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Autore: Spoocky    29/11/2023    3 recensioni
Un guerriero senza patria, un devoto rifiutato dal suo Credo e un'adolescente senza radici, ognuno con le proprie difficoltà ed un passato difficile, si trovano costretti dalle circostanze a doversi aiutare a vicenda per raggiungere un obiettivo comune: attraversare le infide paludi di Arrak.
Questa storia partecipa al contest “D&D Mania – Capitolo II” indetto da Ghostro sul forum di Efp
Genere: Avventura, Hurt/Comfort, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Carissimi voi che state leggendo, vi chiedo scusa per aver impiegato tanto ad aggiornare: purtroppo (o per fortuna) ho iniziato un nuovo lavoro e sono stata molto presa in queste ultime settimane. Mi scuso per avervi fatto attendere tanto.
Spero che questo capitolo ricco di eventi compensi almeno in parte l'attesa.

Buona Lettura ^^



Camminavano immersi nello stesso silenzio che li aveva accompagnati durante il pasto. Ognuno del tutto a proprio agio con l’altro come se si conoscessero da una vita intera e non solo da poche ore. Ognuno grato in cuor proprio per la mancanza di curiosità dell’altro e lieto di non sentirsi rivolgere domande inutili o scomode.
Till, che non aveva mai visitato quelle zone, lasciò che a fare da guida fosse Jonah, che invece sembrava sapere benissimo dove andare. Del resto, a pensarci bene, sarebbe stato strano il contrario: persino uno lontano dalla Chiesa come lui aveva sentito dire che nel tempio di Irladÿs fosse custodita un’importante reliquia, appartenuta ad un qualche patriarca dal nome impronunciabile, un devoto di Shuva non poteva non conoscerne l’ubicazione. Aveva anche notato, però, che il suo giovane compagno di viaggio aveva una tendenza innaturale ad incespicare ed inciampare, anche laddove non sembrava ci fossero ostacoli. Ogni tanto, addirittura, cadeva. Standogli dietro, aveva anche notato il suo strano modo di camminare: avanzava con le spalle curve, come se portasse un peso eccessivo, che il suo misero bagaglio non bastava a giustificare. Non sembrava esserci una spiegazione logica a questi avvenimenti ma, per rispetto alla discrezione che lui stesso riceveva e perché, comunque, non erano affari che lo riguardassero, il guerriero si guardava bene dal chiederlo.
Dal canto proprio, Jonah era ormai avvezzo a quegli impedimenti e aveva imparato a mascherarli, facendoli sembrare frutto della propria goffaggine anziché di origine sovrannaturale. Ormai gli era chiaro: lui non voleva che andasse a Irladÿs. Per quanto il suo scontento gli confermasse che andarci era la decisione giusta, sapeva bene che avrebbe fatto tutto quanto in suo potere per rendergli il viaggio il più difficile possibile. Per qualche motivo, però, la presenza di Till sembrava intimorirlo. Attraverso il marchio, riusciva a percepire la sua rabbia impotente, che gli scaricava addosso con fitte improvvise e lancinanti. Per sua fortuna, Till aveva lasciato che lo precedesse e dargli le spalle gl’impediva di mostrargli le proprie smorfie di dolore. Altrimenti, il guerriero avrebbe capito subito che qualcosa non andava, e non voleva attirare la sua attenzione sulla propria condizione.

Il bosco iniziò a diradarsi e la vegetazione a modificarsi.
Al posto delle alte conifere, degli ippocastani e delle querce, cominciarono a vedere dei salici e dei pioppi, a cui iniziarono ad affiancarsi dei canneti man mano che cominciavano ad apparire i primi acquitrini.
“Ci avviciniamo allo Shivlach.” Spiegò Jonah “Irladÿs si trova sulla sponda opposta.”
Till gli rivolse un grugnito d’assenso: “Quanto manca, secondo te?”
“A quanto mi hanno detto, non più di tre ore di marcia, ma dovremo attraversare le paludi di Arrak, e potremmo metterci di più.”
“Allora direi che è il caso di fermarci a mangiare qualcosa, intanto che abbiamo ancora la terra sotto i piedi.”
“Mi sembra un’ottima idea.” Assentì Jonah, iniziando a sfilarsi la borsa dalle spalle.
Sedettero su un piccolo spiazzo erboso e, ancora una volta, divisero tra loro quel poco che avevano senza bisogno di chiedere, come due vecchi compagni d’armi.

 


Man mano che proseguivano, la vegetazione continuò a diradarsi fino a scemare in canneti e piante acquatiche, mentre gli acquitrini si facevano sempre più ampi e frequenti, divisi solo da stretti sentieri fangosi. Più avanzavano, tuttavia, più l’impressione che ci fosse qualcosa di molto sbagliato nell’ambiente che li circondava si faceva sentire.
Fu Jonah a portare per primo la mano all’elsa della spada che portava sulle spalle, bloccandosi all’improvviso in mezzo al sentiero.
“Cosa c’è?” L’apostrofò Till, stringendo a propria volta la mano sulle ossa che costituivano l’impugnatura della sua arma.
“Shh.” Lo zittì l’altro “Senti?”
Il guerriero tese l’orecchio: “No. Non sento niente.”
“Appunto. Siamo in una palude: dovremmo essere circondati da nugoli d’insetti, o quantomeno sentirli. Per non parlare delle rane.”
“Hai ragione.” Confermò Till, sfoderando la spada “C’è decisamente qualcosa che non va.”
Non visto, Jonah trasse un lieve sospiro di sollievo: il rumore di fondo o, meglio, la sua assenza gli era sovvenuto solo in un secondo momento. Il primo, vero, segnale d’allarme era il marchio che aveva smesso di fare male. Lui arretrava solo in presenza di minacce dirette all’incolumità del suo portatore: gli serviva vivo e, se voleva che lo restasse, doveva permettergli di operare al massimo delle sue funzioni. Si sarebbe limitato a non interferire o, se proprio, a metterlo in difficoltà al punto che si trovasse a un passo dalla morte, quando sarebbe stato più facile sopraffarlo.
Per sua fortuna, Till aveva capito subito, non aveva davvero voglia di spiegargli tutto quel retroscena.

 


Avanzarono in quel silenzio irreale per alcune miglia, quando, all’improvviso, un rumore li fece sobbalzare.
Fu una specie di piccola esplosione, niente che avessero mai sentito prima.
Si scambiarono un rapido sguardo e corsero verso la fonte del rumore. Avvicinandosi, iniziarono a distinguere lo sciabordio dell’acqua agitata e le grida di quello che sembrava un ragazzino che, a fatica, cercava di tenere a bada una decina di esseri mostruosi.

Al posto dell’epidermide, avevano una sorta di corteccia da cui pendevano alghe in vari stadi di putrefazione, le zampe anteriori erano chele unite da una sorta di membrana mucillaginosa. Alcuni avevano degli abbozzi di arti deformi che spuntavano, simili a zampe d’insetto, dal tronco.
Uno di loro, per inseguire il ragazzo, era strisciato fuori dall’acqua, e videro che il suo corpo terminava con una pinna caudale. Strisciando, lasciava dietro di se una sorta di bava collosa, da cui esso stesso sembrava districarsi con difficoltà.
Pur essendo privi di orecchie, in qualche modo dovevano averli sentiti arrivare, perché i più vicini si voltarono di scatto verso di loro, spalancando le fauci. Le loro bocche viscide erano prive di zanne, ma s’intravedevano diverse file di uncini alla base della gola.
Emisero in simultanea una specie di sibilo distorto, appena udibile per gli umani, ma che provocò un subitaneo ribollire di tutte le acque circostanti.
“Per le piaghe putrescenti di Shuva!” Imprecò Till, balzando in posizione di guardia.
Al suo fianco, Jonah era talmente sgomento da non aver neppure realizzato che l’altro avesse bestemmiato. Anche lui, però, aveva ormai sguainato la spada ed era pronto ad usarla.
Istintivamente, senza bisogno di accordarsi a voce, si posero schiena contro schiena, i muscoli tesi e pronti a scattare.

Il primo si fece sotto, balzando fuori dall’acqua con la bocca spalancata. Jonah lo tagliò in due con un fendente. I resti si contorsero a terra per qualche istante, spargendo altra di quella bava mucillaginosa. Till, a sua volta, ne aveva decapitato un altro con un tondo.
Dalle loro bocche, gli esseri emettevano una specie di risucchio che, anche a distanza, era sufficiente per far perdere loro l’equilibrio e attirare arti o lembi di vestiario verso le loro fauci, dove gli uncini avevano preso a roteare come macine.
Sentirono di nuovo quello scoppio, e videro che il ragazzo aveva in mano uno strumento strano, una specie di bastone fumante, mentre uno di quegli esseri aveva la testa spappolata.
Non ebbero tempo, tuttavia, di soffermarvisi, perché subito vennero attaccati da uno sciame di bestie inviperite. Era evidente che, più dei loro compagni subivano danni, più la loro ferocia aumentava, come se fossero membra di un unico corpo.
“E’ una colonia!” Gridò Till, il primo a rendersene conto “Non ragionano come singoli, ma in gruppo.”
Jonah, che pure non aveva ben chiare, in quel momento, le implicazioni della cosa, annuì.

Scoprirono, loro malgrado, che quella che all’inizio avevano scambiato per corteccia, era in realtà un esoscheletro abbastanza robusto da proteggerli dai colpi di spada. Esso non era, tuttavia, uniforme: aveva delle scaglie che si separavano per permettere al corpo di articolare i movimenti, e lasciava scoperto addome, testa e collo, dove erano vulnerabili.
A colpi di spada riuscirono a farsi strada attraverso gli assalitori, complice anche il fatto che la bava fuoriuscita dai cadaveri intrappolava anche quelli vivi, che faticavano a liberarsi.
“Prendi il ragazzo!” Gridò Jonah a Till “Io vi copro le spalle!”
Senza farsi troppi problemi, il guerriero afferrò l’adolescente sotto le ascelle e se lo carico sottobraccio come una bisaccia, incurante delle sue proteste.
Dietro di loro, il giovane devoto di Shuva menava colpi a due mani. La maggior parte andavano a segno e, anche quelli che non colpivano i mostri, riuscivano quantomeno a tenerli a distanza. Più ne colpiva, però, più ne arrivavano, attratti dal movimento e dai versi dei compagni. Rischiavano di trovarsi circondati.
Fu Till ad avere il lampo di genio.
Mentre correva, si chinò verso il ragazzino: “Ehi, tu! Non è che per caso hai un acciarino?”
Gli rispose una voce stridula e seccata: “Cosa ti fa pensare che possa averne uno?”
“Ce l’hai o no?”
“Sì, ce l’ho.”
“Dammelo.”
Glielo strappò di mano, suscitando altre proteste a cui non diede ascolto, e lo strinse nel pugno. La debole fiammella prese ad ardere come una fiaccola.
Le bestiacce, abituate a vivere nelle acque torbide della palude, non reagirono bene al calore e alla luce. Quelli che si trovavano davanti a loro cominciarono a indietreggiare di colpo, ammassandosi gli uni sugli altri e ribaltandosi, in un contorcersi dissennato di membra e code appiccicose. Agitandosi, producevano altra bava, che rallentava in modo significativo quelli che arrivavano in loro soccorso, cercando di avventarsi su Jonah.
Quell’espediente permise ai tre di guadagnare terreno ma, all’improvviso, si ritrovarono sull’argine del fiume, con le bestie ad incalzarli.

Till riusciva a tenerli a distanza con la fiamma dell’acciarino, ma, poiché questa stava diminuendo d’intensità, si vide costretto a restituirlo al ragazzo e sfoderare la spada.
“Quell’affare che usi, funziona ancora?” Domandò Jonah, senza però voltarsi a guardarlo.
“Sì, ma mi occorre tempo per ricaricarlo.” Rispose la voce stridula dell’adolescente “E posso lanciare solo un colpo per volta.”
“Allora resta dietro di noi.” Gli ordinò “Sporgiti solo per attaccare e vedi di andare a colpo sicuro. Noi li teniamo impegnati.” Nel dirlo, però, scambiò con Till uno sguardo eloquente: quegli affari erano troppi, e ne stavano arrivando altri. Presto, ne sarebbero stati sopraffatti, ma non avrebbero ceduto senza combattere.
Mentre caricava il suo strumento, il ragazzo avvertì un rumore strano alle proprie spalle. Voltandosi a guardare, s’accorse che l’acqua del fiume aveva iniziato a ribollire, mentre una grossa sagoma scura si faceva sempre più nitida sotto la superficie.
“Ragazzi…” Chiamò, con una voce che non era decisamente di un ragazzo “Ragazzi…”
I due si girarono di scatto e, quello che videro li lasciò entrambi a bocca aperta.

Dal letto del fiume emerse una creatura bislacca.
Era del tutto glabra, la pelle liscia di un colore indefinito tra il marrone ed il grigio, con macchie più scure e una lunga coda che sembrava quella di un girino. Aveva quattro zampe palmate e semi trasparenti, ciascuna dotata di quattro dita, con cui scavalcò senza troppa difficoltà i tre esseri umani. Gli occhi azzurri erano privi di palpebre e dalla testa spuntavano sei branchie esterne, ricoperte da filamenti rosa scuro, fitti come i rami di un albero. La sua andatura era dinoccolata e dondolante, addirittura goffa, come se non fosse abituato a muoversi fuori dall’acqua. Nonostante le dimensioni considerevoli – al garrese era alto almeno tre metri – l’essere era talmente leggero da non lasciare impronte al proprio passaggio.
D’istinto, Till e Jonah si strinsero spalla contro spalla, pronti ad attaccare, ma il nuovo arrivato li ignorò del tutto, concentrandosi invece sui mostri che li stavano attaccando. Si frappose fra i tre umani e le bestie, e si fermò un momento a guardarli. Le branchie si flessero fino a richiudersi, per poi riaprirsi del tutto, come un battito di ciglia. Poi, l’essere spalancò la bocca, rivelando una cavità priva di denti, e s’avventò sulla compagine di mostruosità che si dimenavano di fronte a lui. Sotto gli occhi sgomenti dei due guerrieri e dell’adolescente, ne aspirò in bocca una decina, inghiottendoli quasi senza masticarli. Deglutito quel primo boccone, continuò pacifico a nutrirsi degli altri, mentre quelli che non erano stati intrappolati dalla bava strisciavano negli acquitrini da cui erano arrivati il più in fretta possibile. Quando la creatura ebbe finito di pascersi, non ne era rimasto nessuno.

Sazio, e con il ventre più tondo rispetto a quando era uscito dall’acqua, l’essere girò su sé stesso, sfiorando i due uomini con l’immensa coda ma senza loro nuocere, e si avviò per tornare da dove era arrivato. Si lasciò scivolare nel fiume ma, questa volta, non s’immerse del tutto.
Rimase con gli occhi a pelo d’acqua e rimase a fissarli, le branchie si aprirono e richiusero, di nuovo.
L’adolescente si voltò verso Till e questi, a sua volta, si girò verso Jonah il quale, sentendosi due paia d’occhi addosso, tre, inclusi quelli della creatura, decise di riporre la spada e di avvicinarsi con le mani aperte verso l’essere, dimostrando di non essere una minaccia.
L’essere lo lasciò avvicinare senza nuocergli, anzi, parve sporgersi un poco perché l’uomo potesse posargli una mano sul muso. Le branchie scattarono di nuovo, e parve sorridere.
“E’ amichevole?” Domandò Till, sospettoso.
Senza togliere la mano dalla testa della creatura, Jonah annuì: “Credo che sia il Guardiano del fiume.”
Alle spalle di Till, l’adolescente chiese: “Sei il Guardiano del fiume?”
Le branchie della creatura si mossero in quello che parve un cenno d’assenso, e l’essere si sporse dall’acqua, come per invitarli a salirgli sul capo.
“Credo voglia darci un passaggio.” Si spinse a indovinare Jonah, che già stava salendogli sopra.
“Sei sicuro che non voglia affogarci e poi, magari, mangiarci?” Il tono di Till era diffidente, ma già l’uomo aveva riposto l’arma e stava avviandosi verso il fiume.
Jonah si chinò verso di lui per porgergli una mano ed aiutarlo a salire: “Non credo. Insomma, guardalo: è grosso come un palazzo. Se avesse voluto farci del male lo avrebbe già fatto.”
“Sì, hai ragione.” Confermò il guerriero, che si sporse poi a propria volta per aiutare l’adolescente a salire.
La pelle della creatura era liscia, e anche un po’ viscida, ma calda e asciutta. I tre non ebbero difficoltà a mettervisi comodi. Una volta che si furono sistemati, l’essere iniziò a nuotare, usando le quattro zampe come remi e la coda come timone, si muoveva sinuoso lungo il corso del fiume, con le branchie immerse nell’acqua ma la sommità della testa all’esterno, perché i suoi passeggeri non si bagnassero.



 
  
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