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Autore: AncientDust    04/12/2023    5 recensioni
"Per iniziare, ogni partita necessita che i pezzi vengano disposti sulla scacchiera. I bianchi da un lato, i neri dall’altro. I bianchi muovono per primi."
.
"Spesso si dice che le cose vanno come devono andare. Che seguono un'immateriale volontà superiore. Eppure questa è solo una parte della verità. Una pennellata, un ritocco sporadico nel complesso dipinto dell'universo; un piccolo aggiustamento strategico sulla scacchiera del mondo."
.
Crowley e Aziraphale fanno i conti con le loro scelte, mentre il mondo si prepara al Secondo Avvento.
Tentativo parecchio personale, e decisamente più drammatico, di proseguire la storia da dove si è interrotta, immaginando la trama di un'eventuale terza stagione.
[spoiler seconda stagione / tematiche delicate]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Altri, Aziraphale/Azraphel, Crowley, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Parte VI

 

 

 

- Marzo -

 

Crowley mandò giù l’ultimo sorso del suo caffè.

Sedeva al solito tavolino nell’angolo, attualmente ingombro di un mucchio di roba confusa. Un mare in tempesta di fogli sparsi, libri, penne colorate riversate da un astuccio e nel mezzo, come una zattera, un piattino di biscotti, con un solo naufrago sopravvissuto.

Al capo opposto del tavolino, la causa di tutto quel disordine era assorta nella sua lettura e masticava distrattamente il fondo di una matita. L’espressione corrucciata, dietro la montatura squadrata degli occhiali.

Crowley sollevò perplesso un sopracciglio e scostò il lembo di un foglio a quadretti, facendo spazio nel caos per appoggiare la tazza vuota.

Era una situazione ricorrente nell’ultimo periodo. Una curiosa variazione alla routine che si era scavata uno spazio nelle sue giornate; volente o nolente che lui fosse.

Una presenza che, per qualche motivo, pareva infischiarsene dei limiti suggeriti dai suoi miracoli demoniaci. E che ad un certo punto era spuntata dal nulla, riempiendo il tavolo di cose, il silenzio di chiacchiere e la sua testa di distrazioni; richiamandolo da quell’isolamento in cui aveva deciso di voler sprofondare.

Una compagnia inaspettata a cui, in tutta onestà, aveva iniziato ad abituarsi.

E forse, una ben nascosta parte di lui, avrebbe potuto persino ammettere che non gli dispiaceva. Magari per il fatto che quella ragazza si trascinava sempre dietro libri e appunti incasinati, o per il modo in cui inforcava gli occhiali da lettura sul naso, o per come sorseggiava il latte macchiato, che poi le lasciava una ridicola striscia di schiuma e cannella sul labbro superiore.

C’era una familiarità in quei gesti che lo amareggiava, ma da cui non riusciva a sottrarsi. Perché delle volte, il fruscio delle pagine sfogliate e l’odore di biscotti ingannavano la sua mente, facendogli credere che ci fosse qualcun altro seduto dall’altra parte del tavolo. E questo lo faceva sentire pervaso da una crudele serenità; sospeso in un limbo illusorio di possibilità mancate.

Almeno finché non tornava a guardare la realtà.

Ed era in quei momenti che la voragine nel suo petto si riapriva, bruciando come l’Inferno. Così si ritrovava a darsi dell’idiota, per essere caduto ancora in quel perverso masochismo che, per qualche assurda ragione, non faceva altro che assecondare: sedendosi al Caffè, osservando quella dannata libreria ogni giorno, aspettando come un perfetto imbecille una fine del mondo che non poteva impedire, e un angelo che evidentemente non aveva più intenzione di mettere piede in quella stramaledetta strada. Forse nemmeno per dare un ultimo addio ai suoi tanto amati libri polverosi.

Eppure, sempre in quei momenti, quasi come se sapesse cosa gli stava passando per la testa, quella ragazza cominciava a parlargli, distogliendolo dai pensieri; circondandolo di una quotidianità tutta umana che non gli apparteneva, ma accogliente, e da cui era facile lasciarsi trasportare. E per la quale, in fondo, aveva un debole.

Perché, per quanto ingestibili e fastidiosi, gli esseri umani sapevano anche essere piacevolmente imprevedibili. E affascinanti, nel loro affaccendarsi nelle piccole cose; nell’inventiva e nell’impegno che mettevano nel cercare di far quadrare le loro scarse vite, o nel trovare risposte ai propri interrogativi. Ignari di ciò che si agitava sopra le loro teste e sotto i loro piedi, a boriosi cieli e gironi di distanza.

E ignari anche dell’Epilogo generale che si avvicinava.

Un’inconsapevolezza che Crowley avrebbe volentieri fatto sua, se avesse potuto, e che riusciva quasi a sfiorare in quei momenti. In uno stordimento forse meno efficace e duraturo dell’alcol, ma senza gli sgradevoli effetti collaterali.

Tirò un sospiro, mentre, dall’altro lato della strada, l’ingresso a vetri della libreria si spalancava all’uscita di uno sporadico cliente. Lo scrutò con una punta di apprensione allontanarsi lungo il marciapiede, in un odioso atto involontario, che lo portava sempre ad accertarsi che quell’angioletto svampito non avesse concesso l’acquisto di nessun libro.

Cosa che, comunque, fino a quel momento aveva visto accadere solo una volta, e risolto con prontezza e un blando schiocco di dita. Il libro era tornato su uno scaffale e uno splendido escremento di uno Scottish Terrier aveva preso il suo posto, nel sacchetto degli acquisti del malcapitato. L’ennesima patetica idiozia che si era ritrovato a fare, ma tutto sommato anche una delle più divertenti dell’ultimo periodo.

Un altro passatempo che trovava dilettevole, era infastidire gli avventori della casa di incontri di Mrs. Sandwich; dove quella ragazza, Beth, lavorava.

Soprattutto alcuni insistenti e sgradevoli habitué di cui lei a volte si soffermava a raccontare, e che tendevano a bazzicare un po’ troppo i dintorni anche durante il giorno. Per lo più innocui mascalzoni e tristi ometti, in realtà, ma non per questo meno soddisfacenti nelle reazioni ai suoi piccoli scherzi demoniaci. Una pozzanghera non vista là, un costoso smartphone scivolato di qua; dei pantaloni accidentalmente calati, a mostrare l’eloquente superficie di un paio di mutande con disegni imbecilli stampati sul davanti. In un’occasione aveva anche fatto volare via un parrucchino, e Beth aveva ridacchiato da dietro il bordo della sua tazza di latte macchiato.

Sciocchezze casuali, trucchi infantili da demonietto, ma senz'altro un buono svago, in quella pietosa attesa.

Magari quegli zotici se li sarebbe ritrovati tutti quanti nell’Abisso, dopo il Giudizio; e in questo modo avrebbe potuto affermare di essersi portato avanti con il lavoro, malgrado la prospettiva fin troppo generosa dell’Eternità. Un ghigno amaro gli sfuggì dalle labbra, mentre considerava che, piuttosto che finire così, avrebbe preferito gustarsi una bella tisana all’acqua santa.

E, in un attimo, il suo pensiero vagò, prendendo forma in un eccentrico thermos a motivi tartan; un regalo di tanti anni prima. Una gentilezza di angelo dai contorni nitidi e precisi nella sua memoria, come se non fosse passato nulla di più di qualche istante. E, insieme, una frase.

Vai troppo veloce per me, Crowley.

Troppo veloce.

E convenne che fosse vero; talmente tanto, in effetti, che alla fine si era impietosamente schiantato contro un muro.

Si rabbuiò e il tavolino si scosse, mentre due piccole mani scavavano tra i fogli, distribuendo nuovo scompiglio sulla superficie già incasinata. Un paio di penne rotolarono a terra, non viste.

«Accidenti, ma dov’è finito?»

Beth espirò rumorosamente, alzandosi dalla sedia; la matita incastrata sopra l’orecchio e gli occhiali storti sul naso, in un assetto da ricerca già spazientito.

Crowley incurvò le labbra, chiedendosi chi diamine utilizzasse ancora “accidenti” come imprecazione di quei tempi. Schioccò appena le dita e le penne tornarono nell’astuccio.

Lei afferrò il biscotto superstite e lo addentò con frustrazione, frugando le pagine una per una con lo sguardo, ora fattosi sottile, come se intendesse ottenere una confessione su dove fosse il loro complice scomparso. Poi sbuffò di nuovo.

«Mi sembrava di averlo messo più o meno… ah, eccolo lì.» si sporse sul tavolino, allungandosi in direzione del foglio a quadretti di prima, accanto alla tazza vuota.

Crowley lo prese con due dita e glielo porse, sbirciando un “Prima guerra di indipendenza scozzese (1296-1328)” scritto in stampatello chiaro e rotondo, dal quale partivano una manciata di frecce attaccate a riquadri colorati.

Malcelò la smorfia di disappunto che anche solo il ricordo del quattordicesimo secolo gli provocava, e osservò la ragazza riprendere posto e tornare ad affaccendarsi, aggiungendo un paio di date su un nuovo schema, altrettanto colorato e inutilmente decorato.

Schioccò la lingua, perplesso, prelevando un altro dei fogli dal mucchio e osservandone le tabelle curate che incorniciavano le parole.

«Qualcosa non le piace, Mr. Crowley?» chiese lei, senza smettere di scrivere.

Crowley abbandonò un gomito all’indietro, poggiandosi storto sullo schienale. «È che non vedo il punto di tutta questa fatica.» disse ruvido, agitando appena la pagina a mezz’aria, «Non ci sono già i libri su cui studiare?»

Beth alzò lo sguardo, accigliata. «Gli schemi mi aiutano a memorizzare.», si interruppe, «O almeno spero tanto che lo facciano.»

Crowley aggrottò la fronte. Sull’effettiva utilità di tutto quel lavoro aveva dei dubbi, ma non si poteva negare che fosse esteticamente gradevole da vedere, con tutte quelle cornicette ingarbugliate.

Scorse con lo sguardo una delle scritte che spiccavano, cerchiata di arancione: “William Wallace – Stirling Bridge (1297)”. Soffiò con sdegno e rimise giù il foglio.

«Comunque, non capirò mai tutto questo interesse per un periodo storico così terribilmente noioso e sporco. E anche Wallace, non era poi un tipo così interessante.»

Beth sorrise ironica, scuotendo appena la testa, mentre tracciava l’ultima linea di un riquadro viola fluo. «Lo dice come se lo conoscesse di persona.»

In realtà non è che lo avesse proprio conosciuto, in effetti; lo aveva incrociato, forse un paio di volte. Abbastanza, tuttavia, per sapere che non aveva molto a che fare con la sua controparte hollywoodiana, o con la sua tanto decantata nomea romantica.

E, alla fine, aveva anche visto la sua testa infilzata su una picca, lasciata in bella mostra sul London Bridge finché il teschio non era stato sbiancato dal sole, nell’ennesima adorabile usanza di quei tempi. Per fortuna, almeno si era evitato l’esecuzione. Non aveva mai trovato appassionanti gli sventramenti.

Beth posò la penna.

«Comunque, forse è vero. Sto andando troppo a rilento.» disse, lanciando un’occhiata sconsolata agli appunti, «Di questo passo, dovrò di nuovo rimandare questo cavolo di diploma1. Ed è ridicolo, considerando che sono già abbastanza in ritardo, a ventun anni suonati.»

Ormai è tardi per ogni cosa, pensò Crowley. Ma quello che gli uscì dalla bocca suonò molto diverso.

«Perché non ti prendi una pausa, ragazzina? Va a divertirti, a fare qualcos’altro, invece di ammuffire qui. Per questa roba c’è sempre tempo.» mentì, accennando con la mano un gesto di rifiuto verso la costola di un libro che sporgeva dal bordo del tavolino.

Distese una gamba di lato, in una posa sempre più scomposta, a simulare una rilassatezza che non possedeva. Poi portò indietro un ciuffo di capelli ribelle, mentre lanciava un’occhiata stanca fuori, di nuovo alla libreria.

«C’è tutto il tempo del mondo.» ripeté, mormorando fra i denti. O almeno quello che ne rimane.

Del resto era questo che i demoni sapevano fare meglio: mentire e fingere. Non si sfugge alla propria natura. Ed è molto più facile che dover dire la verità.

«È che vorrei poter andare all’università. Studiare qualcosa di interessante. Magari trovare anche un lavoro più interessante.», proseguì lei, con una voce più piccola del solito e un tono scoraggiato che non le aveva mai sentito, «A volte ho come la sensazione di essere incastrata, da cose che non dipendono da me.»

Forse in tempi diversi, Crowley le avrebbe risposto qualcosa del tipo “sei incastrato se ti fai incastrare”, ma adesso si ritrovò ad assentire in silenzio, trattenendo per sé un amareggiato anch’io.

Non era mai stato gran che capace a offrire supporto, comunque; non che all’Inferno servisse impararlo.

Tornò a guardarla e, per la prima volta, si chiese quale sarebbe potuto essere il Giudizio per qualcuno come lei, così ostinatamente normale. Il grigio più neutro che avesse mai visto, nella sua vita dedita alla considerazione delle sfumature.

Ma non ebbe tempo di trovare una risposta, perché Nina imperversò, senza troppe cerimonie, poggiando un vassoio sul tavolino, o meglio, sul caos che le lo ricopriva.

«Rifornimento per la studiosa.» affermò, con un sorrisetto.

Consegnò due nuove tazze fumanti e prelevò quelle vuote, mentre Beth le rivolgeva la stessa espressione di qualcuno a cui è appena stato lanciato un salvagente. Afferrò subito la sua tazza e ringraziò; e anche Crowley borbottò un grazie, a cui Nina reagì con una smorfia sardonica, non priva di un certo compiacimento.

«Non ti stancare troppo su quei libri.» raccomandò infine a Beth, allontanandosi di nuovo verso il bancone.

«Non c’è pericolo.» rispose lei, la tazza stretta a scaldare le mani, «Tanto ormai ho capito come va per oggi. Tutte queste date non hanno intenzione di entrarmi in testa.» prese un sorso della sua bevanda e la condensa le appannò le lenti degli occhiali; poi ridacchiò, sotto i baffi di schiuma.

«Se mia nonna potesse sapere che non so a memoria le gloriose imprese di indipendenza della sua Scozia, », disegnò con un gesto un semicerchio a mezz’aria, ad enfatizzare il concetto, «probabilmente mi ucciderebbe. Ma io non ci ho mai neanche messo piede.»

«Non è male come posto.», rifletté Crowley, «Piacevole, se impari a ignorare l’umido e il freddo.»

«Ci è stato spesso?»

«Giusto qualche volta.» minimizzò, alzando le spalle.

Beth abbandonò il mento sul palmo della mano e guardò fuori, verso la strada; persa per qualche momento nei suoi pensieri, mentre persone e auto si avvicendavano. Il vapore della bevanda calda si srotolava piano, in piccole volute, nell’aria davanti a lei.

«Sa, la famiglia di mia nonna aveva una fattoria lì, nelle campagne vicino Linlightgow. Dovettero venderla dopo la guerra, per trasferirsi qui a Londra. E lei me ne parlava ogni volta con rimpianto.», scostò indietro un ricciolo che le era ricaduto sugli occhiali, «Diceva che d’estate il verde riempiva incontaminato ogni direzione, fino all’orizzonte; e che si rischiava di perdersi completamente, allontanandosi troppo da casa.», si interruppe, osservando dubbiosa la schiuma sulla superficie del suo latte macchiato, «Certo, ora con i ripetitori del Wi-Fi e altra roba simile, non credo sia più possibile sperimentare una cosa così. Ma, chissà, magari la fattoria c’è ancora, da qualche parte. Sempre se non ci hanno costruito sopra un supermercato.»

Crowley ascoltava in silenzio, indugiando distrattamente con le dita sul bordo della sua tazza; già sprofondato nella placidità della nuova conversazione. E anche Beth sembrava assorta; bevve un altro sorso e tolse con una nocca il filo di schiuma rimastole sul labbro, prima di continuare.

«Quella fattoria è stata della mia famiglia per generazioni. Credo l’avesse fatta costruire la bis-bis-bis-bis-nonna di mia nonna, o una cosa del genere. E c’era questa storia assurda che si tramandavano, di come la sua antenata fosse riuscita ad acquistare il terreno grazie all’aiuto di due spiriti.», ora la sua voce si era accesa di entusiasmo, e un sorrisetto le tirava una guancia.

«Era una notte buia e nebbiosa, le tombe erano immobili nel cimitero e i morti silenziosi.» recitò, con tono solenne e lo sguardo ammiccante stretto fra le palpebre, «Mia nonna cominciava sempre così la storia, e anche se un po’ mi faceva paura, la adoravo. Soprattutto la parte in cui uno degli spiriti beveva del veleno e rimpiccioliva.»

A Crowley quasi sfuggì di mano il caffè.

Una situazione conosciuta si fece spazio nella sua mente, emergendo dalla memoria. Decisamente troppo simile per essere una coincidenza. Possibile che stesse parlando di lei, di quella ragazza a Edimburgo che trafugava i cadaveri, quasi duecento anni prima?

La stessa ragazza a cui lui aveva impedito di ammazzarsi, e per la quale si era beccato ben dieci anni di isolamento e tormenti annessi all’Inferno. La stessa che, a quanto pare, aveva mantenuto la parola, prendendo davvero una fattoria; vivendo la sua vita. E avendo persino dei discendenti.

L’ultima dei quali, contro ogni logica probabilità, ora gli sedeva davanti.

«Cosa?» farfugliò. Ma avrebbe più che altro voluto chiedere come; magari aggiungendo un’imprecazione poco elegante, ma decisamente appropriata alla situazione.

«Si, lo so, è una sciocchezza, ovviamente. Solo una favola per bambini. Non so nemmeno perché ne sto parlando.» si affrettò a giustificare Beth, imbarazzata, fingendo di tornare a interessarsi degli appunti, «Comunque, mi piacerebbe scoprire se la fattoria è ancora lì; e perché no, anche visitare quel cimitero. Giusto… per curiosità.», nascose il naso dietro il bordo della tazza, «Magari potrei andarci quest’estate, dopo gli esami. Se riesco a superarli.»

Crowley scolò il caffè tutto d’un fiato, cercando di mandare giù anche lo sconcerto. E fu grato che lo sguardo strabuzzato che doveva aver assunto fosse nascosto dalle lenti, anche se la ragazza pareva mantenere l’attenzione altrove.  

Si schiarì la voce. «Per caso sai come si chiamava, questa tua antenata?»

Beth sembrò confusa dalla domanda. «Si, beh, è buffo in realtà, perché ho il suo stesso nome: Elspeth. Abbastanza comune nella mia famiglia.», contrasse le labbra in una smorfia, «È una specie di variante di Elisabeth, ma un po’ strana da queste parti; perciò preferisco Beth, che è più semplice da ricordare.»

Elspeth.

Non c’erano più dubbi, era proprio lei. E Crowley si chiese che razza di ineffabile scherzo del destino fosse quello. Un commiato prima della fine? Uno strambo giochino? O magari un’altra punizione, per essersi intromesso nel corso degli eventi, così da mostrargli quanto fossero insignificanti le scelte individuali di fronte ai Grandi Piani. Davanti agli Esili, ai Giudizi, ai Diluvi, e a tutte le pompose sentenze che schiacciano tutto sotto di sé, senza lasciare niente.

«Va tutto bene, Mr. Crowley?», lo richiamò Beth, «Non avrà mica visto degli spiriti anche lei?» scherzò.

Crowley si abbandonò di nuovo sullo schienale. «Non più di quanti ne abbia visti tu.» rispose, concedendosi un ghigno. Se solo non ci fosse stato un cappio stretto intorno al loro collo, avrebbe trovato quella situazione parecchio divertente.  

Una suoneria cinguettò placida un paio di volte e Beth tirò fuori dalla tasca lo smartphone; osservò per qualche istante lo schermo, poi arricciò il naso. «Forse ora preferirei gli spiriti, a quelli con cui ho appuntamento stasera.», gli rivolse un’occhiata eloquente e ridacchiò, «Ma il lavoro è lavoro.»

Il lavoro è lavoro.

Un ritornello che si era ripetuto spesso anche lui, nel corso del tempo. Di fatto, una trappola ben dissimulata.

«Bene.», esclamò Beth, ficcando di nuovo il telefono in tasca, «Penso che a questo punto mi lascerò tentare dal suo consiglio di prima, Mr. Crowley. È ancora presto, e fuori c’è persino un po’ di sole. Un’occasione imperdibile.», ammiccò, ironica, «Che ne dice di una passeggiata?»

«Una passeggiata?» ripeté Crowley.

«Si, esatto. Le andrebbe?»

 

*

 

Non sapeva come, ma alla fine si era lasciato convincere.

E ora si ritrovava fuori dall’ingresso del Give me coffee or give me death, con l’aria fredda che gli pizzicava le guance e qualche pigro raggio di sole che riverberava negli occhi, costringendolo a risistemarsi meglio gli occhiali scuri sul naso. Era in effetti una bella giornata, per essere un pomeriggio di fine inverno a Londra. Chissà perché non se ne era reso conto prima.

Di fianco a lui, Beth si arrotolò la solita sciarpa blu intorno al collo. «Devo solo restituire un momento dei l-», si interruppe, «Beh, insomma, faccio subito.»

Crowley la osservò attraversare in fretta la strada e infilarsi nella libreria, accompagnata dal familiare tintinnio della campanella d’ingresso.

Sospirò, muovendo qualche passo scomposto verso la Bentley, parcheggiata come sempre sul marciapiede lì accanto, e si appoggiò al tettuccio.

L’ultima volta che aveva aspettato in quel punto, non era stata affatto una bella giornata.

«Ancora qui a fare il cucciolo smarrito, eh?»

E infatti.

«Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro l’ultima volta, Shax.», soffiò, «Quale parte di non intendo collaborare non hai compreso, esattamente?»

«La parte in cui ti comporti da idiota.»

Gli si avvicinò, impettita in un tailleur rosso vinaccia, le labbra strette in un taglio sottile; e Crowley fu investito dal profumo aspro che la accompagnava sempre, come di fiori appassiti.

«Ormai sappiamo che la nascita è fissata per quest’anno, ma la Madre non si trova e ai Piani Alti c’è fin troppo silenzio.»

«E cosa dovrei farci?» disse, appoggiandosi contro la portiera a braccia incrociate.

«Lui non è contento, Crowley. Non lo è affatto.» sussurrò lei, la preoccupazione malcelata nella voce.

«Nemmeno io sono entusiasta, se è per questo, eppure non ne faccio un dramma universale.»

Shax contrasse il viso in una smorfia contrariata. «Non credo ci sia molto da scherzare. Se non porto dei risultati, al Piano di Sotto presto rotoleranno delle teste. E sai bene che insieme alla mia, ci sarà anche la tua.», lo fissò, gli occhietti a spillo stretti fra le palpebre, «Il tuo ammutinamento non è stato molto apprezzato, e questa volta non credo che te la caverai con un informale bagnetto nell’acqua Santa.»

Crowley sentì un brivido gelido scivolargli lungo la schiena.

Che fine aveva fatto la regola di non attirare i guai? Dov’erano finiti i piani ben congeniati, le strategie, il buonsenso? E l’astuzia, di cui si vantava di essere padrone?

Tutto perso nell’apatia di quei mesi, nella perdita di senso; nella rinuncia e in quell’infantile negazione della realtà, che ormai lo accompagnavano. Eppure, non riuscì più ad ostentare la noncuranza che avrebbe voluto, riscoprendosi ancora in grado di provare paura.

Paura di Lui.

Shax gli rivolse un verso stizzito. «Se sei ancora qui a goderti il sole, è soltanto perché potresti essere utile. Perciò sii utile, Crowley. Dammi qualcosa che posso usare.», tirò ancora di più le labbra, fino a che non scomparvero, «Se non per l’Inferno, fallo almeno per la tua vecchia pelle di serpente. E anche per la mia.»

Crowley corrugò la fronte, cinico. «Da quando ti importa cosa mi succede, Shax?»

Lei spostò lo sguardo altrove, sistemandosi il bordo della giacchetta con le dita munite di artigli laccati. «Te l’ho già detto. Ho una vaga stima del tuo lavoro passato.» rispose secca.

Un breve silenzio calò fra loro; una parentesi di timore condiviso, di vuoto fra i rumori della vita che proseguiva tutto intorno. Forse persino un barlume di genuina intesa, del tutto inusuale fra demoni. E Crowley considerò che, a quel punto, il mondo doveva essere proprio sul punto di finire.

Si passò una mano sulla fronte, come per cercare di schiarire i pensieri. Forse avrebbe potuto davvero darle qualcosa; un’indicazione innocua, blanda, insignificante, ma abbastanza per placare un po’ la Satanica Ira che incombeva.

«Gli ospedali.» mugugnò infine.

«Come?»

«Tenete d’occhio gli ospedali e le cliniche. È lì che nasce la maggior parte dei bambini, al giorno d’oggi.» ripeté.

Shax sembrò apprezzare. Nonostante fosse una totale banalità, a quanto pareva era stata troppo poco sulla terra per poterla considerare. E si aprì in un sorrisetto che, per quanto avesse sempre l’aspetto di un ghigno malevolo, possedeva effettivamente una sfumatura di riconoscenza.

«È il massimo che avrai da me.» precisò Crowley, mentre, dall’altra parte della strada, la campanella della libreria tintinnava di nuovo, e l’estremità della sciarpa blu di Beth spuntava dall’ingresso a vetri.

Ma Shax era già sparita, lasciando dietro di sé solo uno sgradevole residuo di profumo e, forse, la vaga sensazione di aver commesso un errore.

 

 

***

 

_______________________________

 

1 L’ho definito “diploma” per renderlo più comprensibile, ma mi sto riferendo all’A-level, ovvero più o meno il corrispettivo inglese della nostra maturità. In Inghilterra (come da noi in realtà) gli anni scolastici obbligatori terminano a sedici anni, e il loro corrispettivo del liceo dura circa gli ultimi quattro di questo periodo; successivamente si possono frequentare altri due anni facoltativi e preparatori per l’università, al termine dei quali si prende un diploma Advanced Level. Di solito, quindi, a diciotto anni si terminano gli studi pre-universitari, un anno prima che da noi, anche se si possono recuperare successivamente se lo si desidera, esattamente come da noi si può recuperare la maturità (perdonate eventuali imprecisioni, ma volevo dare una breve spiegazione).

 

NOTE DELL’AUTRICE:

Ebbene, la storia non è morta. È solo che ci sono gli impegni che si intromettono, e io sono anche schifosamente lenta a scrivere. Però ci tengo molto e in un modo o nell’altro verrà di sicuro portata a termine.

In tutto nel progetto sono in cantiere circa quindici capitoli, perciò è stata appena superata la prima parte e le cose cominciano a delinearsi con più chiarezza. Non fatevi ingannare dalla situazione vagamente più rilassata di questo capitolo, perché non mi piace mantenere la positività per molto (sorry).

So che i personaggi nuovi fanno storcere il naso a molti, ma io trovo interessante muovere un po’ le acque e cercare diverse prospettive di trama, e spero di riuscire a renderli giustamente apprezzabili.

Come al solito, grazie per essere arrivati fin qui e se vi va di farmi sapere se avete apprezzato (o magari no) qualcosa. Spero di non far aspettare così tanto per il seguito, ma va come va, del resto.

Bye Bye

 

   
 
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