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Autore: Adeia Di Elferas    31/10/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina si sentiva inquieta quel pomeriggio. Le notti che stava passando insonni, insieme a una strana incapacità di concentrarsi come avrebbe voluto su una qualsiasi cosa, la stavano stremando.

Cercava di passare le sue giornate in modo tranquillo, conscia che, da quella villa di Castello che sentiva a tratti come una prigione lei avrebbe potuto fare molto poco, su qualsiasi fronte. Il papa ormai era stato eletto e si poteva solo sperare che i suoi figli più grandi stessero intessendo qualche amicizia interessante, che permettesse loro di avere una possibilità concreta di riprendersi le loro terre. La speranza c'era, visto che tanti altri signori spodestati dai Borja stavano riacquistando Stati, soldi e potere...

Di contro, però, la presenza alla villa del piccolo Pier Maria ricordava costantemente alla Tigre di come Bianca fosse prossima al parto e quel silenzio, quella mancanza totale di notizie da San Secondo, cominciava a farla impensierire.

L'unica nota di colore, quel giorno, era stato il ritorno di Fortunati che, comunque, aveva solo peggiorato la sua mestizia. Anche se da un lato era stata felice di sapere che Semiramide Appiani aveva assicurato che nel giro di pochi giorni, massimo un paio di settimane, si sarebbe organizzata in modo di recarsi da loro in visita per conoscere Giovannino, dall'altro la Tigre ne era rimasta turbata.

Aveva accettato abbastanza facilmente la proposta della cognata, la prima volta in cui ne avevano parlato, ed era stata lei a chiedere al piovano di rinverdire l'invito, eppure c'era qualcosa che la metteva in ansia al pensiero che la vedova di Lorenzo incontrasse il bambino.

O forse tutta la sua cupezza derivava dal resoconto, stringato e più freddo di quanto avrebbe creduto, fatto da Fortunati circa il lutto dei Salviati. Per prima cosa le aveva descritto uno Jacopo in lacrime, senza parole e confuso, così diverso dal solito compassato uomo d'affari che Francesco si era quasi spaventato a vederlo così. Non era stato così male, aveva sottolineato, nemmeno quando era morta la madre Elena. Poi le aveva parlato di Lucrezia, il cui dolore sembrava averla resa di ghiaccio. Gli aveva parlato per tutto il tempo di politica, del nuovo papa, di Firenze, di guerra, senza fermarsi un solo secondo, senza nemmeno nominare la figlia appena morta.

Fortunati si era detto allibito dall'atteggiamento di Lucrezia, sostenendo che una madre non poteva archiviare in modo tanto distaccato una perdita così grave, men che meno poteva farlo una donna come Lucrezia. Caterina era stata tentata di ribattere all'incredulità del piovano facendo notare che l'elaborazione del lutto e del dolore erano cose personali e private e che non si poteva sapere cosa davvero passasse nella testa della Medici in quei giorni, ma alla fine aveva desistito.

Francesco era un uomo buono, empatico e comprensivo, ma era troppo avulso da tutto ciò che poteva riguardare la genitorialità per riuscire a fargli davvero capire il suo pensiero.

In più, la Leonessa non aveva molta voglia di parlare di neonati morti in fasce, non avendo ancora ricevuto notizie da Bianca.

Così quel pomeriggio aveva preso un paio di punte di lancia ricavate da vecchi punteruoli e si era messa a una delle finestre esposte a ovest, per catturare gli ultimi raggi di sole mentre passava la cote sul filo delle lame. Avrebbe preferito poter affilare una spada o anche lucidare un pezzo d'artiglieria, ma quella villa, così civile, così all'uso del mondo, era molto diversa dalla sua rocca di Ravaldino, che era stata selvatica e grezza, ma adatta a lei. Quella dimora, per quanto comoda ed elegante, non offriva quel genere di svago che lei spesso desiderava.

Stava perdendo il senso del tempo, accompagnata solo dal ritmo del proprio respiro e dal suono familiare e per lei rassicurante della cote che addomesticava il metallo, quando con la coda dell'occhio vide che qualcuno era in piedi proprio sulla porta.

Riuscendo a non sobbalzare per la sorpresa, ci mise comunque un paio di secondi prima di capire che il giovane uomo che le stava sorridendo era suo figlio Galeazzo.

“Non ti ho sentito arrivare...” disse, lasciando subito il proprio lavoro e andandogli incontro.

Il Riario sembrava essersi fatto più alto, durante la sua assenza. Aveva i capelli un po' più lunghi del solito, e le guance coperte da una barba non particolarmente fitta, ma che lo faceva sembrare comunque più maturo.

Stringendogli una mano, non trovando lo slancio necessario per abbracciarlo, Caterina trovò la sua presa salda, calda e rassicurante.

“Sono stato da Bianca. Arrivo da San Secondo.” rivelò Galeazzo, con sorriso che restava aperto, promettendo buone notizie: “Mia sorella sta bene. Ha partorito. È nata una bambina forte e in salute. L'hanno chiamata Costanza.”

A quelle parole, finalmente, la Tigre si sciolse e, presa dalla gioia, riuscì a trasformare quella strana stretta di mano in un abbraccio vero e proprio. Lasciò che il figlio la tenesse vicino a sé qualche secondo in più e poi si staccò, per poterlo guardare bene in viso.

“Adesso – disse il giovane – con il tempo tutto dovrebbe sistemarsi...”

“Certo.” asserì la donna, sperando che fosse davvero così.

La nascita di una femmina era fondamentale per poter cercare di introdurre Pier Maria, con il tempo, in famiglia. Era un piano rischioso, quello di fingere una nuova gravidanza, un parto lontano da casa e poi la decisione arbitraria di far crescere l'erede designato presso una nonna nota per aver fatto guerra con mezzo mondo, ma era la loro unica speranza.

“Adesso vai a salutare i tuoi fratelli...” disse Caterina: “Io e te possiamo parlare più tardi, a meno che non ci sia qualcosa di urgente da dirmi...”

Galeazzo, che in effetti aveva voglia di rivedere Sforzino, Bernardino e Giovannino, convenne che sarebbe stato meglio parlare con calma, più tardi, ma, prima di prendere congedo, si ricordò di dover annunciare un'altra novità alla madre: “Ah, c'è un'altra cosa...” iniziò a dire, ma, con un tempismo teatrale, da oltre la porta si sentì proprio in quel momento la voce di Creobola che si lamentava a voce alta delle ossa che le facevano male per colpa dell'umidità.

“Che ci fa qui?” chiese la Tigre, sorpresa nel sapere tornata la sua serva: “L'hai riportata tu qui?”

Il Riario parve imbarazzato, nello spiegare: “Era da Bianca, l'ha aiutata durante il parto, ma adesso era tempo che tornasse qui...”

“Avrebbe anche potuto consultarmi, prima di lasciare la Romagna, recarsi da mia figlia e decidere autonomamente di tornare qui...” soppesò tra sé la Leonessa, con aria contrariata.

“Volete parlarle?” chiese allora Galeazzo, sentendo ancora la voce della serva nelle vicinanze.

“Per il momento no, non ne ho voglia.” rispose in fretta la donna: “Adesso vai dai tuoi fratelli. Poi, con calma, mi parlerai di Bologna e di tutto il resto... Magari una sera, dopo cena, con un calice o due di vino in accompagnamento...”

Al giovane parve piacere quella prospettiva, per cui annuì, fece un breve cenno di ringraziamento e poi lasciò la stanza, per andare a cercare i fratelli più piccoli.

 

Il Cardinale Sansoni Riario era sempre più indeciso sul da farsi. Il Conclave, tutto sommato, si era concluso in modo pacifico accontentando e scontentando tutti in egual misura.

Il Piccolomini era un uomo mite e fin troppo puro, per sedere sullo scranno di San Pietro e Raffaele aveva la sensazione che il suo pontificato sarebbe stato breve. Giuliano Della Rovere, ridendo, aveva dato al nuovo papa un anno di regno, ma per il Cardinale Sansoni Riario si trattava di una previsione anche troppo rosea.

Quel giorno, tanto per cominciare, a Pio III erano stati fatti ben due salassi a una gamba, perché il gonfiore dato dalla sua malattia era tale da impedirgli perfino di parlare dal dolore che provava.

I cerusici che erano stati interpellati avevano agito in fretta e con perizia, tanto che il papa era poi stato in grado di ottemperare comunque ad alcuni suoi obblighi, tra cui presiedere un incontro riappacificatore tra i Colonna e il Cardinale di Rouen, concedendo, in buona sostanza, un passaggio sicuro a quest'ultimo. Il Rouen pretendeva anche che i Colonna gli rendessero tutti i suoi castelli, ma Pio III, per quanto uomo di lettere e non di guerra, sapeva bene che scontentare troppo una delle più importanti famiglie di Roma sarebbe stato un errore potenzialmente fatale, così aveva fatto in modo che i Colonna cedessero a lui i castelli, depositandoli formalmente, in attesa di un giudizio più approfondito.

L'impegno che Pio III aveva profuso era, agli occhi di Raffaele, veramente lodevole, tuttavia il Cardinale Sansoni Riario aveva dei seri dubbi sul fatto che il pontefice riuscisse a seguire come dovuto gli impegni che gli si prospettavano.

Tanto per cominciare nel giro di due giorni il Piccolomini sarebbe stato ordinato sacerdote. Se ne sarebbe occupato Giuliano Della Rovere, quindi era probabile che la cerimonia si sarebbe rivelata molto veloce e poco impegnativa, ma Raffaele temeva che, nello stato in cui era, Pio III non riuscisse nemmeno a stare in piedi il tempo necessario per la funzione.

Abbattuto e pensoso, mentre attraversava una delle sale più ampie e belle del palazzo Riario in cui ormai viveva da anni, il Cardinale si domandò se mai suo cugino Ottaviano sarebbe riuscito a rientrare in possesso di quella maestosa dimora. Lui personalmente ne stava facendo un'opera d'arte in divenire, con statue antiche e oggetti preziosi di ogni genere, e contribuiva a mantenerla viva e in ordine, ma non ne era il reale proprietario.

Forse, pensava, se un giorno fosse diventato davvero papa Giuliano, avrebbe revocato l'esilio di Ottaviano e ne avrebbe fatto il signore che doveva essere fin dal principio. Anzi, magari avrebbe fatto sposare la sua povera nipote proprio a Ottaviano. Dopo tutto, Maria Giovanna Della Rovere era una vedova, con tre figli e con una torbida storia con un amante che di mestiere faceva il mercenario... Ottaviano, che normalmente non sarebbe stato un marito ambito, avrebbe potuto fare al caso suo.

Merce avariata, in cambio di altra merce avariata...

Raffaele, le mani dietro la schiena e lo sguardo basso, era arrivato fin quasi al suo studio, quando uno dei suoi segretari particolari lo raggiunse, con una missiva.

Ringraziando, il Cardinale la prese, ma aspettò ad aprirla. Prima si volle mettere alla scrivania, con la porta dello studio chiusa. Ciò che lo aveva impensierito era la provenienza della lettera: Innsbruck.

Con un sospiro pesante, l'uomo si accigliò e cominciò a leggere. Lo scrivente era uno dei suoi informatori più fidati, ma lo sorprese saperlo così a nord, quando, invece, lo credeva a Venezia, a informarsi presso il Doge sulle concrete possibilità dei Riario di riacquistare potere in Romagna.

Lesse quasi senza respirare e arrivato alla fine, provò solo una profondissima pena. Con quella lettera gli si annunciava che il 26 settembre, dunque un paio di giorni prima, erano stati celebrati i funerali di Ermes Maria Sforza, fratello uterino di Caterina.

Il suo informatore faceva presente che trentatreenne non godeva di buona salute da tempo. Da quando si era rifugiato in Tirolo presso l'Imperatrice, Bianca Maria Sforza, sua sorella, sapere lo zio Ludovico, il Moro, prigioniero dei francesi, lo aveva debilitato sempre di più, portandolo a non mangiare, a non uscire mai e a cercare il buio e la solitudine e, alla fine, era sopraggiunta quella morte prematura. Sarebbe stato sepolto a Wilten.

Il Cardinale Sansoni Riario si lasciò sprofondare nella grande sedia decorata d'oro e ragionò per qualche istante. Era probabile che la Tigre lo venisse a sapere, in un modo o nell'altro, ma lui poteva essere un voce amica, più rapida delle altre, e comunicarle quella perdita in modo gentile.

Conosceva anche troppo bene il mondo e sapeva quanto livore ci fosse, malgrado tutto, verso gli Sforza e verso Caterina in particolare. Di certo qualcuno si sarebbe preso il disturbo di avvisarla nel modo più brutale e crudele possibile...

Così, con un sospiro profondo, prese il necessario per scrivere e, con tutto il tatto di cui era capace, riportò la notizia alla cugina, premurandosi di assicurarle – prendendosi una licenza tutta sua – che il fratello non poteva aver sofferto, essendo morto improvvisamente. Le diede anche le coordinate della sepoltura e le scrisse in modo accorato che avrebbe pregato mille e mille volte ancora sia per lei sia per l'anima del povero Ermes Maria.

Stava per lasciare la scrivania e tornare ai suoi pensieri, quando si rese conto che c'era un'altra cosa concreta che poteva fare, al momento, per la cugina. Dato che il suo informatore aveva lasciato Venezia – per un motivo che avrebbe presto appurato – stava a lui pungolare il Doge affinché non si dimenticasse della Leonessa.

Indeciso se mettersi a scrivere una lettera direttamente a Leonardo Loredan o passare per il suo Oratore romano, ossia Antonio Giustinian, il Cardinale rimase qualche minuto a ragionare a fondo su come muoversi.

Alla fine giunse alla conclusione che parlare al diplomatico sarebbe stato il modo migliore per iniziare eventuali trattative e poi, se questo non avesse portato i frutti sperati, si sarebbe rivolto al Doge in persona.

Prima di lasciare il suo studio, comunque, si premurò di curare la corrispondenza lasciata in sospeso da giorni, comprese due richieste molto specifiche, una da parte di Ottaviano Riario, che gli domandava soldi, e una di Bianca Riario, che gli chiedeva soldi e un consiglio su come gestire i rapporti con Giovanni Antonio Sangiorgio, Vescovo di Parma. Ben felice di poter assicurare a entrambi una buona somma – maggiore, ovviamente, per la cugina, che doveva sostenere anche le spese legate alla recentissima nascita di una figlia – e di poter elargire i suoi più sinceri consigli, l'uomo terminò le lettere che aveva fino a quel momento lasciato in sospeso e poi si alzò, deciso a strappare un incontro all'oratore veneziano prima che fosse buio.

In realtà, gli fu molto più facile del previsto incontrare Giustinian. Si era appena addentrato nelle stanze vaticane, cercando il segretario giusto a cui chiedere di fissare un incontro con il diplomatico, quando aveva visto proprio il veneziano camminare a lunghi passi in uno dei cortili.

Senza pensarci un attimo, Raffaele aveva accelerato il passo, era uscito all'aperto e l'aveva arpionato, richiamando la sua attenzione dapprima con un paio di frasi di circostanza sul clima di Roma e poi domandandogli se si trovasse bene in Vaticano, ora che Pio III era papa.

L'uomo del Doge, immaginando già quale fosse il vero fulcro del discorso del Cardinale, aveva aumentato il passo, sperando di farlo restare indietro e potersene liberare con una scusa, ma il Sansoni Riario, a quel punto, aveva giocato d'astuzia.

“Mio cugino, il Cardinale Della Rovere, chiede se sarete presente anche voi, quando il nostro pontefice verrà ordinato sacerdote proprio da mio cugino Giuliano...” aveva detto, con aria casuale, Raffaele.

Quel voler sottolineare per ben due volte la parentela – in realtà solo acquisita – con il Della Rovere, che era a tutti gli effetti l'uomo al momento più influente, dopo il papa, aveva attirato l'attenzione di Giustinian, facendogli capire che sarebbe stato meglio per lui prestare orecchio, benché fosse stanco di vedere quel pretino stempiato del Sansoni Riario perorare senza sosta la causa della gran meretrice di Forlì.

Così, con un sorriso forzato, ma che avrebbe voluto essere il più possibile caloroso, Antonio si fermò e guardò il porporato: “Ma certamente, ditegli pure che ci sarò, in rappresentanza della Serenissima. Avete altro da chiedermi, mio caro Cardinale di San Giorgio?”

Quell'uso, così ostentato, del suo titolo, innervosì Raffaele, che, comunque, riuscì a non mostrare il proprio stato d'animo, ma, anzi, parlò con tranquillità: “Vorrei pregarvi, vista la vostra importante carica e la vostra nota vicinanza al Doge, di scrivere al vostro signore affinché prenda a cuore i miei nipoti.”

Giustinian ascoltò in silenzio. Sapeva bene che i Riario non erano i nipoti, ma i cugini di Raffaele, ma la scelta di quel modo di indicarli non era casuale. Era ben noto, infatti, che la protezione di un prelato era maggiore se esercitata verso un nipote che verso un cugino...

“I francesi non saranno un problema, per Venezia, se Venezia aiuterà i miei nipoti. So io come tenere a bada gli Oltralpini... So come tirarli dalla nostra parte.” proseguì il Cardinale, con aria decisa: “E dal papa Venezia non otterrà aiuti, ma nemmeno opposizioni. Si tratta di un uomo quieto, che lascia fare ciascuno a suo modo...”

“Riferirò quel che dite, ma il Doge non è uomo da non pretendere nulla in cambio.” ribatté l'oratore, che pur sapeva come la stessa Tigre di Forlì avesse cercato contatti con la Serenissima, chiedendo aiuto per tornare nelle sue terre, proponendo, in cambio, la fedeltà totale di Imola e Forlì a Venezia, così come era stato fatto da Antonio Maria Ordelaffi. La differenza tra le due offerte era una sola e sostanziale: l'Ordelaffi era un uomo assetato di soldi e desideroso di ottenere una posizione sicura, ma era un incapace, mentre la Leonessa di Romagna non era interessata particolarmente né ai soldi né a una posizione sicura, ma era una donna capace e feroce, impossibile da domare.

“Se la Repubblica vuole aver per sé quegli Stati – riprese imperterrito il Cardinale Sansoni Riario, abbassando un po' la voce – non ha miglior via che quella di dar favore ai miei nipoti. Preferisco mille e mille volte Venezia, ai francesi, per naturale affezione e perché dei francesi non c'è da fidarsi troppo... Ma se il Doge non ci aiuterà, sarò costretto a rivolgere la mia attenzione, la mia riconoscenza e i miei denari altrove.”

“Siete stato chiaro.” concluse Giustinian, trovando quell'ultimo affondo molto più palese di qualsiasi altro discorso mai fatto da Raffaele: “Andate con Dio. Scriverò al Doge quanto mi avete riferito, parola per parola.”

“Dio sia sempre lodato e vi guidi e guidi la vostra mano nel scrivere la lettera al Doge.” ribatté il Cardinale e, con un breve inchino, iniziò a camminare svelto come una lepre, lasciando volutamente indietro l'oratore, che, dopo un momento di apparente smarrimento, tornò ai suoi affari, pensando,, comunque, al modo migliore per riportare adeguatamente le parole del Sansoni Riario a Loredan.

 

Anche quella sera era arrivata molto in fretta, forse complice la spessa cortina di nuvole che da ovest avevano coperto velocissime Castello e la villa della Tigre.

Galeazzo era ritornato ormai da un paio di giorni, ma lui e la madre non avevano ancora trovato il tempo e il modo di passare qualche ora assieme a parlare indisturbati degli affari di Bologna. A complicare tutto, poi, era arrivata la notizia, tramite una lettera scritta dal pugno di Raffaele Sansoni Riario, della morte di Ermes, fratello di Caterina, e tanto le era bastato per chiudersi in un silenzio angoscioso che veniva interrotto solo quando si occupava di Giovannino e delle sue lezioni di scherma o equitazione.

Erano ormai anni che la Sforza non incontrava il fratello e, nella sua memoria, Ermes Maria sarebbe sempre stato una sorta di ragazzone sorridente, ma allo stesso modo di difficile interpretazione. La sua morte, per lei, era come un ulteriore sigillo alla fine dei suoi legami con Milano. Sapeva che Bona di Savoia era ancora viva, a Fossano, ma non aveva più cercato di contattarla. Suo zio, Ludovico, era in Francia, e non aveva alcuna voglia nemmeno di provare a fargli recapitare una lettera, con tutti i problemi che le aveva sempre dato. Anche coi suoi altri fratelli, compresa sua sorella Bianca Maria, Imperatrice, non aveva più avuto quasi nulla a che spartire, sia per volontà sua, sia per le contingenze.

Milano, ormai, era un'idea, un ricordo, qualcosa di legato per sempre alle sue ossa e alla sua carne, ma così impalpabile, da sembrare mai esistito.

Quella strana malinconia la stava accompagnando come un'ombra e non sapeva come fare a scrollarsela di dosso, perciò, quella sera, malgrado il mal tempo incipiente e il suo stato d'animo cupo, la Tigre chiese a Galeazzo di passare un po' di tempo con lei dopo cena, per poter, finalmente, avere quel dialogo cui facevano cenno fin da quando il giovane era tornato alla villa.

Sistemati in una delle sale più tranquille, con il camino acceso, malgrado fosse solo fine settembre, madre e figlio prima di tutto si concessero un paio di calici di vino a testa. Il Riario sentì quasi subito le proprie innate resistenze allentarsi, non essendo molto avvezzo a bere vino senza accompagnarlo con il cibo, mentre Caterina ne trasse quel giusto grado di rilassatezza che le permise di affrontare con il figlio argomenti che la mettevano in agitazione.

Gli chiese cosa ne pensasse dei Bentivoglio e quanto confidasse nel loro appoggio, e il ragazzo spiegò come i bolognesi fossero indubbiamente più propensi a favorire loro che altri, ma che, sia per motivi economici, sia per motivi politici, non sarebbe stato facile farli impegnare troppo, almeno all'inizio, nella riconquista della Romagna.

Da Bologna, passarono a Venezia e da lì alle intenzioni della Francia e dell'Impero e più Caterina parlava con Galeazzo più si dimenticava di aver davanti un giovane uomo di diciotto anni non ancora compiuti. A tratti, era come tornare a Ravaldino e discutere di grande diplomazia e scacchieri internazionali assieme ai migliori dei suoi Capitani.

Esauriti, un paio d'ore e una caraffa di vino più tardi, gli argomenti di stretto interesse militare e politico, la Tigre si abbandonò contro lo schienale del suo scranno e fissò le fiamme nel camino, il calice stretto in mano: “E di Ippolita cosa mi dici?”

La domanda era arrivata un po' inattesa, ma il Riario, molto più sciolto dal vino rispetto alla madre, la descrisse con dovizia di particolari, lodandone non solo l'acume e l'intelligenza, ma anche la disponibilità e la bellezza.

La Sforza guardò il figlio in tralice. L'impressione che aveva avuto, quando era tornato alla villa, ossia che fosse diventato in qualche modo più adulto nel breve tempo che li aveva separati, stava trovando conferma anche quella sera. C'era qualcosa, nel suo viso, che aveva preso un taglio più deciso. Il suo sguardo aveva un qualcosa di più intenso. La sua gestualità aveva perso, anche se di poco, quel tratto un po' impacciato e timido che spesso stonava con i suoi modi compassati. C'era qualcosa in lui, che portò la Leonessa a porgli una domanda che, se Galeazzo fosse stato sobrio, non gli avrebbe posto.

“A Bologna hai conosciuto qualche ragazza di tuo interesse?” gli domandò.

Il Riario arrossì violentemente, com'era suo costume in quei casi, e si schiarì la voce: “Io... Io mi sono occupati degli affari di politica e diplomazia per conto vostro, mentre ero a Bologna.”

“Mi piacerebbe che tu trovassi una moglie che ti piaccia.” si azzardò a dire la donna: “Sei ancora molto giovane, ma i tempi sono incerti...”

“Io vorrei una moglie che mi ami.” ribatté lui, distogliendo subito lo sguardo e aggrottando la fronte: “Non vorrei mai una moglie che... Che si abitui a me perché deve.”

La Leonessa comprendeva bene il suo discorso e avrebbe anche sorriso divertita, nel vedere quanto il figlio fosse più simile a lei di quanto non credesse, ma sapeva che Galeazzo avrebbe interpretato male quella reazione.

“Il vino ti rende loquace.” gli disse solo: “Comunque hai ragione. Non c'è cosa più desiderabile, in un matrimonio, anche se non sempre è possibile, e allora bisogna fare in modo che funzioni comunque.”

Il Riario strinse i denti e disse: “Io cercherei di farmi apprezzare. Di farmi amare. Non sopporterei una donna che mi odi, come voi odiavate mio padre.”

Caterina rimase immobile qualche istante. Appoggiò il calice al tavolino e strinse con forza le labbra. Non si era aspettata quell'esternazione. Sapeva bene che Galeazzo era sveglio e che conosceva più di quanto lei volesse molti aspetti di quello che era stato il matrimonio tra lei e Girolamo, tuttavia non sapeva come controbattere.

Alla fine, dopo essersi morsa più volte l'interno della guancia, scelse accuratamente le parole e sussurrò: “Io mi sono sposata tre volte. L'ultima volta, con Giovanni, è stata una scelta a suo modo semplice... Era l'uomo migliore che potessi incontrare e non... Non ho mai avuto un giorno infelice con lui. La seconda volta ho sposato Giacomo perché lo volevo, ed è stata una scelta che rifarei malgrado tutto. La prima volta sono stata venduta a tuo padre, ed ero una bambina, e lui non ha mai fatto nulla...” si fermò un istante e poi ammise, mesta: “Qualsiasi cosa avesse fatto, io non sarei mai riuscita a perdonarlo, men che meno ad amarlo.”

Galeazzo deglutì e, vedendosi riflesso nel vino che ancora aveva nel calice, si chiese quanto del suo volto ricordasse alla madre quello dell'uomo che aveva odiato più di ogni altra cosa al mondo.

“Dicono che chi sia stato in guerra, sogni ogni notte la battaglia.” riprese la Tigre: “Io la sogno molto spesso, quasi sempre, è vero, ma sogno altrettanto spesso tuo padre e tra i due incubi, quello con lui è di certo il peggiore.”

Il giovane schiuse le labbra, per dire qualcosa, ma, invece, si limitò solo a sorbire ancora un po' del sangiovese che avanzava.

“Tu non sarai come tuo padre.” tagliò corto la Leonessa: “La tua sposa non sarà una bambina. Anzi, per i tempi in cui viviamo, probabilmente non sarà nemmeno una sprovveduta...”

Il pensiero di entrambi corse a Bianca che, all'apparenza perfetta nobile giovane donna, aveva trovato il suo sposo dopo una iter tutt'altro che adeso all'etichetta.

“Ricorda sempre che, come che sia la tua sposa, giovane, matura, vedova, smaliziata o innocente, il male che potresti farle è sempre lo stesso.” decretò Caterina: “Sta a te.”

“Io non farò mai nulla senza che la donna che avrò al mio fianco lo voglia.” promise il Riario.

La madre lo fissò per qualche istante. Il suo ragazzo, in fondo, era ancora un bambino. A suo confronto, Bernardino era già un uomo di mondo. E in quel momento, sia la certezza su Galeazzo, che era il suo erede designato e l'uomo che l'avrebbe resa fiera di lui, sia quella su Bernardino, che invece avrebbe sicuramente dovuto cavarsela da solo e in fretta, la rincuorava.

“Vuoi ancora qualcosa da bere, o preferisci andare a coricarti?” domandò la Sforza, indicando il calice ormai vuoto del figlio.

“Forse dovrei andare a coricarmi.” annuì lui che, ancora un po' stordito dalla piega presa del discorso, sentiva di non poter reggere altro.

“Allora vai.” concesse la Leonessa: “Ma prima passa nelle cucine e fammi portare da qualcuno un po' di liquore. Ne ho bisogno, o non riuscirò a dormire nemmeno stanotte.”

“State bene?” chiese il figlio, per premura, ma conoscendo abbastanza la madre da sapere che non gli avrebbe risposto.

“Vai in cucina e fammi portare il liquore.” rispose infatti lei e, guardando la schiena dritta e le spalle larghe del figlio sparire nel buio oltre la porta, si chiese quando mai sarebbe riuscita, in piena coscienza, a rispondere di slancio di sì a una domanda tanto semplice.

 

 

   
 
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