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Autore: AncientDust    11/11/2023    5 recensioni
"Per iniziare, ogni partita necessita che i pezzi vengano disposti sulla scacchiera. I bianchi da un lato, i neri dall’altro. I bianchi muovono per primi."
.
"Spesso si dice che le cose vanno come devono andare. Che seguono un'immateriale volontà superiore. Eppure questa è solo una parte della verità. Una pennellata, un ritocco sporadico nel complesso dipinto dell'universo; un piccolo aggiustamento strategico sulla scacchiera del mondo."
.
Crowley e Aziraphale fanno i conti con le loro scelte, mentre il mondo si prepara al Secondo Avvento.
Tentativo parecchio personale, e decisamente più drammatico, di proseguire la storia da dove si è interrotta, immaginando la trama di un'eventuale terza stagione.
[spoiler seconda stagione / tematiche delicate]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Parte IV

 

 

 

- Gennaio -

 

Le porte meccaniche dell’autobus scivolarono ai lati, lungo i cardini. Beth scese sul marciapiede, sotto un cielo plumbeo, ancora debolmente rischiarato dal crepuscolo.

Prese una boccata di aria gelida, pungente di smog, lieta di aver abbandonato il caldo soffocante che c’era all’interno del mezzo. Attraversò Charing Cross Road su gambe molli, come una sonnambula, mentre tentava di scrollarsi di dosso il torpore che l’aveva avvolta durante il tragitto. Doveva essersi appisolata, perché le sembrava di aver fatto un sogno.

Un sogno strano.

Tentò di riportarlo alla mente, ma più ci provava e più quello sfuggiva, lasciando dietro di sé solo una sensazione indefinita.

Ancora assorta, si strinse nella spessa sciarpa di lana e, lasciandosi trascinare dai piedi, si infilò nei vicoli illuminati di Soho. Catene di luci colorate giocavano nei riflessi delle pozzanghere che la pioggia aveva lasciato sul terreno. Ultimo, e alquanto tenace, residuo delle decorazioni delle festività ormai passate.

Svoltò in Whickber Street, mentre l’umidità le pizzicava la punta del naso; superò il pub e la libreria, puntando all’ingresso laccato di blu del Caffè. Aveva solo bisogno di riprendersi un po’, e poi magari sarebbe anche riuscita a studiare qualcosa, prima del lavoro.

Sapeva che, con tutta probabilità, si sarebbe solo seduta per un’ora a fissare libri e appunti, senza riuscire nemmeno a metterli a fuoco; ma pensarlo le diede la piacevole illusione di sentirsi organizzata, e di saper rendere produttivo il suo tempo.

Spinse la porta e la campanella tintinnò al suo ingresso. L’interno, fragrante di biscotti e caffè, era ancora abbastanza affollato dagli ultimi clienti tardivi di quel pomeriggio buio.

Come un naufrago alla vista della terraferma, Beth avanzò verso il bancone e vi si appoggiò, accennando un saluto. Dall’altro lato del piano, Nina ricambiò cordiale, senza smettere di asciugare delle tazze con uno strofinaccio.

«Latte macchiato, cannella, non troppo zucchero, molta schiuma. Ti porto anche qualcos’altro?» esordì, prima ancora che le fosse rivolta qualunque richiesta, cadenzando l’elenco con un movimento dello strofinaccio a mezz’aria.

Beth scosse la testa. «Oggi solo caffè, per favore. Meglio se doppio.»

Si stupiva ancora di come Nina riuscisse a ricordare – tra l’altro con sconvolgente precisione – gli ordini abituali di tutti quelli che varcavano la sua porta per più di un paio di volte.

La vide prelevare una delle tazze, dalla pila che aveva appena sistemato, e tendere sul viso un piccolo sorriso pratico, ma comprensivo. Uno di quelli che, di solito, avendo a che fare ogni giorno con dei clienti si matura per abitudine.

«E caffè doppio sia.»

Beth sfilò la lunga sciarpa dal collo, poi coprì uno sbadiglio con il dorso della mano.

«Dormito poco di nuovo?»

«Quasi per niente.» esalò, quasi abbandonandosi sul bancone, «Stamattina ho staccato tardi e poi avevo le lezioni. Se non mi riprendo, rischio di addormentarmi su un cliente.» scansò fiaccamente una ciocca di capelli dalla fronte, riflettendo sul fatto che, tutto sommato, qualcuno di loro nemmeno se ne sarebbe accorto se fosse accaduto. Ripose la sciarpa, arrotolandola malamente nella borsa. «Credo di essermi persino appisolata sull’autobus prima.» concluse, rimarcando la gravità della situazione; lei non dormiva mai sui mezzi pubblici.

Nina sollevò le sopracciglia in una smorfia sardonica, simulando un certo sconcerto. «Beh, data la situazione, ti darò anche un paio di Eccles Cake. Un po’ di zucchero a volte fa miracoli.»

Beth ridacchiò un ringraziamento e le porse le sterline, vagando già intorno con lo sguardo, nell’attesa, in cerca di un tavolino libero in cui sistemarsi.

Ma qualcosa, un’ombra nella coda dell’occhio, si allungò dal bordo della sua visuale; come inchiostro sciolto nell’acqua. Prese un respiro più profondo, a palpebre strette, lo stomaco chiuso da un senso di vuoto improvviso, maledicendo la stanchezza che iniziava a giocare brutti scherzi.

Durò solo un istante, e quando osservò di nuovo, non c’era nulla di strano; nessun’ombra, solo persone, sedie, tavolini e… poi lo notò.

L’uomo solitario.

Era proprio lui, seduto in fondo al locale, al suo solito posto.

Occhiali scuri, tinta accesa, giacca nera e tutto il resto. Se ne stava nel suo consueto silenzio, un gomito appuntito poggiato all’indietro sullo schienale, lo sguardo di vetro rivolto fuori, verso la strada. Quanti mesi erano passati dall’ultima volta che lo aveva visto? Tre, quattro? Non ricordava.

Si sporse sul bancone.

«Nina?»

«Mhm.»

«Quel tipo, è tornato.» bisbigliò, puntandolo appena con lo sguardo, «Se ne sta di nuovo lì, seduto nell’angolo.»

«Intendi Mr. Occhiali-da-sole

Beth annuì, continuando a sbirciare verso di lui. Nina inserì il filtro nella macchina del caffè, senza mostrarsi particolarmente impensierita.

«È qui da stamattina, in realtà. Non una parola, come al solito. Gli ho portato la sua tazza da sei espresso, anche se presumo che avrebbe preferito bere qualcosa di più forte.»

«Ma è sparito per mesi, e ora torna così, come se niente fosse. Non pensi che sia strano?»

Si rese conto che, prima di allora, non aveva mai prestato troppa attenzione alla cosa. Frequentava il Caffè solo da quando si era trasferita, ma, da che ricordava, lui era sempre stato lì; una presenza costante, quasi parte integrante dell’ambiente. E poi da un giorno all’altro, semplicemente, non più.

Era senza dubbio di un tipo stravagante, uno che non passa inosservato, eppure non si era mai chiesta dove fosse finito.

Nina le porse un piattino di Eccles Cake.

«Magari se n’è andato a fare un viaggio. Uno di quelli in cui parti per superare una rottura.”

Beth arricciò il labbro. Se così era, non sembrava aver superato gran che; pareva più qualcuno appena tornato da un funerale.

«Ma penso comunque che ogni cosa che abbia a che fare con lui sia strana, lo sai.», continuò Nina, riponendo sulla mensola un grosso barattolo di latta, «Con lui, e anche con la libreria qua di fronte.» indicò con la testa la direzione incriminata, con la stesso tono disinvolto di chi si lamenta dell’ovvietà del quotidiano; come di un vicino troppo rumoroso, o che non segue scrupolosamente la raccolta differenziata.

Del resto, le numerose stranezze che si accumulavano in quella strada erano familiari a tutti; parte della routine, qualcosa a cui non badare troppo.

O almeno così era stato fino a quel momento.

Perché ora, per la prima volta, Beth si ritrovò a pensare che ci fosse davvero qualcosa che non andava per il verso giusto. Anche se non riusciva a capire perché.

«Già, la libreria anche il vecchio proprietario, se n’è andato all’improvviso.», rammentò, «E la nuova ragazza che ci lavora: ti ricordi quando è venuta a prendere il tè, e poi è rimasta impalata come una bambola per più di mezz’ora a fissare la tazzina?» 

Nina ridacchiò. «A Londra non capita spesso di dover convincere qualcuno che il tè si beve.»  

Beth ignorò la battuta. Una consapevolezza nuova aveva iniziato a martellarle in testa; facendo riaffiorare alla memoria cose su cui, per qualche motivo, non si era mai soffermata.

«Non mi avevi anche raccontato di aver visto un fulmine colpire proprio quel tizio, qui davanti, nel mezzo della strada?» controllò di nuovo l’uomo nell’angolo, come se potesse vedere un altro fulmine attraversare la vetrina e prenderlo in pieno, giusto in quel momento.

Nina alzò le spalle. «Online ho letto che capita più spesso di quanto si creda.»

«Nel bel mezzo della città? Non è pieno di parafulmini, o cose del genere?» replicò, scettica.

Vide Nina estrarre la brocca di caffè dalla macchina e versare il liquido fumante nella tazza; una smorfia perplessa sul viso. «Sai, tesoro, sto cominciando a pensare che forse avrei dovuto prepararti una camomilla.»

Beth non rispose.

Di nuovo, quella sensazione l’aveva presa allo stomaco; un vuoto brusco, come quando si manca un gradino scendendo le scale. E il suo sguardo tornò all’uomo, immobile in modo quasi irreale. Le luci della strada riflesse sulle lenti scure degli occhiali.

Non sapeva molto di lui. Giusto l’evidenza e qualcosa che le avevano raccontato.

Sapeva il suo nome: Crowley – proprio come il Mr. Crowley di quella canzone. Sapeva che guidava un’auto d’epoca e che beveva fin troppo, caffè o alcol che fosse. E non era difficile intuire che doveva essere depresso.

Nina le aveva detto che prima girava sempre in compagnia del precedente libraio, Mr. Fell, che Beth aveva solo scorto di sfuggita un paio di volte. Entrambi, in qualche modo, avevano contribuito a far avvicinare lei e Maggie. Poi c’era stato una specie di strano incidente alla libreria, che né Nina, né Maggie, né Mrs. Sandwich – o nessun’altra delle persone presenti – erano mai riuscite a descrivere per bene. La mattina dopo, Mr. Fell se n’era andato, e la libreria era passata di gestione.

Non aveva molti altri dettagli, se non che i due, probabilmente, non dovevano essersi lasciati troppo bene. E da quel momento, Mr. Crowley era diventato l’uomo solitario che lei conosceva.

O meglio, che non conosceva.

Durante il giorno, di solito, se ne stava seduto nel Caffè a fissare la strada, la sera a volte si spostava al pub o nella sua auto, a bere. Beth lo aveva visto stare lì anche tutta la notte. Possibile che non avesse niente da cui valesse la pena tornare? Una famiglia, degli amici, una casa.

Una casa doveva pur avercela, rifletté, ma probabilmente preferiva non rimanerci.

“È una storia triste.” aveva detto a Nina, quando ne avevano parlato, e lei aveva assentito, senza approfondire, aggiungendo solo: “Ma del resto, chi non ne ha una?” e, al momento, quello era sembrato ad entrambe un ottimo modo per concludere l’argomento.

Talmente buono, in verità, che non lo avevano mai più ripreso. Neanche quando poi quel tipo era scomparso, e nessuno lo aveva più visto in giro.

Quella era una piccola strada, animata da una comunità abbastanza unita, per quanto fosse nel centro di una grande città, e qualcuno si sarebbe dovuto chiedere che fine avesse fatto una presenza così abituale. Almeno per assicurarsi che non si fosse buttato giù dal London Bridge.

Eppure, non ci avevano fatto caso. Nemmeno Nina o Maggie, che lo conoscevano. Neanche lei stessa, in realtà.

Beth pensò che fosse un fatto quantomeno insolito. Era come se le cose scivolassero intorno a quel Mr. Crowley, estranee alla sua esistenza e lui alla loro.

«Si raffredderà se non lo bevi.»

Nina le avvicinò la tazza di caffè, interrompendo quel flusso di pensieri. «Anche se forse ti servirebbe di più una bella dormita. Perché non chiedi a Mrs. Sandwich di lasciarti un po’ di respiro stasera?»

Beth scosse la testa, cercando di mascherare il disagio.

«Ma no, non-» e ancora quel vuoto, un singhiozzo doloroso in mezzo al petto. Rigirò la tazza fra le dita, riprendendo fiato, e iniziando a considerare che Nina probabilmente aveva ragione. Eppure non riusciva a smettere di pensare che qualcosa, in tutta quella faccenda, non andasse affatto; qualcosa che richiedeva la sua attenzione.

Magari la mancanza di sonno stava iniziando a farla impazzire.

Aveva visto una cosa del genere in un film, una volta: si iniziava con gli attacchi di panico, la paranoia, le allucinazioni e poi si finiva per piantare un coltello nel petto di qualcuno.

Bevve un sorso di caffè. Stranita da quella confusione improvvisa che gli stava affollando la testa. Nina la osservava, la fronte increspata oltre le sopracciglia sollevate; ora sembrava davvero preoccupata.

«Sicura di stare bene?» chiese.

Beth accennò un sorriso. «Si, si, è solo… solo un po’ di stanchezza, ma niente che non si possa gestire con della caffeina.» mentì, mostrando la tazza come prova inconfutabile che il problema fosse in via di risoluzione, «Adesso mi vado a sedere, bevo questo e mi riprendo. Non preoccuparti.» goffo tentativo, più di autoconvincimento che di altro. Ma non le sembrava il caso di allarmarla per quello che, di fatto, era il risultato della sua pessima gestione degli orari.

Al massimo, se fosse finita sul serio per accoltellare qualcuno, avrebbe potuto contare sull’infermità mentale. Già si vide ironicamente in prima pagina sui tabloid: “Follia da mancanza di sonno in un caffè a Soho.” e di fianco una sua foto narcolettica, con un coltellino da burro insanguinato svettante in una mano e la faccia affondata in una brioche.

Di fronte a lei, Nina sospirò, ignara delle sue bizzarre elucubrazioni. Non sembrava troppo convinta, ebbe tuttavia la gentilezza di non insistere oltre.

«Okay. Ma se dovessi aver bisogno di qualcosa, non farti problemi.»

Beth annuì, ringraziandola. Prese tazza e piattino e si allontanò incerta dal bancone, dirigendosi verso i tavolini.

Aveva fatto solo qualche passo, quando le sembrò che il brusio delle chiacchiere aumentasse, sovrastando ogni altro rumore; come se qualcuno avesse goffamente messo mano ad un mixer del volume. Tutte quelle parole gli si riversarono nella testa come un torrente, in un lungo istante di fastidio, che la portò a domandarsi di cosa, in effetti, avessero tanto da parlare quelle persone.

Isolata, nel fondo della piccola sala, la capigliatura rossa dell’unico individuo silenzioso spiccava fra una dozzina di altre teste.

Parlare, pensò Beth.

Non aveva mai visto nessuno parlare con lui, con quell’uomo solitario; neanche una volta. Per questo lo aveva soprannominato così. Eppure, non aveva veramente riflettuto sul significato; era così e basta, una qualità intrinseca, proprio come si dà per stabilito che l’acqua è bagnata e l’aria invisibile.

Quello era: una persona solitaria; che, in qualche modo, doveva esserlo per legge naturale.

Si chiese come fosse possibile una cosa del genere, mentre avanzava negli stretti spazi fra la gente seduta. Trovò un posto libero, ma non lo occupò, colpita dall’ennesima ondata di vuoto. Era sgradevole, eppure diverso da un tipico malessere o un attacco d’ansia. Era come… una mancanza.

Una mancanza insopportabile.

Stordita, indugiò in piedi un momento, di fronte alla sedia vuota. In qualche modo, le sembrò di sapere da dove provenisse quella sensazione. Non c’era nulla di logico, eppure, per la prima volta da quando era scesa dall’autobus, si sentì sicura di qualcosa.

Si voltò di nuovo verso l’angolo in fondo, e al tavolino con il suo unico occupante; e lì diresse i suoi passi.

«Posso sedermi?»

L’uomo sembrò non notarla subito; ci volle qualche secondo perché le si rivolgesse. L’immobilità infranta come un incantesimo. Lo vide corrugare la fronte al di sopra degli occhiali rotondi e incurvare le labbra, come se non avesse capito la domanda; ma prima che lei potesse ripetere, assentì piano con la testa.

Beth si accomodò, appoggiando davanti a sé tazza e piattino.

Trovò curioso come, nell’economia del turbine di strane sensazioni di quel pomeriggio, infastidire un quasi sconosciuto le sembrasse tanto naturale.

Lui la fissò da dietro le lenti, senza abbandonare il cipiglio confuso.

«Ci conosciamo?» chiese. La voce ruvida, laconica, ma non scortese.

Beth prese un sorso di caffè. «No, non proprio.» rivolse lo sguardo verso la strada, al di là del vetro, fra le luci calde dei negozi e le loro vetrine ingombre, che coloravano il freddo della sera; e le persone, che passeggiavano strette nei cappotti pesanti, incorniciate da sbuffi di respiri condensati.

«Però la vista è piacevole da qui, non è vero?»

Anche lui tornò ad osservare oltre il vetro, sospirando appena. «Si, immagino che sia così.»

Beth posò di nuovo la tazza. «Sono Beth, comunque. Lavoro qui vicino.» tese la mano, accennando un sorriso. Per qualche motivo, priva di qualunque imbarazzo.

Lui esitò un istante, poi ricambiò la stretta; inaspettatamente delicato, a discapito della sua apparenza burbera.

«Crowley.»

 

 

 

***

_______________________________

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:

Salve, salve.

Spendo giusto due parole, perché questo è il primo capitolo con un personaggio nuovo, uno tra quelli che ho ideato per questa storia. Spero non faccia troppo storcere il naso a chi non apprezza le new entry, ma sono convinta che ogni storia abbia bisogno dei suoi attori per esplorare strade interessanti (o anche depresse, nel come mio caso).

Con il prossimo capitolo, che sto scrivendo (giuro), si entra finalmente nel vivo della trama esaurita che sta prendendo forma nella mia testa bucata, quindi sono finite le cose introduttive e finalmente inizierà del movimento.

La canzone che cito è ovviamente Mr. Crowley di Ozzy Osbourne, ma insomma, non penso serva specificarlo. Aggiungo inoltre che mi piacciono gli indizi criptici, perciò prometto che qualunque cosa non chiara si trova lì per un motivo, e avrà senso prima o poi.

Detto questo, grazie davvero, per aver letto e per i feedback preziosi che mi sono arrivati. 🖤✨

 

   
 
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