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Autore: loki6783    13/10/2023    3 recensioni
Camminavo col cuore in gola e le gambe molli, un fremito che mi percorreva dalla testa ai piedi, all’idea di stare insieme in quel modo ancora e ancora. Mi catalizzavi verso la tua pacifica esistenza. La nostra, quella che ci eravamo guadagnati, o così pensavo. Tu mi aspettavi. Ti importava di me, sembrava così. Sorridevi, ed era impossibile diffidare del tuo sorriso, angelo. Mi faceva venire voglia di trasformare ogni tuo desiderio in qualcosa di vero: dovevi potere essere un mago, se volevi esserlo; dovevi poter avere una copia originale di Orgoglio e Pregiudizio, scritta da Jane Austen in persona, se lo volevi possedere; dovevi potermi tenere i i polsi con una mano, quando possedevi me, se volevi essere quello al comando. Avrei fatto ogni cosa per preservare quel sorriso, più prezioso delle stelle.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao! Per chi ha letto qualcosa di mio, vi premetto che questa storia potrebbe essere un po’ diversa dalle altre. Scrivo utilizzando il POV di Crowley. Per darvi un contesto: Crowley è stato da pochi giorni “lasciato” da Aziraphale, che ha preso il posto di Gabriele in Paradiso. Ma c’è un particolare differente: loro due, diversamente dal telefilm, avevano una storia a tutti gli effetti (anche dal punto di vista fisico) prima della loro rottura. E questo fa più male a Crowley, che fa pensieri tristi e amareggiati, carichi di angst…Ma alla fine... Non posso fare spoiler! Buona lettura!!








 
Credevo che fosse per me, sai?
 
 
Non voglio essere perdonato. Voglio solo bere e dimenticare. Bere e dimenticare, finché questa mente antica non diventi morbida, sfumando i contorni del tuo viso.

Le pareti della camera d’albergo si muovono intorno a me, e le tende sono chiuse su una città che non riconosco più mia, una notte che mi è estranea. Era la città che percorrevo per venire da te, sulla Bentley, o a piedi, ogni volta che mi chiamavi, e dove non mi sentivo mai solo. Era una Londra chiara come i tuoi capelli e dolce come il tuo sorriso, come lo zucchero nel tuo tè. Era la città in cui mi sentivo a casa, per il solo fatto di avvertire, ogni volta che chiudevo gli occhi e respiravo, la tua presenza nel raggio di quei chilometri. Eri sulla terra con me, eravamo insieme: mi bastava gironzolare per Soho per sentire la tua presenza celeste, i tuoi millenni, il tuo sospirare assorto in una lettura.
Era la città dove qualche settimana fa sono entrato in un negozio, come un essere umano, e ho deciso di comprarmi un maglione a collo alto perché, anche se mi dicevo che era per il freddo, i segni dei tuoi morsi sul collo erano diventati troppo per me quando mi guardavo allo specchio, quando gli umani facevano smorfie e domande, in alcuni casi battute, e non sapevo cosa dire.

Camminavo col cuore in gola e le gambe molli, un fremito che mi percorreva dalla testa ai piedi, all’idea di stare insieme in quel modo ancora e ancora. Mi catalizzavi verso la tua pacifica esistenza. La nostra, quella che ci eravamo guadagnati, o così pensavo. Tu mi aspettavi. Ti importava di me, sembrava così. Sorridevi, ed era impossibile diffidare del tuo sorriso, angelo. Mi faceva venire voglia di trasformare ogni tuo desiderio in qualcosa di vero: dovevi potere essere un mago, se volevi esserlo; dovevi poter avere una copia originale di Orgoglio e Pregiudizio, scritta da Jane Austen in persona, se lo volevi possedere; dovevi potermi tenere i polsi con una mano, quando possedevi me, se volevi essere quello al comando. Avrei fatto ogni cosa per preservare quel sorriso, più prezioso delle stelle.
Non te l’ho mai detto ma adoravo i baci sulle guance, mentre ero intento a sciogliere il nodo del tuo papillon di tartan, nella luce soffusa della libreria, con le dita incerte. Questi dettagli non sfumano, non riesco a dimenticarli, a perderli, a lasciarli indietro. Non importa quanto bevo in questo corpo umano, umanizzato. Ormai il sapore del whiskey e quello delle lacrime si somigliano come una persona e la sua ombra.

Eri delicato. Eri gentile. Forse per te era scontato esserlo, lo saresti stato con chiunque e a prescindere, ma certamente non lo era per me. Forse non capivi quanto fosse importante che fossi gentile proprio con me. Dalla caduta, non ho conosciuto che male e sono certo che infondo lo sapessi, che dosassi la forza, che ti concentrassi sul mio respiro, perché sapevi che avevo avuto paura, che avevo vissuto lo scherno e la brutalità dell’Inferno e del Paradiso, che ne portavo segni invisibili ad ogni tocco. Non mi ero mai sentito amato, angelo. Tu chiedevi il permesso, anche se avresti potuto prendere da me quello che volevi, senza il bisogno di chiedere. Ricordo come se fosse ieri il modo in cui le mie mani scorrevano sul tuo petto: avrei voluto che le mie carezze ti giungessero al cuore, Aziraphale, che ti dicessero quello che non riuscivo ad articolare, perché sul tuo cuscino diventavo vergognosamente timido. Non lasciarmi mai.

Ero solo io a volere stare insieme? A desiderare che continuassimo a essere una squadra a due, un noi, per tutta l’eternità? Era tutta colpa mia. Infondo ti avevo iniziato al cibo e i piaceri della vita terrena per te erano diventati vizi, ninnoli, collezioni. Ne facevo parte quando mi stringevi i fianchi, traendomi su di te, il mio petto inseguito dalla tua bocca, il mio corpo che ondeggiava sopra il tuo, su e giù, in una danza di piacere, le mie unghie che per non ferire le tue spalle artigliavano la testiera della poltrona su cui sedevi? Nudo come me, con gli occhi aperti come se non avessi voluto sbattere le palpebre e perdere la frazione di un millisecondo in cui correvamo verso il piacere, faccia a faccia. Come se ci tenessi davvero. Mi davi l’impressione di essere la mia casa, la mia roccia, che il mio ondeggiarti addosso quando mi prendevi fosse solo un’allegoria: tu rimanevi stabile, io mutavo. I capelli, i vestiti, le mode, la tecnologia degli uomini, gli occhiali. Tu eri sempre lo stesso, invece, rigoroso, abitudinario, e lo adoravo. Lo giuro che trovarti sempre uguale a te stesso mi riempiva della gioia della consuetudine. Non avrei voluto che somigliassi a nessun altro, angelo. Eri la mia più grande gioia.

Se fosse stata una danza, avrei detto che era un tango, dove tu mi facevi volteggiare, senza quasi spostarti, come se non avessi avuto peso. Non mi sentivo un serpente, mi sentivo una ballerina, e sorridevo, la faccia schiacciata contro una copia rilegata del Paradiso Perduto, la tua mano sulla nuca, il tuo petto contro le mie scapole, il tuo ventre contro i miei glutei e le mie ginocchia che tremavano ad ogni tua spinta. Mi assaltavi forte, sul tappeto della libreria, come avrebbe fatto un guerriero. Tu sei sempre stato il combattente e io il trofeo, no? Non avevo perduto nessun Paradiso, io, quando mi facevi quelle cose. E volevo solo darti di più. Farmi sbattere forte e dirti grazie alla fine, anziché fare finta di dormire abbracciato a te, nascondendo il viso nell’incavo della tua spalla.

Il whiskey mi rende ancora più sporco e più cattivo di quanto non sia per natura. O forse mi aiuta solo a vedere le cose in modo più disilluso. Ero solo la tua puttana. Avevo abbassato la guardia così tanto, avrei fatto qualsiasi cosa per te. Te ne sei approfittato e non riesco a crederci perché, se c’era qualcosa in cui avevo fede, eri tu. Fede al punto da inginocchiarmi, non per pregare ma per togliermi gli occhiali e aprire la bocca, godendo del tuo piacere, di riflesso, il respiro spezzato in gola. Spero di averti fatto impazzire, spero che nel tuo nuovo ufficio tu possa guardare la terra e sospirare da quanto ti manca il mio calore, e sentire la mancanza del mio corpo almeno più del cibo e più del vino. Chissà se sono valso almeno una lacrima dell’arcangelo Aziraphale?

La tv si accende: devo essermi seduto sul telecomando, nel casino di questa stanza, dove ho messo tutto a soqquadro, e dove giaccio per terra tra cuscini senza quasi più piume, bottiglie e lenzuola strappate.

Credevo che fosse per me, sai? Il ballo e tutta quella roba, intendo. Quando mi hai fatto uscire dalla libreria e dalla strada ti ho visto calare il lampadario di vetro… Credevo che fosse per stupirmi, per essere romantico, perché forse era finita l’era in cui io correvo troppo, forse eri tu ad avere messo il turbo. Credevo che significasse qualcosa, quando osservando Gabriele e Belzebù tu mi hai toccato la spalla. Mi ero convinto che tu mi volessi, lo dicevano anche le due umane, quando sono venute a parlare con me. Ma soprattutto ci avevo creduto quando mi avevi invitato a ballare. Mi vergogno così tanto, adesso. Sono stato stupido, vanesio, sono andato fuori strada, dopo seimila anni di cosa? Di un Accordo? Di qualche scopata? Non sai nemmeno che per me eri il primo, che non avevo mai fatto niente del genere con nessuno, che non lo avrei mai nemmeno immaginato, se non fosse stato con te. E’ stato come per le armi da fuoco: davi per scontate diverse cose, perché sono un “deprecabile strumento di Satana” (parole tue). Tu invece…Lo so che cosa facevi nel club per gentiluomini, a ballare la gavotte, a spezzare cuori con quel tuo musetto dolce e ipocrita. Avrei dovuto raggiungerti e mettermi a gridare, radere al suolo quello stupido club per checche snob.

Non sono nemmeno stato l’unico per te, ma solo un demone da prendere in giro.

Fenomeni astronomici inspiegabili o più di duemila anni di ipotesi scientifiche errate? A risponderci è un ricercatore dell’Osservatorio di Astrofisica dell’Imperial College of London!” dice una giornalista con ostentato accento Londinese. Sbadiglio sonoramente, i colori del tg passano sopra i miei occhiali. Tu non l’hai mai voluta una televisione, e quante volte sono riuscito a portarti al cinema da quando i fratelli Lumiere lo hanno inventato? Solo quattro. E tutte quattro hai finito per addormentarti, compreso Titanic. Forse era la mia compagnia il problema, forse con un altro angelo non avresti dormito. Per questo volevi così tanto restaurare il mio status angelico.

Bevo ancora, fissando lo schermo dove un quarantenne con dei baffi anni Settanta e degli spessi occhiali si sta esaltando nella spiegazione concitata di qualcosa riguardo a calcoli interplanetari “I dati del Consorzio Astrofisico Internazionale concordano nell’affermare che la Terra ha cambiato posto dell’Universo, muovendosi nel quadrante principale, che prima era occupato dal Sole.” Sotto di lui compare un rettangolo rosso: Dr. F. Mercury, Ph.D.
Strabuzzo gli occhi, cercando di mettere a fuoco “Questo non comprometterà l’ecosistema terrestre?” chiede la giornalista, appoggiando il viso su una mano, dandosi un’aria fintamente interessata.

In realtà, ora ci troviamo a circa 27.000 anni luce dal centro della Galassia, nel braccio di Orione, tra il braccio di Perseo e quello del Sagittario. Da qui un pianeta come la Terra, con un nucleo ricco di elementi ferromagnetici, quali ferro e nichel, e mantelli di silicati, può essere addirittura più longevo. E godere, sicuramente, di una vista migliore sulle stelle.” Replica lo scienziato, gesticolando e mentre parla, scorrono immagini di gente che, in giro per il mondo, guarda in su, verso il cielo notturno, contemplando nuove costellazioni. La giornalista, nasconde uno sbadiglio, sorride e da la linea alla pubblicità.

Mi metto in piedi e barcollo fino alla finestra, osservando la volta del cielo. La guardo come se non l’avessi mai vista, come se tra quelle stelle ci fossero i tuoi occhi, angelo. Devi avere trovato quella dannata cassetta dei suggerimenti e letto i miei biglietti, precedenti alla caduta. Quando fai così, sei maledetto e dolce.
Respiro nell’aria notturna. Sono ancora arrabbiato, lo sarò per molto tempo, ma ti sento un po’ più vicino.
Questo era solo per me, vero?
 
 
 





Fine

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