Anime & Manga > Haikyu!!
Segui la storia  |       
Autore: drisinil    02/12/2023    4 recensioni
[KageHina]
«Hai mai fatto una partita sotto la neve?» chiede Shoyo, senza smettere di fissare il cielo. I fiocchi gli colpiscono gli zigomi, la fronte, le labbra e si sciolgono a contatto col suo calore, lasciando tracce umide, che rifletttono la luce.
Tobio chiude gli occhi. «Ma quanto sei stupido? No! Ti pare possibile giocare a pallavolo in esterno con la neve?»
«Facciamolo!» esclama Shoyo, per tutta risposta, rosso in viso, eccitato.
Le fiamme gli danzano negli occhi, tutto in lui è sorriso.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shouyou Hinata, Tobio Kageyama
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Che in piena notte Hinata Shoyou si trovi seduto sul piano della cucina di Miya Atsumu, in pantaloni della tuta e maglietta oversize, non è una novità.

Non è una novità nemmeno che Atsumu gli infili in bocca qualcosa di rovente, preso direttamente dalla padella. Nel caso specifico, è un gamberetto, che Shoyou mastica allegramente, aspirando aria fredda dagli angoli delle labbra.

«Ancora due minuti» valuta Shoyou, dopo aver deglutito. «Di sale è perfetto.»

«Non so come fai a non scottarti la cazzo di lingua. Hai la bocca d’amianto?» 

Shoyou sorride alla schiena di Atsumu, mentre la sua mente insegue un qualche ricordo, senza però riuscire a metterlo a fuoco in modo compiuto. È il rumore dell’olio che sfrigola a riportarlo al presente.

Un attimo dopo si trova in mano la ciotola capiente, bianca, lucida, piena fino all’orlo di riso speziato, tofu fritto, uova, gamberetti e qualsiasi altra cosa Miya ci abbia infilato dentro. Un’identica ciotola staziona già di fronte ad Atsumu, appollaiato su uno degli sgabelli del tavolo alto.

Tuffano le bacchette nel piatto con spaventosa sincronia e per un po’ si sente solo un confortante lavorio di mascelle. 

Shoyou solleva lo sguardo verso la finestra: la notte fredda di Osaka, con il vento di mare che scuote i rami spogli dei ginko, è rimasta chiusa fuori dai doppi vetri delle finestre, insieme alla grigia malinconia di dicembre, che lo assale a tradimento appena mette il naso fuori dalla palestra e la pallavolo smette di svolgere la sua silenziosa e potente funzione anodina.

A casa di Miya, nel minuscolo bilocale gemello di quello che occupa Shoyou, nel medesimo residence, quella malinconia si sfilaccia ed evapora nel tepore dei radiatori sempre accesi, come se d’inverno fosse normale andare in giro scalzi, in maniche corte e calzoncini, come se Osaka fosse il Brasile, come se la casa di Kami dove è nato, piena di spifferi, a ridosso di boschi innevati già a metà di novembre, fosse una terra di fiaba, un posto dove non ha mai veramente vissuto.

Ogni volta che Akaashi viene a Osaka, un paio di volte al mese, rifila a entrambi un predicozzo sui cambiamenti climatici e il protocollo di Kyoto, ma Osaka non è Kyoto e la contrizione non dura neanche il tempo di fargli richiudere la bocca; le sue parole sagge si infrangono contro un muro di serietà fasulla e sorrisetti complici, che poi diventano risate e maratone infinite  di anime stupidi, mentre il ramen scorre a fiumi e i bisbigli riempiono la notte.

Vanno d’accordo, l’alzatore e lo schiacciatore dei Jackals, facilmente, naturalmente. Una straordinaria intesa sportiva, dicono tutti.

Ma Shoyou lo sa, e si chiede se anche Atsumu lo sappia, che la verità è leggermente diversa, perché c’è qualcosa fra loro, che nessuno dei due ci tiene a definire, ma che, palesemente, non è intesa sportiva. 

È una specie di tensione ulteriore, un formicolio, un’idea senza contorni che nasce sul campo, fra l’adrenalina e il sudore, ma poi scivola negli spogliatoi, li segue fino a casa e si insinua nelle parole, negli sguardi, nel cibo che condividono, nelle corse del mattino, nelle chiacchiere stupide mentre la città si addormenta.

«Quindi, che c’è?» domanda Atsumu a bruciapelo, intercettando gli occhi di Shoyou sopra l’orlo della ciotola.

«Che c’è?» ripete Shoyou distratto.

«Di solito quando stai seduto e zitto per più di mezzo minuto non è buon segno.»

«Sto mangiando. Ho fame. E questa roba è fantastica.»

Atsumu  cerca invano di trattenere un ghigno soddisfatto. 

Cerca invano di distogliere lo sguardo. 

Cerca invano di smettere di pensare a quello che pensa sempre più spesso, ogni volta che si trova da solo con Shoyou e il mondo inizia all’improvviso a sembrargli molto più pericoloso, gli spigoli aguzzi, i bordi taglienti. Sarebbe facile ferirsi. Samu sostiene che non può finire altro che così e che lui è il solito coglione, che gira intorno alle cose all’infinito e poi in mano non gli resta niente. 

Ad Atsumu piace la sensazione di quel girare intorno alle cose, specie se le cose sono Hinata Shoyou in quella casa, seduto sul ripiano della cucina, con la bocca piena e i piedi scalzi e le lentiggini che brillano quando la luce le colpisce. E tutta la forza del mondo, in un corpo così agile, solido e compatto.

Per questo, di solito manderebbe affanculo con il pensiero il suo prezioso gemello e lascerebbe correre, si godrebbe il momento; ma stanotte è diversa e per qualche motivo non ci riesce.

«È passata una settimana, Sho-kun…»

«Da cosa?»

«Non fare il finto tonto.»

Shoyou mugola un interrogativo dubbioso con le guance gonfie di riso.

«Neanche il vero tonto… »

Shoyou cede, con un breve sospiro e un mezzo sorriso: «Che vuoi sapere?» 

«Tu che vuoi dirmi?» 

Si guardano. Stanno camminando sulle uova, il che è strano, perché il loro rapporto è esplicito, sfacciato, chiassoso. Per la prima volta a Shoyou viene il dubbio che tutto quel rumore serva per coprire quello che c’è sotto.

«Non lo so. È complicato» dice Shoyou. 

«Cosa è complicato?»

«Oh, Tsumu, sei peggio di Tooru-san. Tutto. È tutto complicato.»

«Tutto significa Kageyama

Ecco, Miya l’ha detto. Quel nome enorme si deposita in mezzo al soggiorno, ingombrante come la montagna che è nei suoi kanji. 

Shoyou ha ripreso a masticare lentamente.

«Avete parlato?»

«Sì… » getta indietro la testa, mugola qualcosa di incomprensibile in portoghese. «Anzi, no, mi sa di no.»

«Cioè, sei andato apposta a Tokyo nell’unico fine settimana libero della stagione e lo stronzo arrogante non ti ha nemmeno lasciato parlare? Ma chi si crede di essere?»

«… disse il campione mondiale di umiltà.»

«Quindi lo difendi? Sul serio? Pensi che se lo meriti?»

«Piantala Tsumu. Ti ho detto che è complicato. E forse dovresti farti un po’ di cazzi tuoi, perché questa storia proprio non ti riguarda.»

Gli occhi di Atsumu si spalancano, le sue bacchette sbattono con violenza sull’orlo della ciotola, il riso piove sul piano del tavolo. «E invece sì, che cazzo! Sono il tuo alzatore: come stai mi riguarda; se qualcuno fa lo stronzo con te mi riguarda; se in campo fai schifo perché ti comporti come un sedicenne depresso, mi riguarda e come!»

Il mio alzatore. Le spalle di Shoyou si abbassano, appoggia la ciotola, la sua voce diventa calma e fredda: «Ti ho detto di piantarla, Miya-san.»

«Oh ma che paura! Altrimenti che fai? Chiami Kageyama e ti nascondi dietro le sue spalle come una volta? Mi piacerebbe un sacco spaccargli la faccia, anzi morivo dalla voglia di spaccargliela già al liceo, ma la sai una cosa? Se ora lo chiami, quello neanche ti risponde, perché è un fottuto narcisista e di te non gliene frega proprio un cazzo.»

Magari fosse vero. Kags risponderebbe se lo chiamasse, ma… 

Shoyou salta giù dal ripiano, agile come un gatto, fa scattare il mento in alto, ha gli occhi liquidi di collera e le labbra indurite dalla tensione della mascella, deformate in un sorrisetto crudele. «Pensi davvero di essere meglio di lui, Miya? Sognatelo! La verità è che non lo sei. Come alzatore, come compagno di squadra come…»

«… come cosa? Finisci la frase se hai il coraggio.»

Shoyou schiocca la lingua e sbuffa una specie di risatina insolente «…partner. Come partner. E intendo in tutti i sensi possibili, giusto Miya?»

È una provocazione bella e buona, servita su un piatto d’argento, ma Shoyou non riesce a trattenersi, perché dentro è ridotto a un casino, un groviglio di lacci strappati, un nodo gordiano di orgoglio, delusione, amarezza, un desiderio latente e profondo di sfogarsi, di urlare, di esprimersi, lui che a parole non è mai stato bravo. E quando era a Tokyo la settimana prima, davanti a un tè bollente e al viso composto e sereno di Tobio, le parole che gli sono uscite erano tutte sbagliate. Tutte misere, spezzate, inutili, armi spuntate contro una corazza infrangibile.

Le urla gli sono rimaste compresse sotto il diaframma, bloccate, ghiacciate dalla prima neve che si ammonticchiava fuori dalla vetrina, ai bordi della strada, fra le luci delle auto e i cappotti colorati della folla di Shibuya. 

Tobio era seduto di fronte a lui, ma irraggiungibile. 

E invece Atsumu è lì, con l’arroganza e la collera che gli segnano lo sguardo, pronto a rispondergli per le rime, a insultarlo, a dirgli in faccia tutto quello che non vuole sentire.

È lì. Proprio di fronte, con le nocche sbiancate da quanto forte stringe le bacchette e i chicchi di riso che gli sono schizzati sul collo e sulle mani. 

È in campo, con gli occhi costantemente puntati su di lui; è in palestra ad alzare una palla via l’altra finchè non gli cadono le braccia; è in cucina, con un vecchio grembiule giallo di sua madre, a preparare per lui cibo caldo negli momenti più assurdi; è pronto a ridere di lui e prenderlo per il culo a ogni ora del giorno e della notte. È disposto a discutere, a litigare, ad esporsi, a mostrarsi scoraggiato, debole, sfiancato, o incazzato nero, come in questo momento. 

Miya Atsumu c’è. E da più di un anno, giorno dopo giorno, con una pressione tenace, continua e regolare -  forse neanche del tutto consapevole - sta rimodellando la propria vita quotidiana intorno a lui.

E lui glielo lascia fare. 

Perché?

La risposta si palesa nel mezzo passo furente che fa Atsumu avvicinandosi, nel gesto violento e impulsivo con cui lo afferra per la maglietta e lo inchioda con lo sguardo: Miya Atsumu lo ha preso e lo ha messo al centro esatto del proprio mondo, oggetto della sua smisurata, prepotente, ingombrante, invadente attenzione. 

E a Shoyou questo piace. 

Lo gratifica, lo appaga a un livello profondo. Da quanto tempo non gli succedeva?

 

Atsumu lo afferra e quasi lo solleva, mentre gli pianta addosso suoi occhi strafottenti e sembra che sia sul punto di sputare saliva o insulti, invece lo spinge via, con la testa incassata fra le spalle e un lunghissimo sospiro. «Allora dai, dimmelo, spiegamelo: cos’ha ‘sto stronzo di così unico?»

Shoyou cammina all’indietro, finché la sua schiena non incontra il mobile e capisce che da questo momento non potrà fuggire. E forse la risposta a una domanda così diretta non ce l’ha, perché Kags sa essere stronzo, e sicuramente è unico, ma spiegare perché significa sconfinare in territori inesplorati e pericolosi e scomodare i massimi sistemi, in piena notte, con Miya Atsumu.

«Dobbiamo parlarne adesso? Volevo solo ingozzarmi a scrocco e farmi una dormita. Non mi pare un buon momento per una terapia di coppia… »

Atsumu vede il pericolo nella tensione della posa di Shoyou, che sembra pronto a uno scatto, nelle mani inquiete che tamburellano, nel fondo crepitante della voce, sotto il tono indisponente. Vede il pericolo e decide di corrergli incontro. Samu ha ragione: è un vero coglione.

«Ti interessa la terapia di coppia? Okay, ti servo subito: parliamo di noi

Shoyou alza lo sguardo, incrocia gli occhi espressivi di Atsumu, deglutisce. «Che c’è da dire?»

«Non lo so, finché non ci decidiamo a dirlo. Ma tu sai a cosa mi riferisco, no?»

Shoyou tace, ma lo sa. Lo sa benissimo e ora sa che anche Atsumu lo sa, ed è stato davvero ingenuo a pensare il contrario.

«Ti è caduta la lingua? Okay, parlo io» si offre Atsumu. «E tu mi stai a sentire. Te lo ricordi quando ti dissi che un giorno avrei alzato per te? Ai nazionali, cent’anni fa…  Ecco, io ero l’unico di tutto il fottuto Metropolitan ad aver capito che se c’era uno del Karasuno a cui valesse la pena tenere gli occhi addosso, eri tu. E non sto qui a farti i complimenti perché voglio portarti a letto. O meglio, a letto ti ci voglio portare, e se non l’hai capito sei un cretino, ma quello che intendo è che quel giorno, quando ti ho visto in campo per la prima volta, io ti ho riconosciuto.» 

«Se è solo per portarmi a letto, guarda che non serve che ti sforzi tanto, basta chiedere, tu sei carino e io sono un tipo disponibile…»

«Oh, taci e piantala di rifilarmi merda a caso, Sho. Sono serio e tu lo sai. Cazzo! Ma ti rendi conto che venivo da Kobe a Miyagi per vederti giocare? Tu nemmeno ci hai mai pensato a che significava per me… prendevo il treno alle cinque di mattina, mi spendevo in biglietti per Sendai tutti i risparmi  - hai idea di quanto mi ha preso per il culo mio fratello? - e il motivo per cui lo facevo era che non volevo che ti dimenticassi di me. Anche se era chiaro che avevi una cotta smisurata per lo stronzo ed eri convinto che fosse lui a far girare il mondo, io volevo restare nel tuo campo visivo, perché ero sicuro che prima o poi avresti capito che non aveva il minimo senso che tu gli corressi dietro in quel modo. Avresti capito che per me il mondo girava intorno a qualcun altro. E quando ho saputo che avevi messo tre mutande e due magliette in una borsa ed eri volato in Brasile ho pensato che ci avevo visto giusto, che saresti tornato guarito. E ora però non ne sono più tanto sicuro… » 

«Allora lasciamo perdere. Chiudiamola qui, stiamocene zitti. Mangiamo e poi andiamocene a dormire, prima che vada a finire in qualche modo spiacevole. Perché davvero, Miya, questa faccenda tu non la puoi capire. Perché stai parlando di tanto tempo fa e non hai nemmeno idea di come stavano veramente le cose, o di come stanno ora. Nessuno ne ha un'idea… »

«E allora spiegamelo! Raccontamelo! Fammi capire! Lo vedi? È questo il problema. Sei un ragazzo intelligente, ma quando si parla dello stronzo va a finire che perdi il cervello» replica Atsumu, amareggiato. «Sul serio, devi deciderti a uscirne, una buona volta, a lasciarlo perdere. E lo sai perchè?»

Shoyou si morde le labbra. «No, e neanche tu. Non lo voglio sapere. Forse non voglio nemmeno uscirne…»

 

«E invece ora apri le orecchie e mi stai a sentire: alla base di questa assurda fantasia sentimentale c’è la tua convinzione infantile che lui sia il grande campione e tu la mezza sega. E questa cosa non è più vera. Se lo chiedi a me, vera non è mai stata. Lui ha talento, okay. Si allena come si deve, okay. Ma basta così. È prevedibile, la sua tecnica impeccabile è noiosa, lui è fastidioso come un brufolo fra le chiappe, perfetto come le cose morte, le statue, le mummie. Sho, tu sei vivo. Tu brilli. Illumini lo stadio, illumini il giorno. Quello noi lo abbiamo battuto solo pochi mesi fa. Tu lo hai battuto.»

«Sì, ma… » l’impeto apologetico di Shoyou si schianta contro gli occhi insofferenti di Atsumu, le mani sui fianchi, l’espressione insofferente. Shoyou non ha le parole per spiegargli cosa significa aver battuto Kageyama Tobio sul campo. 

E mai le avrà per descrivere cosa prova per lui. E’ un sentimento contorto, viscerale, aggrappato ai nervi, acuminato, come essere costantemente pieni di schegge di vetro, che scricchiolano e pungono e tagliano a ogni movimento e ti tengono vivo, teso, focalizzato. E forse - questo pensiero è nuovo, e terrificante -  forse è un modo di amare malato, sbagliato, distruttivo.

Ma è venuto fuori il verbo amare, e Shoyou ne contempla la forma oltre la cortina di fumo delle parole di Miya.

«Ma… cosa? Lo hai battuto, punto, ora basta, ora puoi andare avanti. Il liceo è finito da un pezzo, tu, cazzo, tu sei un’altra persona! Lo dici sempre, no? Che il Brasile ti ha fatto crescere! Shoyou vuoi che ti dica di noi?» Atsumu si interrompe solo per un attimo, si passa la mano sul viso, sospira. «Certo che non vuoi, ma io te lo dico lo stesso. Quello che c’è fra noi, a parte l’attrazione fisica, a parte la compatibilità di carattere, la squadra, lo sport, la mia figaggine spaziale e le cosce da panico che ti ritrovi, è che noi siamo uguali. Non è venuta nessuna fatina del cazzo a regalarci la pallavolo in culla, ce la siamo scolpita addosso sputando sangue e facendoci un culo immane. Soffrendo, Sho. Allenandoci a testa bassa. Prendendo palle in faccia. E nel mio caso, visto che sono un coglione vanitoso, fingendo che venisse tutto gratis, mentre mi ci ammazzavo dietro. E questo soffrire e godere, cadere e rialzarsi, è quello che dà il senso alle giornate: si fanno sbagli idioti, si pagano le conseguenze e si prova a imparare qualcosa mentre si sbatte la testa al muro, che è come tirano avanti gli umani, non i tensai del cazzo. E sai che ti dico? C’è un’estetica superiore in questo, anzi, forse non c’è niente di più puro della bellezza che nasce dal dolore… »

«Questa cazzata l’hai letta su un manga… »

Atsumu sorride di traverso. «Drama. Coreano.»

«Che baka!» gli scappa una risatina, che non c’entra niente nel contesto, ma è l’effetto che ha Atsumu su di lui. Un effetto diversivo. Un calmante, un palliativo.

Palliativo, Shoyou pensa a questa parola. Una parola difficile, che forse neanche sarebbe mai entrata nel suo vocabolario se non l’avesse usata Tobio, tanto tempo fa, parlando di suo nonno; una parola che conteneva grumi di dolore, lacrime nascoste, speranze distrutte e un tormento profondo. Ecco, in un mondo fatto di poche parole confuse, come era il loro, quelle legate alle emozioni assolute, positive o negative, sono rimaste tutte, hanno messo radici. Qualcuna è sbocciata.

Sta ancora viaggiando con la mente fra i petali di quella fioritura perduta, quando si accorge che Atsumu gli è proprio di fronte, a una distanza che viola ogni spazio personale. Sta allungando una mano lentamente, con cautela, come se dovesse avvicinare un animale selvatico. Gli sta dando il tempo di negarsi, la libertà di fare marcia indietro. Ma Shoyou non lo fa, invece resta fermo ad aspettare qualsiasi cosa stia per succedere. Non ha le forze, né la determinazione necessaria a una fuga.

«Di che hai paura, Sho-kun? Non di me… lo sai meglio di tutti che sono solo un coglione arrogante, e con te nemmeno ci riesco… »

«A fare il coglione in realtà ci riesci benissimo.» 

«A te piace quando faccio il coglione. E un po’ ti piace anche quando faccio l’arrogante, con tutti tranne che con te… » 

Shoyou non può trattenere un sorriso: Atsumu è bravo a esprimersi. Quello del dialogo è un terreno su cui vincerà sempre, e anche questa volta, le sue parole si insinuano sotto pelle e disegnano certezze provvisorie, dorate come bugie bianche, dolci come cioccolata calda, contro tutto quel freddo e quella malinconia.

Ma ora ha smesso di parlare, gli affonda una mano nei capelli e appoggia le labbra sulle sue, con una gentilezza quasi stonata al personaggio.

E quella stonatura è il segreto profondo di Atsumu: che quasi tutto in lui è apparenza, un costume di carne cucito addosso per nascondere la sostanza della sua fragilità, l’ossessione, l’insicurezza, il continuo sentirsi metà di un intero e al contempo doppio di se stesso. Un essere umano incompleto, imperfetto, incrinato, strano, insofferente e bellissimo, pronto a denudarsi fino alle ossa e riservare il meglio solo a lui.

 

Le labbra di Atsumu sono salate, speziate, come il cibo che cucina. Sapori complicati, dissonanze, contrasti. Così è anche quel bacio: lungo, profondo, con un retrogusto amaro e adulto a cui il palato deve abituarsi.  

Shoyou in Brasile ha baciato parecchie persone, ma tutte per gioco, per curiosità o per lussuria. Qui nessuno sta giocando e la lussuria non è certo l’ingrediente principale.

Si baciano e continuano a baciarsi, sagome scure allacciate contro il muro in corridoio, e poi forme indistinte e aggrovigliate, a luci spente, in camera da letto, con il mare lontano sullo sfondo e una luna calante soffocata di caligine.

Si baciano e, finché dura quel bacio, il cuore di Shoyou si gonfia, si scalda e palpita di nuovo, come una volta. E lui si chiede se sia vero, quel momento, se sia reale il sentimento che prova, se le ali con cui un tempo volava si siano finalmente riparate, dopo che il sole del Brasile ha sciolto tutta la cera e le piume si sono posate al suolo, inerti, morte.

Non lo sa. Ma si lascia portare dalla corrente che è Atsumu, in una direzione che sembra possibile.

 

 

 

«Tsumu?»

«Mn...?»

«Alzeresti per me se la palla fosse di marmo?»

Atsumu è mezzo addormentato. Si rivolta fra le lenzuola e risponde senza nemmeno aprire gli occhi. «Di marmo? Ma che dici, Sho? Ti senti bene?» 

Shoyou non lo sa che sta dicendo. Sbadiglia, si strofina il naso, lotta contro la corrente di ricordi che vorrebbe travolgerlo, la argina tenendo gli occhi bene aperti, fissi fuori dalla finestra.

Nella soffice luce dell'alba, vede volteggiare il primo fiocco. 

È il ventuno di dicembre, l’inverno ha rubato tutto il colore del mondo; la malinconia non è mai stata così forte, il silenzio è assordante.

Shoyou afferra la mano calda di Atsumu e se la porta addosso, contro la pelle nuda, perché i ciechi e gli stolti hanno sempre bisogno di una guida.

 

 

 

 

«E quindi? Che volevi dirmi? Quanto sei boke, non serviva venire fino a Tokyo, potevi telefonarmi.»

«E tu mi avresti risposto?»

«Beh certo. Oddio, se chiami mentre mi alleno no… ma altrimenti sì, perché no?»

«Io ti chiamo e tu mi rispondi? Sul serio?»

«Mn. Certo. Funziona così il telefono, boke.»

«Ma se mi hai ignorato per più di un anno!»

«Ero… ah, non lo so, ero parecchio storto. Avevo bisogno di stare per conto mio. Ma ora sono a posto. E sono contento di vederti. E vorrei proprio scoprire perché ti sei fatto questi cinquecento chilometri... »

«Ah… beh… non è che dovessi dirti chissà che, insomma…è solo che sono tornato, Kags… »

«Boke! Lo so! Certo che sei tornato. Abbiamo anche giocato, no?»

« Mn. E che ne pensi?»

«Che alla prossima partita ti faccio nero.»

«E poi?»

«E poi niente. Ohi, sei diventato forte, se ti fai notare ora come ora potresti davvero arrivarci, in nazionale. Korai e Waka coprono bene, ma sono poco… flessibili, ecco. Un centrale come si deve ci farebbe molto comodo… »

«Kags… »

«Sì?»

«Senti, è tutto molto strano. Se ce l’hai ancora con me va bene, lo capisco, ma…»

«No che non ce l’ho con te. Perché dovrei avercela con te?»

«Non lo so…»

«E quando mai sai qualcosa, boke… Va tutto bene, davvero, ci ho messo un po’ a capire quello che è successo in Brasile, a mettere tutto in prospettiva, ma penso che alla fin fine tu avessi ragione. Forse ero venuto lì aspettandomi… boh, chissà che. Ero molto incasinato, in quel periodo, e poi lo sai che non sono per niente bravo ad affrontare… quelle cose»

«Quali cose?»

«Tipo… le emozioni, le mie soprattutto. E i cambiamenti. E le persone. Insomma, lì per lì non ti ho capito. Però poi ci ho pensato. In realtà ci ho pensato parecchio. Cioè, non è che tutto può rimanere per sempre congelato: andare al liceo, allenarsi al club, giocare al campetto fino a che non viene notte, scopare di nascosto anziché che fare i compiti. È un miracolo che ci siamo diplomati, però è successo. E magari è meglio come va ora. Anzi, di sicuro: niente compiti, niente rotture di palle. Solo pallavolo tutti i giorni, tutto il giorno, e per giocare ci pagano anche. Figo, no?»

«…»

«Insomma, dai, boke, non è male essere adulti. Non eri tu che non vedevi l’ora di diventare grande per goderti la vita? Quella storia di dare via il culo, andare alle feste, fare esperienze, quelle faccende lì. Uno come me ci mette un po’ per far pace con l’idea che le cose che gli piacciono, a cui è abituato, debbano per forza cambiare, ma se poi ci pensi, è normale che succeda, te ne fa una ragione e va bene così.»

«E tu… te ne sei fatto una ragione?»

«Beh, certo.»

«E davvero va bene così? Io… non sono tanto sicuro che a me vada bene così. Kags, ti prego, di’ la verità: a te va bene così?»

«Mn. Mi piace la mia vita. Sai, ne ho parlato anche con Miwa, e me l’ha fatto capire lei che che è inutile, e stupido, pensare di poter riavvolgere il tempo, e restare lì immobili ad aspettare cose che non succederanno, invece di vivere la vita che hai. Ecco, cambiare va bene, basta che le cose davvero importanti uno non le perda di vista.»

«E quali sono per te? Le cose davvero importanti… »

«La pallavolo, che altro?»



 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Haikyu!! / Vai alla pagina dell'autore: drisinil