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Autore: Adeia Di Elferas    17/11/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Antonio Giustinian cominciava a trovare l'aria di Roma irrespirabile. A disgustarlo non erano tanto i miasmi delle stradine anguste della città, né il mangiare colmo di spezie nauseanti che servivano in Vaticano e nemmeno gli afrori insopportabili delle meretrici che cercavano invano di ridividersi influenze e mercati tra i Cardinali che ancora non avevano lasciato l'Urbe.

Ciò che più lo indisponeva era l'essere bersaglio continuo delle richieste di chicchessia. Oltre al Cardinale Sansoni Riario, che non perdeva mezza occasione per ricordargli più o meno velatamente di perorare la causa dei cugini presso il Doge, ora ci si era messo anche Bartolomeo d'Alviano.

Condottiero corteggiato da tempo dai francesi, per motivi suoi personali l'Alviano sembrava invece desideroso di ottenere dalla Serenissima la licenza della propria compagnia, al fine, sosteneva, di adoperarla per combattere il Valentino. Siccome, a causa di una vecchia ferita alla lingua, Bartolomeo parlava male, quella mattina, di buon'ora, gli aveva addirittura consegnato una lettera autografa, sperando che con la penna potesse convincerlo di più che con qualche balbettio tronco.

Cosa avesse di preciso l'Alviano contro il Borja – che ormai sembrava a tutti solo lo spettro di quello che era stato con Alessandro VI in vita – Giustinian non lo sapeva, né voleva saperlo, ma quella determinazione così forte un po' lo impensieriva.

Un uomo come quel guerriero non dava l'impressione di potersi ossessionare con qualcuno per motivi futili. Se la sua intenzione era quella di distruggere un già decaduto Duca Valentino, sotto doveva esserci qualcosa che al veneziano al momento sfuggiva...

In ogni caso, più o meno volontariamente, con la sua lettera l'Alviano aveva rivelato un paio di notizie importanti a Giustinian. Prima di tutto, il condottiero sosteneva che non solo i francesi lo avevano cercato, ma anche i fiorentini, che addirittura gli avevano proposto di diventare il loro Capitano, ma lui, determinato nel suo fermo proposito di opporsi al Duca Valentino e basta, non aveva nemmeno dato risposta alla loro richiesta.

Aveva anche detto che la Tigre di Forlì, benché fosse al momento senza esercito e rinchiusa in una villa di campagna, smaniasse per tornare in battaglia e che fosse pronta a entrare nella lega opposta alla famiglia Borja e aveva offerto a Bartolomeo grandi somme in cambio del suo appoggio militare, ma anche in questo caso l'uomo aveva declinato, ma stavolta non perché contrario alle idee della Leonessa, ma perchè sicuro che una belva della sua risma l'avrebbe poi costretto ad aiutarlo anche a riconquistare i suoi Stati, dopo aver distrutto il Valentino.

L'Alviano sembrava avere le idee molto chiare su tutto, mentre Giustinian a tratti faceva fatica a capire il caos che lo circondava. Dall'essere uno dei tanti diplomatici dell'Urbe, si era ritrovato dal Conclave in poi, a essere una delle giacche più tirate a destra e a manca da tutti, sempre impegnato ad ascoltare suppliche e minacce, richieste di intercessione e ultimatum fondati sul nulla. Lui a tratti aveva la sensazione di annegare, al contrario di molti prelati e gentiluomini romani, che, invece, nella confusione ci sguazzavano.

La confusione, a conti fatti, era l'unica cosa con cui tutti dovevano avere a che fare, in quei giorni, a Roma. I francesi avevano spostato il campo un po' più lontano dalla città e i portavoce di Cesare Borja facevano la spola tra il campo e le stanze del papa continuando ad avanzare nuove pretese.

Da Roma a Nepi e da Nepi a Roma, gli uomini del Valentino veicolavano richieste riguardanti il loro padrone, chiedendo al pontefice di aiutarlo, di concedergli denaro, o uomini, o potere o qualsiasi altra cosa servisse per farlo tornare in auge. Pio III, però, coerente con le sue prime decisioni a riguardo, per il momento aveva solo concesso qualche breve con cui tutelava tiepidamente almeno la salute fisica del Duca.

Il pontefice aveva mal sopportato il passaggio di alcuni soldati francesi a Roma, e aveva soprasseduto all'ingrossamento delle loro file per merito di duecento uomini inviati dal Duca di Valentinois – che ne aveva arruolati altrettanti per se stesso – e aveva anche evitato scontri diplomatici con gli spagnoli, che si stavano avvicinando all'Urbe in un modo che si sarebbe potuto definire minaccioso. Eppure, secondo Giustian, Pio III, malmesso con la salute e strattonato a destra e a manca dagli uomini che vivevano in Vaticano, presto avrebbe concesso almeno il salvacondotto al Borja per rientrare in città in tutta sicurezza.

Il motivo, logico secondo il veneziano, era molto poco da cristiano e molto da statista. Il papa conosceva bene lo stato di salute di Cesare e confidava, probabilmente, che morisse in Roma, in modo che fosse più semplice sottrargli gli averi che portava con sé, gli stessi tesori che aveva salvato alla morte di Alessandro VI. Non si trattava di avidità, ma di semplice capacità di calcolo, in fondo. I Borja aveva creato enormi buchi di bilancio e avevano combinato ogni sorta di maneggio, mentre erano al potere: appropriarsi di qualche catena d'oro e qualche anello avrebbe solo permesso a Pio III di andare a chiudere qualche buco e far dimenticare qualche maneggio.

Il pontefice, purtroppo, era infastidito come non mai dalla questione borgiana. Non passava giorno, inoltre, che non si presentasse qualcuno in Vaticano a chiedere che 'venisse fatta giustizia' per qualche malefatta di Alessandro VI.

Un esempio per tutti era Annibale Bentivoglio, arrivato a Roma da qualche giorno. Non perdeva occasione per cercare un contatto con il papa per chiedergli che alla sua famiglia venisse restituito Castel Bolognese, che era stato preso con la forza dal Valentino. Era un problema enorme, per Pio III decidere se cedere o meno a pretese come quelle.

Giustinian era assorto ancora nei suoi pensieri, valutando ora questa ora quella situazione politica, e, quasi senza accorgersene, era arrivato in un punto dei giardini vaticani che conosceva poco. Non vedeva nessuno all'orizzonte, probabilmente perché iniziava a far buio. Per essere solo l'inizio di ottobre, la sera scendeva veramente presto.

Guardandosi attorno con crescente ansia, il veneziano si sentì uno stupido a provare quell'atavica paura e si diede da solo dello sciocco nello scoprirsi aumentare il passo nella speranza di ritrovare presto una via nota.

Quando sentì dei passi, dapprima ebbe la reazione di scappare, ma poi capì che gli uomini erano due e che conosceva entrambe le loro voci. Cercò di seguirne le tracce e quando li intravide, fu sul punto di palesarsi e unirsi a loro con qualche scusa, affinché lo aiutassero a tornare da dove era arrivato.

Uno era il Cardinale Ascanio Sforza e l'altro il Cardinale Raffaele Sansoni Riario. Il tono della voce di entrambi era concitato, ma parlavano a voce tanto bassa da rendere difficile capire cosa si stessero dicendo.

Con cautela, riprendendo il suo consueto autocontrollo, l'oratore veneziano si avvicinò poco per volta, restando nascosto dalla vegetazione, e si fermò non appena riuscì a capire meglio qualche parola.

Era evidente che i due stessero discutendo della Tigre di Forlì e dei suoi figli. Se da un lato lo Sforza insisteva sull'importanza di collegare il ritorno in Romagna della Leonessa con il ritorno degli Sforza a Milano, dall'altro Raffaele premeva affinché anche i Della Rovere venissero favoriti da quella situazione.

“Giuliano è l'uomo giusto.” convenne a un certo punto Ascanio, anche se da come lo diceva, doveva essergli costato molto ammettere una simile verità: “Se i voti confluissero su di lui, sistemerebbe tutti noi.”

“Questo è il concetto che va fatto passare.” assicurò il Sansoni Riario: “Il papa non vivrà ancora molto, e tra qualche mese, un anno, al massimo due, vorrei essere sicuro che noi tutti, che siamo tutti parenti, ci muoveremo come un'unica persona.”

“Sappiamo cosa fare.” sospirò lo Sforza.

Il discorso sembrava chiuso, ma Giustinian restò un momento ancora in ascolto. Mentre iniziavano a camminare più svelti e a parlare di nuovo a voce alta, i due porporati si permisero di abbandonarsi anche a qualche nota frivola.

“Ma è vero che Sancia d'Aragona adesso è a Napoli, dal suo amante Prospero Colonna, a prendersi cura del piccolo Rodrigo?” chiese Ascanio, curioso.

Quell'accenno a Rodrigo d'Aragona, figlio di Lucrecia Borja e del defunto Alfonso d'Aragona, fece accigliare l'oratore veneziano.

“Sì, dicono che la stessa Lucrecia sia d'accordo e si fidi di lei... In effetti anche io mi fiderei più di quella donna, benché sia un'adultera, che non dei miei fratelli, se uno di loro avesse fatto uccidere il padre del bambino...” commentò Raffaele.

Tutti sapevano, in Vaticano, che era stato Cesare Borja a volere morto Alfonso d'Aragona, ma era stato vietato anche solo accennarlo velatamente, quando Alessandro VI era ancora vivo.

Evidentemente non era più un divieto così severo, pensò Antonio Giustinian, rimettendosi a camminare per seguire le voci che ancora spettegolavano, per non perdersi di nuovo nei giardini.

 

Quando Semiramide Appiani era giunta alla villa di Castello, come da accordi, aveva trovato sia Caterina sia Fortunati ad accoglierla. Per espresso ordine della padrona di casa, Galeazzo, Sforzino e Bernardino non avevano portato i loro omaggi all'ospite. Al massimo, aveva deciso Caterina, se l'incontro fosse stato positivo, l'avrebbero salutata al momento della partenza.

Francesco, che conosceva l'Appiani da più tempo, l'aveva salutata con un certo calore, mentre la Tigre, che in quei giorni ancora si sentiva più stanca e nervosa del solito, era stata gentile, ma non troppo espansiva. Malgrado fosse stata lei stessa a volere la visita della cognata, in modo da farle conoscere Giovannino, non riusciva a non credere che fosse un errore fraternizzare troppo con lei.

Anche se l'Appiani – così le avevano sempre detto – non si era mai schierata apertamente contro di lei, restava pur sempre la vedova di Lorenzo il Popolano che, tra tutti i fiorentini, era stato quello che l'aveva osteggiata di più.

“Vostro figlio Pierfrancesco sta bene?” chiese, comunque, la Tigre, mentre faceva strada alla cognata.

La donna, annuendo, non capì se quella domanda fosse di reale cortesia o se fosse un modo come un altro per metterla in difficoltà. Dato che la Leonessa era per certo in contatto coi Salviati, che vivevano in città come lei, doveva aver sentito qualche chiacchiera su Pierfrancesco. Non era un cattivo ragazzo, ma tra la morte del padre, le nuove difficoltà economiche e le turbolenze politiche fiorentine, stava un po' perdendo la bussola, e Semiramide faceva fatica a capire come raddrizzare la barra. Per essere sinceri, a volte passava la notte insonne chiedendosi come fare per riavere il figlio docile e intelligente che aveva avuto un tempo. L'adolescente scontroso e agitato che si trovava in casa per lei stava diventando sempre di più uno sconosciuto...

Così, lasciato passare qualche secondo di silenzio, dopo che la Sforza ebbe congedato il piovano di Cascina, facendogli presente che preferiva essere da sola con la cognata, quando avessero raggiunto la stanza del bambino, l'Appiani si fece coraggio e provò a dire: “A riguardo di mio figlio Pierfrancesco... Sta passando un momento molto complicato, lo potete immaginare. E io...” scosse il capo, cercando le parole migliori: “Voi che avete molti figli maschi, forse potete darmi qualche consiglio.”

Caterina, che non si era affatto aspettata una risvolto simile, sollevò le sopracciglia, fermandosi proprio davanti alla porta della stanza di Giovannino: “Ho molti figli maschi, questo è vero.” le concesse: “Ma credo che a nessuno, in tutta Italia, verrebbe in mente di chiedere consigli proprio a me... Credevo che la mia sceneggiata davanti agli Orsi fosse di dominio pubblico anche ben fuori dai confini romagnoli...”

In effetti anche Semiramide aveva sentito parlare di quando Caterina, assediata dagli Orsi, traditori e assassini di Girolamo Riario, avesse mostrato a tutta la città le pudenda dichiarandosi pronta a vedere i figli uccisi, avendo il necessario per farne altri. Lorenzo, quando ancora gli sembrava di poter distogliere Giovanni dal suo amore per la Leonessa, citava spesso quell'accaduto per porre l'accento sulla totale mancanza di umanità e sulla follia della Sforza.

“Avete fatto quel che avete fatto – concesse Semiramide – ma i vostri figli sono sopravvissuti e vi stanno dando grandi soddisfazioni.”

La Tigre abbassò lo sguardo: “Ho mandato mio figlio Ottaviano in Emilia da mesi al solo fine di non averci a che fare. Mio figlio Cesare è Amministratore Apostolico a Pisa, questo ve lo concedo, ma posso dire di non avere a che fare con lui da anni, se non per motivi diplomatici o comunque di ordine pratico. Sforzino è molto studioso, ma non riesco a capire che tipo di futuro lo possa aspettare, tra queste quattro mura, a continuare a rileggere la solita dozzina di tomi... Mio figlio Bernardino... Lui è un ragazzino intelligente e svelto, ma ha ereditato da me l'incapacità di dominarsi appieno e questo rende molto difficile tenerlo a bada.” dopo un attimo di esitazione, la donna continuò: “In compenso mio figlio Galeazzo mi sta dimostrando di poter essere un uomo di valore. E mia figlia Bianca ha fatto un matrimonio che per il momento sembra ottimo. Di loro, quindi, non posso lamentarmi.”

“Vostra figlia ha sposato il De Rossi di Parma, giusto?” chiese Semiramide, curiosa, ma con gli occhi fissi alla porta, desiderosa di vedere il prima possibile Giovannino.

“Il De Rossi di San Secondo, sì.” rispose la Tigre e, con un sospiro, volle precisare: “Quell'uomo è molto più vecchio di lei, la sua nobiltà è ancora a rischio e le sue terre sono tumultuose. Mia figlia, però, è felice, con lui. Credo che sia l'unica cosa che conti davvero. Non potevo sperare di meglio, per lei.”

“Avete ragione.” convenne l'Appiani.

Lei stessa ricordava quanto era stata felice, con Lorenzo, all'inizio della loro unione. Avevano pochi soldi, molti problemi e poche certezze, ma il loro legame era sufficiente a rendere ogni loro giorno speciale. Con gli anni, poi, avevano recuperato ricchezze e denaro, ma il loro amore si era logorato, diventando una prigione...

“E di Giovannino cosa mi dire?” chiese la fiorentina, sperando, in quel modo, di interrompere le chiacchiere e vedersi presentare il nipote.

“Lui è un bambino eccezionale. È intelligente e pieno di vita, anche se...” la Tigre si trattenne, prima di dire che temeva che il suo ultimogenito avesse preso da lei il temperamento e il carattere, prendendo dal padre solo il cognome e i capelli smossi da tanti riccioli fini e morbidi.

“Anche se..?” la incalzò l'altra, improvvisamente preoccupata che potesse esserci qualcosa che non andasse nel nipote.

“Ha passato molto tempo in convento con le suore... Anche se all'inizio con lui c'era mia figlia, non è stato facile... Ha un carattere deciso, e non poter giocare normalmente come gli altri suoi coetanei, forse l'ha fatto soffrire...” provò a dire Caterina, ma poi, non trovando altre cose da aggiungere, aprì la porta e si rivolse alla balia che l'aspettava, con Pier Maria in braccio, e Giovannino seduto in terra davanti a sé intento a far combattere due soldatini di legno: “Lasciaci pure sole con il piccolo...”

Lo sguardo di Semiramide si puntò subito sul bambino che, per i suoi cinque anni e mezzo, le sembrava molto alto e dallo sguardo molto sveglio. Il Medici era stato avvisato che quel giorno avrebbe conosciuto sua zia.La notizia all'inizio lo aveva confuso, perché nella sua mente l'unica altra donna, a parte la madre, che contasse per lui si chiamava Bianca e viveva lontana.

Caterina si schiarì la voce e presentò i due, pregando il figlio di avvicinarsi e salutare. Il piccolo, un po' guardingo, con un occhio sempre alla madre, fece un breve inchino molto rigido, il genere di gesti che aveva imparato da Galeazzo, e poi restò in attesa, cercando di capire cosa quella visita potesse significare per lui.

Semiramide, di contro, lo stava passando al setaccio. Aveva gli stessi capelli di Giovanni, e lo stesso identico taglio degli occhi, anche se quelli del bambino erano molto scuri, a differenza di quelli del Popolano, che erano stati verdi e chiari come l'acqua. Aveva labbra simili a quelle del padre, e c'era qualcosa, nel suo modo di stare in piedi che ricordava molto il fiorentino. Di contro, l'impianto robusto del suo fisico e, soprattutto, il suo naso dritto e imponente, non potevano far ignorare il fatto che la Tigre di Forlì fosse sua madre.

L'Appiani stava per esprimere il suo giudizio, lodando la bellezza del nipote, quando un dettaglio la attirò e le fece morire la voce in gola per la commozione.

Chinandosi un po', istintivamente, afferrò le mani del nipote con le sue, cogliendolo così di sorpresa da vanificarne ogni tentativo di sgusciare via dalla sua presa, e, con gli occhi che pizzicavano, esclamò: “Ha le stesse mani di Lorenzo!”

La Leonessa abbassò a sua volta lo sguardo, accigliandosi. Si era chiesta tante volte da chi suo figlio avesse ereditato delle mani così forti, ma dalle dita abbastanza corte. Anche se aveva avuto modo di vedere quelle di Lorenzo e di fare un paragone mentale con quelle di Giovannino, si era sempre rifiutata di fare quel genere di collegamento. Ora, però, davanti alle parole di Semiramide doveva arrendersi all'evidenza.

“Era pur sempre suo zio.” sussurrò, rendendosi conto forse per la prima volta di quanto in effetti fosse stretto il legame di sangue tra il suo ultimogenito e quell'uomo ostinato che l'aveva perseguitata senza motivo per anni.

Non appena l'Appiani lasciò le mani del piccolo Medici, questi, quasi spaventato, si avvicinò alla madre, fino a nascondersi, quasi, dietro le sue sottane. In altri momento, la Sforza avrebbe ripreso un comportamento del genere, ma in quel momento era troppo presa a fare i conti con se stessa per pensare a cosa faceva suo figlio.

Semiramide, comunque, non parve molto infastidita dalla mezza fuga del nipote, e, anzi, cominci a parlare molto più disinvoltamente, ignorando le lacrime che, di quando in quando, si riaffacciavano tra le palpebre.

Tutto sommato, lei e la cognata riuscirono a trascorrere un paio d'ore serene, parlando di Giovannino – che, con l'andare dei minuti, si era calmato, lasciando le sottane della madre e tornando a giocare per conto suo – e del presente, evitando, volutamente, di citare il passato che le aveva viste, volenti o nolenti, contrapposte.

Quando ormai stava scendendo la sera, Semiramide si disse soddisfatta della visita e si preparò a congedarsi. Caterina, allora, decise che fosse il momento di farla salutare anche da Galeazzo, Sforzino a Bernardino e così li mandò a chiamare.

Non erano ancora arrivati, però, quando Fortunati la raggiunse, sussurrandole all'orecchio: “Hanno appena portato una lettera del tuo amico, Clechi, da Roma...” e, così dicendo, le fece scivolare in mano la missiva.

“Perdonatemi – fece subito la Sforza, rivolgendosi all'Appiani e poi al piovano – devo lasciarvi prima del tempo, ma vi lascio Francesco... Per favore, aspetta tu i miei figli e assicurati che la nostra ospite non lasci a mani vuote questa casa... Nelle cucine credo ci siano un paio di salami pronti da tagliare. Falle portare quelli...”

“Non c'è bisogno...” si affrettò a dire la fiorentina, che, però, era rimasta incuriosita soprattutto dal tono colloquiale usato dalla Leonessa nel parlare a Fortunati e, soprattutto, nella naturalezza con cui gli aveva dato dal tu.

“Abbiamo poco, ma non voglio che gli ospiti se ne vadano potendo dire che in casa di una Sforza non hanno trovato accoglienza.” tagliò corto la Tigre e poi si congedò una volta per tutte, stringendo la lettera di Giovan Francesco Clechi con ancor più forza.

Veloce come il vento, Caterina quasi corse fino in camera sua e poi si sedette sul letto, pronta a leggere le parole del suo informatore. Conosceva abbastanza Fortunati da sapere che non avrebbe interrotto il suo incontro con Semiramide se non si fosse trattato di notizie interessanti.

La lettera era già stata aperta, ma la Sforza non si arrabbiò con il piovano. Ciò che le premeva era che non cacciasse il naso nella sua corrispondenza privata: le lettere di Clechi, ormai, erano ben note anche al fiorentino da tempo, dunque non c'era motivo di far grandi misteri.

Tenendosi una mano sul collo, quasi a volersi tranquillizzare da sola, la donna spiegò con calma il foglio e iniziò a leggere. Gian Francesco le riassumeva con grande minuzia i maneggi dei prelati di Roma, ponendo l'accento su quelli a lei più favorevoli, sbilanciandosi perfino a suggerire che la loro causa stesse trovando davvero la giusta strada per il successo.

La informava poi che la notte prima della stesura del messaggio, il Valentino, che era rientrato il giorno stesso a Roma grazie a un salvacondotto del papa, era stato in parte svaligiato da alcuni suoi uomini che, col favore delle tenebre, avevano portato via muli da soma e un sacco di beni di vario genere, sparendo poi nel nulla.

Di Cesare Borja scriveva pure che era male alloggiato 'in la casa de San Clemente et ha qui con sé 200 homini et 15 cavalli leggieri, et 400 fanti, et el Principe de Squilazo suo fratello è con sé'.

Nel sapere che il Valentino aveva con sé ancora uomini e cavalli e, soprattutto, il fratello Joffré, Caterina provò un senso di rabbia poco commisurato all'entità della notizia. Non sapeva nemmeno lei se si sentisse così perché ritenesse che il Duca non avesse alcun diritto ad avere un esercito, quando a lei era negato, o se fosse perché il Duca aveva con sé suo fratello, quando lei, invece, aveva dovuto rinunciare a ogni legame familiare da tempo, escluso quello coi suoi figli.

Resa ancora più di cattivo umore da quell'ultimo resoconto, la donna attese che fosse già buio, prima di andare a cercare qualcosa da mangiare per la cena.

La sua mente ondeggiava tra Cesare Borja e Semiramide Appiani e il senso di impotenza che provava nei confronti della sua intera situazione la faceva quasi soffocare.

Il suo malessere era sempre più acuto e a tratti incomprensibile a lei stessa. Ora che il Conclave aveva dato un nuovo papa – un papa, per altro, a lei non ostile – e che la sua situazione familiare ed economica sembrava aver trovato una discreta solidità, avrebbe dovuto sentirsi meglio e invece i suoi fantasmi si facevano ogni momento più pressanti e presenti.

Ciò che proprio non riusciva a digerire era l'idea, comunque, che il Valentino avesse ancora un esercito, per quanto lui fosse mal messo in salute e ormai senza più amici o parenti abbastanza potenti da giustificare un suo ritorno sulle scene della grande politica. Lei, invece, era relegata in una villa gentilizia, ma senza lussi, circondata servi infidi e destinata a passare le sue giornate in modo vuoto, come una vecchia nobildonna senza altro scopo nella vita che ricamare e aspettare la morte.

La vertigine che le dava quella sensazione di essere stata dimenticata dal mondo – a poco le serviva pensare che a Bologna e non solo qualcuno sarebbe stato pronto a muoversi al suo fianco, se lei fosse scesa in campo di persona – le stava dando la nausea.

Arrivata nelle cucine, guardò per qualche istante le cuoche che si affaccendavano sui pentoloni della cena, ma la sua idea di farsi preparare qualcosa da portare in camera per cenare da sola stava già sfumando. Aveva lo stomaco chiuso, dunque non sarebbe riuscire a far scendere nulla, nella sua gola, se non, forse, qualche sorso di vino.

Così si fece consegnare una caraffa, che volle volutamente di piccole dimensioni, e lasciò le cucine.

Stava per raggiungere di nuovo le sue stanze, quando incontrò Fortunati, che la fermò, posandole una mano sul braccio: “Semiramide è andata. È stata molto felice di vedere Giovannino... Mi ha anche detto che se vuoi un aiuto per sistemare meglio questa villa, lei...”

“Lasciami in pace.” lo zittì la Tigre, che non aveva alcuna voglia di parlare.

“Va tutto bene?” domandò il piovano, preoccupato.

Nell'immediato, l'uomo aveva pensato che la Leonessa fosse per qualche motivo turbata dalla visita della cognata, o, forse, da quell'ultimo suggerimento di lasciarsi aiutare a sistemare un po' la villa, che in molti punti era ancora negletta e rovinata dall'incuria dovuta ai pochi fondi economici della famiglia, ma si dovette ricredere nel momento in cui la Sforza gli rispose.

Liberandosi con rabbia dalla presa di Francesco, la donna sbottò: “Il figlio del papa ha ancora un esercito! Un esercito! E invece io sono qui ad aspettare che il tempo passi come una donna inutile!”

Non c'era bisogno di precisazioni per capire che 'il figlio del papa' fosse Cesare Borja, benché il papa fosse cambiato. Di certo le parole di Clechi avevano scavato più a fondo di quanto l'uomo pensasse. Quando aveva consegnato il messaggio a Caterina, aveva ingenuamente pensato che lei si sarebbe focalizzata di più sui maneggi dei porporati, che ne avrebbe ricavato entusiasmo, e invece...

“Non vuoi cenare..?” chiese il piovano, vedendo solo in quel momento il vino che la sua amata portava con sé: “Mangiare qualcosa ti farebbe bene... Ultimamente mangi poco e...”

“Ma se peso il doppio di prima!” lo fece tacere lei, ben sapendo che il cambiamento delle sue forme non era tanto legato al cibo, quanto all'inerzia della sua vita, all'aver abbandonato le cavalcate, il tirare di scherma, l'andare a caccia: “Lasciami in pace e basta. E stanotte voglio restare sola.” concluse, sicura che un uomo di Chiesa come Francesco mai avrebbe capito il suo tormento interiore nel vedere un mondo in guerra e doversene stare in pace.

Una volta di più, mentre si lasciava alle spalle un piovano deluso, ma così comprensivo e remissivo da essere quasi irritante, la Sforza si trovò a dirsi che se al suo fianco, al posto di Fortunati, ci fosse stato Baccino, che era stato un soldato, che aveva vissuto con lei l'assedio, che l'aveva desiderata e amata con la sfrontatezza dei suoi vent'anni scarsi, sarebbe stato tutto più semplice, per lei.

Dal canto suo, Francesco, rimasto solo e senza parole, restò per qualche istante sui due piedi, e poi, non vedendo di meglio da fare, andò nelle cucine e chiese che gli venisse portata la cena in camera sua: non aveva voglia di mettersi a tavola con i figli della sua amante e sentirsi fare domande sull'assenza della Tigre.

Camminando a passi lenti, le mani dietro la schiena, si maledisse per la sua malasorte: perché mai un uomo mite e di fede come lui doveva amare così perdutamente una belva tanto feroce e scostante?

 

Lucrecia Borja stava passando delle giornate che non sembravano reali, a Ostellato. Ritiratasi lì con la scusa della salute e ancora del lutto per la morte del padre – e per la perdita concomitante di molti suoi privilegi – aveva trovato un conforto enorme nella vicinanza di Pietro Bembo.

Le lettere che si scambiavano, gli sguardi quando lui passava sotto al balcone della sua dimora e, ancora di più, i momenti rubati al mondo, quelle parentesi piene di paura e gioia allo stesso tempo, in cui riuscivano a stare da soli, sempre a rischio di essere scoperti, sempre pronti a dividersi e dissimulare.

Si rincorrevano i baci nelle poesie e quelli nelle lettere, quelli in carne e ossa e quelli sospirati nei sogni. Pietro parlava di anime che si univano, trasfondendosi l'una nel corpo dell'altra. Lucrecia rispondeva in modo più terreno, apprezzando la sua visione poetica, ma godendo appieno dei loro incontri furtivi, non desiderando altro che dedicarvisi per il resto della vita.

Quel 7 ottobre, sotto una bruma quasi dicembrina, aspettava con ansia l'incontro con il suo Pietro.

Era certa che fino al tardo pomeriggio, quel sabato, non sarebbero riusciti a incontrarsi. Aveva tante cose da dirgli, tanti baci da dargli e non riusciva più a resistere, se pensava al calore della sua pelle...

“Sì, sì, dicono che ormai sia una cosa palese a tutti.” stava dicendo una delle sue dame di compagnia che, come sempre, non trovava di meglio che spettegolare: “Quella donna è fuori controllo.”

“Maria Della Rovere è giovane e vedova di un uomo che sanno tutti quanto fosse odioso...” si intromise un'altra, che stava pettinando lentamente la lunga chioma bionda di Lucrecia: “Se si è trovata un amante giovane e bello ha fatto solo bene!”

“Tu ragioni sempre come una donna di strada!” la riprese la prima: “E pensare che dovresti sapere che a donne del nostro lignaggio non è permesso prendersi certe libertà.”

La Borja, sentendosi arrossire, cercò di dissimulare il suo imbarazzo – si sentiva anche lei una giovane nobildonna che si era prese troppe libertà – provò a unirsi al discorso: “Ma siete sicure che la Della Rovere abbia davvero un amante e non si faccia problemi a mostrarlo a tutti? Vive pur sempre con sua suocera...”

“La Malatesta di certo chiude un occhio quando vede la nuora con quel bel soldato chiudersi in stanza ogni notte...” rise un'altra delle dame: “Altrimenti potrebbe dire addio alla protezione del Montefeltro. Anche se lui per primo disapprova che la sua figlioccia non si occupi dei figli e corra dietro a un tipaccio volgare come quell'Andrea Bravo, difficilmente prenderebbe le parti della Malatesta contro la sua amata Maria Giovanna...”

“Vedrete, appena questo papa morirà ed eleggeranno il Della Rovere, perché tutti sappiamo che andrà così, il Della Rovere le troverà un marito che sia disposto a prendersi una merce difettosa, e questa storia verrà messa a tacere.” concluse la prima che aveva sollevato il pettegolezzo.

'Merce difettosa', pensò Lucrecia: 'la stessa definizione che a volte è stata fatta di me'.

“Forse quella donna sta solo...” iniziò a dire Lucrecia, ma le sue parole si spensero in gola, perché nella sala, senza alcun preavviso, fece capolino suo marito, Alfonso Este.

“Signore.” salutò lui, rigido come sempre, imbarazzato davanti alla schiera di dame di compagnia della moglie.

“Non... Non dovevi essere a Ferrara?” chiese la Borja, agghiacciata.

In un lampo non solo doveva elaborare la sorpresa di vedere a Ostellato il marito, ma doveva anche fare i conti con la delusione: quel giorno non avrebbe certo potuto vedere Pietro.

“Volevo... Dedicarmi un po' alla caccia.” rispose lui, abbassando lo sguardo e rialzandolo solo nel momento in cui aggiunse: “E passare del tempo con la mia sposa, per vedere se è vero che... Se è vero che sta bene.”

Quell'incertezza nella voce mise in allarme Lucrecia. Alfonso sapeva qualcosa di lei e Pietro? Gli era nato qualche sospetto? Qualcuno lo aveva messo in guardia?

Dissimulando l'agitazione, la donna sorrise e rispose: “La tua sposa sta bene. Ora vai a rinfrescarti e più tardi, se vuoi, staremo qualche tempo insieme e... Parleremo.”

L'Este annuì, sicuro che dietro quell'invito ci fosse altro, dato che parlare non era esattamente il genere di attività che riuscivano a svolgere quando si trovavano soli. In fondo, era arrivato fino a Ostellato al solo scopo di vedere se la moglie gli era o meno fedele, se le chiacchiere che aveva sentito su lei e quel Bembo che scriveva poesie erano vere e, soprattutto, perché gli mancava Lucrecia, nel bene e nel male. La sua presenza lì, ne era certo, sarebbe bastato sia ad allontanare il poeta sia a far ricordare a sua moglie che era lui l'unico uomo che desiderava davvero.

Appena il marito ebbe lasciato la saletta, la Borja disse di avere un po' di mal di testa e chiese alle dame di lasciarla sola. Una volta liberatasi del nugolo di donne petulanti che la seguivano sempre ovunque, la giovane recuperò carta e inchiostro e vergò un veloce messaggio per Pietro. Lo affidò all'unica serva di cui si fidava e le impose di correre come il vento, e di portarle una risposta.

Quando la risposta arrivò, nel giro davvero di un soffio, Lucrecia faticò a trattenere le lacrime, pur sapendo che ciò che Bembo aveva scritto era l'unica cosa sensata da fara: 'Anderò in Venetia Martiis die el più tardo'.

Solo un appunto a fondo pagina, scritto, lo si vedeva, in fretta, come se gli fosse costata un'enorme fatica provare a trattenersi dall'aggiungerlo, per poi cedere e scriverlo lo stesso, le permise di smettere di piangere. Pietro le chiedeva un ultimo incontro, prima della sua partenza, e le avrebbe fatto sapere il primo possibile il dove e il quando.

Con quella nuova piccola luce nel cuore, Lucrecia si recò, come annunciato, dal marito non appena egli si dichiarò pronto a riceverla. Senza che lei se ne rendesse conto, la vicinanza di Alfonso la soggiogò subito.

Anche se la sua mente era rivolta a Pietro, così come i suoi sospiri più intimi, la forza vitale del corpo statuario di suo marito, la bellezza intatta del suo viso, malgrado gli sfregi del mal francese, e la voluttà con cui la pretese, la portarono a perdersi in lui, come ogni volta. In quel loro letto di campagna, soffice ed elegante, per quanto molto più semplice di quello che condividevano a Ferrara, la Borja ricordò cosa significava essere la sposa di Alfonso e si sentì una sciocca ad aver messo tutto a rischio per Pietro.

Tuttavia, una volta che l'Este, stanco e soddisfatto, si assopì accanto a lei, Lucrecia ritornò a pensare a Bembo, dilaniata come non mai tra il desiderio dell'uno e dell'altro, chiedendosi se fosse possibile che, per una donna come lei, non bastasse un uomo solamente per appagare la fame del corpo e dell'anima.

 

   
 
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