Note:
partecipante, quinta classificata, nonché vincitrice del premio per miglior
trattazione del tema al concorsco Dal film alla storia indetto da Dark rose 86.
La frase finale è tratta dal film The Elephant man, mentre ho da ringraziare e
rendere omaggio agli Alphaville per la grande ispirazione che mi hanno dato in
questa storia. Buona lettura, spero vi piaccia. Commenti, critiche, recensioni
et similia sempre molto gradite e apprezzate.
forever
young
Cammino
lentamente nella luce del sole al tramonto che bagna languida questo campo di
grano, nel Kentucky. Le spighe dorate, insieme ai miei capelli, riflettono i
mille bagliori del sole che sparisce di nuovo all’orizzonte, preparandosi a
morire per rinascere a nuova vita.
Siamo
agli inizi di settembre: quando l’aria è ancora calda, ma il vento fresco già si
fa sentire, spandendo l’odore dell’estate che muore, ancora una
volta.
O
meglio, si trasforma: diventando autunno, inverno, primavera, e poi di nuovo sé
stessa.
Incrocio
pigramente le braccia dietro la testa, lasciando che gli ultimi raggi di sole mi
scaldino le spalle. Il ronzio di un trattore si diffonde in lontananza, rendendo
possibile sentire il gorgoglio del ruscello vicino.
Questo
posto è diventato un po’ il mio angolo di pace, il mio piccolo ritaglio di cielo
quando sento che sto per scoppiare. Guardo il cielo, azzurro oltre la coltre
dorata delle nubi. Mi chiedo se oltre quelle nuvole che mi fissano beffarde,
esista qualcosa. Ho bisogno di crederci, ma so che ovunque tu sia, forse proprio
da sopra questo cielo, stai ridendo di me.
“Piccola,
non ti pare un po’ presto per pensare al paradiso? Limitati a guardare il cielo”
mi sembra di sentire le tua voce, nel gorgoglio del
fiumiciattolo.
Amavi questo ruscello. Ricordo che mi ci portasti una delle prime volte che uscimmo insieme. Esattamente un anno fa.
“Karen,
vieni dai” dicesti col fiatone, mentre mi trascinavi letteralmente per una
mano.
“Tom,
ma si può sapere perché, una volta tanto che ho un vestito decente, mi fai
attraversare i campi di corsa?” mugugnai io, pensando a una scusa plausibile da
fornire a mia madre una volta tornata a casa, dato che il mio unico abito buono
era ridotto a uno straccio impolverato.
“Per
questo” esclamasti trionfante, sdraiandoti di botto vicino a quel rivolo d’acqua
e prendendo a guardare il cielo senza nemmeno l’ombra di una
nuvola.
“Ehm,
Tom. Non per fare la figura della cinica, ma un ruscelletto in mezzo ai campi
non mi sembra una cosa così eccezionale”.
“Questo
perché non sai guardare” mi rispondesti, malizioso. Mi tirasti leggermente, per
farmi sdraiare di fianco a te. “Non senti la musica del ruscello, non vedi
l’azzurro sconfinato del cielo e l’oro puro di questi campi?”.
In
effetti, come sempre, avevi ragione.
“E poi, ovviamente, ci sei tu. Questo basta a rendere qualsiasi posto perfetto” avevi aggiunto dolcemente, avvicinandoti a me…
Chissà,
forse questo ruscello, ovunque ti trovi lo ami ancora. Il tuo posto perfetto (e
benchè tu non ci creda forse anche il tuo paradiso). Il nostro posto perfetto.
Reprimo
a stento il groppo che mi sta salendo in gola, sospiro e chiudo gli occhi,
lasciando che le palpebre si colorino del rossore umido riflesso dal tramonto.
Porto una mano sul petto, stringendo la catenina, la tua catenina.
Indipendentemente da tutto il resto, ti apparterrà sempre. Come me.
Mi
chiedo se, da dove ti trovi ora, in realtà non ti appartenga un po’ tutto.
Giovinezza, bellezza eterna, poter vedere mille momenti perfetti come questi,
senza però mai farne parte davvero. Perché non sono sicura che tu possa viverli
davvero. O forse mi sbaglio, come al solito. Ah, i miei soliti discorsi
contorti. Tu li odiavi, forse li odi ancora. Ma chissà che col cambiamento tu
non abbia imparato ad apprezzarli… no, impossibile, vero?
Mi
drizzo a sedere, giocherellando con la catenina, facendo scorrere le dita tra i
minuscoli cerchietti che la compongono, dorati anch’essi e che dipingono
nell’aria un delizioso ton-sur-ton sui colori del sole e delle spighe di
grano.
In fondo alla catenina c’è una piccola medaglietta a forma di cuore, con dentro le nostre foto: io sul lato destro, tu sul sinistro. Le foto sono di appena dieci mesi fa, eppure sento che qualcosa in me (qualche ombra in più sotto gli occhi, qualche ruga in più sulla fronte) è già cambiato. In te probabilmente no.
L’aria
di novembre ci pungeva il viso, e fischiava decisa tra l’erba arida e grigiastra
del campo.
“Chiudi
gli occhi” mi avevi chiesto, mentre mi abbracciavi, accovacciato dietro le mie
spalle.
Avevo
ubbidito, mentre sentivo un tintinnio uscire dall’apertura di qualcosa (forse
una scatolina?), e subito dopo un brivido sul collo, la reazione naturale della
pelle al freddo del metallo.
“Che
cos’è?” avevo chiesto confusa, aprendo gli occhi di scatto e guardando la
sottile catenella d’oro che terminava in un cuoricino. Non ricordavo nessuna
ricorrenza particolare per quel regalo, ma eri sempre stato il tipo da sorprese
inaspettate.
Eri
rimasto in silenzio, lasciando scorrere le dita sul ciondolo e facendo scattare
con l’indice l’apertura. Dentro le nostre immagini speculari ricambiavano il mio
sguardo stupefatto. Io coi capelli biondi mossi appena appena da un refolo
d’aria, e una risata cristallizzata dal flash della macchina fotografica. Tu con
il tuo solito sorriso al miele, i capelli lunghi fermati in fronte da un
nastrino e in mano la tua chitarra, “il bene più prezioso dopo di te” per dirla
con parole tue.
Sempre in silenzio, richiudesti il cuore dorato, portandomelo poi davanti agli occhi, ancora commossi per quel regalo improvvisato. Sulla parte esterna del pendaglio una parola incisa a lettere eleganti…
Forever.
Per sempre. Mi ricordo che ti avevo dato dell’illuso per tanto tempo, per aver
scritto quella parola. “Tom, niente dura per sempre lo sai bene” provavo a
convincerti, piccata. “Tutti muoiono, prima o poi”.
Ma la
tua risposta era sempre la stessa: “Niente muore davvero, Karen, semplicemente
si trasforma in qualcos’altro”.
Tu e
le tue dannate convinzioni. Non hai mai creduto che esistesse qualcosa oltre
questa vita, ma non avevi dubbi che un singolo istante potesse in realtà durare
in eterno.
“Nei
ricordi niente muore, e anche nella vita qualsiasi cosa tocchiamo, vediamo o
sentiamo, rimane sempre con noi, anche se sotto un’altra forma” mi avevi
spiegato un pomeriggio, particolarmente ispirato. Dopo un paio di birre e
qualche accordo di chitarra, diventavi ciò che c’era di più simile a un poeta.
“Piccola, pensa alla musica: quelle sette note ripetute all’infinito in mille
combinazioni differenti. La stessa sostanza, miliardi di canzoni”. Ma io te l’ho
sempre detto: la musica è per i folli.
Non
posso che sorridere però, chiedendomi cosa potresti pensare di me ora. Chissà se
ti stai facendo due risate, all’idea che finalmente ho capito cosa volevi dire,
oppure se stai sorridendo come sempre, finalmente orgoglioso del mio
risultato.
Eppure nonostante la tua reazione prevedibilmente allegra, lo sai che la storia non è a lieto fine.
“Karen,
piccola cerca di capire…” tentavi di convincermi, provando a guardarmi negli
occhi, mentre io facevo di tutto per divincolarmi da
te.
“Cosa
dovrei capire Tom, cosa? Che stai per partire alla volta di una guerra inutile,
senza sapere se tornerai o no, o che semplicemente questa mattina ti sei bevuto
il cervello insieme al caffè?” avevo urlato io, in preda alla rabbia e al
panico, facendo alzare in volo i merli, che a marzo stazionavano già vicino a
dove sarebbe cresciuto il primo mais.
“No”
avevi risposto con una voce incredibilmente dura, incredibilmente non da te. “Lo
faccio per tutto questo” avevi poi proseguito, un po’ più dolce, abbracciando
con un gesto vago il panorama.
“Lo
fai per il granturco?” avevo chiesto io, domandandomi se non era davvero
necessario portati alla neuro-deliri.
Per
tutta risposta eri scoppiato a ridere, rotolandoti vicino al ruscello e
macchiandoti la camicia larga di fango. “Oh piccola, e poi mi chiedi se sono io
ad essermi fatto una lobotomia accidentale a colazione!” avevi sghignazzato. Poi
avevi sospirato, tornando a essere serio. “No, lo faccio per poter essere
libero. Per non avere più l’ansia di una guerra sul mio futuro. Lo faccio perché
così ho l’illusione di poter essere d’aiuto a tutti gli altri che sono già
partiti. Lo faccio perché rimanere qua, con le mani in mano è come rimanere a
vivere in una buca di sabbia. E isolandosi dal mondo la vita è un viaggio troppo
corto” mi spiegasti dolcemente, cercando di farmi capire concetti che non
comprendevo.
“Ma
noi due siamo felici, non pensi che potremmo esserlo ancora per tanto tempo?”
avevo chiesto io, il labbro inferiore che mi tremava, come quando da piccola ero
facile preda di un pianto irrefrenabile.
“Ma
certo che lo penso!” avevi risposto, esibendoti in un’impagabile smorfia di
indignazione. “Ma voglio anche credere che quando tutta questa follia sarà
finita, finalmente potremo perderci nella luce del sole come in questo preciso
istante, e non pensare a nient’altro che a noi. Voglio credere che questa guerra
avrà una fine, e che quando tornerò a casa riusciremo a vivere in pace per il
resto dell’eternità”.
“Tom,
ma se le cose cambiano? Non ci pensi? Se… se per caso…” lasciai la frase a metà,
la voce spezzata da un singhiozzo insistente.
“Se
per caso non dovessi tornare?” mormorasti piano al mio orecchio, accarezzandomi
piano i capelli, per calmarmi. Non trovai la forza di rispondere, annuii e
basta.
“Piccola non succederà mai…mai. Mai... mai. Niente morirà mai. L'acqua scorre, il vento soffia, la nuvola fugge, il cuore batte. Niente muore” avevi sussurrato dolcemente, quasi come se stessi cantando una ninnananna a una bimba spaventata (la sottoscritta). “Questo ruscello continuerà a scorrere, il vento continuerà a soffiare su questo campo, mentre le nuvole si faranno trasportare. E i nostri cuori batteranno per sempre”. Come per dare una conferma alle tue parole mi avevi preso una mano, facendola scorrere sul pendaglio a forma di cuore. Sotto le mie dita una parola: “Forever”…
E’
stata l’ultima volta che ti ho visto vivo. Sei tornato, in realtà: un mese fa,
avvolto nella bandiera americana. Ricordo che al funerale tua madre stringeva un
braccialetto con un diamantino incastonato, l’unico ricordo materiale che le
rimaneva di te: il diamante, puro, che rifletteva tutti i raggi di quel sole che
ci sembrava quantomeno infame. Il diamante, eternamente giovane, come te, come
volevi essere e ora sei.
Apro
gli occhi, lasciando che le ultime lacrime scendano lungo le guance. Non sono le
prime e non saranno le ultime. Ma sto imparando, a poco a poco, a ricordarmi
delle tue parole, a trovarti in ogni singolo gesto che faccio, in ogni respiro,
in ogni cosa che mi circonda.
Perché evidentemente la tua profezia si è avverata: l’acqua sta continuando a scorrere, il vento porta via le mie lacrime, le ultime nuvole dorate si spostano sulla linea dell’estremo ovest, e il mio cuore sta continuando a battere, insieme a quello in miniatura che ci contiene. E so che in tutto questo ci sei anche tu. Per sempre.