Capitolo
17, Errore
“Cristo!” sibilo
chiudendo gli occhi e tornando dentro di corsa, urtando Frank che si
trovava
alle mie spalle.
“Cosa è successo?”
chiede Camille.
Frank interviene
come se stesse parlando del meteo. “Niente, è
disturbata da questo posto.
Lasciale un po’ di spazio.”
“Ok…” borbotta
Camille e so che deve essere entrata, ma non riesco a guardarla.
L’immagine del suo
occhio che pendeva sulla guancia appeso ad un filo rosato mi
tormenterà per
tutti gli anni o le settimane che mi restano da vivere. Forse anche
oltre. E la
faccia, penso che gliene manchi almeno la metà, dal lato
destro. I capelli
annodati e incrostati di materia scura… La nausea
è tornata più forte di prima,
sento che devo vomitare.
Prima ancora di
realizzarlo, sono a carponi e sto liberando lo stomaco sul pavimento.
“Ma cosa fa?”
chiede Camille con voce turbata.
“Almeno non è
svenuta.” Ridacchia Frank, disgraziato…
“Perché sarebbe
dovuta svenire?”
“Perché ha...”
“Ti lascio… qui.”
Riesco a buttare fuori tra un conato e l’altro.
“Ok, ok. Non ti
avevo detto di andare nella tua cabina? Vacci subito o ti ci
trascino.” Le dice
caustico e non capisco dove si siano messi e non me la sento di
controllare.
“Vecchio cafone...”
Borbotta Camille, aggiungendo anche qualcosa che non riesco a
comprendere per
via del rumore che io stessa faccio. Frank ribatte con una risposta che
deve
essere parecchio minacciosa, perché Camille si allontana a
passo svelto e sento
che siamo di nuovo soli.
Provo a tirarmi su
continuando a sputare a terra. Ho una terribile sensazione di bruciore
al naso
e alla gola, come se mi fosse rimasto qualcosa di traverso. Cerco di
non
pensarci anche se respiro male. Ora è l’ultimo dei
miei pensieri.
“Tirati su.” Mi
solleva da sotto alle ascelle sballottandomi e mi tengo in piedi
malferma.
“Fammi sedere…”
bofonchio
con una mano sulla bocca e una sullo stomaco per timore di dover
vomitare
ancora.
“Sì, così passiamo
tempo prezioso qui a farti prendere aria. Muoviti e cammina.”
Dice spingendomi
gentilmente per aggirarlo e uscire dalla cabina, in modo da non dovermi
dare
mai le spalle. Vorrei ribellarmi ma non mi sento molto lucida.
“Vieni nella mia
cabina. Dimmi se noti qualsiasi cosa di differente rispetto a quando
sei stata
qui l’ultima volta.”.
“Perché? Non
ricordo molti dettagli…” cerco di spiegargli un
po’ a tentoni appoggiandomi al
corrimano.
“Fa niente, dimmi
ciò che vedi.” Continua a sostenermi. Superiamo la
porta di Camille mentre
tengo lo sguardo basso.
“Aspetta, Erika!”
esclama lei mentre la sento avvicinarsi. Frank però non le
dà modo di agire,
perché le chiude la porta in faccia.
“No, sta buona lì.”
Qualche improperio
molto poco francese filtra dall’uscio chiuso e anche il tonfo
di quello che
sembrerebbe a tutti gli effetti un calcio o un pugno di frustrazione
contro una
parete.
“Sei davvero
insensibile. È solo una ragazzina.” Borbotto
quando lui torna al mio fianco.
“Insensibile?
Principessa, io sono qui da prima che tu fossi nei pensieri dei tuoi
nonni. Non
me ne frega un cazzo di passare per insensibile. Voglio
andarmene.” Ringhia più
aggressivo di quanto mi aspettassi. “E poi… quella
lì non mi piace, ha sempre
avuto una puzza strana…” Il tempo trascorso qui
deve averlo davvero
destabilizzato, nessuno può sentire gli odori,
qui…
Finalmente abbiamo
raggiunto la sua stanza e quando guardo all’interno resto
folgorata dalla
prospettiva assurda che mi viene proposta. Credevo che avrei visto il
finestrino con le luci al suo interno, immagine che ho stampata a fuoco
nella
memoria, perché solo io ho una porta da cui uscire, invece
non c’è alcun vetro.
Una porta metallica, sembra alluminio o acciaio, copre la parete di
fondo della
cabina. Non è questo che mi preoccupa, quanto il fatto che
sia avvolta da
sottili radici nere, scure come la materia che compone gli Sluagh. La
serrano
come se volessero stritolarla.
Muovo qualche passo
verso di essa. Tutto il resto è come lo ricordavo, nero e
grigio, metallico,
comune.
“Cosa vedi?”
“Credo che sia la
tua porta.” Deve essersi dimenticato della gentile richiesta
che gli ho fatto
di non mostrarmi le spalle, perché mi supera e corre a
poggiarci le mani sopra,
come se dovesse toccare il profilo di un muro in cerca di un appiglio.
Cerco di non
focalizzarmi sulla sua testa, per quanto adesso che ho sboccato mi
sembra già
più tollerabile. Mi avvicino e noto il suo sguardo disperato
di fronte a
qualcosa che purtroppo non riesce a scorgere. Quando mi nota alla sua
sinistra,
mi fa spazio controvoglia. Ignoro il suo stato d’animo
confuso e tocco la
maniglia nera. Cerco di aprire la porta e vedo che essa non
è bloccata come se
fosse chiusa a chiave, bensì proprio incollata a causa delle
radici capillari
che la avvolgono. Fa un po’ di gioco. Quando tiro con forza,
riesco a
intravedere un leggero bagliore di luce verde provenire dai suoi
margini, ma le
radici si comprimono e torna subito a sigillarsi. In compenso, per lo
sforzo mi
gira la testa e per poco non cado.
“È bloccata. Non ho
abbastanza forza per riuscire ad aprirla.”
“Dimmi dove tirare,
deve avere un punto debole. Hai stretto qualcosa, lo vedo.”
Sussurra concitato
sopra alla mia spalla, prova a toccare la maniglia che stringevo, ma la
sua
mano la attraversa, come se fosse immateriale. In quel momento, avverto
un
forte brivido lungo la schiena.
“Sshh!” lo zittisco
bruscamente.
Mi fa impressione
l’idea di avvicinare il viso a questa superficie irradiata di
capillari neri,
ma penso che a questo punto dovrò farmi crescere un
po’ di pelo sullo stomaco.
Appoggio con delicatezza l’orecchio destro alla porta di
Frank, tenendo i
muscoli tesi, pronta a saltare via qualora le circostanze lo
richiedessero.
Sono lamenti… non
credo che sia qualcosa di umano, un animale forse… poi, un
ringhio cupo e
profondo, pari a quello di un cane particolarmente aggressivo.
Mi vengono i
brividi sugli avambracci e l’istinto di scrollarmi per
togliermeli di dosso. Mi
scosto e l’espressione indagatrice di Frank mi accoglie poco
dopo. “Cosa hai
sentito?”
“Niente…” dico
guardando la porta con sospetto. Non so quanto senso abbia informarlo
di
questo. “Frank, devo andare dalle altre. Sono qui per
chiedere delle cose a
Camille e non potrò evitarla per sempre. Ti ho promesso che
avrei fatto il
possibile per tirarti fuori da qui, ma al momento non posso fare altro
per te.”
Fa un cenno di
assenso con malcontento e si allontana in silenzio, deluso. Dopo averlo
visto
sparire dietro l’angolo, prendo un bel respiro e mi faccio
forza per andare da
Camille. Non so come farò a superare il senso di disgusto e
ancora mi sento
girare la testa e bruciare la gola quando respiro, purtroppo non penso
di avere
ancora tanto tempo a disposizione.
Pensavo che Frank
mi lasciasse sola dopo avergli detto che non potevo fare niente per lui
in quel
momento, invece per fortuna è rimasto qui nel corridoio ad
attendermi con le
mani sui fianchi, meditabondo.
“Grazie per avermi
aspettato.” Gli sorrido guardando il suo profilo spigoloso,
dopo essermi
avvicinata alla porta di Camille.
“Dovere.” Brontola
togliendo le mani dai fianchi e poggiando la destra sulla maniglia
della stanza
di Camille. “Preparati.”
“Sì.” Rispondo
prendendo fiato e facendomi coraggio, mantenendo lo sguardo basso.
Quando apre la
porta, Camille è seduta in fondo. Si alza, ma
l’ennesimo battibecco con il mio
amico la convince a tornare seduta dove era prima. Cerco di non mettere
a fuoco
la sua figura e mi siedo sullo stesso lato del suo sedile, a debita
distanza.
Frank di siede tra di noi.
“Sei riuscita ad
andare a Chambèry?” chiede ansiosa Camille.
“Sì…” le
dico
mentre alzo gli occhi sull’ambiente circostante e spingo lo
sguardo verso il
fondo della cabina senza inquadrare la sua proprietaria. Come avevo
immaginato,
anche qui c’è una porta. Sembra in legno rosso
carminio lucido, moderna, non ci
sono radici nere ad avvolgerle, è completamente libera e mi
chiedo se sia in
grado di aprirla…
“Cos’è
successo?”
chiede con più urgenza.
“I tuoi genitori
stanno bene, sentono la tua mancanza. Ho parlato con tua
madre… Sara. Va spesso
sulla tua tomba per parlarti.” Continuo tenendo il capo
chino. “Scusa i miei
modi, questo posto mi fa stare male. Sono venuta per chiederti delle
informazioni.”
“Dove sono sepolta?
Vanno in tanti a trovarmi?” la sua voce ha
un’inflessione ansiosa che faccio
fatica a decifrare, non potendo sostenere la vista della sua faccia. Fa
più
domande di quante riesca a tenerne a mente in questo stato
d’animo, e
sinceramente non capisco il perché
dell’ultima…
“In un cimitero a
Chambéry, uno di quelli vicino a casa vostra, abbastanza
grande. Quando ho
trovato tua madre, stava cantando una ninna nanna per te.”
Provo a guardare leggermente
verso di lei, incrociando l’espressione sofferente di Frank.
È chiaro che stare
qui ad ascoltarci gli stia costando caro, ma pur di evadere dal treno
sarebbe
disposto a tutto e resiste senza però nascondere quanto
fastidio gli diano i
nostri discorsi.
Il respiro di
Camille ora è udibile, leggermente alterato e a volte
trattenuto. Credo che
voglia piangere, ma non ci riesce. “Dimmi di
più.”
Comincio ad
elencare la mia visita in Francia, evitando di dirle di Francine e dei
dettagli
inutili che non penso possano interessarle. Ricordare quei momenti mi
mette un
po’ di tranquillità. Parlo lentamente
perché mentre una parte di me sta
ricordando il mio soggiorno in Francia, l’altra mi sta
spronando ad essere
sufficientemente coraggiosa da tornare a guardarla in viso tentando di
ignorare
ciò che ho intravisto prima.
“… quindi ho
scoperto che adesso studia lingue a Ginevra. Solo che non riesco a
trovarla. Ho
cercato in giro, ho chiesto in università ma non mi vogliono
dare informazioni
su di lei e sono ad un vicolo cieco.”
Mentre parlo,
Gesabette fa capolino dall’uscio aperto ed entra
delicatamente nella stanza,
sedendosi di fronte a me con un sorriso mesto. Non ci ha interrotti ed
effettivamente deve essere stata tanto educata da attendere a distanza,
al
contrario di Camille che non so quanto possa aver ascoltato della
conversazione
intercorsa poco fa nella mia cabina tra me e Frank.
“Quindi ha lasciato
Chambéry… lei non si trovava bene lì.
Gran parte per causa mia, anche se il suo
desiderio è sempre stato girare il mondo. Non pensavo che
avesse il coraggio di
andarsene perché è sempre stata
timida…”
Sospiro,
ricambiando mio malgrado il sorriso di una silenziosa Gesabette, per
farle
capire che sono contenta di rivederla. “Anche Suzette ora
è cresciuta, ormai
dovrebbe avere ventun anni, non è più una
ragazzina. Sai dove potrebbe essere?”
“Non ho idea…”
risponde piano Camille, afflitta.
“Le piaceva
lavorare col pubblico? Aveva mai espresso dei desideri riguardo ad un
lavoro
futuro?” continuo, ignorando la sensazione di disagio che mi
dà guardare
Gesabette mentre sto parlando con Camille.
“No, non le
piacevano le persone. Lei voleva fare la traduttrice di libri, le
piaceva
tradurre testi e imparare nuove lingue, ma non parlare direttamente con
le
persone.” Attinge alla memoria Camille, cercando di
oltrepassare il profilo di
Frank per guardarmi.
Mi focalizzo sui
piedi scalzi di Gesabette, fingendo di essere molto concentrata.
“D’accordo… un
modo per trovarla su internet?”
“Posso darti la sua
mail ma non so se la usa ancora. Il cellulare lo ha cambiato
dopo… dopo che
l’ho dato in giro.”
Non mi soffermo
troppo sull’ultima informazione, non sono sicura di voler
conoscere tutte le
cattiverie che Camille ha commesso. “Sì, la mail
va bene. È pur sempre un
inizio.” annuisco mentre mi detta una mail breve e
chiaramente non
professionale, che ripeto più volte a voce e nella mia mente
caotica. Stavolta
non dovrei avere troppi problemi a ricordare ciò che ho
visto qui, tuttavia non
penso che la mail sia sufficiente: se fosse inutilizzata, potrebbe
essere
totalmente inutile perché Suzette non la aprirà
da anni.
Speravo che Camille
potesse darmi qualche dato in più. I cambiamenti che possono
avvenire nella
vita di una giovane donna del ventunesimo secolo sono molto
più consistenti ed
imprevedibili che in passato. Prima le persone erano più
statiche, semplici da
ritrovare. Adesso viviamo in un mondo tanto dispersivo che ogni
individuo è
come una goccia indistinguibile nell’oceano. Se avesse la
capacità, come me, di
trovare qualcuno come ho fatto prima, semplicemente invocando nella mia
mente i
miei amici…
L’idea che mi è
appena balenata in testa mi fa scattare il capo verso sinistra, dritta
alla sua
porta rossa. Io ho questo potere… forse potrei chiedere di
ritrovare Suzette
come ho chiesto di trovare i miei amici. Non vedevo Carmen da anni ma
l’ho
individuata comunque, su quasi mezzo milione di persone a Zurigo.
Però non so
nemmeno che faccia abbia, questa Suzette…
“Camille, tu hai
bene in mente il viso di Suzette. Io purtroppo non potrei riconoscerla
nemmeno
se ci scontrassimo per strada. Ascolta, ho un’idea che
potrebbe non essere
molto intelligente, ma qui e ora non riesco ad averne di
migliori.” Sospiro e
mi giro di tre quarti verso la sua direzione, guardandomi le mani.
“Questa
informazione dovete averla tutti, in ogni caso. Anche se non ho
guardato la
camera di Gesabette, sono sicura che anche la sua cabina abbia una
porta.”
Gesabette mi osserva
confusa. “Sì, tutte le stanze hanno la
porta…”
“No, non quella
porta.” Incrocio lo sguardo indagatore di Frank, che
però resta zitto. “Da
quando sono tornata qui, non vedo più i finestrini. Al loro
posto ci sono delle
porte, diverse per ognuno di voi. Non ho visto la tua” mi
volto verso Gesabette
per un attimo. “ma al massimo controllerò prima di
andare via. Sono certa che
la via d’uscita per ognuno di voi sia oltrepassare quel
varco. Da ciò che ho
visto, i vostri sono chiusi.”
“Puoi farci uscire
da qui?” Camille viene verso di me e, per non guardarla in
viso, mi concentro
sulle sue scarpe. Sono delle converse nere. I pantaloncini spessi sono
strappati in più punti e sporchi di terra e sangue. Sempre
meglio delle budella
di cui parlava Frank, che non voglio assolutamente vedere.
“Credo di sì anche
se non sono riuscita ad aprire la porta di Frank prima…
posso provare con la
tua, ma…” Frank mi sta fulminando, spero che non
si faccia la strana idea che
mi sia rifiutata di aiutarlo senza una valida ragione. “Penso
che non possiate
oltrepassarla se non avete risolto i vostri problemi sulla terra. Puoi
però
indicarmi la strada per trovare Suzette. Anche solo vederla in viso mi
potrebbe
aiutare.”
“Sì sì, va bene,
dimmi cosa devo fare!” la trepidazione che coglie Camille
è palpabile.
Mi alzo anche io e
faccio ruotare lo sguardo fino a focalizzarmi sulla sua spalla
sinistra, è
intatta. L’istinto cerca di convincermi a guardarla in viso,
come attratto
dall’orrido, e spreco molta concentrazione per impedirmelo.
Non ho più la
nausea, bensì un forte senso di disgusto che non voglio sia
troppo manifesto.
“Mettiti di fronte
al finestrino.” Le indico la porta che è alle sue
spalle e lei si volta veloce
e mi ubbidisce. “Più a destra.” Le dico
mentre mi avvicino dal lato della
maniglia, davanti a cui si trova lei.
Adesso è al mio
fianco e freme in movimenti di agitazione mentre io provo a tirare la
maniglia
ma la porta rossa non si apre. Quella di Frank traballava, sono quasi
certa che
senza quelle radici nere, si sarebbe aperta… questa sembra
incollata.
Apriti,
dannazione…
Sto per arrendermi
quando sento il suo tocco sul mio braccio destro.
Mi sono voltata
involontariamente e ho visto il suo profilo sinistro, con un occhio
ancora sano
anche se iniettato di sangue e il viso coperto di numerosi tagli ed
escoriazioni. Lei è stata colpita a destra, io nel mio
incidente ho impattato
da sinistra. Evidentemente è morta quasi subito,
perché immagino che dopo
essere stati investiti da un treno si sia ridotti molto peggio di
così. Non
vedo budella o ossa sporgenti da questa prospettiva, forse mi stavo
facendo più
problemi di quanti davvero ce ne fossero. Quando però mi
mostra il suo viso per
intero, ricambiando il mio sguardo, mi pento subito di aver fatto
sostare
troppo la vista su di lei. Niente da fare, il lato destro è
troppo scarnificato
per poter ostentare indifferenza.
Mentre sto pensando
queste cose, dopo che mi ha toccato il braccio, la maniglia della porta
si è
abbassata. Questa porta si può aprire! Lo realizzo con sommo
stupore togliendo
la mano e interrompendo il contatto con Camille.
“Si può aprire.”
Dico in un sussurro e alle mie spalle anche gli altri devono averci
raggiunte. Tiro
leggermente e vedo che si apre verso l’interno. Lo spettacolo
che mi si para di
fronte, lo avevo già visto. Una vasta distesa nera, su cui
tante luci lontane
brillano e si muovono come stelle cadenti.
Camille
probabilmente non vede niente, perché fa vagare la vista a
vuoto. Provo a fare
un passo verso l’esterno ma una barriera mi ferma. Non
è materiale, è come
quando tenti di unire due calamite dallo stesso polo. Qualcosa mi
sbarra la
strada.
“Portami con te.”
Camille torna ad aggrapparsi al mio braccio ed è come se la
barriera svanisse
perché finalmente il mio piede atterra su una superficie
piana che è
assolutamente indistinguibile dall’oscurità
circostante, mentre l’altro resta
ancora all’interno della cabina.
Il rumore della
porta principale della cabina che si chiude con violenza alle nostre
spalle mi
fa sobbalzare e ritiro il piede. Quando mi volto, vedo solo Gesabette.
Frank ha
lasciato la stanza.
La pittrice sospira
e scuote il capo. “Per lui è molto difficile da
accettare… non è paziente.”
Dentro di me penso
che, visto il suo carattere combattivo, lo sia stato fin troppo.
È agli
sgoccioli della sopportazione e scoprire per l’ennesima volta
che qualcun altro
può andarsene da lì e a lui tocca ancora
attendere con l’incertezza che
effettivamente potrà mai riuscirci, deve essere un duro
colpo. La sua porta è
bloccata da quelle strane radici e credo che ci sia molto di
più oltre a
questo, ma dovrò indagare meglio quando tornerò
nel mio corpo. Per il momento
posso solo aiutare Camille, che è la priorità.
“Gesa, resta qui
per favore… torneremo presto.”
“Sì, vi
aspetterò.”
Dice accomodandosi con un’eleganza che stona fortemente con
il suo
abbigliamento e il suo aspetto, ma lei non lo immagina.
“Camille, ora devi
concentrarti fortemente su Suzette. Dove si trova? Devi trovare
Suzette.
Ovunque sia, dobbiamo raggiungerla. Continua a ripetertelo in
testa.” Le dico
ricambiando con decisione la stretta di mano.
“Sì!” annuisce con
forza Camille. Dopo averle dato qualche secondo di tempo, provo
nuovamente ad
appoggiare un piede nell’oscurità. Come tocco il
suolo, da dove si è poggiato
il mio piede nudo si diffonde una flebile luce a macchia
d’olio che lascia il
posto ad un pavimento di parquet in rovere a mosaico.
È una camera da
letto. Contro la parete a destra un letto matrimoniale, un armadio
color noce e
una piccola scrivania alla parete opposta ad esso e fuori, noto dalla
finestra
posta alla destra del letto, è notte. Una lampada tonda da
soffitto irradia una
luce mediamente calda nella stanza. Qualcuno sta dormendo ancora
vestito, sopra
al copriletto. È una ragazza, stringe in mano uno smartphone
e si è
addormentata così, scomposta e con il braccio che stringe il
telefono sul
petto. Ha i capelli castani, porta gli occhiali, ha i lineamenti dolci
e
qualche cicatrice da acne in viso. Non posso definirla obesa, forse un
po’ in
sovrappeso.
“Suzette!” Camille
mi strattona verso di lei e la seguo incespicando nel mio lungo abito
nero.
Così, questa è
Suzette. Le studio il viso per imprimermi i suoi connotati nella testa,
mentre
Camille mi lascia la mano e si fionda al suo capezzale.
Guardo la stanza
per capire dove ci troviamo. Un calendario in francese è
appeso alla parete, ritrae
dei cuccioli di cane che giocano in un prato, di fianco uno specchio
lungo che
però non cattura l’immagine né mia,
né di Camille. Non ci sono molti elementi,
oltre a questo, che fanno pensare alla stanza di una ragazza. Sulla
scrivania
un portatile chiuso e un’agenda. Nessun adesivo, poster,
niente di niente.
Sembra essere una persona pratica, non ha lo smalto alle dita delle
mani e dei
piedi e non è truccata… anche il suo pantaloncino
di jeans nero e la t-shirt
scura e anonima che indossa mi fanno pensare che non sia
particolarmente
attenta alla moda.
Sul comodino, un
libro thriller dal titolo in inglese, una abat-jours e una sveglia
digitale.
Camille le sta dicendo qualcosa sottovoce. Non voglio infrangere la sua
privacy, quindi continuo la mia ricerca lasciandole un momento di
intimità.
Mi avvicino alla
finestra aperta per guardare fuori. Siamo forse al terzo o quarto
piano, fuori
è notte e… è notte. Elaboro questa
informazione nella sua completezza solo
adesso. Quando mi sono assentata erano le 14:00 o giù di
lì… dubito che sia
passato tanto tempo da quando mi sono addormentata. Dannazione…
mi sa
che ci troviamo da un’altra parte del mondo, probabilmente
con un altro fuso
orario. Cerco informazioni guardando le auto parcheggiate sul bordo
della
carreggiata e dei cartelli. Riconosco una bandiera svizzera attaccata
ad un
balcone, le targhe riportano la sigla GE… siamo a Ginevra.
Io sono ancora in
un parco con Laika! Devo tornare indietro subito. Ora so che si trova
nel
Canton Ginevra. Torno al centro della stanza in preda
all’ansia e poi mi
affaccio di nuovo alla finestra, perché ok, siamo in
Svizzera, ma dove?! Un
cartello attaccato al muro dell’edificio di rimpetto a questo
dice Rue Des
Travailleurs… Strada dei Lavoratori, ok! Adesso
posso andarmene.
“Camille, devo
assolutamente tornare nel mondo reale. Andiamo via.” Le tendo
il braccio mentre
mi muovo verso la porta.
Lei però non dà
segno di avermi sentito. È ancora inginocchiata di fianco
all’amica e le sta
accarezzando delicatamente il viso con un dito. Resto attonita davanti
all’immagine di Camille che le sposta un ciuffo ribelle dalla
fronte. Lei può
toccarla per davvero, non come me che non sono nemmeno riuscita a
sfiorare
Carmen. La certezza che sia successo me la dà Suzette, che
aggrotta la fronte
nel sonno, disturbata.
“Camille, vieni
qui.”
Mi ignora al punto
che temo non possa sentirmi. Mi avvicino velocemente e le tocco la
spalla
sinistra. Si volta e mi guarda. Mantengo con sforzo la vista sul suo
viso.
Sembra inespressivo come fosse davvero un corpo inerte. Sento un
cattivo
presagio.
“Grazie, Erika, per
avermi liberato.” La sua voce è fredda.
“Che ti succede?
Dobbiamo tornare sul treno, ti libererò. Ho visto dove
abita, appena mi sarò
risvegliata andrò subito a parlarle e sarai
libera.” Le dico mentre una
terribile sensazione mi sta assalendo.
“Non tornerò sul
treno.” Dice alzandosi e la mia mano le scivola di dosso.
“Non dire cazzate e
riporta subito il culo in quella cabina.” Ringhio stringendo
i denti. Lei
continua a fissarmi in silenzio, quindi allungo di nuovo la mano per
afferrarle
il braccio sinistro ma stringo sul vuoto. Non c’è
più. Mi guardo intorno. È
dall’altra parte del letto, in piedi.
“Grazie, non ho più
bisogno di te. Io starò con Suzette.” Ha gli occhi
diversi dal solito, non
sembra più lei… ma che cosa diavolo le
è preso?
“Camille non sei in
te, vieni via. Torniamo sul treno, tra poche ore potrai andartene
e…”
“No.” Mi interrompe
con un tono autoritario che non le avevo mai sentito prima.
“Io devo stare con
la mia amica. Non la abbandonerò mai
più.” Volge quel che resta del suo viso
verso la ragazza che si sta agitando nel sonno. “Io e Suzette
resteremo insieme.
Per sempre.”
Dannazione! Non
posso lasciarla qui… “Vieni qui.” Dico
rabbiosa mentre supero il letto per
braccarla, quando scompare di nuovo. Stavolta però, non
riesco più a vederla in
giro. Sento il panico gonfiarmi nel ventre. Non posso più
attendere e non ho
idea di come fare a ritrovarla. Impreco tra i denti mentre torno alla
porta
rossa, spalancandola per tornare nella cabina.
Quando entro di
corsa, uno spettacolo stranissimo mi accoglie. La luce della stanza di
Camille
balugina ad intermittenza. Gesabette è fuori, nel corridoio,
spiando cosa
avviene all’interno. La sua espressione è molto
preoccupata.
“Erika, corri!”
urla facendomi cenno di raggiungerla. Uno scossone del tutto
inaspettato mi fa
cadere a terra, con le mani avanti. La porta rossa sbatte con forza
dietro di
me e il suo aspetto cambia, come delle bolle si creano sulla sua
superficie,
diffondendosi sulla parete circostante. Le vesciche si gonfiano fino a
sfaldarsi
e dalle crepe gocciola un liquido semidenso, dello stesso rosso della
porta,
come il sangue fuoriesce da una ferita aperta.
Guardo quello
spettacolo come paralizzata, senza alcuna idea chiara su cosa fare. Non
reagisco quando mi sento prendere da sotto le ascelle e trascinare via
come
fossi un sacco di farina.
Solo quando sono
totalmente nel corridoio la porta della cabina si chiude di scatto e la
luce
all’interno di essa si spegne. Mi accorgo adesso che sto
ansimando e che mi
trovo seduta in grembo a qualcuno. Riconosco la gamba con il pantalone
militare
e lo stivale nero che sporge da sotto un lembo del mio abito. Il viso
torvo di
Frank mi dà il benvenuto oltre la mia spalla e capisco che
quando mi ha portato
via dalla stanza, deve essere caduto e gli sono finita addosso. Cerco
di
rialzarmi arrabattandomi nel mio vestito e Gesabette mi dà
una mano a tirarmi
su.
“Che cazzo è
successo?” sbraita
Frank, rimettendosi
in piedi.
“Io…” farfuglio
impanicata
guardandomi intorno.
“Dov’è
Camille?”
chiede Gesabette, intercettando il mio sguardo instabile.
“Io… è voluta
restare lì.” Dico rivolta a Frank, che fa un passo
verso di me, infastidito.
“Lì dove?
Metti una frase insieme, per Dio!” latra senza grazia.
Prendo fiato
chiudendo gli occhi, quando li riapro sono più determinata.
“Abbiamo trovato la
sua amica e io cercavo di capire dove si trovasse, lei è
andata vicino a
Suzette ma non era più la stessa di prima. Dopo avermi
lasciato la mano, era
completamente fuori di sé. Zitto!” alzo una mano
per fermare l’interruzione di
Frank, pronto a farmi un altro dei suoi interrogatori supponenti.
“Le ho
chiesto di tornare indietro, che la avrei liberata come ho fatto con
Clara, ma
lei aveva un’espressione assente, continuava a ripetere che
sarebbe rimasta lì
per sempre ed è scomparsa nel nulla. Credo che
sia…”
“La stanza!” si
intromette Gesabette appena mi fermo. “La stanza ha
cominciato a dare forti
scossoni, nel finestrino si sono interrotte tutte le luci, anche dentro
non era
bene illuminato… la porta si è spalancata e io
sono scappata via.”
Mi passo le mani
tra i capelli. Non riesco a trattenere le lacrime.
“È tutta colpa mia, non
avrei mai dovuto permetterle di uscire da lì… non
so dove sia adesso… come farò
a liberarla…?”
Una carezza fatta
col dorso delle dita raggiunge la mia guancia bagnata dalle lacrime.
È arrivata
dall’ultima persona che pensavo fosse capace di gesti del
genere. Il sorriso un
po’ storto e un po’ consolatore di Frank dovrebbe
rincuorarmi e invece scoppio
a piangere ancora di più, stupendomi per un attimo di come
io sia in grado di
piangere anche qui.
“Avevi ragione,
meglio non uscire da quella porta se non è il
momento.” Mormora Frank ritirando
la mano dalla mia guancia.
“Cosa succederà a
Camille adesso?” interviene Gesabette come se fosse del tutto
ignara di aver
interrotto un momento spontaneo e mi riscuoto da quella sensazione che
mi causa
un certo senso di colpa nei confronti del mio vero compagno, che ora
sarà
preoccupato per me.
“Devo tornare
subito a casa, sono stata qui per oltre dodici ore, nella
realtà. Devo andare
subito. Non so se potrò tornare qui, ma sappiate che
cercherò di recuperare
anche Camille.” Con la mano sinistra stringo la spalla di
Frank e con la destra
prendo quella di Gesabette. “Vi voglio bene,
resistete.”
Torniamo insieme
alla mia cabina, dove fortunatamente la porta di ottone è
ancora lì. Quando la
varco, tutto si fa confuso.
“Je ne sais pas.
Appelez une ambulance.”
Un’ambulanza? Sento
qualcosa di umido sfiorarmi il viso e i mugolii di un cane. Apro gli
occhi con
fatica, mi brucia molto la gola e il naso. Un attacco di tosse
improvviso mi
coglie e cerco di mettermi su un fianco per respirare meglio. Laika
comincia ad
abbaiare e a saltarmi intorno, contenta.
“Êtes -vous ok?
Mademoiselle, vous me comprenez? Do you understand me?”
è la voce di un
ragazzo. Un’altra persona è in piedi lì
vicino, con un telefono luminoso in
mano.
“Oui, sto bene.”
Cerco di rispondere. Mi gira forte la testa, sento che mi brucia la
faccia.
“Chiamo
un’ambulanza.” Mi dice in francese.
“No, no, grazie.
Sto bene.” Faccio per tirarmi su e mi blocco quando
mi accorgo di essere
ricoperta da quello che penso sia vomito secco. Dannazione, mi sono
vomitata
addosso mentre dormivo, come è successo sul treno. Provo a
pulirmi il viso
dalle crosticine secche e dolorose… cerco la bottiglietta
d’acqua che avevo
portato, ma ricordo adesso che ho buttato via tutta l’acqua
per fare uno
scambio con la sequoia.
“Avete un po’
d’acqua? Un fazzoletto?” chiedo al tipo
in tenuta da jogging inginocchiato
di fianco a me. Un altro ragazzo di una ventina d’anni
è in piedi e mi punta la
luce del telefono addosso, nonostante il posto sia già
lievemente illuminato,
deve essere mattina presto. Mi tasto la tasca posteriore del pantalone,
alla
ricerca del cellulare.
Mi porgono una
borraccia mezza piena e un piccolo asciugamano in stoffa.
“Mercì.”
rispondo provando a ripulirmi. Dopo essermi lavata almeno la faccia,
accendo lo
schermo del telefono 5:35 di venerdì 3 agosto, 24 chiamate
senza risposta. Sono
stata via quasi quindici ore… mi sono sembrate due
esagerando.
“Scusate…”
dico restituendo loro la borraccia vuota e guardando un po’
schifata
l’asciugamano. “Posso
ripagarvelo.” Dico sovrappensiero, poi mi ricordo
che in tasca non ho contanti.
“Nessun
problema, può tenerlo. Sicura che non vuole che chiami
un’ambulanza?” insiste il ragazzo. Quello in piedi invece ha una
faccia scioccata e
non mi toglie gli occhi di dosso.
“Sicura, sicura.
Ora vado dal mio dottore… sono epilettica, ma adesso
è tutto ok. Vado subito a
casa a prendere le medicine.” Sorrido al ragazzo
inginocchiato di fianco a me, sperando che si beva questa storiella
inventata
su due piedi. Slego il guinzaglio di Laika dalla mia caviglia e provo a
tirarmi
su. Mi fa un po’ male la caviglia destra, mi ero quasi
dimenticata di averla
infortunata.
“La accompagno.”
“No, no, grazie!
Chiamo subito mio marito, sarà preoccupato.”
Mi sento malferma sulle gambe
e il sedere mi fa un male cane. Laika mi guarda con le orecchie irte,
tremante
di aspettativa: finalmente andiamo via!
I ragazzi
raccolgono il cardigan che avevo lasciato a terra e mi aiutano a
tornare sul
sentiero. Li ringrazio e poi convengo che sia il caso di tornare subito
in
hotel a darsi una lavata.
Mentre attendo alla
fermata del tram elettrico, guardo il telefono.
Le chiamate perse
sono da parte di Lukas per lo più, poi ce ne sono anche tre
da parte di Mikaela
e una di Marko. Sono stupita, ma la precedenza ce l’ha
sicuramente Lukas. Non
guardo nemmeno i messaggi, lo richiamo immediatamente.
Risponde dopo
appena due squilli. “Erika. Stai bene?” La sua voce
è allarmata, sento un
rumore bianco di sottofondo. A quest’ora non dovrebbe essere
già a lavoro…
“Sì, sto bene. Amore,
scusami…”
“Scusami un cazzo!
Dove sei, si può sapere?! Perché non
rispondi?!”
Devo allontanare lo
smartphone dalla guancia perché con le sue urla mi ha quasi
perforato un
timpano. “Calmati! Sono in hotel, io e Laika stiamo bene, ho
solo avuto un
piccolo problema… avevo perso il cellulare
e…”
“Sono lì tra
un’ora.” Dice con un tono inflessibile che mi fa
salire l’ansia. Un’ora?!
“Ma dove sei?”
“Sono nel Canton
Vaud, sono quasi arrivato. Aspettami lì.”
Un motorino molto
poco discreto mi passa davanti e sospiro mentalmente chiudendo gli
occhi,
sperando che non lo abbia sentito. Sono troppo ottimista…
“Sei in hotel? Come
no… Dio, Erika. Se ne hai combinata una delle
tue…”
“Io non ho mai
combinato niente.” Mi difendo pur consapevole di essere
palesemente in torto.
“Non ti lascerò mai
più sola, come è vero che esiste la vita dopo la
morte. Ti marcherò tanto
stretto che quelle ombre di merda potranno solo imparare da
me.”
“Non ho…” il beep,
che comunica che mi ha appena chiuso il telefono in faccia, mi fa
cascare le
braccia.
Sono arrivata in
hotel di corsa, per fortuna sul tram c’erano pochissime
persone e in pochi
hanno visto in che condizioni ero ridotta. Sono salita in camera e ho
messo
tutti i vestiti puzzolenti di vomito in un sacchetto di plastica che ho
chiuso
con il triplo nodo e nascosto nel trolley. Mi sono fatta la doccia in
fretta e
furia e ho messo il pigiama, cercando di lavare i denti per mascherare
quell’odoraccio e un po’ di crema idratante per
lenire le bruciature che mi
hanno causato i miei stessi succhi gastrici a contatto con la pelle del
viso.
Laika pensa solo ai
croccantini e per fortuna non mi sta in mezzo ai piedi mentre corro da
un capo
all’altro della stanza.
Dopo nemmeno
mezz’ora da quando sono rientrata, è arrivato
Lukas. Non era incazzato, di più.
Mi ha fulminato con
lo sguardo e so che avrebbe voluto urlarmene di cotte e di crude, ma
per mia
fortuna erano ancora le sei e mezza e ha dovuto mantenere basso il tono
di
voce. Non che questo l’abbia fermato dal cominciare
un’arringa accusatoria
tanto pesante che ad una certa ho dovuto confessare cosa avevo fatto,
sperando
che almeno queste informazioni lo distraessero e gli facessero capire
l’importanza di ciò che ho scoperto.
Le mie speranze si
sono infrante perché, purtroppo, si è infuriato
ancora di più.
Un fiume di sensi
di colpa su quanto si fosse preoccupato, la lista degli ospedali di
Ginevra e
l’hotel che aveva contattato, la notte insonne, il fatto che
avesse dovuto
chiamare il suo responsabile di notte per avvisarlo che ero
stata male e
che doveva venire ad aiutarmi, rendendolo vittima a sua volta di un
predicozzo
notturno dal suo (ex)capo, la strada che aveva fatto stanco e
preoccupato,
prendendo forse una decina di velox da Zurigo a Vaud… e di
come abbia messo in
pericolo sia la mia vita che quella di Laika, oltre
all’accusa non tanto velata
che ho cercato di levarmelo di torno appositamente per fargliela alle
spalle,
incurante del fatto che gli Sluagh avrebbero potuto aggredirmi. Tutto
perché
non so essere minimamente paziente e che dovrei andare davvero da uno
psicologo, per via di un disturbo ossessivo e non per ciò
che ho visto.
Dopo circa un’ora e
mezza di sfuriata, si è fermato per prendere fiato. Per
fortuna che non dorme
da due giorni ed è stanco, se no saremmo stati qui fino a
lunedì.
“Non ho davvero più
parole per discutere con te. Trent’anni buttati nel cesso,
Erika.” Si siede sul
letto della camera d’hotel, scuotendo la testa con
frustrazione.
“Non è come pensi,
dovevo per forza capirci di più,
perché…” provo ad avvicinarmi a lui.
“Non dire niente.
Non provare nemmeno ad infinocchiarmi a parole come fai sempre. Questa
volta
no, sei stata troppo idiota e hai fatto una cazzata di proporzioni
bibliche.”
Mi scosta la mano, offeso.
Sbuffo, ormai il
peggio è passato. Ora farà l’offeso per
qualche ora, forse anche per qualche
giorno, poi gli passerà. Passerà si fa per dire,
probabilmente me lo rinfaccerà
anche dopo il quarantesimo anniversario, ma sarebbe stato molto peggio
se
avesse deciso di andarsene. Per mia fortuna, è ancora qui.
Mi sdraio sul letto
e cerco di riflettere su ciò che è appena
accaduto. Anche se ha deciso di darmi
le spalle, pure Lukas si sdraia e Laika va finalmente a fargli le
feste,
imbarazzata dopo averlo visto così alterato.
Mi sento davvero
una scema per ciò che ho fatto. Non avrei mai pensato che
Camille potesse
scappare e diventare uno di quegli spettri di cui parlava Brianna. Era
uno
scenario che non mi sarei nemmeno immaginata, e invece ho fatto un
danno enorme
e dovrò rimediare.
Prendo il telefono
per vedere dove si trova effettivamente questa Rue Des Travailleurs in
cui vive
Suzette. Lo smartphone ci tiene a ricordarmi che ho ancora diversi
messaggi non
letti su Whatsapp e delle chiamate perse.
Marko e Mikaela mi
hanno cercato… vado sulla chat di Whatsapp e trovo i loro
messaggi. Vedo che
Mikaela ne ha mandati 12, ma so che è una di quelle che
preme invio dopo appena
tre parole, poi dalla anteprima vedo qualche emoji, quindi non penso
sia niente
di urgente. Marko invece mi preoccupa di più dato che ormai
non ho più dubbi:
ciò che vedo nella mia testa è davvero
ciò che succede nella realtà, anche se
non so come sia possibile.
Ciao Erika,
scusa se ti disturbo, ho fatto un casino e ho bisogno di parlarti di
persona.
Per favore contattami quando puoi, è urgente.
Sospiro, triste. Eh
sì, so già cosa vuole dirmi, anche se non conosco
ancora le dinamiche precise
dietro al suo licenziamento… mi dispiace molto per lui, non
immaginavo che
vivesse una situazione del genere.
Ciao Marko,
scusa se non ho risposto subito. Attualmente non mi trovo in
città. Sarò di
ritorno presto, tra qualche giorno. Ti scriverò appena
sarò a casa e parleremo
meglio di ciò che è successo. Non ti preoccupare,
risolveremo tutto. Buona
giornata.
Non credo di
avergli mai detto tante parole in una volta, ad eccezione di quando ci
scambiavamo le informazioni di lavoro. Stargli vicino mi ha sempre
trasmesso
una forte sensazione di ansia e fastidio. Tuttavia posso solo
immaginare quanto
sia stato brutto ricevere quel fulmine a ciel sereno e mi sento anche
in colpa
perché, se fossi stata più presente,
probabilmente non gli sarebbe successo
niente. È vero, è un adulto che deve prendere in
mano la sua vita, ma non
pensavo che avrebbe davvero combinato un disastro in mia
assenza…
Mi ha già risposto,
a quanto pare non è riuscito a dormire nemmeno lui stanotte.
Grazie, resto in
attesa di tue notizie. Spero tu stia bene. A presto.
Apro la chat di
Mikaela, riporta la data di ieri alle 15:30.
Ehi Erika, tutto
bene? *emoji che sorridono*
Ciao, non volevo
disturbarti
Mi sei venuta in
mente, prima
E ho pensato di
scriverti per sapere se è tutto ok *emoji che ridono*
Quando torni
devi raccontarmi, eh
Sono tutti messaggi
dello stesso stampo, incredibile quanto sia riuscita a ripetersi in
così poche
parole. Era proprio strafatta…
Ciao, appena
torno ti racconto tutto. Chiedi a tua nonna se è possibile
incontrarci la
settimana prossima.
Invio il messaggio
e vado su Google Maps per vedere quanto dista la via di Suzette
dall’hotel.
Appena mezz’ora con i mezzi pubblici…
Lukas cambia fianco
e stavolta mi guarda con gli occhi gonfi dal sonno arretrato.
“Ne stai
combinando un’altra?”
“Grazie per la
fiducia… sto solo vedendo dove vive Suzette.”
Fa un profondo
respiro dalle narici, estenuato. “Ormai l’hai
tirata fuori dal treno, non è da
considerarsi lo stesso un successo?”
“Amore, tu non hai
visto come era ridotta… e poi… lei è
riuscita a toccare fisicamente Suzette.
Non capisci la gravità della situazione. Non posso lasciare
quella ragazza da
sola con uno spettro impazzito.” Gli dico mentre guardo quale
tram dovrei
prendere per raggiungerla.
Lukas osserva lo
schermo del mio telefono per qualche secondo prima di mormorare
“Sono venuto
con la Clio… ci andremo dopo aver fatto qualche ora di
sonno. Hai la faccia
rossa, cosa ti sei fatta?”
“Dove?” mi alzo per
andare in bagno a vedere di cosa parla e vedo che ho il mento davvero
un po’
arrossato e i lati della bocca secchi e screpolati. Vomitarmi addosso
non è
stata un’ottima cosa, penso mentre applico un altro
po’ di crema e torno sul
letto.
“Rispondi. Cosa ti
è successo alla faccia?” sta fingendo un
po’ di indifferenza nel tono, ma so
che è preoccupato per me. Mi fa sorridere perché
anche se è arrabbiato, non
riesce a sorvolare sul fatto che io possa essermi fatta male.
“Non è
niente…” una
sua occhiataccia accusatoria mi fa desistere dal raccontargli
l’ennesima palla.
“Quando sono tornata sul treno… non avevano
più l’aspetto di quando li ho
conosciuti. Erano letteralmente cadaveri. Gesabette era quella
più normale,
Frank non aveva nemmeno la stessa faccia e Camille… lei
è stata messa sotto da
un treno. Ti lascio immaginare.”
“Che schifo.”
Borbotta. “Ma non spiega perché hai la faccia a
chiazze.”
“Sei molto
sensibile, complimenti.” Lo guardo con la coda
dell’occhio, ricordando che
poche ore prima ho accusato anche Frank di essere insensibile e
realizzo che
quello che notavo di affascinante in lui, era ciò che ho
sempre visto in Lukas.
Sorrido più serena tra me e me, ma quando incrocio di nuovo
i suoi occhi
capisco che se non gli do una risposta, attaccherà con
un’altra filippica.
Riesco quasi ad udire gli ingranaggi del suo cervello che ne stanno
fabbricando
una ad hoc. “Ho vomitato quando ho visto com’era
ridotta Camille. Purtroppo ho
vomitato anche nella realtà. Ho messo i vestiti sporchi in
valigia. Sono
rimasta col vomito addosso per qualche ora e
voilà!”
La sua espressione
disgustata mi fa quasi ridere. Per fortuna non ha pensato cose tipo potevi
soffocare nel vomito!, che era la cruda realtà.
Sembra un po’ più calmo.
“Adesso che è venuta la
nausea anche a me, proviamo a dormire qualche
ora prima di andare a caccia di spettri.”
Ciao
ragazzi!
L’impulsività
a volte fa commettere errori grossolani. Certo, alla nostra Erika
adesso sta
tremando la terra sotto ai piedi: il suo obiettivo è far
scappare dal treno
quattro persone dannate entro il primo novembre, e il tempo
stringe… pensava
che fosse facile dato che, in fondo, con Clara non ha fatto
chissà quale
sforzo. Purtroppo ha ignorato i consigli di Brianna, prendendo un
po’
sottogamba le sue avvertenze.
L’idea
di essere sufficientemente forte da combattere gli Sluagh
l’ha accecata nel
giudizio. Purtroppo è un personaggio un po’
superbo, che inconsciamente ancora
crede di poter fare tutto da sola. Le vecchie abitudini sono lente a
morire, ma
non potevo non darle questo peccato capitale… una persona
che non crede nelle
proprie capacità, non potrebbe mai affrontare tutto questo.
Deve ancora
imparare i propri limiti, e questa lezione le sarà
sicuramente utile.
Avrete
notato che i nostri demoni-ombra non si fanno vedere da un
po’. È purtroppo
normale, hanno cambiato strategia dopo aver perso quattro dei loro.
Erika però
è troppo presa dai suoi obiettivi, si tiene questo segreto
per sé…
Ancora
per poco, perché vi annuncio che, per finire la storia entro la prima settimana di gennaio, a partire da adesso le pubblicazioni saranno duplici: sabato e martedì. La storia è composta da 30 capitoli e quindi siamo a poco più della metà, ma 30 settimane mi sembrano un po' troppe, anche perché adesso arrivano le parti più coinvolgenti e sarebbe noioso attendere fino a marzo 2024 per scoprire come va a finire. Al prossimo capitolo comunque ci sarà la
conclusione del Camille-arc e
lascerò a voi trarre le conclusioni.
Da questo capitolo in avanti, quando
tratterò scene che
potrebbero dare fastidio a chi non se la sente di leggere descrizioni
un po’
crude, metterò un avviso prima del capitolo. Vi preannuncio già che questa NON
è una storia horror,
quindi ragazzi non vi preoccupate, non cadrò mai nel cringe.
Grazie
a chi ancora legge, segue e commenta!
Vi
abbraccio tutti, alla prossima :D