggie pensa di sapere già tutto di te, ha visto i buchi -e a quel tempo anche i lividi in fase di guarigione- e, con la classica attitudine della crocerossino di stampo manipolatorio aveva deciso saresti stata sotto il suo controllo - e scrutinio- costante.
Non c’è giorno che non ti scriva; che non ti cerchi.
Grazie a Dio non sa dove abiti.

Tiri fuori il telefono, lo accendi e aspetti il suo lentissimo reboot.
Le 3:10.
Controlli le notifiche, ti distrai più che puoi nel disperato tentativo di zittire le vocine che reclamano a gran voce ciò di cui Meg ti ha accusato.
La campana sopra la porta tintinna strappandoti ai tuoi pensieri.
Il tuo sguardo punta rapidamente il cliente appena entrato.
È la donna di ieri, una signora sui 40 entrata per comprare un pacchetto di Malore rosse, ti aveva detto essere di passaggio, da quello che avevi capito doveva essere camionista.

Drizzi la schiena e indossi il miglior sorriso di cortesia tu riesca a sfoggiare.
«Sera.» mormori «Malore rosse?»
La donna ormai giunta al bancone ti pare stupita.
«Come fa a saperlo?»
Sorridi, scuotendo il capo e volgendoti alla parete di sigarette alle tue spalle «Sono quelle che ha preso ieri.»

Cavolo, sapevi di non essere particolarmente riconoscibile ma dannazione era successo appena ieri.
La donna ti guarda confusa, come se avessi cresciuto nel giro di qualche minuto una seconda testa.
«Ieri?» domanda soltanto, allungandoti una banconota stropicciata.
«Sì, ieri, mentre sostava per andare alla Weirton.» la donna impallidisce e ti fissa insistentemente.
«Me l’ha detto lei…» tenti di stemperare il silenzio angosciato che vi è calato addosso.
«È la prima volta che entro qui.»
Dalla mano ti viene strappato il pacchetto di sigarette.
Si volta a fissarti molte volte mentre cerca di percorrere il tragitto dal bancone alla porta, fuggendo.

Le persone che ti circondano raramente si rendono conto tu sia una ex tossicodipendente.
Ma questo ti sembra un po’ too much.
Sei rimasta imbalsamata come un’imbecille, con la mano ancora tesa -vuota come il tuo cervello in questo momento- non sai come prenderla.
Grazie a Dio ti squilla il telefono.
“Numero sconosciuto” recita il display, e lo sai che te l’aspettavi, e dentro di te giuri sul Cristo che se è il call center di ieri alla medesima ora dai di pazzo.
Lo schermo lampeggia ancora e le cifre del numero estraneo danzano davanti ai tuoi occhi ad intermittenza, come a sfida, a minaccia.
Rispondi titubante, terrorizzata, curiosa; la voce metallica dall’altro capo del device scatta e comincia il discorso già sentito.

Getti il cellulare e lanci un gridolino.
Come se il metallo che lo riveste avesse improvvisamente preso fuoco; a mani stupide e gelatinose cerchi a tentoni il tasto rosso col telefonino rivolto verso il basso.
Dagli speaker riecheggia per ancora qualche tormentato minuto la voce statica di “Cortana” per poi -finalmente- piombare nel silenzio.

È una coincidenza.
Un call center insistente ed una donna pazza; perché devi per forza essere tu quella schizzata nelle situazioni strane?
3:27 AM Wednesday 8th November ti informa il tuo cellulare.
Ieri.
Oggi è ieri.
E non “Oggi è lo ieri di domani” cazzo di frase motivazionale style; no no, oggi l’hai letteralmente già vissuto: Ieri.

Apri il registratore di cassa, frenetica, affondi la mano negli scontrini e ne tiri fuori una manciata generosa.
7 Novembre, 7 Novembre, 7 Novembre, 6 novembre, 3 novembre, 6 Novembre, 8 Novembre.
Bingo.
Scorri col dito fino all’orario e la piccola speranza che ti era nata in petto si congela e muore di ipotermia.
8 Novembre 2:40 AM.
Non ce ne sono altri.
Ti senti la nausea, vedi con la coda dell’occhio la tua siluette barcollare sullo schermo della CCTV inchiodato al soffitto “8th Nov.” sfarfalla a lato dello schermo -come a scherno- torcendo il coltello nella ferita della tua confusione.

Nella notte senti il rombo di un camion di passaggio, il tuo stomaco si contorce.

Abbracci la tazza e senti l’ultimo conato farsi strada nella tua gola secca.
Il suono dello sciacquone fa ben poco per ancorarti alla realtà che ti circonda, anzi, dei due ti senti ancora più confusa mentre ti sciacqui la bocca e ti strofini le mani umide sul viso sudato; il gorgogliare della tazza ti sembra starti trascinando giù per lo scarico con sé.
L’asciugatore a getto d’aria -hai dovuto googlearlo per imparare come diavolo si chiama l’aggeggio infernale affisso al muro del bagno- parte producendo un frastuono infernale, da qualche parte nel tuo cervello riaffiorano come cadaveri in acqua le immagini di un vetrino da cultura batterica, della muffa ripresa e pubblicata su Weirdagram; l’immagine di uno di quegli attrezzi che si chiude come un paio di fauci spalancate, rivoli di sangue.
Ritrai le mani in fretta, rabbrividendo profondamente.
Ti asciughi il resto dell’acqua sui vestiti, procurandoti una sensazione odiosa quando i pelucchi sfusi del maglione sgualcito che indossi ti si appiccicano alla pelle bagnata.
Ti senti uno straccio.
Nulla di nuovo ma non puoi continuare a ingurgitare antidolorifici come ciliegie.

Opti per una pausa nicotina.
Esci dal bagno con una pedata sulla porta, raggiri il bancone e afferri la tua giacca, un mucchietto di post-it sparsi ed una penna, passi sotto la visuale delle telecamere di sicurezza, assicurandoti di batterti una pacca sul culo e fare il dito medio alla lente di vetro che ti osserva come una formica in una teca; giusto in caso qualcuno alla fine quei nastri se li riguardi per davvero.
La campanella sulla porta tintinna mentre ti lascia fuggire dallo stomaco dell’edificio che presiede, la prima cosa di cui hai bisogno è una bella boccata d’aria congelata, te ne riempi i polmoni prima di accenderti la sigaretta.
Crolli come un sacco di patate in una sottospecie di squat, trafficando con taccuino e penna:

1-Donna 40 fumo (camion)
2-Uomo 20 cibo (moto)
3-Uomo 50 gas (?)

Ti sembrava più intelligente nella tua testa rispetto a come ti sembra ora fissato su carta, le poche parole che sei riuscita a scrivere sul blocco note non ti sembrano per nulla utili ora che accozzate l’una dietro l’altra.
No, non è vero, servono a farti capire se stai impazzendo o meno.

L’aria gelida ti passa le dita secce tra i fili dei tuoi capelli, scarmigliandoli e gettandoteli sul viso; in lontananza vedi il cielo farsi sempre più scuro fino a scomparire in un abisso nero e privo di stelle.
A volte ti capita di sentirti come in una scatola da scarpe, in una di quelle con cui da bambina tornavi a casa con le creature più disgustose e disparate la piccola foresta fuori la proprietà di famiglia potesse ospitare, conti le stelle sulla tua testa -buchi nel coperchio- e ti chiedi per quanto dovresti arrampicarti sulle pereti per finalmente usarli come via di fuga.
La stella polare -o per lo meno quella che credi sia la stella polare- sfavilla sotto i tuoi occhi, come se sentitasi presa in causa; sorridi, tirando dalla sigaretta tra le tue dita, un profondo brivido a scuoterti fin dentro le ossa.

Rientri vagamente più tranquilla di prima; fumare fa davvero miracoli per i tuoi nervi, sei giunta a molte conclusioni nella breve pausa tra l’accensione di una sigaretta ed il suo ultimo disperato precipitare verso le fauci già spalancate dell’asfalto sottostante.
Hai capito che: -Prima di tutto- se anche oggi fosse ieri non è un dramma, insomma stai pensando ciò mentre cerchi di infilare il latte nello sportello frigo che riordina in maniera bizzarra e totalmente casuale i prodotti al suo interno, le stranezze della Valley dovrebbero esserti già finite sotto pelle dopo tutti questi anni (?) -perché erano anni quelli che avevi speso nell’Uncanny Valley, vero?-  devi solo fare ciò che fai tutti i giorni, andare avanti a testa bassa, non farti domande, sparire nella massa, confonderti con le anomalie della citta che abiti, l’ennesima macchiolina nella massa indefinita di anormali. 

Loro sono diversi, tu sei indifesa.
Hai una certa familiarità con le creature che vivono nella valle, per lo meno sai che ce ne sono di ogni tipo e genere, quelle ostili sono forse le più diffuse ma sicuramente non le più facili da incontrare, quelle se ne stanno per i fatti loro, non interagiscono con larghi gruppi di persone, tendono a cacciare prede sole e piccole -tu in pratica ma con il tempo ti sei fatta la pellaccia, ed è ormai da molto che qualcuno non ti infastidisce- ma adesso stiamo parlando di un glitch, di un malfunzionamento di una intera città, si è ripetuto un giorno, nulla di preoccupante, ti fa strano tu ne sia rimasta estranea ma non ti turba più come prima -anzi, forse la cosa che ti turba più di tutte è proprio il fatto che tu sia stata nuovamente esclusa da qualcosa di gruppo-.

Osservi la tua lista e poi l’orario sulla CCTV, 4:20 -lol, nice- più o meno l’orario del tuo prossimo cliente; ti volti a fissare la porta, cercando di ricordare il dispiegarsi della conversazione che -secondo i tuoi calcoli- stai per avere.
Quasi come per magia la porta si apre e proprio il ragazzotto che ti aspettavi entra dentro alla stazione.
Ti trattieni a malapena dal farti le congratulazioni, mantieni la faccia più neutrale - e ovviamente cortese, sei ancora una dipendente a contatto con il pubblico- possibile, accogliendo il tuo “nuovo” cliente.
«Buona sera signore, posso aiutarla?» -ew fare la cortese ti disgusta proprio- 
Il ragazzino ti guarda e annuisce ma non a te, lo fa a ritmo di musica prima di spostarsi le enormi cuffione da sopra le orecchie.
«Scusa sorella non ho capito.»
Sorridi, perché tu questa conversazione l’hai già sentita ed in un certo qual modo -a quanto pare- prevedere le mosse degli altri, anzi, già saperle, suscita una incredibile ilarità in te.
«Le ho chiesto se posso fare qualcosa per lei.»

La nottata segue il suo bizzarro dispiegarsi ripetuto, nulla fuori dall’ordinario -letteralmente- ma più essa prosegue più il tuo istinto di sopravvivenza smette di dormire quiescente sotto la scusa di una banale anomalia e comincia ad agitarsi irrequieto al pensiero persistente tu non dovresti essere lì.
   
 
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