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Autore: Adeia Di Elferas    13/10/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La rocca di San Secondo sembrava sospesa nel nulla, immersa nelle tenebre della notte, ma illuminata a giorno da torce e candele. I suoi abitanti erano tutti svegli, nessuno escluso, ma, pur affollando a tratti gli ambienti più vicini agli appartamenti dei due padroni di casa, non si sentiva altro rumore, se non le grida, intermittenti e profonde, della Contessa e Marchesa Bianca Riario De Rossi.

Troilo, affannato e senza requie, stava appena fuori dalla porta, un orecchio teso e la schiena fradicia di sudore, mentre la di lui madre aveva preferito essere nella camera assieme alla nuora, sia per supportarla, sia per controllare che tutti facessero il loro dovere.

Quel parto era atteso da quasi una settimana, e, anzi, la partoriente aveva espresso un paio di volte la sua perplessità per quel ritardo, visto che ormai sentiva spesso dei dolori che le ricordavano l'inizio delle doglie della prima gravidanza. Ovviamente aveva potuto confidare quel dettaglio solo al marito, alla suocera e a Creobola che, seppur fosse una presenza spesso ingombrante, si era improvvisamente dimostrata utile, rappresentando per la giovane Riario una sorta di filo invisibile, ma molto diretto, con la sua famiglia d'origine, in particolare con sua madre.

Quella notte, poco dopo essersi messa a letto, Bianca aveva avvertito dei dolori molto più forti e aveva chiesto al marito di chiamare la levatrice, e, quella volta, non si era sbagliata. La donna, che viveva ormai alla rocca da un paio di settimane, era arrivata in camera a travaglio già iniziato.

Troilo avrebbe voluto restare accanto alla moglie e, intimamente, anche la Riario avrebbe preferito tenerselo vicino, ma sapeva che non era quello che la gente si aspettava. Fossero stati a Ravaldino, o forse anche solo a Castello, protetti ancora dall'irruenta Tigre, che aveva sempre fatto carta straccia delle convenzioni sociali, allora sarebbe stato tutto diverso, ma lì a San Secondo le apparenze dovevano essere rispettate e dovevano comportarsi come ci si aspettava da persone del loro rango.

Il De Rossi stava quasi impazzendo per l'ansia. Si chiedeva di continuo se anche alla nascita di Pier Maria fosse successo così. C'erano state le grida? L'attesa infinita? Chi aveva vegliato la sua Bianca, a parte i suoi stretti familiari? Quanto era durato tutto quello strano spettacolo?

Si stava ancora facendo mille domande, grattandosi di continuo il mento coperto di barba rossiccia, senza far caso al placarsi delle urla, quando la porta si aprì appena e Creobola mise fuori il naso adunco, chiamandolo con un cenno della mano.

Nervoso, ma sollevato – una parte di sé gli diceva che, nel bene o nel male, l'attesa almeno era finita – l'uomo non si fece pregare e seguì la serva.

Bianca era a letto, pallida, ma tranquilla e lo fissava. Una delle balie, la madre di Troilo e Creobola, invece, si stavano affaccendando vicino alla piccola tinozza colma di acqua calda, per lavare il neonato.

Il De Rossi fu tentato di andare a vedere il suo secondogenito, ma sentiva una forza magnetica che l'attirava verso la moglie, e così seguì il suo istinto. Accucciandosi accanto a lei, le prese la mano e le chiese come stesse.

La Riario allargò un po' il sorriso, mentre la levatrice borbottava qualcosa sul fatto che la questione non era finita e che bisognava far uscire presto il Marchese, se non si voleva farlo assistere a un qualcosa che non era destinato agli occhi di un uomo.

“Dio è dalla nostra parte.” sussurrò la ragazza, mentre la mammana controllava di sfuggita la sua paziente, sollevando appena il lenzuolo sporco: “Ci ha dato una figlia.”

L'uomo ascoltò rapito quelle poche parole. Era quello che avevano sperato, quello per cui entrambi avevano pregato fin dal momento in cui erano stati certi di quella seconda gravidanza. Con la nascita di una figlia, diventava tutto più semplice, per quanto la situazione restasse complessa.

“Questo ci dà la certezza che siamo nel giusto.” rincarò la Riario: “E ora sta a noi fare in modo che tutto vada come deve andare.”

Quell'ultimo inciso fece assumere al De Rossi un'espressione seriosa, mentre annuiva e le dava ragione, ma in breve il sorriso tornò a illuminare entrambi, quando Angela Scotti Douglas, con la nipotina fieramente tra le braccia, arrivò a mostrare la piccola alla nuora e al figlio.

“Come la chiamerete?” chiese l'anziana, che, in realtà, aveva già avuto qualche anticipazione da Troilo.

Bianca fece appena in tempo a rispondere: “La chiameremo Costanza.” che la levatrice pregò il De Rossi di uscire ancora un momento, e così l'uomo venne di nuovo confinato fuori dalla stanza.

La moglie gli aveva spiegato anche troppo nel dettaglio come funzionava un parto e sapeva che far nascere il bambino era solo la prima delle parti rischiose. Quello che stavano aspettando tutte le donne che l'assistevano era la placenta, che doveva essere eliminata in modo corretto e per intero.

Senza nemmeno vedere gli sguardi interrogativi di chi, lì fuori, aspettava da lui qualche notizia, il De Rossi attese, in religioso silenzio, quelle che gli parvero altre mille ore, finché finalmente Creobola tornò fuori a chiamarlo.

Quando Troilo rivide Bianca, la trovò più tranquilla, anche se molto sudata e visibilmente stanca.

Aveva la bambina al seno e ci mise qualche secondo prima di staccare lo sguardo dalla piccola per rivolgerlo al marito. Il De Rossi si prese il suo tempo, ascoltando solo con un orecchio le parole dolci di sua madre e quelle più sbrigative, ma comunque soddisfatte, della levatrice. Solo quando fu abbastanza sicuro di essersi impresso a dovere l'immagine della sua nuova figlia in mente e che la Riario stesse, malgrado tutto, bene, uscì di nuovo dalla stanza, per annunciare a tutti il lieto evento.

Nel momento stesso in cui rese nota la nascita della bambina, molti si dissero contenti, ma allo stesso tempo lo consolarono, dicendogli che prima o poi sarebbe nato anche un maschio, ignorando l'esistenza di Pier Maria.

“Come la chiamerete?” chiese il capo delle sue guardie, dimostrando un interesse che il De Rossi non si era atteso.

“Costanza.” rispose Troilo, ricordandosi benissimo il momento in cui Bianca aveva scelto quel nome.

L'aveva già citato altre volte, ma una decina di giorni addietro si era detta irremovibile: “Se sarà una femmina, la chiameremo Costanza e basta.”

Il marito le aveva chiesto il perché di quel nome, ricordando, chissà come, che quello era stato anche il nome della madre di Ottaviano Manfredi.

“Per ricordarci sempre – aveva invece risposto Bianca – cosa serve al nostro amore e alla nostra famiglia.”

Nessuno dei presenti, comunque, chiese il perché di quella scelta, e così al De Rossi non restò che incassare ancora qualche complimento e qualche motto consolatorio per la nascita di una femmina.

 

“Questa volta la notizia è certa?” chiese Caterina, senza sollevare lo sguardo dalla corda che stava tendendo sull'arco rudimentale costruito da Bernardino.

Lei, il giovane Feo e Giovannino erano all'aperto, fuori dalla villa, e la donna aveva chiesto a entrambi i figli di provare a costruire quel tipo di arma usando il legno che avessero trovato al limitare del bosco. Avevano appena finito di intagliare lo spazio per innestare la corda, quando era arrivato Fortunati, mostrando trionfale una lettera che, a suo dire, portava con sé notizie più certe circa l'esito del Conclave.

“Ne siamo certi, sì... Si tratta del senese, Piccolomini, e ha preso il nome di Pio III.” fece il piovano, andando a rileggere con attenzione il messaggio.

Questa volta a mandare notizie era stato Scipione Riario, che aveva inviato una staffetta per non lasciare Firenze, in modo che, se ci fossero state altre novità, sarebbe stato in grado di farle sapere alla Tigre.

Tuttavia, lo scetticismo della Sforza era comprensibile, dato che fin dall'alba si erano inseguiti vari messaggi di vari amici di Fortunati, e all'inizio sembrava che avesse vinto un francese, poi uno spagnolo, poi, e su quello ormai c'era la certezza assoluta, che fosse il senese ad averla spuntata. Si discuteva sui nomi e ben tre lettere avevano dato per certo il nome 'Clemente', ma Scipione era categorico, nelle sue poche righe: il nuovo pontefice si chiamava Pio, il che aveva senso, dato che era lo stesso nome scelto in precedenza da Enea Silvio Piccolomini, che era stato Pio II.

“Speriamo che per noi sia un buon segno...” commentò piano Caterina, finendo di tendere la corda e controllando che la tensione fosse ottimale, prima di dare l'arma ai figli: “L'ultima volta che un Piccolomini è stato papa, il suo successore è stato un Barbo, di Venezia, ma poi è arrivato Sisto IV...”

Francesco cercava di seguire il filo dei pensieri della Leonessa, ma faceva fatica a trovare un nesso tra le elezioni papali di quasi cinquant'anni prima con quelle più recenti.

Per togliersi d'impiccio, l'uomo, tenendo d'occhio Giovannino, a cui era stato dato l'arco rudimentale, che si metteva a correre ridendo, inseguito dal fratello più grande, sussurrò: “Scipione scrive anche altro, nella sua lettera.”

Finalmente Caterina sollevò gli occhi verdi verso quelli del fiorentino e chiese: “Ossia? Sono cose di nostro interesse? Perché se non lo sono, preferirei starmene un po' tranquilla coi miei figli...”

Quella calma così ostentata a Francesco non piaceva. Sapeva benissimo quanto quel Conclave avesse innervosito la sua donna e sapeva ancor di più che qualsiasi notizia di politica fosse arrivata per lei sarebbe stata sicuramente interessante. Quella notte, poi, la Sforza era stata preda costante di incubi e malumori, che l'avevano portata a dormire pochissimo e male. Il piovano, però, non era riuscito a capire bene chi fosse il coprotagonista dei suoi incubi, perché, a differenza del solito, la Tigre non aveva invocato né Ludovico Marcobelli né altri nomi che lui potesse ricollegare a qualcuno di noto. Aveva solo pianto nel sonno e si era svegliata madida di sudore e senza fiato, senza voler nemmeno far cenno a cosa avesse infestato i suoi incubi.

Caterina, mossa da una punta di impazienza, lo pungolò: “Allora? Vuoi parlare o sei venuto qui solo per farmi arrabbiare?”

Non avrebbe voluto essere così tanto nervosa, ma quella notte era stata per lei un inferno. Non solo aveva continuato, pressoché ininterrottamente a sognare il suo primo marito Girolamo, alternato a quell'animale del Valentino, ma aveva anche rivisto suo figlio Livio, che, muto e bluastro, la indicava, come ad accusarla di qualcosa, per poi correrle incontro e abbracciarla con due braccia gelide di morte. Sentiva ancora il suo respiro freddo sul collo, e solo per non pensarci più aveva deciso di passare più tempo possibile all'aperto, quel giorno. C'era il sole, faceva abbastanza caldo, per essere il 23 settembre, e stando con Bernardino e Giovannino, che erano due tempeste fatte a persona, era certa di potersi distrarre un po'...

“Scipione – riprese Fortunati, trattenendosi a stento dal gridare a Giovannino di non correre così veloce, se non voleva cadere e farsi male – dice che Giampaolo Baglioni è rientrato a Perugia.”

“Questo lo sapevo già.” ribatté secca la donna, incrociando le braccia sul petto e inseguendo il profilo di Bernardino, che stava diventando, secondo lei, sempre più bello e simile a Giacomo ogni giorno che passava: “Non c'era bisogno di sprecare carta per scriverlo...”

Impassibile, Francesco riprese: “Ha preso anche la rocca di Todi, scacciando i Chiaravalle, ha espulso i Gatti da Viterbo, ha messo a ferro e fuoco Montefiascone e ha preso al Conte Bernardino da Marciano i castelli di Poggio Aquilone, Migliano, Parrano e Civitella, come punizione per aver aiutato Carlo Baglioni...”

La Tigre fece una smorfia ironica, quasi a dire che se quei castelli non fossero stati utili a Giampaolo, probabilmente non avrebbe speso tempo e uomini per prenderli, altro che punizione per il Marciano...

“Mentre suo cognato, Bartolomeo d'Alviano – continuò il fiorentino, prima di dimenticarsi qualcosa – lo ha aiutato, aprendogli un varco nella difesa di Pantalla, facendo impiccare Paolo Astacolle, e ha fatto riammettere i guelfi a Viterbo...”

La donna non lo stava più ascoltando. I suoi occhi erano lontani, verso i due figli che, abbastanza distanti ormai da lei, avevano smesso di rincorrersi e stavano facendo una specie di lotta improvvisata in cui Bernardino, di tredici quasi anni compiuti, avrebbe vinto facilmente contro il Medici, che aveva appena cinque anni e mezzo. Eppure il Feo temporeggiava, stando serio, impegnandosi, spronando, in un certo senso, Giovannino a fare altrettanto.

“Si vogliono bene, vero?” fece il piovano, sperando di smuovere un po' di tenerezza in Caterina.

Questa fece un sospiro profondo e poi sussurrò: “Vorrei poter dare loro un futuro migliore...”

“Vedrai che le cose, pian piano si sistemeranno...” provò a dire l'uomo, ma la Leonessa scosse il capo e richiamò a sé i figli con un gesto imperioso.

Entrambi, sudati, stanchi, ma felici, la raggiunsero mentre stava dicendo loro: “Andate in camera, adesso... Faremo esercizio con l'arco domani. Si sta avvicinando un temporale e credo che fareste meglio entrambi a esercitarvi un po' con la penna, non solo con i pugni...”

I due parvero un po' contrariati, ma Bernardino riuscì subito ad ammorbidire il fratello minore, proponendogli: “Facciamo a gara a chi arriva prima in camera?”

Fortunati avrebbe voluto dire loro che non stava bene, correre in casa, ma si trattenne una volta di più. Non aveva alcuna intenzione di rischiare un nuovo litigio con la sua amata, su come andassero allevati i suoi figli.

“Stai bene?” chiese il piovano.

La Sforza scosse appena la testa, ma rispose, in automatico: “Certo... Sono solo un po' stanca... E poi stamattina avevo mal di testa... Forse perché ho dormito poco...”

L'uomo si finse convinto dalla risposta e poi, guardando l'orizzonte, commentò: “Comunque, secondo me non ci sarà nessun temporale...”

Caterina non gli rispose. Era troppo impegnata a ragionare circa il nuovo papa che era salito sulla cattedra di Pietro. C'era qualcosa che non la convinceva, in quella scelta, e non riusciva a capire se per lei quel nuovo pontefice sarebbe stato una benedizione o un problema. Come aggravante, anche solo provare a ricordare Roma, con le sue stradine strette e tortuose, con il suo lezzo tremendo, con Castel Sant'Angelo, che incombeva sul Tevere come una condanna, le stava dando la nausea. Tutto, per lei, a Roma parlava dei suoi peggiori incubi, da Girolamo Riario a Cesare Borja.

Fortunati stava ancora puntando lo sguardo all'orizzonte, strizzando gli occhi come se davvero fosse in grado di valutare la possibilità concreta di un temporale in avvicinamento. La Tigre riteneva quell'atteggiamento un po' infantile, perciò aprì la bocca per dirgli di smetterla e seguirla in casa, quando lo sentì sussurrare qualcosa.

“Quello è un servo dei Salviati...” disse Francesco, muovendo istintivamente qualche passo avanti.

I due dovettero comunque attendere che l'uomo li raggiungesse e fermasse il cavallo, prima di scoprire che era giunto a portare loro un messaggio urgente.

Caterina se ne disinteressò abbastanza platealmente, dicendo a Fortunati: “Vorranno dirci anche loro che il vero nome del nuovo papa è Pio III, come se cambiasse qualcosa, tra un Pio e un Clemente o chissà che altro...”

Il fiorentino non ribatté, perché era troppo immerso nella lettura e, solo quando ebbe finito, guardò in modo grave il messaggero e gli disse: “Andate nelle cucine e bevete un po' di vino, avete corso molto... Più tardi vi affiderò la mia risposta.”

“Che c'è?” chiese allora la donna, seguendo in casa il piovano, allarmata dal suo tono cupo.

“La figlia più piccola dei Salviati, quella che era ammalata...” disse lui, con voce roca, come se ogni parola gli costasse una fatica enorme: “A quanto pare ha avuto una brutta ricaduta, e questa volta non ce l'ha fatta...”

La Leonessa sentì un nodo stringerle la gola e riuscì appena a chiedere, con tono fintamente distaccato: “Quella che si chiamava Cornelia, come mia nipote?”

Francesco, poco abituato a sentirle citare Cornelia Riario, annuì e aggiunse: “Era una bella bambina, anche se è stata subito gracile...”

Il nodo alla gola di Caterina rischiava di farsi così stretto da impedirle di dire altro, perciò si schiarì la voce e, accigliandosi, commentò: “Anche mio figlio Livio era sempre stato fragile... Forse è stato meglio per loro, averla persa così presto... Tra qualche anno, sarebbe stato peggio.”

L'uomo non volle contraddirla, ricordandosi della storia di Livio e sapendo quanto era difficile per lei affrontare l'argomento. Sospirò e disse che avrebbe scritto un biglietto per i Salviati, porgendo le condoglianze di tutti loro.

“Domani vai da loro e portaglielo di persona.” suggerì la Tigre, combattendo con gli occhi che si facevano lucidi, mentre si perdeva nei suoi personali drammi, già accantonando quelli degli altri, seppur più urgenti e recenti: “Sei loro amico, la tua presenza farà loro piacere.”

“Potresti venire anche tu.” propose lui.

“Al momento io, per loro, sono solo una possibile fonte di nuovi guai. Non devono pensare a me, alla politica e a Firenze, adesso, ma solo a loro stessi e ai figli che ancora hanno.” fu il secco rifiuto della Sforza: “E già che sarai in città, ti prego, passa un momento a casa di Semiramide e dille che, se vuole davvero incontrare suo nipote Giovanni, glielo farò vedere quando vorrà, mi dica lei una data e io sarò qui ad aspettarla.”

Fortunati sollevò un sopracciglio e schiuse le labbra, per far presente che, secondo lui, era meglio prima lasciar sistemare del tutto la questione delle ville ereditate da Giovannino, ma la donna non ammise repliche.

“Fai quello che ti ho detto. Non voglio avere rimpianti stupidi... Non si può sapere cosa ci attenda, nella vita...” tagliò corto lei e poi si massaggiò le tempie e concluse: “Vado in camera... Per favore, fino all'ora di cena non farmi disturbare da nessuno...”

 

Bianca, sapendo di poter rintracciare Galeazzo prima di chiunque altro, gli aveva scritto una breve nemmeno un'ora dopo la nascita di Costanza, mettendolo a parte del lieto evento e invitandolo, qualora lo volesse, a recarsi alla rocca di San Secondo per conoscere la nipotina e parlare un momento con lei.

Aveva aspettato a inviare una missiva anche alla madre, sperando con tutta se stessa che fosse proprio il fratello a offrirsi di portarla fino a Castello, per poter riferire le novità alla Tigre anche a viva voce e non solo per iscritto.

Galeazzo era arrivato con una velocità sorprendente, probabilmente mettendosi in sella nel momento stesso in cui gli era stato recapitato il messaggio, e quando trovò Troilo ad accoglierlo, gli strinse la mano con fare fraterno e gli disse: “Sono molto felice, per tutto.”

“Sì, è andata come speravamo.” fece eco il De Rossi, con un sorriso che non riusciva ad affievolirsi, malgrado il passare delle ore e la stanchezza: “Vi porto da vostra sorella e da Costanza.”

Il Riario non se lo fece ripetere e, buttati dietro le spalle i bordi del mantello, seguì il cognato fino alla stanza di Bianca. Pur avendo già visto e imparato a conoscere il piccolo Pier Maria, Galeazzo provò un groviglio inesplicabile di emozioni, guardando il piccolo fagotto che sua sorella teneva tra le braccia.

La giovane era stesa a letto, non nel mezzo, come si era atteso, ma da un lato. Immaginò che fosse perché Troilo era stato coricato dal lato opposto fino a poco prima. Gli occhi blu della Riario si illuminarono, quando riconobbe Galeazzo e subito gli chiese di avvicinarsi.

Il De Rossi, per lasciare ai due fratelli un po' di tranquillità, uscì lentamente, chiudendosi la porta alle spalle, facendo appena in tempo a sentire sua moglie dire, con voce dolce: “Ma guardati, ormai sei proprio un uomo...”

Il Riario arrossì appena. Aveva le guance chiazzate di barba, non essendosi rasato prima di partire alla volta di San Secondo, e in effetti anche il suo abbigliamento, ormai, non aveva più alcun dettaglio puerile. Indossava abiti semplici, scuri, con una fibbia, a chiudere il mantello, che riprendeva la rosa dei Riario e la vipera degli Sforza. Ai piedi portava degli spessi stivali di cuoio, adatti alle lunghe cavalcate, e al suo fianco svettava una spada, che il cognato si era ben guardato dal requisirgli. Le sue spalle sembravano essersi allargate ancora un po', e la sua statura era notevole, così come la sua prestanza fisica. Con i suoi diciotto anni da compiere a fine dicembre, Geleazzo ormai era davvero un uomo, nell'aspetto e negli atteggiamenti.

L'unica cosa che ancora tradiva la sua giovane età era lo sguardo: i suoi occhi, di un verde pieno e luminoso, erano ancora limpidi, malgrado tutte le brutture che avevano visto.

“Ti presento tua nipote Costanza...” sussurrò Bianca, porgendo al fratello la piccola.

La bambina, fasciata in modo stretto, come era stato deciso dalla madre, occhieggiò con calma verso lo zio che, un po' impacciato, non si tirò indietro e la prese in braccio.

“Un po' ti somiglia...” scherzò la Riario: “Avete lo stesso naso.”

Galeazzo fece una breve risata e poi, ridando la bambina alla sorella, disse: “Sono davvero felice che sia nata una femmina.”

“Lo siamo tutti...” convenne Bianca, facendosi poi più seria: “Hai sentito del nuovo papa?”

“Certo, non si parla d'altro...” Galeazzo, ritto in piedi, in posa militare, non riuscì a evitare di spostare il peso da un piede all'altro, fiaccato dalle ultime giornate e dal tanto tempo passato a cavallo.

La Riario si accorse di quel suo disagio e così, con naturalezza, come se la stanchezza del fratello non c'entrasse assolutamente nulla, gli propose: “Siediti qui, accanto a me, e parliamo un po' di questo strano papa... Ma è vero che non è mai stato ordinato sacerdote?”

Il Riario accettò con gioia la possibilità di sedersi senza sembrare uno smidollato, ma solo un fratello che ubbidiva a una sorella più grande, e rispose: “Sì, dicono che verrà ordinato sacerdote a fine mese, probabilmente da nostro cugino Giuliano, che, in fondo, è quello che gli ha permesso di diventare papa...”

“Se ci pensi, è una cosa molto strana... Era Cardinale, e non era nemmeno prete?” domandò Bianca, accarezzando pian piano la fronte di Costanza, che si stava addormentando.

“Nostro fratello Cesare, quando ho mosso un'obiezione simile, mi ha parlato per quasi un'ora del diritto ecclesiastico e un sacco di altre cose...” scosse il capo Galeazzo: “A quanto pare non è così strana, la posizione del Piccolomini. Non chiedermi di ripetere le parole di nostro fratello, però, perché non ne sarei in grado...”

“Nessuno lo sarebbe...” rise la Riario, ricordando, per un istante, il bambino che Cesare era stato, così serio, eppure così intelligente da rendere a tratti difficile seguirne i ragionamenti.

Quell'appiglio portò entrambi a parlare degli altri loro fratelli, dai progressi di Giovannino, all'irrequietezza di Bernardino, fino alla calma spiazzante di Sforzino e, in conclusione, alla dissolutezza di Ottaviano. Galeazzo poi raccontò alla sorella di Pier Maria, di quanto stesse crescendo, ma anche lui, ormai, aveva notizie non freschissime sul nipote, mancando da casa da prima del Conclave.

Parlarono di politica, di guerra e anche di Ippolita Sforza che, sosteneva il Riario, assomigliava molto a Bianca.

Si scambiarono speranze e preoccupazioni per il futuro, facendo le ipotesi più disparate su quello che sarebbe successo nei mesi a venire. La Riario, poi, raccontò delle migliorie che stavano facendo alla rocca e accettò di buon grado qualche consiglio da parte del fratello che, anni prima, aveva seguito da vicino la ristrutturazione di alcune parti di Ravaldino, e dunque conosceva meglio di lei alcuni dettagli.

Alla fine, però, attratti da un gorgheggio della piccola Costanza, tornarono a parlare di lei, di quanto fosse bella e di quanto fosse brava.

“Certo che gliela porterò io.” assicurò il Riario, prendendo la lettera che Bianca aveva scritto per la loro madre: “E le farò sapere quanto siete felici, e che stai bene... In fondo, per il momento, il mio lavoro qui al nord è in stallo... Adesso bisogna vedere le prime mosse di questo Pio III.”

Dopo un saluto che parve durare un'eternità, Geleazzo lasciò la sorella e uscì dalla stanza, chiedendosi quando si sarebbero potuti rivedere di nuovo. Ripercorse a ritroso la strada fino al portone e al cortile di rappresentanza, dove lo stava aspettando Troilo.

L'uomo era intento a discutere animatamente con Creobola, una serva che il Riario conosceva bene.

“La porterete con voi a Castello, vero?” chiese il De Rossi, non appena si accorse dell'arrivo del cognato: “Vostra madre ha bisogno della sua serva, vero?” ribadì, con insistenza.

Proprio perché conosceva quella strana donna, il giovane comprese la fretta di Troilo di liberarsene e, con magnanimità, accettò: “La porterò con me.”

Il padrone di casa lo ringraziò calorosamente e la donna andò a preparare il suo bagaglio, senza lamentarsi per la partenza improvvisa.

Tornò con appena un fagotto e si dichiarò prontissima a 'tornare a servizio di Madonna, lasciando ad altri il compito di curare i Marchesi'.

Erano in strada da poco, però, quando Galeazzo iniziò a pentirsi di aver accettato una compagnia tanto invadente, perché la donna, per prima cosa, mentre ondeggiava sul piccolo baio che Troilo le aveva gentilmente elargito, gli chiese: “E voi, messer Riario, un figlio quando lo fate?”

Il ragazzo, schiarendosi la voce e sperando di non arrossire troppo, rispose: “Per il momento il mio compito è portare voi e la lettera di mia sorella fino a Castello, da mia madre. Quello che accadrà dopo, è volontà del signore.”

Creobola lo fissò di sottinsu con aria ilare e poi, sospirando, scosse il capo e ribatté: “Non ci sono più i giovanotti di una volta... Ai miei tempi, alla vostra età, ne avreste avuti già almeno due o tre, di figli!”

Per fortuna la serva non toccò più l'argomento e Galeazzo poté concentrarsi sulla strada da seguire, distratto solo di quando in quando da qualche canzoncina volgare intonata a mezza bocca dalla sua strana compagna di viaggio.

 

 

   
 
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