Capitolo 26, Delirio
“Sentite
che roba!” esclama Carmen sventolando
il cellulare da cui sta leggendo l’articolo, piazzandosi
prepotentemente tra me
e Mikaela, che siamo sedute sul divanetto in tela del salotto di
quest’ultima.
“Dicono che un’associazione olandese, tale Hidden
Pink, abbia cercato risposte
dal museo e che questi si sono rifiutati di rispondere. La
testimonianza di
Yona Schabs ha scosso l’opinione pubblica, anche se in tanti
lo stanno
accusando di volerci speculare sopra… lui afferma che era
all’oscuro delle
opere di Van Meyer e che non si è mai fatto avanti prima
perché non immaginava
che sua nonna fosse la domestica della sorella di un pittore famoso.
Come ebreo
ortodosso, non è mai entrato in contatto con quel genere di
cultura… Nuestra
Voz ha fatto pressione affinché i quadri del periodo blu di
Van Meyer fossero
sottoposti ad un ulteriore controllo. Sono state nuovamente ignorate,
quindi
hanno messo delle ragazze davanti al museo, con dei volantini che
consegnavano
a chi voleva entrare a visitarlo. Sono state allontanate dalla polizia,
ma è
scoppiata una rivolta a cui si sono unite anche persone che non
c’entravano
niente e qualcuno deve aver dato fuoco a un cassonetto…
perché dare fuoco a un
cassonetto? Boh.”
Ridacchio
al sentire le sue riflessioni. In
effetti, so già tutto. Seguo la vicenda come se fossi
diventata dipendente dai
social network, aggiornando le varie pagine ogni volta che mi capita in
mano il
telefono.
“Caspita,
che polverone!” commenta Mikaela,
alzandosi dal divano. “Qualcuno vuole un succo di
barbabietola? Ho trovato
queste barbabietole biologiche e avevo comprato un estrattore
che…”
“A
nessuno piace il succo di barbabietola.”
Dice disgustata Carmen.
“Non
è vero…” provo a difendere blandamente
Mikaela.
“Dimmi
il nome di uno che sia mai entrato in
un bar e abbia chiesto un succo di barbabietola.” Risponde
prontamente Carmen,
senza alzare gli occhi dal telefono.
“Io
lo chiederei!” replica Mikaela, col nasino
all’insù.
“Scusa,
riformulo: dimmi il nome di una
persona sana di mente che sia mai entrata in un
locale…” comincia pedantemente
Carmen, guardandomi da sopra lo schermo.
Le
risate mi impediscono di sentire il resto
delle loro battute.
Da
quando è scoppiata la questione Gesabette’s
voice, come riportano gli
striscioni e gli hashtag sulle pagine femministe del Nord Europa, sono
molto
più tranquilla e ho ricominciato a ridere e scherzare come
facevo fino a un
paio di mesi fa, convinta che è davvero questione di poco
prima che la verità
venga a galla.
Oggi
è domenica 7 ottobre. È vero, mi mancano
solo 25 giorni alla fine di tutto, ma per Gesabette ho fatto il
possibile e
possiamo solo attendere.
Mi sono
chiesta perché gli Sluagh abbiano
cercato di ostacolare Ryan mentre investigava su Frank ma non hanno mai
interferito con Nores, la giornalista di Nuestra Voz. Le opzioni sono
due: o
Nores era sulla pista sbagliata, o è più
importante fermare Frank piuttosto che
Gesabette.
“Hai
notato che sanno solo quello che sai tu?”
aveva osservato Lukas. “Tu non sapevi cosa stesse facendo
Nores dato che lei,
più che in Olanda, ha cercato da tutt’altra parte,
mentre eri a conoscenza di
cosa stava facendo l’investigatore.”
La sua
ipotesi mi ha turbato. Esiste una sorta
di collegamento tra me e loro? Oppure mi stanno spiando e
l’unico modo per
proteggere le persone intorno a me è non sapere cosa stanno
facendo?
Ripensando
agli spioni, non ho più fatto sogni
sull’uomo che mi stava pedinando, né purtroppo ho
ricevuto risposta
dall’investigatore. Questo è il problema
più grave, al momento. Non so se Ryan
Williams, l’investigatore, stia bene. Dall’agenzia
mi hanno già rimborsata, ma
ciò che mi premeva non erano i soldi che avevo speso, quanto
la storia di
Frank. Ricordo che Ryan era diretto agli archivi nazionali quando gli
Sluagh
hanno provato a fermarlo. Questo mi fa pensare che fosse sulla pista
giusta ed
è un ottimo punto di partenza.
Per
evitare di doverci andare di persona, ho
contattato telefonicamente l’archivio. Mi hanno risposto che
sono consultabili
solo fisicamente. Ho fatto una ricerca su internet e ho trovato altri
casi di
persone che cercano defunti delle varie guerre americane. Esistono
addirittura
dei forum fatti appositamente per questo. Potrei chiedere a qualcuno di
andarci
al mio posto e verificare. Mi sono iscritta ad un forum e ho pubblicato
un post
a proposito, ma dopo tre giorni ancora nessuno aveva risposto, ad
eccezione di
un imbecille analfabeta funzionale che non ha nemmeno compreso il senso
di ciò
che chiedevo e mi ha detto di andare di persona all’archivio.
“Hai
novità sul tipo che ti pedina?” chiede
Mikaela, godendosi quello che suppongo essere un centrifugato di
barbabietole
che Carmen guarda con aria sospettosa.
“No,
non l’ho più sognato e
sinceramente…”
rispondo meditabonda. “Non mi sono mai sentita minacciata
quando andavo in
giro. Lui era sicuramente lì intorno, ma non ho mai avuto
paura, forse solo un
po’ di stranezza in alcune circostanze, come se sapessi che
qualcuno mi stava
spiando.”
“Hai
fatto delle ipotesi su chi potrebbe
essere?” domanda Carmen, scrollando qualcosa sullo schermo
del suo telefono.
“No…”
dico stringendo lo sguardo. “Dapprima ho
pensato che fosse qualcuno dalla SoverCarter, perché ho
cominciato ad essere
pedinata solo dopo aver dato le dimissioni, però
è una cosa senza senso. È vero
che alcune assicurazioni assumono investigatori per monitorare i
dipendenti e
scoprire cosa fanno durante gli infortuni e la malattia, per stabilire
se
davvero sono a casa o cose del genere, ma io ho sempre rispettato i
termini dei
contratti e poi, una volta date le dimissioni, non ci sarebbe
più niente da controllare,
ormai è finita.”
“Pensi
che qualcuno… sì insomma, qualcuno di vivo ti voglia fare del male?”
chiede
Mikaela, preoccupata.
Carmen
anticipa la mia risposta,
sghignazzando. “È certo che qualcuno le voglia
male, voglio dire, ti ricordi di
chi stai parlando? Ora sembra essere tornata in sé, ma
chissà quanti coglioni
avrà fatto girare negli ultimi anni…”
“Grazie,
Carmen.” Borbotto scocciata. “Sai
sempre come tirarmi su il morale.”
“Non
sono il tuo ragazzo, io non devo tenerti
buona.” Dice Carmen sorridendo ironica. “Comunque,
se non la SoverCarter, chi
potrebbe essere?”
Taccio
qualche secondo mentre provo a
rifletterci nuovamente su, senza però che mi vengano nuove
idee. Solo una
persona mi torna in mente, ma è un pensiero assurdo: che
senso avrebbe che lui sia
qui?
I campi verdi di fronte
a me sono sempre illuminati dal solito sole. Se dovessi ipotizzare un
orario,
direi che è la luce delle prime ore del mattino. Un sole dai
raggi diagonali,
caldi e allo stesso tempo tanto astratti, perché dovrebbero
proiettare a terra
delle ombre lunghissime che invece sono assenti in questa dimensione.
Ormai
sono abituata a questa sensazione di
coscienza alterata. Quando sono da questo lato tutto mi è
più chiaro: mi pongo
meno domande, sono conscia dei miei poteri, del mio passato e delle mie
azioni,
ma quando comincio a ricordare di essere Erika, perdo questa
consapevolezza.
Tante personalità mi si sovrappongono e alcune sono
così lontane e sopite che
Erika non riesce sempre a mantenersi integra. Il dono della conoscenza
del
serpente Nathair ti priva dell’individualità,
perché la conoscenza non può
essere riposta in un singolo soggetto. Purtroppo, quando torno al mio
corpo,
questa coscienza viene immancabilmente a perdersi. La sensazione
residua è di
stordimento e obnubilamento di ciò che ho visto e sentito
mentre incarno Atenoux.
È
diventato sempre più difficile trovare gli
Sluagh sul treno e ho rallentato la mia caccia nelle ultime settimane.
Evito di
andare sul vagone in cui si trovano i passeggeri a cui è
legata una parte di me,
perché in questo stato non saprei gestire una conversazione
utile con loro, e
non è detto nemmeno che poi venga ricordata. Temo di
incontrarlo di nuovo,
anche se…
“Intendi
passare tutto il tempo che ti è
concesso qui a fissare i prati?”
Ricordo
la voce di questa donna. È petulante e
leggermente stridula. Ha una supponenza che mi ricorda Carmen ma, al
contrario
di lei, non riesco proprio a farmela stare simpatica.
“Dovrei
passarlo a fissare te?”
“Ci
sono anch’io.” Replica una seconda donna,
decisamente più dolce.
“Clara…”
mi volto verso le loro voci, alle mie
spalle, mentre la mia personalità emerge più
ponderante e sento immediatamente
affievolirsi tutti i pensieri precedenti, al punto che non ricordo
più a cosa
stessi pensando.
Sono
lì entrambe: Estela, leggermente
imbronciata, e Clara Castelli, col suo sorriso gioioso.
L’osteria dai muri
rossastri e le petunie colorate alle finestre fa loro da sfondo.
Mi sento
subito più cosciente e corro ad
abbracciare la mia amica che ricambia con calore.
“Ho
rimediato a quell’errore con Camille… ma non
sono riuscita a salvarla. È stato un disastro. Non ho idea
di come fare con
Frank.” Sussurro tra i suoi capelli.
Sento
che si ritrae delicatamente e sciolgo le
mie braccia intorno a lei.
“Non
era colpa tua, nessuno di noi riusciva a
capire certe cose, prima. Camille… Prima o poi
verrà il suo momento. Per Frank sei
più vicina di quanto pensi.”
Estela
si avvicina di qualche passo, con
espressione contrita. “Essere traditi provoca sempre una
ferita profonda nella
fiducia che riponiamo nel prossimo. Cerca di non pensarci
più.”
Annuisco
in silenzio prima di domandare “Cosa
ci faccio qui? Perché mi avete chiamata?”
Clara
smorza la propria gioia. “Riguarda
Gesabette. Non ha ancora lasciato il Treno.”
“Lo
so…” sbuffo frustrata. “Stiamo
attendendo
che il museo faccia le analisi sulle tele, il fatto è che
serve un macchinario
apposito. Non ho capito se dovranno essere analizzate in un altro museo
o cosa…
ormai sono due settimane che l’associazione sta facendo
pressione, dovrebbe
mancare poco.”
“In
realtà i dipinti sono già pronti per
essere analizzati.” Spiega Estela, stringendo i pugni. Quindi
è questione di
poco prima che… “Purtroppo stanno interferendo,
stanno facendo di tutto per non
farti progredire. Ho provato a fermarli ma non siamo abbastanza forti
per
tenere testa a quella mole di negatività. Devi ricordarti di
questo, quando ti
sveglierai.”
“Aspetta,
intendi dire…?” chiedo pensando agli
Sluagh.
“Sì,
quelle robe ributtate dall’inferno.”
Continua sgraziata Estela. “Hanno causato allagamenti,
problemi all’impianto
elettrico, sta succedendo di tutto da quelle parti.”
Stringo
gli occhi. “Finché sarò viva,
l’unico
modo che ho per andare nella dimensione terrena è col mio
corpo fisico. Se però
andassi di persona sul posto, forse…”
“Non
ti farebbero mai entrare, e tanto non
potresti fargli niente. Inoltre, il problema non nasce da
lì. Va stroncato alla
radice.” Sancisce causticamente Estela, mentre Clara annuisce
alle sue parole.
“Guarda.”
Riprende Clara, indicando un punto
indefinito alle mie spalle. “Vedi? Si nascondono
lì dentro.”
Mi volto
seguendo la direzione della sua mano
ed è come se riuscissi a vedere un puntino scuro tra i
campi. Qualcosa che si
fa sempre più vicina, come se la mia vista stesse
ingrandendo una diapositiva
dai contorni sfocati.
Finalmente
la riconosco, la vecchia casa di
campagna dei Van Meyer, ora mezza distrutta, ingrigita e diroccata come
appariva nel disegno corrotto alla galleria del museo di Amsterdam. A
differenza di quella volta però, ci sono grosse radici nere
pulsanti che
circondano le pareti di legno dell’immobile ed è
circondata da alberi spogli e
ritorti.
“Devi
fermarlo.” Dice Estela con vigore.
Distolgo
lo sguardo da quella macabra visione,
per riportarli su di loro. Estela continua “Anche senza il
loro aiuto, Van
Meyer è forte. Non andrà mai via, non
finché riconoscerà la strada. È in
grado
di fare avanti e indietro da quel dannato museo a casa
propria.”
Clara fa
scivolare la mano dal mio braccio
fino a raggiungere la mia mano e stringerla tra le sue. “Se
non riuscirai a bloccarlo,
Gesabette non troverà pace.”
Scuoto
la testa in diniego. “Io non sono in
grado di esorcizzare gli spiriti! Brianna mi ha spiegato come si fa, ma
non
funzionerebbe. Non mi ascolterebbe mai e poi, se è legato
alle opere, non
potrei distruggerle.”
“Il
suo attaccamento è alla casa.” Estela fa
un sorriso vittorioso. “Se non riesci a distruggerlo, fa in
modo che si perda.
Devi…”
Il suono
del cellulare mi fa balzare dal letto
su cui mi ero addormentata. Mi guardo intorno, turbata. Sento di aver
dimenticato qualcosa di cruciale riguardo all’ultima
visione… Porco diavolo,
proprio sul punto più importante!
Prendo
il telefono che continua a suonare
imperterrito. È Nores. Rispondo allarmata.
“Pronto?”
“Ciao
Erika, scusa se ti ho chiamato a
quest’ora, immaginavo che volessi sapere che tre delle opere
del periodo blu
sono state portate al museo di Van Gogh e che hanno predisposto di
analizzarle agli
infrarossi nei prossimi giorni. Purtroppo ci sono stati dei problemi
tecnici e
quindi è tutto posticipato…”
“Cosa?
Aspetta… scusa, mi sono appena
svegliata, è posticipato a quando?” chiedo
sfregandomi il viso per riprendermi
dalla sonnolenza.
“Probabilmente
per il 19 ottobre, ma i
risultati non saranno pubblicati prima del 22 per via del fine
settimana di
mezzo. Purtroppo la macchina ha avuto un guasto e hanno detto che
dovranno
procedere alle riparazioni prima di fare un tentativo. Senza un mandato
del
Ministero della Cultura non sono nemmeno obbligati ad aprire
un’indagine,
quindi non ci conviene calcare la mano adesso: rischieremmo che vada
tutto
all’aria e per smuovere il Ministero ci potrebbero volere
anni. Dobbiamo
portare pazienza.”
Cazzo…
“Addirittura fino al 22? È
tantissimo…”
“Lo
so, ma non ti preoccupare, dieci giorni
passano in fretta.” Prova a consolarmi gentilmente.
“Sì…
passano in fretta.” Lo so fin troppo
bene. “Grazie per avermi avvisato… Ah, Nores,
scusami. Volevo chiederti se
sapessi dove si trova di preciso la casa di campagna dei Van Meyer, a
Leida.”
“Ehm…
sì, dovrei avere l’indirizzo, dammi
qualche ora, te lo mando nel pomeriggio, perché adesso non
ho i fascicoli sotto
mano.”
“D’accordo,
grazie. A presto.” la saluto,
chiudendo la chiamata. Sono le 8:30 di giovedì 11
ottobre… ancora 21 giorni.
“Era
Nores?” chiede sbadigliando Lukas, che mi
rendo conto adesso essere sdraiato di fianco a me.
“Sì…
ci sono stati dei problemi tecnici, prima
del 22 non conosceremo i risultati delle analisi delle tele di
Gesabette.” Mi
interrompo per sentire la sua sfilza di improperi. “Ma non
è questo il
problema.”
Mi
guarda con circospezione, pronto a
formulare una nuova serie di turpiloqui. Sospiro e sgancio la bomba.
“Conosco
la ragione di questi intoppi. Dobbiamo tornare in Olanda.”
Questi
giorni di ottobre sono
straordinariamente freddi. Qui a Leida di notte gela tutto, ha
già fatto una
lieve nevicata e anche se sono partita con un adeguato ricambio di
vestiti
invernali, la punta dei piedi e delle dita non mi si scaldano mai.
Abbiamo
noleggiato un veicolo, un piccolo suv,
all’aeroporto e con quello siamo arrivati in hotel nel
pomeriggio. Ci siamo
fermati a prendere qualche cosa da bere e da mangiare,
perché intendiamo
trattenerci il meno possibile e risolvere la questione in fretta,
quindi
eviteremo ristoranti e uscite di piacere.
È
fuori discussione andare oggi alle rovine
dei Van Meyer, non quando tra meno di due ore calerà il
buio. Andremo domani
mattina, 16 ottobre, a sedici giorni dal mio termine.
Purtroppo
non siamo riusciti a partire prima.
Io non mi ritenevo preparata, dovevo ancora leggere due libri, mia
nonna non
poteva tenerci Laika prima del 14 e lasciarla in una pensione era fuori
discussione. Inoltre Lukas stava aspettando la consegna di un nuovo
macchinario
e non gli andava di lasciar fare tutto a Steven.
Dobbiamo
riuscire a sistemare la questione
Abel Van Meyer entro il 19 ottobre, quando ritenteranno di effettuare
il test
con i macchinari. Angustiarci prima per andare a Leida non avrebbe
avuto senso.
Carmen lavora, Mikaela non può uscire di casa
perché è in malattia e Lukas non
mi avrebbe mai fatto andare da sola. Io stessa, sinceramente, non
vorrei andare
da sola.
Ogni
volta che chiudo gli occhi e ripenso alla
casa diroccata che ho visto in sogno, mi vengono i brividi.
L’unica cosa che
riesce a distogliere la mia attenzione è la ricerca su Frank
e i libri che mi
ha prestato Brianna. Ha detto che ora sono più utili a me e
di non preoccuparmi
per lei, che adesso Mikaela è al sicuro. Sappiamo
però che non lo sarà per
sempre, prima o poi dovrà tornare alla fiduciaria…
Ho
dedicato gli ultimi dieci giorni a leggere
libri sugli spiriti e a fare ricerche online sul Vietnam.
Approssimativamente,
Frank deve essere morto
nel Sud del Vietnam. Sono riuscita a capirlo dopo aver trascritto e
soppesato
tutto ciò che ricordo mi avesse detto, anche se purtroppo ho
dimenticato il
nome del villaggio in cui mi disse di essere caduto. Era morto durante
un
periodo di piogge intense, a marzo. Credo che fosse la stagione delle
piogge
che colpisce la parte meridionale della nazione nel periodo che
coincide con la
nostra primavera.
Successivamente
ho fatto una ricerca su
Patience Howard, la sorella di Frank. Tuttavia, se si è
sposata, non troverò
mai il suo secondo cognome. Stesso discorso vale per la figlia,
Meredith.
Quando è morto, lui aveva 28 anni e lei ne aveva 8.
Sicuramente aveva il
cognome del padre, ma se si è sposata, non lo
porterà più…
Ho
provato spesso ad invocare gli spiriti
chiedendo aiuto ma tutti restano silenti, non so perché.
Nemmeno per Camille ho
avvertito questo silenzio, è come se non potessero dirmi
nulla su di lui e non
comprendo perché. Clara è stato il caso
più semplice da risolvere e gli Sluagh
hanno provato a fermarmi, senza però una reale convinzione.
Per Camille ho
fatto il diavolo a quattro, ma non ho avuto grande aiuto, questo
però è stato
dovuto al fatto che non potevano ancora parlare con me dato che
finché gli Sluagh
non hanno cominciato a giocare sporco, nemmeno Clara ed Estela potevano
intervenire. Regole divine che chissà perché
siamo obbligati a seguire. Per
Gesabette è stato un continuo supporto, e ho apprezzato
tantissimo l’aiuto che
mi è stato dato. Invece per Frank… niente ad
eccezione di quel commento che ha
fatto Clara sei più vicina di
quanto
pensi… vicina a cosa? Gli Stati Uniti si sono
staccati dal continente
americano e ci stanno raggiungendo?
Escludo
che sia una persona immeritevole di
salvezza, anche perché gli Sluagh, per lui, si sono fatti
sentire e anche in
una maniera molto aggressiva. Non avevano mai preso una posizione tanto
violenta, prima di allora.
Se non
avessi avuto quella visione su Ryan,
probabilmente sarebbe tornato all’auto e sarebbe saltato in
aria alla prima
scintilla. Quindi non vogliono che scopra nulla su di lui, non lo
considerano
un alleato come è stato per Camille e, conoscendolo, so che
non accetterebbe
mai di scendere a compromessi con loro… allora
perché non provare ad aiutarlo?
In fondo, per quanto burbero e scontroso, per quanto le sue idee
possano essere
considerate antiquate e il suo carattere indisponente, ha sempre
cercato di aiutare
tutti e forse è l’individuo che sul treno mi ha
dato più sostegno di chiunque
altro. È estremamente frustrante.
“Dio
mio, sei ghiacciata, via!”* sibila Lukas
provando ad allontanarsi da me strisciando nel letto, dopo che gli ho
appoggiato i piedi freddi sulle gambe, per scaldarli.
“Torna
qui! Dove vai? Hai detto che non mi
avresti mai abbandonato!” frigno tragicamente, prendendolo in
giro mentre
lancia degli urletti molto poco virili al contatto con le mie
estremità gelate.
“Ci
ho ripensato! Ah!!”
“Signore
e Signori, la caduta del Maggiore
Keller!” sghignazzo mentre lo perseguito tra le coperte,
peggiorando i suoi
strilli quando gli poggio anche le mani ghiacciate sulla schiena e lui
si
divincola disperato. “Sulla sua lapide scriveranno Non lo scalfirono demoni e spiriti maligni,
perì assiderato per i
piedi congelati della sua donna.”
“Sulle
palle no!” si lamenta dopo che ho
provato a infilargli le punte dei piedi tra le ginocchia.
“Ricordavo
che le palle le avessi da un’altra
parte.”
“Me
le hai fatte cascare, adesso mi arrivano
alle caviglie.” Borbotta quando finalmente si arrende al
supplizio.
Rido per
la situazione anche se dentro di me
non c’è pace, non voglio che riesca a percepire la
desolazione del mio stato
d’animo.
“Hi!”
dico in inglese ai bambini che avranno
dieci anni alla fermata del bus. “Capite
l’inglese?”
“Buongiorno.”
Replica oltraggiato nello stesso
idioma un bambinetto che mi arriverà su per giù
all’altezza della cintola. “Sì,
certo.”
“Eh,
certo, che domande…” borbotta
sarcasticamente Lukas, di fianco a me con le mani nel cappotto,
controllando la
Kia a noleggio, parcheggiata in zona d’emergenza a lato della
strada con le
quattro frecce.
Pensavo
che sarebbe stato più facile
raggiungere la casa, ma il navigatore non ha alcuna intenzione di
collaborare.
Ad un certo punto il GPS si è scollegato e ci siamo
ritrovati a percorrere la
strada avanti e indietro per un’ora prima di trovare
un’anima viva in giro a
cui chiedere informazioni: dei ragazzini fermi ad aspettare
l’autobus, meglio
che nessuno…
“Bene…
sapete dove si trova questa casa?”
mostro loro la foto in A4 che mi ha girato Nores, insieme a tutte le
informazioni e alla planimetria della vecchia villa, prese
dall’archivio
storico del catasto di Leida.
I
bambini scuotono la testa in diniego, tutti
ad eccezione di uno, smingherlino e dai capelli di un indefinito biondo
castano, che guarda l’immagine con interesse.
“Sai
dov’è?” provo ad avvicinargli la foto al
viso e lui tentenna un po’ prima di rispondere.
“Sì…
Ci sono andato con papà questa estate. È
meglio non andare lì. Ci sono i fantasmi.”
“Chiedigli
di dirci qualcosa che non
sappiamo.” Continua a bassa voce in tedesco il mio compagno,
con una smorfia di
sofferenza. Lo guardo storto prima di tornare dal bambino.
“Ti
ricordi la strada? Me la puoi mostrare?”
gli chiedo con un sorriso incoraggiante.
Annuisce
un po’ turbato prima di indicare la
via che abbiamo appena percorso. “È molto lontano
da qui… devi camminare finché
non arrivi al bosco di alberi di Natale e poi salire e
salire… poi la vedi. Non
puoi, non vederla.”
“Grazie
mille!” rispondo tentando di sembrare
amichevole, sebbene in pratica non mi abbia detto tanto.
“Ciao!”
Vado via
tra le occhiate indagatorie dei
bambini e torno in auto insieme a Lukas.
“Dunque…”
comincio tirando fuori la cartina
cartacea che ci ha fornito l’hotel. “Dobbiamo
tornare indietro. Ha detto che è
molto lontano, ma non possiamo dirlo con certezza, i bambini hanno un
senso
delle distanze differente da quello degli adulti. Procediamo
lentamente,
dobbiamo trovare degli abeti.”
“Come
se non ce ne fossero ovunque…” esala
girando l’auto e tornando sulla strada, procedendo un
po’ sotto al limite.
Avremo
fatto sì e no due chilometri, quando
effettivamente mi accorgo che adesso la boscaglia è composta
solo da abeti.
“Prova a fermarti qui… ha indicato il lato destro,
che però era il sinistro del
bosco. Dovremo proseguire un pezzo a piedi.”
Lasciamo
l’auto a bordo strada, con una gomma
sulla striscia bianca asfaltata e tre quarti dell’auto sulla
parte scoscesa di
terra che circonda la carreggiata. Lukas prende il borsone dal sedile
posteriore e io osservo l’ambiente circostante.
Gli
arbusti delimitano il bosco di abeti e a
fatica riusciamo ad oltrepassarli, rovinandoci i vestiti quando le
spine dei
rovi di more ci si impigliano addosso.
“Se
ci fosse stata la neve seria, qui non
saremmo potuti passare.” Sbuffa Lukas, aiutandosi con le
scarpe a schiacciare
alcuni dei rami spinati che gli arrivano al ginocchio.
Quando
ci addentriamo nel fitto del boschetto
di abeti, il silenzio rotto solo dal rumore dei nostri passi che
schiacciano i
rami secchi fa calare uno stato di ansia su di noi.
“Siamo
vicini, lo senti? Fermiamoci.” Sussurro
alzando un braccio di fronte a lui per arrestargli il passo.
“Sì…
lo sento.” Poggia a terra il borsone e
cominciando a sfilare alcune delle cose che mi sono portata da casa.
Brianna
ha provato a spiegarmi velocemente
cosa mi sarebbe servito. Quel giorno era molto tesa per via del
malessere di
Mikaela, per questo aveva deciso di darmi i libri, mentre di solito si
prodiga
a spiegarmi tutto a voce.
Nel mio
sogno, Estela mi ha suggerito di far
perdere Abel, il fatto è che sui libri non ho trovato
riferimenti a questo
particolare. C’era un paragrafo che citava gli spiriti
perduti, che altro non
sono che coloro che non riescono più a ritrovare la strada
di casa… succedeva
di solito a chi veniva scacciato da un edificio in seguito alla
benedizione
delle mura e non poteva più entrarci, oppure alle case che
venivano rase al
suolo e davano spazio a nuovi progetti edili, come
un’autostrada o un
parcheggio, che portavano lo spirito a smarrirsi perché sul
piano terreno non
esisteva più qualcosa che lo tenesse vincolato alla materia.
Uno dei
dettagli più interessanti su cui tutti
i libri concordavano era che i demoni non sono fisionomisti: non
riescono a
riconoscere bene il viso delle persone, ed è per questo che,
per disorientarli,
è utile travestirsi. Non possiedono il sesto senso, non sono
umani. La loro
vista è differente dalla nostra, anche se non è
dato sapere a nessuno cosa
vedano realmente. Quando si trovano nella dimensione terrena, se ci si
trucca e
traveste, non riescono a riconoscerti. Da qui la leggenda che per
Halloween bisogna
travestirsi da mostri, per mischiarsi tra di loro ed impedirgli di
seguirti.
Quando
Lukas prende i trucchi, so che dovrò
fare il possibile per non ridergli in faccia mentre gli disegno le rune
della
forza e della protezione sulle guance e delle linee trasversali nere
che sfumo
con il dito.
“Ora
sembri un vichingo per davvero!” sussurro
con un ghigno beffardo.
“Spera
per te che non ci stiamo conciando così
senza una ragione valida…” ringhia scocciato.
“Non
posso saperlo, sai…” sto per dire che è
la prima volta che vado a combattere un poltergeist, ma il ricordo di
Camille
mi gela il sorriso sulle labbra. Quella era una situazione del tutto
differente… “Me lo auguro anche io.”
Sospiro e mi calco prepotentemente la
matita nera sulla fronte, attraversando la palpebra in verticale fino
alla
guancia, dove traccio ghirigori casuali.
“Tieni
a portata di mano i sacchetti con le
pietre e le candele.” Gli dico mentre gli porgo i trucchi e
alzo la sciarpa
fino al naso, per nascondere la parte inferiore del viso.
Lui
risponde affermativamente mentre nella
borsa sento il picchiettio delle rocce che sbattono le une sulle altre.
Sono
pietre su cui ho tracciato dei disegni presi dal Libro delle Ombre* di
Gardner,
inserite in sacchetti con le erbe che mi ha fornito Brianna e un pugno
di sale
grosso in ognuno. Su ogni sacchetto sono disegnate due rune: Algiz, la
protezione, per allontanare gli Sluagh e Isa, la runa del vincolo e
della
stasi, per impedire che Abel riesca a spostarla o ad allontanarsi.
Le
candele sono sempre citate nel grimorio,
simboleggiano l’elemento del fuoco, che è quello
più affine agli esorcismi,
insieme all’acqua. Non so se mi saranno utili in qualche
modo, ma ho scelto di
portarle comunque.
“Andiamo.”
Dico prendendo l’ennesimo sospiro
del giorno, incamminandomi verso quel punto in cui sento che non dovrei
mai
andare.
Gli
alberi si fanno più sottili e storti man
mano che ci avviciniamo. Lo scorcio di quel che resta di un pezzo di
staccionata abbattuta tra i rovi mi fa comprendere che la natura si
è scatenata
su questa proprietà e che ci troviamo già entro i
confini di quella che era la
tenuta di campagna della famiglia Van Meyer.
Non
faccio in tempo a dirlo a Lukas, che la
vista di una grossa casa a due piani, in quello che sembra essere legno
pietrificato, col il tetto sfondato ben visibile da questa prospettiva
e le
finestre completamente divelte, mi arresta il fiato.
“Siamo
arrivati.” Sussurro guardando i resti
putrefatti della casa rusticamente elegante che ho visto qualche
settimana fa
in una visione con Estela.
Il
respiro affannato di Lukas e i nostri passi
che arrancano sulle sterpaglie ingiallite sono gli unici rumori che
riesco a
sentire mentre procediamo sulla salita che ci porterà
all’ingresso della casa.
Tutto intorno a noi è incredibilmente silenzioso e
l’aria stessa sembra essersi
fatta pesante e priva di ossigeno.
Fermiamo
il passo a una ventina di metri dal
porticato d’ingresso. La casa è rialzata, come se
il piano terra si trovasse
sollevato di circa un metro. Cinque scalini in legno, di cui due
mancanti e
spezzati, conducono al punto in cui una volta doveva trovarsi una
porta, ora
assente.
Alzo lo
sguardo sull’edificio, ancora più
tetro sotto questo cielo luminoso ma annuvolato di sottili coltri
bianche. I
colori predominanti del rudere sono il grigio e il nero, che hanno
sostituito
completamente il marrone ciliegio che ricordavo. Un brandello di
tessuto
muffito pende pigramente appeso ad una finestra a qualche metro
dall’entrata,
quel che resta di una tenda, suppongo.
Non
c’è vento, non una brezza nell’aria.
Tutto
è immobile, eppure… se tengo fisso lo
sguardo sulla casa riesco a vederla, la sua figura imponente che si
gonfia e
poi si abbassa lentamente, il suono sottilissimo di un respiro. Come se
fosse
viva, addormentata o forse in attesa. Attende il mio arrivo, pronta a
balzarmi
addosso con la sua mole marcia e un cumulo di vermi ripugnanti che sta
brulicando sotto alle sue fondamenta. Lo sento, il rumore viscido che
emettono
i loro corpi invertebrati che si attorcigliano gli uni sugli altri,
contorcendosi
in un muto invito ad unirti alla danza macabra da cui non si
può riemergere…
“Allora?!”
l’esclamazione di Lukas mi fa
uscire dal mio stato di trance.
“Cosa?”
cerco di riprendermi distogliendo lo
sguardo dalla casa.
“Ho
detto: tutto bene? Se non te la senti non
dobbiamo per forza entrare.” Risponde con un tono dapprima
nervoso e poi sempre
più remissivo.
“Sto
bene… ce la faccio. Non separiamoci, per
nessuna ragione.” Bisbiglio, prendendo coraggio e muovendo i
primi passi che mi
portano agli scalini. Come vi poggio sopra il piede, una potente forza
di
gravità mi colpisce, e d’istinto mi curvo sotto al
peso di quella pressione.
Diminuisce appena quando Lukas mi prende la mano.
Saliamo
le ultime assi di legno che una volta
componevano la scalinata d’accesso e osserviamo
l’atrio della casa. Non è mai
stata venduta o abitata in seguito al suicidio del proprietario, adesso
è di
proprietà demaniale. Non è minimamente simile a
come la ricordavo. Non ci sono
più divanetti, tavolini e vasi, quadri alle pareti e tappeti
per terra.
Un
materasso sporco si trova in fondo alla
stanza, buttato per metà contro una parete, cumuli di
sporcizia, foglie secche
e spazzatura varia abbastanza recente, cartine di merendine, bottiglie
di birra
e superalcolici vuote stanno sparse ovunque.
Faccio
cenno a Lukas di passarmi il primo
sacchetto con dentro la pietra e la poggio in un angolo dello stipite
davanti a
noi prima di entrare definitivamente all’interno.
Vorrei
poter dire che abbia un odore
riconoscibile, ma è un miscuglio di muffa, rancido e
stantio, come se non
fossimo passati da una porta, bensì tra le fauci di una
bestia sopita. Non
sembra esserci nessuno da parecchio tempo, anche se la vista di qualche
siringa
sottile, di quelle che si usano per l’insulina, si trova a
pochi metri dal materasso.
“Qualcuno
doveva venire a bucarsi qui… è
difficile scacciare quel tipo di persone. Qualcosa dovrà
averli allontanati…”
dice Lukas abbassandosi a prendere una cartaccia di patatine a pochi
centimetri
dal suo piede. Fa una smorfia divertita prima di parlare ancora.
“Scadenza al
28 marzo 2003…”
“Dammi
il gessetto e le candele. Butta il
resto dei sacchetti verso tutti gli angoli che riesci a vedere da
qui.”
Sussurro spostando un po’ di spazzatura dalle assi
scricchiolanti del pavimento
sotto di noi, a circa due metri dall’ingresso. Sento il tonfo
delle pietre
contro il suolo quando vengono lanciate in giro.
Quando
mi passa il gesso, comincio subito a
tracciare il cerchio che era riportato sul libro. All’interno
di esso, un
disegno geometrico che mi sforzo di riprodurre il più
precisamente possibile,
con sei punte disposte a pari distanza le une dalle altre. Dispongo le
candele
nere su ognuna delle punte e proseguo con i disegni concentrici. Questo
servirà
a portarmi sullo stesso livello di Abel, qualsiasi cosa volesse dire il
grimorio con queste parole.
Mi volto
velocemente verso destra, dove mi
sembra di aver visto con la coda dell’occhio
un’ombra nera nascondersi dietro
alla fessura di un mobile di legno rosicchiato dalle tarme. Non siamo
soli…
Qualcosa si sta nascondendo.
“Ora
proverò a contattarlo. Tu non ti
allontanare da qui. Traccia un cerchio di sale intorno a te e non
uscire mai,
qualsiasi cosa vedrai.” Gli bisbiglio mentre annuisce
stringendo le labbra in
un moto di preoccupazione.
Quando
vedo che ha eseguito le mie
disposizioni, prendo l’accendino dalla tasca dei pantaloni e
accendo le candele
intorno a me, poi lo ripongo nella tasca posteriore e mi siedo al
centro del
cerchio.
Concentrarsi
in questa situazione è quanto di
più difficile abbia mai fatto. Non so quanto tempo sia
passato prima che
perdessi il conto dei respiri profondi che sto facendo, ma è
quando ho smesso
di percepire le mie mani e gambe, che ho compreso di stare per
separarmi dalla
dimensione terrena.
Quando
riapro gli occhi, tutto è come prima.
Sono stranita, perché ero convinta di esserci riuscita.
Lukas è sempre in piedi
di fianco a me e si guarda intorno, sospettoso.
Niente,
non funziona… provo ad alzarmi ma un
capogiro mi coglie e quando cado all’indietro emetto un
urletto nel realizzare
che sto scivolando proprio su una delle candele. Incredibilmente, non
provo
alcun male quando colpisco il suolo, né sento Lukas emettere
una parola. Mi
volto e quello che vedo mi lascia senza parole.
Il mio
corpo è ancora in mezzo al cerchio, con
gli occhi chiusi e le mani poggiate sulle ginocchia incrociate. La mia
mano
passa attraverso la candela su cui sono caduta, che non viene
minimamente
spostata dal mio gesto, forse solo la fiamma ha baluginato appena, come
se
avesse sussultato. Osservo meglio la mia figura, rendendomi conto che
non
indosso più i miei abiti invernali, ma il lungo vestito nero
di Atenoux, con i
nastri sul petto.
Mi
guardo intorno e capisco che se starò ferma
qui, non combinerò nulla.
Sono
stata la prima a dire di non separarci e
poi guardami, pronta ad esplorare la magione infestata in
autonomia… però non è
del tutto vero. Tecnicamente, io sono ancora con Lukas…
meglio non perdersi in
questi pensieri adesso.
Mi alzo
e comincio a camminare verso destra,
dove ci sono le scalinate che portano al piano di sopra e una stanza
che non ho
mai visto, sempre su questo piano.
“Abel?
Sto cercando Abel Van Meyer.” La mia
voce sembra rimbombare tra le pareti scure della casa, ma i miei passi
non
fanno rumore. La stanza in cui sono entrata sembra essere stata una
sala da
pranzo. Il tavolo è stato rovesciato di lato, ne resta solo
il telaio. Alcuni
mobili sono ancora parzialmente riconoscibili, faccio qualche passo
verso il
centro della stanza prima di sentire qualcosa alle mie spalle. Mi volto
appena
in tempo per vedere l’ombra nera sgusciare in direzione delle
scale su cui una
volta rincorsi Estela.
Le corro
dietro, sebbene quando arrivo alle
scale, non veda niente sopra di esse. Le salgo comunque, arrivando al
corridoio
del piano superiore, su cui si dividono le varie camere. Ora che ho
tempo per
guardarmi in giro, riesco a contare cinque porte differenti.
Dire porte
è abbastanza azzardato… tre su
cinque mancano, lasciando la visuale di camere abbandonate, un paio di
punti in
cui il pavimento ha ceduto e una stanza in cui addirittura si riesce a
intravedere il piano sottostante. Quella di Gesabette era la terza, a
metà del
corridoio. La sua porta è presente, sbarrata da assi di
legno inchiodate.
Faccio
qualche passo prima di ricominciare a
chiamare il nome del padrone di casa.
“Abel
Casimir Van Meyer?” provo col suo nome
completo, poco prima di balzare di lato nello scorgere nuovamente un
guizzo
nero alla mia destra. Qualcosa si sta prendendo gioco di me…
Mi
dirigo verso sinistra, all’unica porta
ancora presente oltre quella di Gesabette. Provo ad aprirla toccando la
maniglia, ma la mia mano la attraversa. Resto turbata per qualche
secondo da
quella visione, prima di realizzare che posso passare attraverso gli
oggetti e
che le porte chiuse non rappresentano un impedimento.
Scrollo
le spalle come se dovessi darmi la
carica di fronte ad un esercizio ginnico, poi mi butto verso la porta.
È un
momento di buio quello che coglie i miei occhi, subito dopo, la luce
che filtra
da una delle finestre della camera mi accoglie in quello che resta di
un letto
a baldacchino e dei mobili con cassettoni per la biancheria rovesciati
al
suolo.
La
seconda finestra invece è parzialmente
coperta dalla figura di un uomo voltato di spalle, vestito con un
pantalone
spesso e marrone, una camicia bianca che è visibile solo per
le maniche e il
colletto, e un gilet grigio chiaro, con le mani unite dietro alla
schiena. I
capelli gli arrivano alle spalle, sono lunghi quasi quanto i miei e
sono scuri
come quelli di Gesabette.
“Signor
Van Meyer?” chiedo incerta.
“Non
dovresti trovarti qui, zingara. Vattene
se non vuoi che ti trovino i nazisti.” Risponde freddamente
l’uomo. La sua voce
è baritonale e profonda.
“Signor
Van Meyer, devo parlare con lei.” Gli
dico un po’ tranquillizzata dal suo atteggiamento tutto
sommato pacato.
“Sei
sorda? Stanno arrivando i nazisti!”
ringhia voltandosi e ammetto che avrei fatto volentieri a meno della
visione
del suo viso. Il fronte del gilet è attraversato da una
colata di sangue scuro,
un grosso solco sotto al suo mento, nella piega della gola.
L’occhio sinistro è
rovesciato all’indietro e perde sangue anche dal naso. Il
foro d’uscita non
riesco a vederlo da questa prospettiva, per mia fortuna. Chiudo gli
occhi
qualche secondo per farmi forza, anche se non è conciato in
una maniera cruenta
come Camille, faccio ancora un po’ di fatica a tollerare la
vista di queste
cose, sebbene negli ultimi tempi ci abbia fatto un po’
più l’abitudine.
È
più vecchio rispetto a quando lo vidi nel
ricordo mostratomi da Estela, dimostra una sessantina d’anni
nonostante i
capelli siano ancora abbastanza scuri.
“No…”
non ero preparata a questa sua presa di
posizione. Sembra non sapere della fine della guerra e non ho idea di
cosa
dirgli per farlo tornare alla realtà. Non credo sia nemmeno
possibile... “Sono
venuta a dirle che se vuole può andare via anche
lei.”
“Andare
via?! Questa è casa mia!” urla
furibondo, slacciando le mani dietro la schiena e facendo un gesto
d’ira col
braccio. “La casa dei miei padri! Non permetterò
che vada in mano ai tedeschi!”
“Signor
Van Meyer la prego di rifletterci…
guardi in che condizioni è la sua casa, non sarebbe
più contento di tornare a
vederla al suo splendore?” insisto delicatamente.
Mi fissa
iroso con l’occhio integro. “Che vai
blaterando? La mia casa è perfetta, non ha nulla che non
vada. No, non posso
andarmene. Non adesso che i nazisti hanno rubato le mie opere. Mi
stanno
cercando, con i loro servizi segreti… me l’ha
detto la Resistenza. Non glielo
permetterò.”
“La
Resistenza?”
Aggrotta
la fronte, meditabondo. “Chi sei? Chi
ti ha mandato?”
“Sono…
Monika. Mi manda la Resistenza, Signor
Van Meyer… sono riusciti a recuperare le sue opere e adesso
la attendono oltre
alla luce.” Improvviso, sperando di essere credibile.
“No…
loro mi hanno detto di attendere qui, che
sarebbe arrivata. Sto attendendo una spia
nazista…” la mandibola gli si contrae
e torna al davanzale della finestra rotta, con cipiglio pensieroso.
“È una
donna. Si chiama Erika, la accompagnano un cane e un soldato. Non ci si
può
fidare, delle donne. Le donne naziste poi, sono il peggio.”
“Certo...”
replico turbata dal fatto che non
mi abbia riconosciuto per via dell’assenza di Laika.
“Ma hanno detto che posso
attendere io, qui al suo posto. Lei ha aspettato davvero tanto,
è meglio che
vada.”
“Mia
moglie se n’è andata con la servitù, ma
io resterò qui. Hanno preso mia sorella. La avevo seppellita
in profondità. Era
morta, dico. Morta. Si è unita ai nazisti insieme a quella
sua amichetta ebrea,
quella traditrice. Lei mi ha sempre odiato.” brontola
delirante.
Non so
come uscire da questa situazione…
sembra essere irremovibile, forse dovrei farlo ragionare.
“Signor Van Meyer, se
l’amica di sua sorella è ebrea,
com’è possibile che stia collaborando con i
nazisti?”
Corruga
la fronte, pensieroso, prima di
rispondere scocciato con un gesto infastidito della mano destra.
“Cosa vuoi che
ne capisca, di come funzionano gli intrighi politici, una
donna?”
Chiudo
gli occhi per un secondo di fronte alla
sua ottusità, quando è chiaro che
l’unico che non capisca nulla, qui, è lui.
“Sua
sorella non può parlare, è malata.”
“Non
può parlare? Ah!” replica Abel in quella
che sembra una risata strozzata. “Può parlare
eccome, quella vipera… ci ha
rovinati. Ha finto di essere morta solo perché attendeva il
momento opportuno
per pugnalarmi alle spalle. Avrei dovuto metterla sotto chiave fin da
subito.
Impietosito da quella giudaica e dai piagnistei di mia madre, le ho
concesso di
vivere una vita agiata e guarda, guarda come mi ha ripagato!”
Cerco di
prendere un respiro profondo per
mantenere la mia faccia di bronzo e non cominciare una lite accesa.
Abbasso lo
sguardo per cercare le parole per ribattere quando l’immagine
raccapricciante
di una mano cadaverica si profila da sotto al letto, per poi ritrarsi
tra le
coltri subito dopo. Deglutisco fingendo di non aver visto niente, ma ho
perso
il filo del discorso.
Non
siamo soli. Già lo sapevo e adesso ne ho
la conferma.
“Credo
di sapere dove si trovi la donna che
cerca, Erika. Si sta nascondendo nel luogo in cui lei non vuole
assolutamente
recarsi, nella luce. Se si recasse subito lì, potrebbe
coglierla di sorpresa…”
tento il tutto per tutto.
“Nella
luce? La luce…” il suo sguardo si fa
vacuo per qualche secondo mentre bofonchia qualcosa tra sé e
sé. “La troverò
nella luce?” si volta per osservarmi meglio.
“Di
certo, me l’hanno detto loro.” Rispondo
velocemente, cercando di apparire convinta e sicura di me.
Purtroppo la mia
posa fiera viene subito meno quando noto qualcosa alla mia sinistra. Un
ragazzino, scolorito, dalle labbra e gli occhi anneriti è di
fianco a me e mi
fissa con la testa lievemente inclinata.
Buongiorno cari fanciulli!
*ahimè, la conversazione sui piedi
gelati è tratta da una
storia fin troppo vera… quasi quotidiana.
Ma passiamo subito al Libro delle
Ombre*…Abbiamo degli
appassionati di magia tra di voi? Qualcuno ha mai visto il telefilm Streghe della fine degli anni 90? Se
sì,
sappiate che non sono state loro ad inventare il Libro delle Ombre, il
famosissimo grimorio con tantissimi riti e incantesimi provenienti da
tutte le
epoche, bensì il Signor Gerald Gardner nel 1949. Si
può acquistare tranquillamente
anche su Amazon… solo per chi non ha paura di ciò
che potrebbe leggerci dentro.
Ebbene, siamo allo scontro con Van Meyer.
L’ultimo tassello
alla liberazione di Gesabette.
Chi ancora mi segue, ormai alla fine di questo
racconto, ha
tutta la mia gratitudine. Grazie a chi è arrivato fino a
qui, a chi ha
recensito, inserito nelle seguite, preferite e chi ne ha più
ne metta. Grazie
anche ai futuri lettori che hanno intrapreso la lettura di questa
storia. Spero
di non aver deluso nessuno di voi.
Buona settimana <3