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Autore: ntnmeraviglia    07/10/2023    1 recensioni
Un racconto di ferite, di dolore. Di sesso, di sporco, di marcio. Di Dio, di servi di Dio; di umani che giocano a fare Dio.
Quattro storie diverse, intrecciate tra loro in un unico, ripugnante destino.
Se vi va di sporcarvi le mani di sangue, siete nel posto giusto.
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AVVERTENZE: In questa fanfiction troverete poche ship canoniche - e poche ship concrete in generale -. Al contrario, sono presenti diversi OC (original characters); sei, per l'esattezza, che presenzieranno per tutta la durata della storia e si interfacceranno con quasi tutti i personaggi dell'opera originale. Se siete affezionati ad Hellsing e, in generale, al filo conduttore della storia esattamente nell'ordine e nel modo in cui si svolge nel canon, forse questa lettura non fa per voi; e allo stesso modo se non siete fan degli OC.
Per il resto, siete i benvenuti, e mi auguro che le mie piccole ideuzze vi intrattengano tanto quanto hanno fatto con me!
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Alucard, Integra Farburke Wingates Hellsing, Maggiore, Nuovo Personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Ad Annecy faceva sempre freddo, mica era una novità. Ma l’inverno del ‘77 fu particolarmente rigido ed insopportabile, tanto da rendere pressoché impossibile la solita movida francese di cui le strade brulicavano durante tutto il resto dell’anno.
Quasi centomila abitanti, e nessuno in giro quella sera. Ogni tanto si sentiva il rombo di qualche auto; ogni tanto i passi rapidi di qualche anima che non vedeva l’ora di tornare a casa. Ma nessuno che avesse effettivamente voglia di godersi la sera stellata.
Isaac si chiese se quello sarebbe stato il suo giaciglio di morte: un vicolo puzzolente, con le croste di piscio al muro e coi ratti che rosicchiavano resti di pizza abbandonati da qualcuno.
Si chiese perché era toccata proprio a lui quella sorte. Si chiese perché proprio lui non meritava di essere salvato. Doveva aver commesso diversi imperdonabili crimini nella sua precedente esistenza, e ora forse gli toccava pagare pegno con la vita di merda che conduceva. Dieci anni di ragazzetto, e la morte per ibernazione come unica prospettiva.
Tutto era cominciato quando era venuto al mondo: sballottato tra diverse braccia fin dal primo secondo, strillando e piangendo col cordone ombelicale ancora attaccato alla slabbrata matrice stanca da cui era uscito.
Tua madre ti ha dato via perché non ti voleva, Isaac”, gli diceva sempre suor Amélie. “Lei era una poco di buono, una sciagurata, una donnaccia. Non ti ha voluto. Non ti ha amato. Devi essere grato che il Signore ti ha portato sulla nostra via, caro. Tu sei Isacco, figlio di Abramo a cui Iddio parlò. Sei benedetto, ragazzo”. Per cui, fin da quando aveva memoria e coscienza, il piccolo e dolce trovatello aveva appreso il sostanziale concetto che sua madre, che l’aveva partorito, non l’aveva voluto e senza di lui se la spassava alla grande.
Poco male. Suor Amélie l’aveva sostituita egregiamente: era una donna perbene, con una vera vocazione. Amava Isaac come figlio suo, era il suo preferito in assoluto tra tutti i bambini dell’orfanotrofio. Otto giorni dopo la sua nascita si era premurata personalmente di farlo circoncidere come da tradizione, e da allora non l’aveva mollato un attimo.
Mai. Mai, mai, mai. Era con lui quando studiava, quando mangiava, quando giocava in cortile. Era con lui quando andava in bagno, vegliando su di lui mentre faceva pipì. Era con lui quando dormiva: si infilava sotto le sue coperte, gli accarezzava le gambe, gli baciava le guance.

« Non mi piace questo gioco… » Isaac mugugnò infastidito. Lo fece a voce bassa, come se temesse un altro sculaccione come l’ultima volta che si era ribellato. « Per favore, suor Amélie, posso andare in cortile ora…? »

« Ci vorrà solo un attimo… » Amélie aveva il cuore che le martellava nel petto come un tamburo a percussione, mentre toccava il pene dal prepuzio escisso del suo bambino. Il suo nucleo vergine si lubrificò istantaneamente, eccitato dal contatto carnale proibito. « Non senti dei brividini, Isaac? Non ti piace che la mamma ti tocchi così? »

« No, non mi piace. E tu non sei mia madre. »

Il ceffone che ricevette fece schizzare Isaac oltre i piedi del letto, obbligandolo a cascare sulle ginocchia e a parare la caduta coi palmi delle mani, che si graffiarono inevitabilmente nell’impatto.
Il labbro inferiore subì l’urto, stracciandosi e colando sangue. La guancia pulsò.

« Vergogna! Disgraziato! Dopo tutto quello che ho fatto per te, è questo il ringraziamento?! Insolente! Ingrato! Ora ti rimetto in riga io, impertinente. »

La donna fu meschina, lo attaccò alle spalle. Gli spogliò la schiena senza lasciargli tempo di ribellarsi, e lo bacchettò a sangue. Lo colpì così forte da farlo contorcere di dolore, e mica una volta sola. Due, tre, quattro, dieci, quindici, venti. Sfogò la frustrazione di essere stata rifiutata su quel corpicino straziato, ora aperto in diverse ferite rossastre da cui gocciolava altro sangue.

« Basta! Basta, per favore! »

« No! Devi imparare che ci sono delle conseguenze severe alle azioni disdicevoli! »

Ogni scocco di sferzata corrispondeva ad un grido ed una lacrima. E più si proseguiva fino alla follia, e più il desiderio di Isaac di porre fine per sempre alla tortura diventava violento ed irrefrenabile. 
Muori. Muori, muori, muori, muori. Muori, scrofa di merda. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio”. Il pensiero divenne così ossessivo da concretizzarsi: bastò un calcio a sgambettare la vecchia e le sue cosce che ormai non la reggevano più come un tempo. Amélie venne stordita dalla caduta, ed Isaac ne approfittò: si mise a cavalcioni su di lei, afferrò il cuscino – lo stesso del letto su cui stava venendo molestato poc’anzi, per intenderci – e lo pressò con forza brutale sul viso scolpito di rughe della suora. Una forza primordiale, animalesca, selvaggia, che non credeva di possedere in quelle piccoli esili braccia. Lo scalpitare frenetico della donna non stimolò alcuna pietà in quegli occhi dalle sfumature bronzee ora iniettati di sangue e violenza: Isaac digrignò i denti fino a scheggiarseli, e continuò a spingere il morbido ammasso di piume sulle vie respiratorie di Amélie, e ne ebbe abbastanza solo quando quest’ultima smise di ribellarsi, abbandonandosi sul pavimento.
Di lì a qualche secondo, la rabbia svanì e subentrò la paura. L’aveva soffocata davvero? Era svenuta o l’aveva stecchita?
Il suo respiro cominciò ad appesantirsi, il fardello della colpa a fletterglisi sul cuore. Un bambino devoto come lui, cresciuto con Dio al suo fianco, era davvero colpevole di un omicidio?
Isaac venne intontito dalle sue paure: esse si irradiarono del suo corpo, presero controllo dei suoi pensieri, e lo costrinsero a non farne parola con nessuno. Nonostante la schiena dolente e bruciante come roccia lavica, si obbligò a trascinarsi fuori dall’orfanotrofio, nonché unico luogo al mondo che poteva definire casa.
Ed ecco come ci era finito lì, ridotto ad eremita. In quell’occasione, aveva avuto spiacevole modo di notare che la brava gente francese non aveva molto a cuore i vagabondi; anzi, direi per niente. Isaac era diventato letteralmente invisibile: tutti gli passavano di fianco, ma nessuno che si interessasse di lui. Del perché fosse solo, di dove fossero i suoi genitori, del motivo per cui fosse evidentemente denutrito e sporco di sangue.
E dopo tre giorni trascorsi con il cibo dei cassonetti e l’acqua delle pozzanghere, ci si era messa anche quella brutta febbre. Il freddo era gelido, pungente: gli era penetrato al di sotto della carne, lacerando i tessuti e finendogli dritto nelle ossa; inoltre, la pioggia del giorno prima aveva contribuito ad aggravare il suo stato di salute.
Quella era la sua punizione per essere stato ingrato, per aver ucciso. La verità è che avrebbe dovuto sopportare le cinghiate, avrebbe dovuto sopportare che quella donna lo toccasse; avrebbe dovuto esserne felice, magari. Lieto. Avrebbe dovuto trovarlo piacevole, persino.

« Gesù… ti prego… non voglio morire… » disperato, si pentì davanti a Dio, ritrovandosi a sussurrare deliranti Ave Maria e Padre Nostro uno dietro l’altro, nella speranza che il Signore avesse pietà di lui.
Ma il tempo passava: la sera stava per cedere il posto alla notte, e lui era ancora accasciato contro il muro incrostato, coi soliti ratti a fargli compagnia, senza che nulla fosse cambiato.

« Ehi, tu! » quella voce ovattata gli pervenne quando aveva già chiuso gli occhi, pronto ad abbandonarsi alla morte. Isaac ritornò dal cammino eterno, schiudendo le palpebre con fatica. « Sei morto? »

« … Gesù…? »

« … Non sarai morto, ma forse sei drogato. Non sono Gesù! Magari! » un ragazzino dai capelli ramati, un paio d’occhi verdi brillanti, una spruzzata di lentiggini sulle guance ed un curioso cerotto che gli copriva il dorso del naso. Quello era il grande salvatore che Gesù gli aveva mandato? Non sembrava molto serio, né tanto presente a sé stesso. « Sei un po’ giovane per essere un clochard, no? »

« … Ho… freddo… »

« Ci credo. Guarda che guance rosse, secondo me hai la febbre. » il giovanotto sembrò indeciso sul da farsi. Era solo uscito per comprare le sigarette a suo nonno, ed un ritorno in coppia sarebbe stato quantomai sgradito. Eppure… provò della tenerezza. Dell’empatia. Lui non era come i gentiluomini francesi, che pensavano solo ai sigari e alle donne: quel bambino morente non era affatto invisibile per lui. « Dai, coraggio, vieni con me. Ti porto a casa mia, almeno finché non ti rimetti. »

Si caricò Isaac, lasciando che questi si accasciasse totalmente contro di lui: a stento si reggeva in piedi, povera anima. « Sono Pip, comunque. In realtà mi chiamo Philippe, ma io preferisco Pip. »

« … Isaac… »

« Okay, Isaac. Non sei molto loquace, eh? »

La non-risposta di Isaac funse, paradossalmente, da sentenza definitiva per Pip, che comprese il mutismo altrui e ne ebbe gran rispetto. Poi, a piccoli passetti, i due si diressero presso l’abitazione dei Bernadotte, non molto lontana da lì.
 
☞ Isaac, dodici ore all’adozione.

 
–––––


« Guarda… queste sono le cose che hanno le femmine… sono le tette! »

« Fa’ vedere! Voglio vederle anche io! »

« Sai, io ho una sorella più grande, e ogni volta che si spoglia guardo le sue tette dal buco della serratura. Se mi date dieci lire a testa, vi faccio venire tutti a casa mia e le guardiamo insieme! »

« Sì, sì, per favore! Domani ti porteremo i soldi, promesso! »

Roma, Città del Vaticano, 1984. Erano da poco trascorse le cinque, ed il sole prendeva il suo lento passo verso il tramonto.
Un branco di ragazzini, con non più di un decennio di vita, se ne stava riunito in un piccolo cortile, sparpagliati tutti su un’unica panchina. Il loro consueto turno di catechismo giornaliero era finito da poco, e ora arrivava il loro momento preferito della giornata: quello delle riviste osé. Tutti cercavano di arraffarsi affannosamente la visione di un pezzettino di culo, un’occhiata birbante al sensuale frutto della donna: quella rivista venne strappata di mano in mano, sballottata di qua e di là, perché gli uomini italiani sapevano apprendere molto presto la nobile arte dell’oggettificazione del corpo femminile, e tutti ne volevano un assaggio.

« Non vi fate beccare, però! » colui che aveva tutta l’aria di essere il leader di quel testosteronico ammasso – il guardone con la sorella più grande, per intenderci – ammonì il resto del gruppo, invitandoli a limitarsi con gli schiamazzi. « Se Anderson ce la sequestra, non voglio saperne niente! Io non c’entro, e non provate a spifferargli che ve l’ho procurata io! »

Già, Alexander Anderson faceva paura. Era un bravo prete, e i suoi ragazzini erano come figli per lui. Ma tutti sapevano quanto intenso fosse il suo amore per il Signore Iddio, e quanto fermamente credesse nella sua parola. Certo non avrebbe ammesso che delle simili porcherie girassero nel suo territorio; non lì, non nella Santissima Tredicesima Divisione Iscariota, non con Angel Dust Anderson cane da guardia di Dio in circolazione.
E tanto meno avrebbe gradito che uno dei piccoli futuri aiutanti di Cristo estorcesse danaro in cambio di incestuosa mercificazione. Sarebbe stato inaccettabile, per lui; ma, vuoi per fortuna o per caso, per il momento non sembrava nei paraggi: un colosso enorme come quello, grande e grosso, con la voce gracchiante come un gigante, sicuramente l’avrebbero notato.
In compenso, comunque, avevano qualcun altro alle calcagna.

« Dio non avrà pietà dei vostri peccati. »

La voce provenne da un fantasma… o quello che aveva tutta l’aria di esserlo. In realtà, si trattava solo di un bambino: un bambino dai capelli nerissimi, che gli piovevano sulla fronte e gli ottenebravano il viso; un bambino dagli occhi fulvi, empi come privati dell’anima; un bambino dalla silhouette inquietante: alto e slanciato, magro come un fuscello, forse troppo per la sua età. Ma, soprattutto, ciò che davvero allarmava di quell’individuo misterioso – da dove era spuntato, poi? – era il suo sguardo truce. Inesorabile, solenne: freddo come quello del più esperto dei serial killer.
Agghiacciò l’ilarità della combriccola, ammutolendola.

« Di nuovo tu?! Brutto cretino, quand’è che impari a farti i fatti tuoi?! Se non la smetti di darci fastidio, ti mando mio padre! Ti riempirà di botte! »

« Così come San Pietro non sarà misericordioso con voi quando non vi aprirà le porte del Paradiso, anche la mia clemenza verrà meno. Come cieco seguace di Dio, ho il compito di esorcizzare il peccato e distruggerlo con la polvere e col sangue. Mandami tuo padre, tua madre, e anche tutto il Reggimento dei carabinieri a cavallo, se vuoi. Ma non scamperai alla tua dannazione. »

La fronte del piccolo maniaco cominciò ad imperlarsi di lucente sudore. Davvero Dio era così arrabbiato con lui…? Solo per un paio di tette?
E Izaya – questo era il nome del “cieco seguace di Dio” –, cos’era? L’angelo della morte mandato in Terra a giustiziarlo con l’eterno castigo?
No… no, quello era solo un matto. Non era la prima volta che si aggirava da quelle parti, e non era nemmeno iscritto al loro corso di catechismo; forse non poteva permetterselo, quel poveraccio senza dignità. Bazzicava lì attorno solo per dare fastidio, era così evidente! Il Signore non avrebbe mai scelto uno sfigato del genere come suo messaggero.
Per cui, il capogruppo riacquistò sicurezza, esordendo con una sonora risata di scherno che aveva come unico obiettivo quello di mortificare Izaya, di minimizzare i suoi intenti; di umiliarli e scoraggiarne l’entità.

« Hah! Che coglione! E che pensi di fare, sentiamo? Scriverai una lettera a Gesù e gli farai la spia?! »

Il riso divenne non solo più ridondante, ma anche contagioso per il resto del gruppo, dai cui volti sparì ogni preoccupazione. Si sentirono nuovamente protetti dietro la spavalderia del loro amico, percependo il branco come unica cupola di salvezza in cui rifugiarsi.
Trascorse qualche secondo, non più di una decina. Poi, le risate sparirono, e vennero immediatamente rimpiazzate da delle urla di puro orrore. Un corpo tonfò per terra, ed un lago di sangue si propagò. Un vero spettacolo: liquido rosso cremisi che diramò nelle crepe della terra, tornando alla natura e riconciliandosi con Dio. Amen! Izaya fu fierissimo del lavoro svolto.

« Questo lo tengo io. » pronunciò, inorgoglito, infilandosi comodamente in tasca l’orecchio insanguinato che aveva appena strappato alla sua cartilagine d’origine con l’agiato ausilio di un coltellino svizzero. « Lo porterò a Cristo come simbolo della sua provvidenza che si fa uomo. »

« AIUTO, AIUTATEMI! FA MALE! FA MALE, CAZZO! STO MORENDO! STO MORENDO! » il malcapitato si contorse. Strillò, si inzuppò del suo stesso zampillo che provò a contenere posizionando ambedue le mani ad altezza carne esportata, senza ottenere alcunché.

« No, no! Non esagerare, non stai morendo. Stai solo perdendo un po’ di sangue, tutto qui. Giusto, ragazzi? L’avete visto tutti, non l’ho ucciso. »

Nessun verdetto dall’improvvisata giuria, perché quest’ultima se l’era già data a gambe immediatamente dopo la recisione. Erano scappati tutti, quei vigliacchi, nessuno escluso; spariti nel nulla, volatilizzati assieme alla loro preziosa rivista, portando via irreparabilmente con sé la visione di qualcosa di oscuro e sconvolgente, che non gli avrebbe fatto chiudere occhio per un bel po’.

« In nome di Dio, che diamine è successo qui?! »

Ecco, ora qualcuno sarebbe finito nei guai. E Izaya comprese subito che sarebbe toccato a lui: gli bastò vedere come Enrico Maxwell, membro di grado più alto dell’Iscariota nonché – caricuccia da niente – vescovo del Vaticano, si era precipitato a sorreggere quello stronzetto sbraitante come una femminuccia, cercando di fermargli la fuoriuscita di sangue. Ma certo, prestiamogli soccorso come se non fosse lui stesso il colpevole di quanto gli era accaduto!
Perché tutti se ne preoccupavano? Era finito a rantolare perché se l’era cercata: aveva preso in giro la parola del Signore con le sue sporcizie da maiale in crisi prepuberale e con l’ormone impazzito. Meritava quel trattamento e forse anche di peggio.

« Cos’è, ti sei ingoiato la lingua?! Dimmi che è successo! »

« L’ho punito per essersi comportato in maniera disonorevole ed indecorosa, signor Maxwell. »

« Ti sembra tutto normale, quindi?! Mozzare l’orecchio a qualcuno come niente fosse! Se c’è una persona che deve infliggere punizioni, qui, quello sono io. » a Maxwell piaceva tantissimo riempirsi la bocca di parole. Ricalcare sovente di avere prestigio e potere nella gerarchia ecclesiastica era la sua più grande passione. Tuttavia, risultava decisamente manchevole nell’esercitare concretamente la suddetta autorevolezza: quel tipo accasciato a terra, ci fosse stato Maxwell al posto di Izaya, se la sarebbe cavata al massimo con una bacchettata sulle mani, cosa tutto sommato corretta e proporzionata al genere di reato. Stiamo pur sempre parlando di poco più di un bambino che beneficia della visione di un paio di seni; niente di perseguibile od allarmante al punto tale da costargli un orecchio.
Be’, era evidente che il vescovo ed il “cieco servo di Dio” non la pensavano allo stesso modo in merito alla gravità degli antefatti. « Ora basta, ne ho abbastanza di te! Non è la prima volta che ci causi problemi, o che ferisci gli altri bambini! »

« Ma io volevo solo—…! »

« Santo cielo, qui è tutto pieno di sangue… vieni, ragazzo, ora ti portiamo in ospedale. »

Maxwell si caricò l’infortunato in braccio. L’ambulanza arrivò poco dopo in codice rosso, e tutto ciò che ad oggi sappiamo del fattaccio è che, almeno, il nuovo Van Gogh dei tempi non morì dissanguato.
In ogni caso, a conti fatti, era impensabile che Izaya rimanesse impunito.

« Ci andrà di mezzo la nostra reputazione, Anderson! » diceva Maxwell al suo fidatissimo secondo al comando, pensandolo con tutto sé stesso: il suo schiaffare le mani contro la scrivania d’ebano ne era una prova schiacciante. « L’Iscariota è un’organizzazione rispettabile, che combatte duramente tutte le forme di eresia che potrebbero minacciare o macchiare l’onore della nostra Chiesa. Cosa penserebbero di noi se lasciassimo correre?! Penserebbero che abbiamo paura persino di punire un ragazzino, ecco cosa. »

« È tutta una questione di reputazione, quindi. » Anderson, ancora una volta, si dimostrò ostile alle futili priorità del suo superiore. Scosse la testa, sospirando seccato: quand’è che Maxwell aveva cominciato ad essere così deludente? « Ti sfugge che si tratta di un ragazzino, appunto, e tu non l’hai nemmeno lasciato parlare. Magari aveva i suoi buoni motivi. Io vedo del potenziale, invece. Intravedo della devozione che potrebbe rivelarsi vincente. »

« Oh, ma per favore! Tu hai il cuore troppo tenero, credi a me. »

Piuttosto opinabile come affermazione: stiamo pur sempre parlando di una vera e propria macchina da guerra. Alexander Anderson aveva ucciso e fatto a brandelli senza pensarci due volte; Alexander Anderson aveva strappato vite senza guardare negli occhi né chiedere scusa, senza rimorsi né pentimenti, in nome della grande missione a cui quotidianamente adempiva.
Il “cuore tenero” a cui Maxwell faceva riferimento era semplice giudizio, il buon vecchio buonsenso che non passa mai di moda; niente che il vescovo potesse minimamente comprendere, comunque.

« E ora che fai? » domandò il prete quattrocchi, nel momento in cui vide il suo giovanissimo interlocutore attaccarsi al telefono, tenendo la cornetta nella mano destra.

« Non è ovvio? Chiamo la polizia. »

« Davvero non necessario, Maxwell. »

« Invece è molto necessario. »

Niente da fare. Il capo era lui, e la decisione finale gli spettava: Anderson poteva farci ben poco. Accostò al muro quella propria considerevole stazza, dando un’occhiata all’esterno. La finestra dell’ufficio di Maxwell dava proprio sul cortile, e il ragazzino incriminato stava ancora lì: sedeva su una delle panchine, pensieroso, evidentemente confuso. Non capiva dove avesse sbagliato: perché una chiesa lo castigava per essere stato esemplarmente devoto e fedele?
No, proprio non lo capiva. E poi, sollevò lo sguardo, notando in lontananza una coppia di occhi verdi che lo osservavano oltre il riflesso luccicante di un paio di occhiali.
Izaya era sicuro che Anderson, al suo posto, avrebbe fatto lo stesso, e tanto gli bastava per sentirsi apposto con la coscienza, e, soprattutto, con il Creatore. Non importava delle conseguenze.
 
☞ Izaya, otto minuti all’arresto.

 
–––––


Leone odiava suonare il pianoforte con tutto sé stesso. Suonare era il simbolo ultimo dell’orrore perpetuo a cui era forzato; l’emblema della noia, della sua illimitata insofferenza.
Era tutto frutto di qualcosa che non gli apparteneva. Da quando sua madre aveva cominciato a farsi sbattere da quello zoppo ultracentenario, si era infighettita da fare schifo. Lei, che era sempre stata poco più che una zingara; lei, che tutta la sua vita l’aveva trascorsa a rubare dalle tasche di quelli più ricchi di lei; lei, che aveva messo al mondo una creatura senza ricordarsi nemmeno con chi l’avesse concepita… ora si atteggiava a gran signora, e si era ficcata in testa di imborghesire anche il suo unico figlio.
E quindi lo costringeva a suonare, a leggere, a prendere il tè con il latte come i parassiti altolocati delle grandi città. Addirittura, pretendeva che imparasse il portoghese! Già trasferirsi in Brasile solo per raggiungere il vecchio dal cazzo rachitico – chissà perché diavolo se ne stesse segregato dall’altra parte del mondo, poi – era stata una follia. Leone, che aveva il sangue e l’anima tedeschi, che aveva i crauti nelle vene e la sua amata Kartoffelsuppe al posto del midollo osseo, proprio non riusciva a capire perché avrebbe dovuto sforzare così tanto il suo cervello ad imparare una nuova lingua per cui non nutriva la minima attrattiva.
Sbuffò con stizzosa frustrazione, osservando disgustosamente lo sparito davanti a sé. Le note lo facevano vomitare: la musicalità, invece di allietargli i sensi, gli dava il voltastomaco.

« Allora, Leone. Cosa hai imparato oggi? Vuoi farmi sentire un po’ di Wagner? »

« Ma certo, papà. » con l’odiosa imposizione di definire “padre” un uomo che era molto più verosimile in vesti di nonno, Leone sistemò per bene gli spartiti sul cavalletto, affinché ne avesse una visuale completa. Prese un bel respiro, poggiando poi con leggiadria le dita sui tasti, pronto a deliziare tutti con armoniose e melodiose sinfonie.
O almeno, così si aspettava suo “padre”. Ciò che ottenne, tuttavia, fu ben diverso da quanto si aspettava: il giovanotto cominciò a prendere i tasti a schiaffi, producendo suoni senza senso e cacofonie che facevano male alle orecchie. Era la sua piccola forma di ribellione: il suo modo di dimostrare quanto gli facesse schifo lui, il suo pianoforte ed il siparietto di famigliola felice a cui veniva obbligato ogni santo giorno.

« Leone, sei un maleducato! Eppure non mi sembra di averti insegnato questi modi sgarbati! »

« Lascia fare, cara. Leone avrà tempo di imparare, non sono arrabbiato con lui. » che bravo, il Colonnello: anche benevolente e generoso col figlio bastardo della donna che, occasionalmente, si portava a letto. Come se a Leone fosse importato qualcosa, anche l’avesse fatto arrabbiare sul serio; anzi, a dirla tutta, si può tranquillamente dire che il suo obiettivo fosse proprio quello.
Inoltre, Colonnello di cosa? Di che esercito, o che fazione? Incredibile pensare che il piccolo – non – pianista si fosse ritrovato a vivere in casa di quell’uomo senza saperne assolutamente niente. « Direi che devi ancora esercitarti. Allora, per favore, rimani qui a suonare ancora per un’ora. Vedi, una persona sta venendo qui, e dobbiamo discutere di qualcosa di importante. Di lavoro, ecco. Non posso e non voglio essere disturbato, ci siamo capiti? »

« Hm. » aveva smesso di ascoltarlo dopo le prime tre parole; sempre ammesso che anche a quelle avesse prestato un minimo di attenzione.
Dato che, davvero, non gliene fregava assolutamente un beneamato delle “questioni di lavoro” – non sapeva nemmeno quale fosse, del resto – del suo patrigno, Leone se ne rimase su quello sgabello ancora per un po’. Ogni tanto strimpellava qualcosa, ma pur sempre emettendo striduli rumori più simili a schiamazzi che a suoni.

« Dio, che noia… » borbottò, soffiando annoiato ancora una volta. Si dondolò al sedile, smettendo anche solo di provarci: era disattento, svogliato, indifferente al fascino della musica.

« Ti annoi, ragazzo? »

Che strana voce. Era quasi un sibilo, come quello di un serpente: un beffardo fruscio, come una pungente carezza alle orecchie. Quando la avvertì, Leone si voltò come innatamente attratto da essa, ritrovandosi tuttavia dinnanzi ad un’insopportabile incongruenza.
Un panciuto individuo in completo elegante bianco lo fissava insistentemente. I suoi occhi erano del color dell’ambra, sottili e caleidoscopici come quelli di un rettile; erano così penetranti che ne si avvertiva facilmente l’intensità anche al di là degli occhiali che gli scivolavano sul naso.
Leone non fu affatto spaventato da quello sconosciuto, nemmeno quando lo vide sogghignare perversamente come un matto senza apparente motivo. Anzi; semmai, ne fu allettato. Sedotto, stimolato.
Finalmente qualcosa di diverso, qualcosa di potenzialmente divertente.

« Sì, a morte. Odio suonare. »

« Hm… permetti? »

L’ospite non attese esattamente una risposta: semplicemente, avanzò laddove il giovane stava seduto, e lo affiancò. Leone era sinceramente preoccupato che lo sgabello non avrebbe sorretto il peso di entrambi, e che il legno che li sobbarcava si sarebbe spezzato inesorabilmente; e come dargli torto. Quel tipo era un vero ciccione senza esclusione di colpi.
Ed anche qui, un’ulteriore incongruenza: la finezza ed il garbo quasi femminile con cui cominciò a suonare erano estremamente contraddittori rispetto alla sua stazza da porco. Eppure lui, con disinvoltura, portò quelle dita paffute coperte da dei guanti bianchi ai tasti, e semplicemente li premette in ordine sparso, così veloce che gli occhi arzilli e verdissimi di Leone faticavano a stargli dietro. Una rapidità meccanica, quasi come quella di un robot.

« Ah! Uno dei miei drammi musicali preferiti… Das Rheingold. L’entrata degli dei nel Valhalla. » si pronunciò, dopo aver eseguito una sonata da manuale con trasporto passionale e romantico, insensatamente idilliaco. « È inebriante. Non trovi? »

« Wow, sei forte. Io non sono mai riuscito ad andare oltre la prima riga. Tu dov’è che hai imparato? »

« È difficile essere uno come me e non conoscere i pezzi di Wagner. Specie per il lavoro che facciamo io e tuo padre. »

« Quello non è mio padre. »

Quell’uomo sovrappeso aveva una costante e particolare attenzione per i dettagli, anche i più insignificanti. E non gli sfuggì il disprezzo con cui quel ragazzino aveva rigettato ogni parentela col Colonnello. L’immediatezza che c’era stata nel sottolineare quel piccolo, essenziale appunto.
Interessante. Molto, molto interessante.

« Ah! Maggiore, è qui. » il Colonnello li raggiunse, accompagnato, al solito, dal suo bastone da passeggio, che gli supportava le ossa stanche e martirizzate dalla guerra. « Vedo che ha incontrato il piccoletto di casa. Spero che non sia stato scortese come al solito. »

« Affatto. Anzi, è un ragazzo molto talentuoso. Ha un finissimo gusto musicale, lo sa? Dovrebbe esserne orgoglioso. »

« Ma certo, ma certo… ci accomodiamo di là? »

« Con piacere. Gradirei molto una bella tazza di cioccolata, se possibile. Con tanto zucchero. »

Le grosse cosce del Maggiore finalmente liberarono il seggiolino, e Leone tornò ad essere l’unico ad occuparlo. Le sue iridi verdi come gemme di smeraldo luccicavano vispe, e seguirono ogni movimento del grasso ospite con rigorosa attenzione, quasi maniacale, studiando in dettaglio ognuno di essi.

« Mi chiamo Leone, comunque. » enunciò quest’ultimo, poco prima che l’altro si esiliasse definitivamente dalla stanza. Si fermò sulla porta, ma non si prese la briga di voltarsi ad incontrare lo sguardo invadente del ragazzo.

« È stato un piacere conoscerti, Leone. »

Senza aggiungere altro, sparì; ad accompagnarlo, quel solito sghignazzo velenoso che non si sforzava nemmeno troppo di nascondere.
Leone si entusiasmò, individuando intrinsecamente in quell’uomo un punto di svolta che attendeva da svariati anni di totale annichilimento del corpo e dello spirito.

Ma che grassone simpatico!”, convenne tra sé.
 
☞ Leone, dieci anni al rito di iniziazione.
 


–––––


« Mi raccomando, bambini, fate i bravi. Formate delle coppie e tenetevi la mano, mettetevi in fila indiana e seguitemi. Non allontanatevi mai da me! »

« Sì, maestra! »

Alexis aveva organizzato quella gita nei minimi dettagli. I suoi bambini si erano impegnati molto durante il corso dell’anno, ed una bella ricompensa se la meritavano proprio; inoltre, quello era il loro ultimo anno di scuole elementari. Cosa c’era di meglio di una piccola escursione fuori porta per coronare al meglio un ciclo scolastico così importante?
Londra era grigia, e a maggio del ‘93 faceva ancora freddo. Forse era arrivato il momento per gli scolari di sottrarsi alla loro uggiosa routine, fosse stato anche solo per qualche giorno.
La scelta della destinazione non fu casuale. L’insegnante scelse un paese caldo e soleggiato, sciamante di vita; un luogo in cui, da sempre, si sentiva a casa: l’Italia.
Roma, più nello specifico: ai Musei Vaticani.
Alexis Indra era la più giovane docente del circolo, e i colleghi non la vedevano di buon occhio. La ritenevano poco professionale; inesperta, ingenua, incapace. Non credevano che avesse il sangue freddo sufficiente ed i nervi abbastanza saldi da tenere a bada un mucchio di mocciosi con una quindicina d’anni in meno di lei.
Eppure, lei li aveva amati dal primo momento. Certo, erano stati un ripiego, non poteva certo negarlo: quando si era laureata in storia dell’arte ed aveva conseguito il dottorato di ricerca in scienze museologiche, non aveva avuto esattamente come primo obiettivo quello di insegnare.
Aveva sognato molto più in grande. Ma poi, si sa, alla vita alle volte piace sbarrare porte ed indirizzare a discutibili alternative: e nonostante fosse stata disperata all’inizio dinnanzi all’unica soluzione di dover scaricare nel cesso tutte le ambizioni ed i sacrifici fatti, tutto sommato non era andata poi così male.
E comunque, andare a Roma era uno dei vantaggi di quel lavoro. Una città radiosa, ricca di storia e cultura; e poi, lei e la sua classe avevano imparato a conoscere qualche volto noto del Vaticano, ai quali si rivolgeva spesso per l’organizzazione delle sue occasionali scampagnate.
Forse era stata la sua fede ad aiutarla, in tal senso. Di ragazze devote come Alexis, di quei tempi, non se ne vedevano poi così tante; una vera e propria rarità, si può dire. Ancor più se si tratta di una vera cristiana da manuale, dedita ed osservante ai valori cattolici della Chiesa — ma inglese!
Quantomeno inusuale, dato che ben il 49% dei cristiani del Regno Unito sono protestanti, mentre i cattolici rappresentano solo il 9% della popolazione.

« Guardate, bambini, che meraviglia… il Giudizio Universale. » le bastava poco per rimanere col fiato mozzato. Quell’opera di Michelangelo l’aveva vista mille volte, sia sui libri che guardandola dritta negli occhi, ma riusciva sempre ad emozionarla ogni volta. Provò una gioia ancestrale difficile da spiegare, che quasi rasentava la sublimazione. Spesso si chiedeva come fosse possibile che qualcuno potesse rimanere indifferente dinnanzi a tanta magnificenza: quando, di tanto in tanto, le capitava di scorgere della noia negli occhi dei suoi alunni, era una vera sofferenza per lei. « Questa meraviglia è di Michelangelo Buonarroti. Ci troviamo davanti ad una rappresentazione della seconda venuta di Cristo e del giudizio finale ed eterno di Dio di tutta l'umanità. I morti risorgono, e si avviano verso il loro destino, giudicati da Cristo circondato dai santi. Complessivamente ci sono oltre trecento figure, quasi tutti uomini e angeli originariamente raffigurati come nudi; in un secondo tempo, molte furono parzialmente ricoperte da drappeggi dipinti, alcuni dei quali sono rimasti anche dopo varie puliture e restauri.
I lavori durarono più di quattro anni, tra il 1536 e il 1541. Pensate, Michelangeloiniziò a lavorarci venticinque anni dopo aver completato il soffitto della Cappella Sistina, e aveva quasi sessantasette anni al termine dell’opera. Inizialmente aveva accettato l'incarico da papa Clemente VII, ma fu completato sotto papa Paolo III, le cui più forti visioni riformatrici probabilmente influirono sul trattamento finale. Vedete, questo è un capolavoro unico nel suo genere, studiato in ogni minimo dettaglio: la composizione, che trae ispirazione soprattutto dalla Divina Commedia di Dante, sconvolge le leggi della prospettiva e delle proporzioni come le aveva sviluppate e fissate il Rinascimento. La parte superiore della parete ospita Cristo Giudice circondato dalla Vergine, dagli apostoli, dai patriarchi e dai santi. Discendendo, sono raffigurati i martiri, i beati, le vergini, poi la risurrezione dei morti annunciata dagli angeli che suonano le trombe. E infine, Caronte che con la sua barca conduce i dannati ai piedi del Giudice dell'Inferno. Nella parte inferiore, invece, possiamo notare—… »

« Lei sa proprio tutto, miss Indra. Ogni volta mi stupisce. »

Una voce dolce come il miele, carezzevole come la tenera mano di una madre… Alexis l’avrebbe riconosciuta tra mille, e tra mille l’avrebbe scelta sempre.

« Padre Anderson! » l’attenzione della donna smise di rivolgersi al dipinto, ai Musei, ai bambini. Era sparito tutto, e tutto aveva perso di essenza ed importanza: ora erano solo lei ed il più ligio e rispettoso servo di Dio. I sentimenti che le infuocavano il petto ogni volta che incontrava lo sguardo di Alexander Anderson erano così intensi da toglierle il fiato. Così come tutti i peccati, si sentiva inebriata da essi, frastornata dalla loro intensità: le cosce le tremavano, il cuore le si dimenava, e quei suoi occhi gemmati scintillavano come perle lucenti.
Che stupida che era. Permetteva al demonio di tentarla, di sedurla col frutto proibito. Provare concupiscenze tanto oscene, bramare la carne di un uomo di Cristo in quel modo… era francamente imperdonabile. E allora, passava la vita a combattere i suoi impulsi, a trattenere le sue voglie; del resto, anche la limitazione in nome del Creatore faceva parte del cristianesimo. « È sempre un piacere vederla. »

« Per me è lo stesso. Mi spiace averla interrotta, ma rimango sempre affascinato dalla sua eloquenza. Lei parla dell’arte sacra con un tale trasporto che quasi mi emoziona. I suoi ometti sono proprio fortunati: lei è una splendida insegnante. »

« Oh, la smetta… mi mette in imbarazzo. »

« No, dico sul serio. »

Alexis era terrorizzata dalla sfacciataggine con cui, se non tenuta doverosamente a freno, avrebbe attentato alla castità del prete senza troppi complimenti.
Lei lo amava. E soffriva all’idea che quell’amore, esistente nelle sua forma più pura ed incontaminata, fosse in realtà un demoniaco travestimento di Satana. E se la tentazione è il metro attraverso cui Dio giudica il valore delle anime umane, nonché la bilancia che Dio onnipotente usa per soppesare gli spiriti, allora lei non poteva permettersi il lusso di dimostrarsi cedevole.
Intimidita dalle sue stesse venerazioni, la donna piantò lo sguardo verdognolo sulle piastrelle del pavimento.

« Ora… è meglio che vada, Padre. Sa com’è, i bambini si danno alla pazza gioia quando sono da soli. Potrebbero combinare qualche pasticcio. »

« Ah, non lo dica a me! So bene a cosa si riferisce. Buona lezione, allora, miss Indra. »

Con un garbato chino del capo, tipico di un individuo distinto e signorile come lui, Anderson la lasciò libera di proseguire coi suoi sproloqui, senza badare molto allo stato d’animo della persona a cui aveva appena voltato le spalle. Nemmeno aveva notato quanto fosse consumata, quella giovane, e di quanto dolore le causasse lo straziante fardello di essere costretta a continue rinunce per il resto della sua vita.
Alexis anelò avvilita, prima di appellarsi nuovamente alla classe.

« Allora, bambini, dove eravamo rimasti? »

☞ Alexis, sette mesi alla metamorfosi.
  
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