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Autore: Adeia Di Elferas    09/12/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Era piena notte e il Vaticano era stranamente silenzioso. Quando Alessandro VI occupava ancora il trono di San Pietro, le stanze degli alti prelati romani erano tutto fuorché silenziose, e solo alle prime luci dell'alba si poteva apprezzare una discreta calma, dovuta più allo stremo delle forze dei porporati, che non a una concreta ricerca di pace e santità.

Era forse proprio a causa di quell'aria immobile che Antonio Giustinian sentiva i brividi, mentre seguiva il passo incerto di Pio III, che lo stava conducendo in una zona ancora più tranquilla, se possibile, del palazzo pontificio.

L'Oratore veneziano sapeva già cosa aspettarsi. Da qualche giorno non si parlava d'altro dell'arrivo e della subitanea ripartenza del Duca di Valentinois. Se alcuni avevano preso quella toccata e fuga come un qualcosa di fondamentalmente innocuo, altri avevano invece alzato subito la voce, chiedendo in modo netto al papa cosa intendesse fare, dato che la sua elezione, seppur non ufficialmente, era stata subordinata a un atteggiamento ostile nei confronti del Borja. Nessuno chiedeva a un uomo mite come il Todeschini Piccolomini di emettere ordini di cattura o di morte verso il Valentino, ma nemmeno che gli concedesse grossomodo tutto quello che gli chiedeva.

I due Cardinali che più di tutti si erano mostrati risentiti con il pontefice erano stati Giuliano Della Rovere e Raffaele Sansoni Riario. Il primo aveva sbraitato e agitato le braccia, facendo allusioni nemmeno tanto velate al fatto che se Pio III era stato eletto, il merito era soprattutto suo, e dunque favorire a quel modo un suo naturale nemico quale era il Valentino non era solo un atto irriconoscente, ma un vero e proprio affronto.

Il Sansoni Riario, invece, era stato altrettanto fermo, ma molto più diplomatico, facendo presente che il papa non si poteva nemmeno trincerare dietro la scusa dell'umana carità verso un uomo morente, dato che era ormai risaputo che Cesare Borja era in remissione e stava, almeno, abbastanza bene da recriminare, lamentarsi e dare ordini a chiunque. Raffaele, inoltre, si era pubblicamente indignato del fatto che quella mollezza da parte di Pio III aveva aperto una pericolosa falda di tolleranza, che stava portando i francesi a non voler più tenere strettamente sotto controllo il Duca e i fiorentini a non vederlo più come una minaccia insormontabile, arrivando perfino a rimangiarsi la parola riguardo i fatti romagnoli: il loro appoggio ad Antonio Maria Ordelaffi e, ancor di più, a Caterina Sforza, era ormai nullo, per espresso timore di irritare Cesare Borja, che a loro detta era davvero il legittimo signore di quelle terre.

Quegli scontri – solo verbali – avevano acceso così tanto le giornate romane che Giustinian si era sorpreso fino a un certo punto del fatto che il pontefice si fosse ricordato di lui solo in quel momento, a tarda notte, quando ormai aveva già sprecato il suo poco fiato per rispondere ai prelati più animosi.

“Che avete da dirmi, Santità?” chiese Giustinian, mentre Pio III raggiungeva a fatica uno scranno vicino al camino spento e gli indicava le candele da accendere per illuminare un po' la saletta: “Se volete discorrere della questione del Duca, sappiate che c'è poco da dire... Quello che avete fatto, purtroppo, parla per voi. Permettergli di tornare a Roma e riprendersi le sue cose è stato...”

L'Oratore non finì la frase, perché l'altro gli stava facendo segno di stare in silenzio e gli indicava di nuovo le candele. Antonio, suo malgrado eseguì gli ordini, restando in attesa.

“Non siamo un santo né un angelo, ma un uomo...” sospirò Pio III, con la voce sottile come la pelle grinzosa delle sue guance diafane: “E anche uno di quelli che non si persuadono di ogni cosa...”

Quell'incipit incuriosì Giustinian, che preferì non commentare, lasciando campo libero al suo interlocutore, che, da lì in poi, cominciò a spiegare di come fosse stato ingannato, riguardo la faccenda del Borja.

Gli raccontò di come l'avesse sinceramente creduto prossimo alla morte e di come gli fosse stato presentato come vantaggioso concedergli l'ingresso a Roma prima che morisse. Su mostrò addolorato per la reazione violenta del Cardinale Della Rovere e ancor di più per quella amareggiata del Cardinale Sansoni Riario.

“Presto il Duca mi chiederà di nominarlo Capitano della Chiesa – rivelò a un certo punto il pontefice – ma io dirò che non ho denaro per i soldati. Ma se lui mi offrisse una grossa somma in cambio, come potrei rifiutare?”

“Lo state chiedendo a me?” chiese di rimando Antonio, allibito.

“Venite da Venezia, una terra abituata a vivere di denaro. Fate guerre, aiutate i bisognosi e consegnate prigionieri... Ma fate tutto questo solo per denaro. Chi meglio di voi sa consigliarmi, dunque, su una questione che riguarda unicamente il Dio Mammona?” ribatté Pio III con una luce vivida negli occhi, che stonava con il suo corpo stanco e rallentato.

“Vi ringrazio per la fiducia...” rispose allora l'Oratore, schiarendosi la voce: “Prima di tutto, mettete come castellano di Sant'Angelo un uomo che sia di vostra fiducia, ma intendo proprio di vostra fiducia, non di fiducia di qualche vostro amico. E subito dopo cambiatene il presidio.”

“E dovrebbe bastare?” domandò il papa, incerto del fatto che cambiare un castellano fosse sufficiente a far desistere il Borja dall'ottenere una carica così importante.

“Non deve restare nemmeno un solo soldato che abbia militato per il Duca. Già sarà necessario tenere quelli che sono fedeli agli Orsini... Le due fazioni finirebbero anche per creare disordini in città, e non penso vogliate essere ricordato come il pontefice che portò Roma a essere preda di una rissa continua tra la soldataglia...” spiegò Giustinian: “I Cardinali non vogliono il Duca un giorno di più a Roma... Se non vi opporrete strenuamente, quale che sia la cifra che lui vi offrirà, sappiate che nemmeno più un cappello rosso vi sosterrà in tutta Roma...”

Pio III rimase qualche istante in silenzio, poi giunse le mani dalle dita lunghe e scosse da un lieve fremito, e poi sussurrò: “Grazie, messer Antonio, per il vostro prezioso consiglio. Potete andare.”

“Santità...” fece prontamente il veneziano, esibendosi in una profonda riverenza e lasciando solo il pontefice a meditare sul loro breve, ma intenso scambio di vedute.

 

Fortunati era stato in Firenze per un paio di giorni, su mandato di Caterina, che voleva notizie fresche e che non poteva, almeno al momento, contare troppo sui Salviati, che sembravano ancora chiusi nel loro dolore per la recente perdita della figlia. La Tigre, in realtà, aveva provato ad accennare al piovano la necessità di avere un colloquio con Jacopo Salviati o, almeno, con la moglie Lucrezia, ma Francesco era stato categorico, ribadendo come fosse meglio, al momento, che fosse lui in persona a veicolare notizie, senza importunare troppo i loro amici fiorentini.

In realtà, il piovano non sarebbe stato contrario in linea di principio a invitare almeno Lucrezia Medici a Castello, magari per qualche giorno. La campagna, il dialogo vivo che di certo avrebbe avuto con la Sforza, e anche allontanarsi per un po' dal marito – che dicevano si fosse incupito moltissimo a causa del lutto – avrebbero di certo giovato alla donna. Fortunati, però, doveva badare anche al proprio, di benessere: da più di una notte la Leonessa non lo voleva nel suo letto e anche di giorno tendeva o a scansarlo o a parlargli solo di guerre ed eserciti, due argomenti che lui aveva cominciato suo malgrado a conoscere, ma verso cui non provava molto interesse e su cui si sentiva troppo poco preparato per poter reggere un discorso con Caterina.

Così aveva colto la palla al balzo e si era recato a Firenze. Aveva raggranellato ben più di un'informazione succulenta, ma si era affrettato subito affrettato a tornare a Castello, perché frate Lauro, di norma poco incline a giudizi categorici, gli aveva scritto una breve missiva in cui si diceva preoccupato per Madonna Sforza, per i suoi lunghi silenzi e ancor di più per le notti che passava insonne vagando per la villa.

In effetti, quando era tornato, il piovano aveva trovato una Caterina molto provata, con gli occhi cerchiati e lo sguardo lontano. Nemmeno la presenza di Giovannino, che ne richiedeva la costante attenzione, pareva distrarla dal suo tormento interiore.

“Andiamo nella saletta, così mi racconti cosa sta succedendo fuori da questa gabbia...” furono le prime parole che la donna gli rivolse, quando se lo trovò dinnanzi.

Con ancora il mantello da viaggio sulle spalle, l'uomo aveva subito annuito e l'aveva seguita fin davanti al camino e, tenendo le mani verso il fuoco, aveva cominciato a parlare senza attendere che fosse lei a incalzarlo.

Come se si volesse togliere subito un dente dolorante, le spiegò di come girasse voce che Pesaro fosse stata ripresa, a nome del Valentino e di come lo stesso Valentino fosse, sembrava, ancora a Roma, protetto dal papa, che gli aveva reso tutti i suoi titoli, o quasi.

Francesco ignorò volutamente il sospiro pesante che arrivò dalla Tigre e proseguì nel suo resoconto, concentrandosi sulle fiamme vive che gli scaldavano le mani intirizzite. I fiorentini, ormai questo era abbastanza sicuro, stavano appoggiando ogni mossa del Borja, che andava così via via insuperbendosi e facendosi più minaccioso per tutti quanti. Il re di Francia, poi, appoggiato dal Vescovo di Volterra, stava cercando di mettere il Valentino al soldo diretto di Firenze, sia per far sì che fosse controllato da qualcuno, sia per lasciare ad altri il problema di gestirlo.

“Perché Firenze vuole appoggiare il Valentino e non... L'Ordelaffi?” chiese Caterina, evitando all'ultimo di dire 'e non me'.

“Perché si sono messi in testa che così facendo danneggerebbero Venezia...” rispose Fortunati, che non ne era convinto, ma che aveva sentito ripetere più volte quella versione.

Il piovano, a quel punto, trovando il silenzio della Leonessa, proseguì con notizie più varie, ricordando anche di come Annibale Bentivoglio stesse cercando il permesso del papa per danneggiare il Valentino, passando tramite i Cardinali Della Rovere e Sansoni Riario, ma che senza un appoggio chiaro di Venezia, quella restasse solo una lodevole iniziativa che non avrebbe portato a molto.

“E della Romagna? Si sa qualcosa?” domandò la Sforza, interrompendo Francesco a metà di una lunga trattazione riguardo la decisione di Gaspare Sanseverino, al momento anch'egli a Roma, di unirsi ai francesi nel napoletano.

“Sembra che più che altro ci siano movimenti a Rimini...” disse, con estrema cautela l'uomo, ben sapendo che quel tasto era anche troppo delicato: “Il castellano della rocca, Maldonato Valdonsello, è tra due fuochi, praticamente... Da un lato ha il Pandolfaccio, che lo lusinga con Melchiorre Ramazzotto e lo minaccia con i quattro falconetti che ha rubato nella rocca di Fano e dall'altro ha i veneziani che gli promettono denaro, con seimila ducati, dicono...”

“Il Pandolfaccio ha recuperato dei falconetti.” sussurrò Caterina, come se tutto il resto avesse scarsa importanza: “Quanti uomini ha?”

“Si dice circa quattromila lui e meno di duecento il Ramazzotto...” riferì, controvoglia, il piovano.

Caterina si morse il labbro e poi, scuotendo il capo, disse: “Se hai altro da raccontarmi, lo farai domani... Adesso ho sonno, voglio andare in camera... Da sola.”

Francesco non provò nemmeno a contraddirla, malgrado fuori splendesse ancora il sole, e così la Sforza lasciò la saletta senza aggiungere altro.

 

Pio III era ombroso, quell'11 ottobre e il suo passo incerto, che riuscì comunque a farlo arrivare al suo scranno, faceva capire a tutti come l'ulcera gottosa alla gamba che lo tormentava da un po', quel giorno lo stesse proprio sfinendo.

Le sue labbra sottili si contraevano di continuo in piccole smorfie di dolore e la sua fronte, fin dal primo mattino, si imperlò di sudore, aggrottandosi ogni volta in cui l'uomo portava istintivamente una mano alla gamba dolorante, come se quel semplice gesto fosse utile per placare un po' il suo immenso disagio.

I toni, molto più secchi e meno concilianti del solito, che usò per aprire quel Concistoro ebbero un effetti diverso su tutti i presenti: qualcuno si impensierì, qualcuno provò per lui umana pietà, qualcun altro ne risultò irritato, altri ancora, invece, videro in quell'inattesa nuova debolezza un'opportunità.

La riunione di porporati avrebbe dovuto essere veloce e senza intoppi, quindi il Todeschini Piccolomini decise di iniziare con la richiesta che riteneva più difficile da far accettare ai presenti, ossia la nomina a Cardinale per il francese François Guillaume de Castelnau-Clermont-Ludève, parente prossimo degli Amboise, nipote dell'Arcivescovo di Rouen Georges d'Amboise, e Arcivescovo di Narbona.

Nel momento stesso in cui pronunciò il suo nome, però, la sala del Concistoro esplose come il colpo di una bombarda.

Alcuni Cardinali gridavano minacce, altri urlavano chiedendo se il papa fosse impazzito, altri ancora domandavano a gran voce come si potesse pensare di elevare alla porpora un uomo così strettamente legato a qualcuno che per anni non aveva fatto altro che tirare le fila per conto del re di Francia e, soprattutto, di Rodrigo Borja.

La discussione andò avanti ore e Pio III cercò in più riprese di calmare gli animi, di motivare la sua proposta, ma più provava ad alzare la voce, più la gola gli si seccava, e più il tempo passava, più la posizione fissa sul suo scranno gli irrigidiva la gamba piagata, facendolo quasi piangere dal dolore.

Dopo un'eternità, consolato solo da qualche calice di un decotto dal gusto stranamente amaro che gli veniva di quando in quando porto dal suo coppiere, il pontefice dichiarò chiuso l'argomento, dicendo che, per il momento, non avrebbe fatto Cardinale il Castelnau-Clermont-Ludève.

Deciso a portare a casa, però, almeno una nomina che gli fosse utile, Todeschini Piccolomini propose un altro prelato: suo nipote, Giovanni Piccolomini, eletto da lui stesso Arcivescovo di Siena giusto una ventina di giorni addietro.

Questa volta il dibattito fu meno cruento, ma non per questo meno acceso. In molti criticarono quella scelta, evocando lo spettro di Alessandro VI e della sua tendenza a favorire di continuo i propri parenti e alcuni fecero presente che Pio III era stato scelto proprio per spezzare quella catena di favoritismi.

Le ore si inseguivano e i porporati, in buona parte più giovani del papa e quasi tutti più in salute non vollero nemmeno fare una breve pausa per mangiare qualcosa.

Quando anche Giovanni Piccolomini venne scartato come possibile nuovo Cardinale, Pio III si arrese e, appena un'ora prima della mezzanotte, dichiarò concluso il Concistoro. In tutto il giorno, tra le discussioni e le liti, era stato dato nessun nuovo cappello cardinalizio.

Il Todeschini Piccolomini lasciò il suo scranno con una fatica immensa. Aveva accantonato ogni bisogno fisiologico, aveva ignorato il dolore e aveva finto che la spossatezza che sentiva non esistesse, ma ora, finita la battaglia, tutto tornava a chiedergli il conto.

Lasciò il salone, si assicurò che a seguirlo fossero solo i suoi camerieri speciali, e si avviò verso i propri appartamenti, chiedendosi distrattamente se non fosse il caso di farsi portare fino al suo letto in braccio. Mentre fantasticava già su una zuppa calda e due morbidi guanciali, si rese conto di avere dei crampi al basso ventre non indifferenti. Quale uomo della sua età e nelle sue condizioni, in fondo, sarebbe riuscito a superare indenne un giorno intero senza mai poter usare il vaso da notte?

“Devo andare con urgenza a...” cominciò a dire, tenendosi la pancia con una mano e zoppicando ancor più vistosamente, ma prima che potesse concludere la frase, inciampò e cadde in terra.

Prima di perdere i sensi, fece appena in tempo a sentire uno dei suoi camerieri esclamare: “Santità, ma voi scottate per la febbre!”

 

Caterina era riuscita a intercettare prima di Fortunati una lettera destinata a lei, ma che sicuramente il piovano avrebbe letto in anteprima, se ci fosse riuscito. Era una brevissima dilazione da parte di Jacopo Salviati in cui si parlava di una lettera di Amerigo Antinori destinata ai Dieci da Balia, in cui lo scrivente appoggiava platealmente il ritorno di Antonio Maria Ordelaffi in Romagna, malgrado le pressioni del Cardinale di San Giorgio, ossia Raffaele, e del Cardinale Ascanio Sforza.

Quell'incipit aveva inizialmente rincuorato la Tigre, che aveva di recente letto un messaggio di Clechi in cui, invece, si sosteneva che solo Ascanio e il Vescovo di Lodi la sostenessero, mentre il Sansoni Riario, non si sapeva perché, la osteggiasse. La donna non aveva mai dubitato del favore del cugino acquisito e dunque le era bastato poco per riacquistare la fiducia in lui.

Tuttavia, la lettera dell'Antinori ai Dieci portava con sé un cruccio ben peggiore dell'ipotetico mancato appoggio del Sansoni Riario.

Questi, infatti, pareva che scrivesse che, malgrado Ascanio e Raffaele, di comune accordo addirittura con Guidobaldo Maria da Montefeltro, volessero il reinsediamento della Leonessa, i romagnoli preferivano darsi subito 'a veniziani, al diavolo' piuttosto che 0mettersi in casa Madonna co ssua figliuoli'. Tanto, ovviamente, era bastato alla Sforza non solo per adirarsi, ma anche per incupirsi come non mai.

Sapeva che non sarebbe stato facile per lei – o meglio, per i suoi figli, in particolare per il suo amato Galeazzo – recuperare il potere e le terre perse, ma quel continuo battagliare diplomatico la stava estenuando. Sapeva che lei era una pedina in giochi condotti da altri, che il suo nome veniva usato come una peso per spostare a destro o a sinistra una bilancia, e quel fatto l'atterriva. Anche se, anzi, proprio perché conosceva bene la politica, sapeva che quel pantano l'avrebbe portata sul fondo prima ancora che lei potesse accorgersi di essere prossima all'annegamento.

Se fosse stata pienamente padrona di sé e del suo destino, avrebbe risolto quell'impasse montando a cavallo e guidando il suo esercito: la spada era l'unica cosa che riusciva ancora a mettere a tacere i facinorosi e gli arrivisti.

Sapere di non avere un esercito, o meglio, di non poterlo avere in alcun modo, la faceva soffrire quasi fisicamente, tant'è che ogni volta in cui ci pensava, l'aggrediva un senso di nausea e di vertigine che le rendeva quasi impossibile fare altro se non disperarsi silenziosamente per la sua miserrima condizione.

Quella mattina, addirittura, al suo risveglio aveva avuto la sensazione di avere la febbre alta, poi si era ricordata di aver fatto degli incubi in cui tutti, perfino quel buono a nulla di Cesare Borja, avevano un esercito, mentre era relegata a una sedia a ricamare come una vecchia. Così aveva imputato il suo malessere a quello e aveva cercato di tirare avanti.

Con la testa che ancora rimbombava di mille pensieri e che ritornava di continuo all'immagine del Valentino, così com'era quando aveva preso Ravaldino e l'aveva fatta rinchiudere a casa di Luffo Numai, la Tigre arrivò quasi senza accorgersene dinnanzi alla stanza di Fortunati.

Indecisa se entrare o meno e cercare un po' di ristoro parlando con lui, la Leonessa si chiese se l'uomo fosse in stanza o fosse, piuttosto, a studiare con Sforzino o a controllare i giochi – che diventavano ogni giorno più maneschi – di Bernardino e Giovannino, o anche a passare un po' di tempo con il piccolo Pier Maria, che si faceva sempre più robusto e allegro.

Con un sospiro, la Sforza provò comunque a bussare e quasi sobbalzò quando il piovano rispose di entrare pure.

Lo trovò seduto alla scrivania, chino su un tomo, in abiti da camera. Siccome non sollevò subito lo sguardo, Francesco capì chi era la sua ospite solo quando, incuriosito dal protrarsi del silenzio, la guardò.

Alzandosi subito e andandole incontro le chiese: “Va tutto bene? Mi cercavi per qualche motivo..?”

La solerzia del fiorentino denunciava come sempre la sua premura nei confronti della Tigre, eppure lei non riuscì ad andare oltre un debole sorriso, perché qualcosa attrasse la sua attenzione.

Accanto al libro che Fortunati stava leggendo, c'era un piatto di avanzi, risalente per certo a un pranzo fatto in camera da poco, visto che ancora si poteva sentire un vago profumo di pollo arrosto.

Quell'aroma sfuggente, assieme alla vista degli ossi e di qualche scarto di pelle, grasso e cartilagine riportarono alla mente della Leonessa un'immagine molto simile, risalente a un tempo passato che, a tratti, le pareva non l'avesse mai lasciata.

In un lampo, mentre Francesco, fraintendendo l'espressione della donna, si scusava di essersi fatto servire come fosse il padrone di casa e prometteva di riportare di persona il piatto e gli scarti alle cuoche, Caterina veniva ripiombata in una stanza lontanissima da quelle della villa di Castello: la stanza di palazzo Numai in cui era stata segregata a letto per giorni dal Valentino.

Si appoggiò, senza quasi rendersene conto, alla parete, mentre rivedeva il Borja divorare la coscia del pollo, beffandosi di lei, che non mangiava da giorni. Ricordava il lezzo delle sue labbra, mentre le si avvicinava e ricordava ancora di più la fame cieca con cui aveva divorato i suoi scarti, quando ne aveva avuto la possibilità, per grazia di una domestica di Luffo, che l'aveva aiutata rischiando. Probabilmente, la sua stessa vita.

Una nausea incontrollabile la prese e la stanza iniziò a girare su se stessa, e anche l'appoggio della parete veniva meno e in un tonfo, con il respiro affannoso e gli occhi ciechi, Caterina si trovò stesa a terra, con Fortunati terrorizzato che le si chinava vicino, scuotendola e posandole una mano sulla fronte, esclamando: “Scotti di febbre! Vado a chiamare aiuto!”

   
 
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