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Autore: ThatXX    15/11/2023    3 recensioni
– Cosa dovrei fare adesso? – chiese lei con un filo di voce. Assurdo. Aveva appena domandato a un folle assassino, all’uomo la cui spada aveva trafitto il ragazzo col quale aveva fatto l’amore, a colui che l’aveva salvata sparandole un colpo in testa, ‘dio che razza di follia, che cosa avrebbe dovuto fare da quel momento in avanti. Si chiese se non potesse andare peggio di così.
– Cambia cognome, allontanati da qui e non ti avvicinare mai più all’Istituto né a quei ragazzi. Se ho fatto credere loro di averti uccisa è stato solo perché tuo padre desiderava questo –.
[Continuo di Crisantemo]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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- Ci vediamo tra tre giorni! Non preoccuparti, principessa di papà, andrà tutto bene! -.
 
L’espressione falsamente serena di Izashi si ritirava sullo sfondo man mano che la figlia veniva trascinata gentilmente via. Lei lo guardava con gli occhi grandi di paura, svelando il fallimento di suo padre di tranquillizzarla durante il tragitto verso quell’imponente villa, dimora del primo fra i più importanti clan del mondo dell’occulto: i Gojo. Per quanto la si guardasse sembrava impossibile catturarla interamente con uno sguardo.
 
Benché le sorridesse, il sorriso più ampio che fosse stato costretto a rivolgere a uno dei suoi figli, non così diverso da quello che ricordava di aver avuto stampato in faccia il giorno in cui Kasumi li aveva abbandonati, Izashi aveva l’inquietudine scavata tra le sopracciglia e sulla fronte. Avrebbe potuto non rivederla mai più e nell’ipotesi peggiore pensò di fissare indelebilmente nei ricordi, perché lo accompagnasse per il resto della vita, l’immagine di Ayame con in dosso il suo primo kimono, una primavera di fiori di pesco su uno sfondo verde acqua; l’ultima metaforica concessione caritatevole del capoclan dei Gojo prima di prenderla definitivamente con sé.
 
Era solo una remota possibilità, ne era ben consapevole. Sua figlia era “normale”, si diceva. Lo avvertiva in maniera quasi preternaturale. Lo aveva fatto presente persino a quel pomposo delegato del clan Gojo, quando una settimana addietro si era presentato in casa sua a rammentargli del loro vecchio accordo, ma questo non aveva prestato che uno sguardo affilato per starlo a sentire. Poi era passato a studiare sua figlia come una cavia da laboratorio.
 
Kasumi l’aveva venduta ai Gojo: soldi certi per una congettura. Ma ai Gojo non importava di perdere qualche migliaio di yen in quella scommessa. Quella “remota possibilità” era più che sufficiente perché sborsassero cifre da capogiro.
 
Tempo di trovare una scusa da rifilare alla famiglia perché Ayame dovesse restare tre giorni con degli estranei ed era già lì a salutarla con la mano; a confortare da lontano il suo viso spaurito con un tale sorrisone da dolergli i muscoli della faccia.
 
Sarebbe andata bene in ogni caso, continuava a dirsi; meglio ancora se fosse rimasta sotto la protezione dei Gojo. In questo modo, si sarebbe risparmiato la preoccupazione di mettersi a cercare qualcun altro che si occupasse di proteggerla. Era pronto a compiere qualsiasi sacrificio, a rinunciare addirittura alla sua adorata principessa pur di impedire a sua figlia di dare la propria vita in cambio della stabilità del mondo. E se il sangue di Ayame si fosse rivelato utile come molti speravano, e lui poteva dirsi incluso tra questi, lei sarebbe andata al futuro capo clan dei Gojo, nonché il ragazzino più temuto del mondo dell’occulto.
Se fosse veramente andato tutto a favore dei Gojo, Izashi pregava solo che quel ragazzino avesse cura di lei e che, una volta divenuto un uomo, l’amasse con tutto sé stesso.
 

 
Il delegato, così lo aveva chiamato papà, le lasciò la mano quando tra loro e la figura di Izashi vi era ormai una tale distanza per cui avrebbe potuto facilmente confondere suo padre con un una delle ombre nel fitto della foresta alle loro spalle. Era un uomo alto e snello, vestito di un abito tradizionale grigio ardesia, e serio in viso. I lunghi capelli dorati come grano maturo scendevano lungo la schiena quasi a fiorargli le natiche; somigliavano a sottilissimi raggi di sole estivo. La guardò con i suoi occhi di giada, occhi fieri e imperscrutabili, e lei si strinse di riflesso nelle spalle.
 
- Lo vedi quel tempio rosso? -. Il delegato si rivolse a lei con tono amichevole mentre puntava l’indice ossuto alla loro destra. Lei annuì svelta, dubbiosa se fidarsi dell’affabile apparenza e diffidare di quello sguardo glaciale.  
 
- Va’ a sederti su quelle scale e aspetta lì – disse sorridendo e la incoraggiò sospingendola garbatamente dalle spalle.
 
La bambina cominciò a camminare. Mandava avanti un piede dopo l’altro con la stessa insicurezza di quando da piccola aveva iniziato a muovere i primi passi, con gli applausi di papà e di Shoto ad incitarla in sottofondo, solo che adesso aveva sette anni ed era sola. Non si udiva altro che il vento primaverile bisbigliare tra gli alberi e il gorgoglio basso del ruscello, non proprio la stessa cosa delle risa e degli applausi dei suoi familiari.
 
Un pesce fece un piccolo balzo fuori dall’acqua e si rituffò. Ayame sussultò, il cuore parve rimpicciolirsi nel petto come conseguenza al terrore che intanto cresceva. Inciampò nei sandali nuovi di zecca e cadde lunga, distesa per terra. Da qualche parte si udì il rumore di uno strappo.
 
Si guardò frettolosamente attorno riscoprendosi sola e rimase lì, paralizzata nell’atto di farsi leva per rimettersi in piedi, con i gomiti puntati sul selciato e un velo di lacrime ad appannarle la visuale. Lottò per trattenere un pianto isterico poi si alzò, si sistemò fieramente il kimono sgualcito e lacerato chissà dove, molto lontana adesso dal sentirsi la principessa di quel castello. Per convincerla, suo padre le aveva raccontato che lì, da qualche parte in quell’enorme magione, un principe la stava aspettando. Le aveva detto che, se il suo sangue fosse stato come quello della mamma, se avesse avuto sangue reale, sarebbe diventata a tutti gli effetti una principessa, altro che “principessa di papà”. E poi, in futuro, sarebbe diventata una regina. E lei gli aveva creduto, anche solo per la cieca fiducia che un figlio nutre istintivamente per il proprio padre. Ma ora, misurando con lo sguardo la vastità di quella desolazione, Ayame stava quasi per rassegnarsi all’idea che suo padre le avesse mentito. Per quanto ne sapeva, poteva averla persino abbandonata come aveva fatto sua madre.
 
Riprese a camminare, singhiozzando questa volta. La fiaba di suo padre era prossima a trasformarsi in un incubo a cominciare da quel cortile deserto, il silenzio insopportabilmente tetro, e quel sinistro tempio rosso scarlatto, rosso come il suo sangue, un sangue che poteva essere regale come quello di sua madre se solo la bugia di suo padre fosse stata vera; un sogno che era prossimo a ribaltarsi nel peggiore degli scenari se non fosse stato per un paio di occhi tanto azzurri da fare invidia al più sereno dei cieli.
 
Scoprì che la guardavano dalle scale di quel piccolo tempio vermiglio e lei li guardò di rimando con aria perplessa, chiedendosi come avesse fatto a non notarli o come fossero d’improvviso comparsi dal nulla. Alla prima occhiata le sue labbra si mossero meccanicamente; si schiusero per poi bisbigliare al vento, così piano che la sua consapevolezza se ne accorse a malapena: - è il mio principe – aveva detto. Poi smise di colpo di piangere.
 
Aveva i capelli corti, ciuffi di neve dalle sfumature perlate, bianchissimi e fitti, proprio come le ciglia e le sopracciglia. Indossava uno yukata bianco a righe celestine e una cintura dorata. Dal modo in cui sedeva sugli scalini sembrava annoiato.
 
- Tu devi essere il mio principe – asserì lei avvicinandosi, schietta come solo un bambino sapeva essere. Poi si asciugò il naso con la manica del kimono senza accorgersi di averlo fatto.
 
Il ragazzino fece una smorfia confusa, quasi di antipatia verso quella spontaneità. Nessuno, né all’interno delle mura di casa né nel mondo esterno, si era mai rivolto a lui in quel modo così coraggiosamente sincero. Estraneo a come reagire a quella situazione del tutto nuova rispose com’era solito fare. – Non dire cavolate – ribatté ostile.
 
La piccola Ayame scoppiò a ridere e il ragazzino sbatté le palpebre turbato e insieme sorpreso di quella reazione. Quando l’aveva vista piangere, Satoru aveva trovato la sua debolezza nauseante. Adesso, invece, era cambiata, o forse era cambiata la prospettiva con cui la stava giudicando. Non era debole ma delicata, come un fiore che a fine inverno torna a sbocciare e che ad ogni nuovo inverno perisce, ma solo temporaneamente. Era come se le stagioni si alternassero sul suo viso al mutare del suo umore.
 
- Sei un principe un po’ antipatico – commentò scherzosamente mentre la risata si esauriva sulle ultime sillabe.
 
Satoru grugnì e rinunciò a controbattere. Distolse lo sguardo ma con la coda dell’occhio notò la ragazzina sedersi accanto a lui. Allora, la punta di un esile dito picchiettò sulla sua spalla. – Come ti chiami? -.
 
Satoru fece un verso di fastidio ma non si volse a guardarla. – Non te lo dico – replicò con voce incolore.
 
Sapeva diverse cose su quella ragazzina, alcune delle quali le aveva carpite origliando una conversazione in segreto tra suo padre, sua madre e Yula, la vecchia speziale di famiglia. Aveva sentito dire che grazie al sangue di quella bambina, premesso che fosse appartenuto allo stesso clan della madre, il clan Gojo avrebbe goduto di un prestigio senza precedenti, arrivando addirittura a ottenere l’egemonia sull’intero mondo dell’occulto. Aveva sentito dire che, nel caso si fosse rivelata discendente diretta di quel clan, lui avrebbe dovuto sposarla quando fosse arrivato il momento. “Col cavolo!” si era detto, e “che schifo!” aveva esclamato poi. A quel punto, stufo di origliare i discorsi assurdi dei suoi e sdegnato della loro pretesa di controllare la sua vita con la scusa idiota della “legittimità parentale”, era andato a lanciare sassi nel ruscello per spaventare i pesci.
 
- Allora ti chiamerò Principe, perché è quello che sei – insisté Ayame. Lui le gettò addosso i suoi occhi fiammanti con l’intenzione di intimorirla ma il gesto suscitò l’effetto contrario. Sulle prime la ragazzina non si scompose, poi ridacchiò timidamente portandosi la mano alle labbra.
 
Satoru mise il broncio. – Non farmi arrabbiare. Devi avere paura di me, lo sai? Tutti hanno paura di me perché sono il più forte -.
 
- Se dici così vuol dire che sono fortunata. Ho un principe che può proteggermi -.
 
- Non sono il tuo principe! – sbottò lui.
 
Lei sussultò appena e un attimo dopo lo guardò con espressione ferita. – Perché no? È colpa del mio vestito strappato? – chiese e con gli occhi si mise alla ricerca dello strappo. Questi vagarono per molto senza trovare nulla, tanto che Ayame cominciò a sospettare di averlo soltanto immaginato, quando con un verso di rassegnazione Satoru le afferrò svogliatamente il braccio e lo sollevò rivelando uno squarcio sotto l’ascella sinistra.
 
- È qui – borbottò scocciato.
 
Lei lo guardò radiosa. Forse nemmeno aveva fatto caso allo strappo, tanto era presa a fissare quel ragazzino dai colori fiabeschi. I suoi occhi esprimevano una gratitudine che Satoru non aveva mai visto rivolgersi prima di quel momento.
 
La replica spontanea a quel modo sgradevolmente gentile di guardarlo fu: - che c’è? – e aggrottò le sopracciglia candide.
 
- Quindi fai solo finta di essere antipatico, in realtà sei gentile – affermò lei e un borbottio infastidito proruppe in risposta.
 
Sei tu che sei stupida, pensò ma non volle dirglielo. Qualcosa in lui aveva costretto quelle parole alla ritirata: uno strano e indubbiamente insolito senso di colpa che gli aveva attraversato la mente al pensiero di ferirla.
 
- E adesso come faccio? Con questo vestito strappato non posso più essere una principessa – si lagnò Ayame. – E se tu non vuoi essere il mio principe per colpa di questo vestito… -.
 
Un sonoro sbuffo la interruppe. – D’accordo, va bene, sarò il tuo principe. Contenta? –.
 
 


 

Satoru si rigirava il fermaglio tra le mani: le gemme incastonate al centro dei fiori in rilievo scintillavano alla luce artificiale della torcia. Era lo stesso fermaglio che aveva pensato di regalare a quella bambina per rinfrancarla del vestito strappato, perché potesse lo stesso continuare a sentirsi una principessa. Ne aveva rubato uno dalla camera di sua madre, ne aveva così tanti che non si sarebbe mai accorta di quel piccolo furto, ma non si era limitato a pescarne uno alla cieca. Li aveva presi tutti, li aveva disposti per terra in file da sei e li aveva studiati uno ad uno con meticolosa attenzione. Alla fine, la scelta era ricaduta sul fermaglio con i fiori di pesco in rilievo: gli stessi fiori del suo bellissimo kimono lacerato.
 
Per un po’ lei lo aveva indossato tra i capelli. Il suo viso intristiva quando Yula la forzava a rimetterlo nel cofanetto di legno, poi lo vedeva contorcersi di disgusto quando Yula le faceva bere le sue droghe liquide, un istante prima di farla distendere sul lettino. A quel punto, entrava in uno stato di sospensione psicofisica e la sua pelle candida diventava olivastra costellandosi di grosse perle di sudore. E l’esperimento cominciava.
 
- Satoru? Va tutto bene? -.
 
Ayame era comparsa alle sue spalle. Aveva parlato così piano che lui l’aveva udita appena, e chissà quante altre volte lo aveva chiamato prima di rendersene conto. Si scusò con voce fievole e ripose il fermaglio nella scatola di legno.
 
- Non ti vedevo tornare e mi sono preoccupata -. Si avvicinò a lui, quasi incorporea per la leggerezza del passo, e adagiò la fronte al centro della sua schiena. Tremava, travolta un inspiegabile senso di terrore. – Non farlo più – mormorò.
 
Quando l’esperimento cominciava, Yula gli faceva indossare la benda. Talvolta gliela stringeva così forte da procurargli un’emicrania. Poi gli porgeva una ciotola di legno per fargli bere l’intruglio tutto d’un fiato.
Restava lì per ore, a cercare di scorgere nella fitta oscurità una traccia di lei, anche solo un microscopico puntino di luce o un baluginio, ma lei sembrava vuota come una bambola di porcellana; completamente priva di energia malefica. Allora, Yula continuava a drogarla. Ancora e ancora.
 
- Possiamo andarcene adesso? Questo posto mi mette i brividi -.
 
- Sì – rispose lui serrando la mascella. Guardò quel letto e il cofanetto di legno un’ultima volta, adesso con una furia nello sguardo che da solo sarebbe bastato a rischiarare il buio della stanza. Fiamme azzurre divampavano nei suoi occhi.
 
Uscirono dal tempio. Ayame era ancora lì che tremava contro di lui mentre Satoru le cingeva il fianco con il braccio. Si portarono a debita distanza, poi Satoru la esortò a ripararsi dietro di lui e Ayame lo fece senza chiedere spiegazioni. Tese il braccio: le vene correvano gonfie sottopelle, alimentate da una collera che stentava a tenere a bada.
 
Alle due di notte del secondo giorno di esperimenti, Ayame era morta per tre minuti. Lui aveva gridato quando aveva capito dall’urgenza nella voce di Yula che qualcosa era andato storto e a quel punto si era strappato via la benda. Aveva colpito Yula quasi mortalmente, colto da un improvviso furore, e suo padre lo aveva schiaffeggiato.
Quando Ayame aveva ripreso a respirare il suo corpo traboccava di energia malefica. Erano state le droghe di Yula a risvegliarla, ma con dispiacere dell’intera casata dei Gojo, meno che per Satoru, l’energia malefica che si era sprigionata era quella di una senza poteri. E alla fine niente più matrimonio, niente più principessa, niente più fermaglio e nessun ricordo dell’accaduto.
 
- Chiudi gli occhi – le suggerì Satoru. Ayame si fidò di lui e serrò le palpebre aggrappandosi istintivamente all’altro braccio dello stregone, steso lungo il fianco. Una sfera di luce si schiantò contro il tempio rosso scarlatto con una violenza esplosiva. Ci fu un boato assordante e di quel tempio non rimase altro che polvere.


 
Salve a tutti! Scusate il ritardo e (sinceramente) scusate il contenuto. Sono sempre più convinta che questa storia sia da finire al più presto possibile perché sto esaurendo le energie, eppure di idee da scrivere ne ho ancora veramente tante. Perciò, fatemi sapere se effettivamente ne sta valendo la pena o se è il caso di darci un taglio xD
Più che altro sto esaurendo il repertorio delle parole e non so più come esprimere concetti senza ricorrere a cose già usate. Quindi, alla fine, mi innervosisco e comincio a scrivere un po' a cavolo di cane perché non voglio passare ore o giorni su una stessa frase. Insomma, sono una disastro. Ma da una che non è mai riuscita a finire una storia in 16 anni neppure io mio aspetterei chissà che. 
Comunque, vorrei spendere due parole per questo capitolo. La spiegazione sul passato di Ayame non finisce qui, chiaramente. Anche perché ancora non è stato detto a quale clan apparteneva sua madre così interessante da attirare persino l'attenzione dei Gojo. Non ho voluto neanche specificare perché i Gojo fossero interessati a lei. Cioè, sì, per consentire al clan di ottenere l'egemonia sul mondo dell'oculto, ma come? Questo è per la prossima puntata xD
Mi sono divertita a scrivere quelle poche battute tra Ayame e Gojo da piccoli. Spero si siano notati i richiami con il presente (i fiori, le botte e risposte, lei che vede in lui qualcosa che nessuno, tantomeno lui, vede, eccetera). 
E niente, credo di aver esaurito anche le parole per le note d'autrice... mamma mia che disastro.
Spero vi sia piaciuto. Spero che la storia non vi stia annoiando. Spero che la mia scrittura vi stia ancora piacendo. Spero che ciò che scrivo vi stia ancora emozionando. 
Sinceramente, se questo non dovesse accadere più non sentirei più la necessità di scrivere. 
Ringrazio coloro che lasceranno una recensione. 
E grazie anche a chi resta nonostante tutto.
Alla prossima!

 
   
 
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