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Autore: fiore di pesco    19/12/2023    3 recensioni
Erika è una donna di trent'anni che nella sua vita ha messo la carriera davanti a qualsiasi altra cosa.
Resta coinvolta in un incidente d'auto e si risveglia su un treno dall'aspetto insolito: è composto da un unico vagone che non ha né un inizio né una fine, ogni cabina ha un aspetto diverso dalle altre, alcune sono illuminate, altre sono spente e dai finestrini non si scorge il paesaggio esterno, bensì un cielo stellato.
I passeggeri le riveleranno chi sono e il triste motivo per il quale si trovano lì... la priorità è fuggire e trarre in salvo i suoi amici, ma come?
Una storia che unisce scenari reali a soprannaturali, onirici, viaggi e fatti storici. Adatto a chi apprezza la lore pagana, il mistero e l'investigazione.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 26, Delirio

“Sentite che roba!” esclama Carmen sventolando il cellulare da cui sta leggendo l’articolo, piazzandosi prepotentemente tra me e Mikaela, che siamo sedute sul divanetto in tela del salotto di quest’ultima. “Dicono che un’associazione olandese, tale Hidden Pink, abbia cercato risposte dal museo e che questi si sono rifiutati di rispondere. La testimonianza di Yona Schabs ha scosso l’opinione pubblica, anche se in tanti lo stanno accusando di volerci speculare sopra… lui afferma che era all’oscuro delle opere di Van Meyer e che non si è mai fatto avanti prima perché non immaginava che sua nonna fosse la domestica della sorella di un pittore famoso. Come ebreo ortodosso, non è mai entrato in contatto con quel genere di cultura… Nuestra Voz ha fatto pressione affinché i quadri del periodo blu di Van Meyer fossero sottoposti ad un ulteriore controllo. Sono state nuovamente ignorate, quindi hanno messo delle ragazze davanti al museo, con dei volantini che consegnavano a chi voleva entrare a visitarlo. Sono state allontanate dalla polizia, ma è scoppiata una rivolta a cui si sono unite anche persone che non c’entravano niente e qualcuno deve aver dato fuoco a un cassonetto… perché dare fuoco a un cassonetto? Boh.”

Ridacchio al sentire le sue riflessioni. In effetti, so già tutto. Seguo la vicenda come se fossi diventata dipendente dai social network, aggiornando le varie pagine ogni volta che mi capita in mano il telefono.

“Caspita, che polverone!” commenta Mikaela, alzandosi dal divano. “Qualcuno vuole un succo di barbabietola? Ho trovato queste barbabietole biologiche e avevo comprato un estrattore che…”

“A nessuno piace il succo di barbabietola.” Dice disgustata Carmen.

“Non è vero…” provo a difendere blandamente Mikaela.

“Dimmi il nome di uno che sia mai entrato in un bar e abbia chiesto un succo di barbabietola.” Risponde prontamente Carmen, senza alzare gli occhi dal telefono.

“Io lo chiederei!” replica Mikaela, col nasino all’insù.

“Scusa, riformulo: dimmi il nome di una persona sana di mente che sia mai entrata in un locale…” comincia pedantemente Carmen, guardandomi da sopra lo schermo.

Le risate mi impediscono di sentire il resto delle loro battute.

Da quando è scoppiata la questione Gesabette’s voice, come riportano gli striscioni e gli hashtag sulle pagine femministe del Nord Europa, sono molto più tranquilla e ho ricominciato a ridere e scherzare come facevo fino a un paio di mesi fa, convinta che è davvero questione di poco prima che la verità venga a galla.

Oggi è domenica 7 ottobre. È vero, mi mancano solo 25 giorni alla fine di tutto, ma per Gesabette ho fatto il possibile e possiamo solo attendere.

Mi sono chiesta perché gli Sluagh abbiano cercato di ostacolare Ryan mentre investigava su Frank ma non hanno mai interferito con Nores, la giornalista di Nuestra Voz. Le opzioni sono due: o Nores era sulla pista sbagliata, o è più importante fermare Frank piuttosto che Gesabette.

“Hai notato che sanno solo quello che sai tu?” aveva osservato Lukas. “Tu non sapevi cosa stesse facendo Nores dato che lei, più che in Olanda, ha cercato da tutt’altra parte, mentre eri a conoscenza di cosa stava facendo l’investigatore.”

La sua ipotesi mi ha turbato. Esiste una sorta di collegamento tra me e loro? Oppure mi stanno spiando e l’unico modo per proteggere le persone intorno a me è non sapere cosa stanno facendo?

Ripensando agli spioni, non ho più fatto sogni sull’uomo che mi stava pedinando, né purtroppo ho ricevuto risposta dall’investigatore. Questo è il problema più grave, al momento. Non so se Ryan Williams, l’investigatore, stia bene. Dall’agenzia mi hanno già rimborsata, ma ciò che mi premeva non erano i soldi che avevo speso, quanto la storia di Frank. Ricordo che Ryan era diretto agli archivi nazionali quando gli Sluagh hanno provato a fermarlo. Questo mi fa pensare che fosse sulla pista giusta ed è un ottimo punto di partenza.

Per evitare di doverci andare di persona, ho contattato telefonicamente l’archivio. Mi hanno risposto che sono consultabili solo fisicamente. Ho fatto una ricerca su internet e ho trovato altri casi di persone che cercano defunti delle varie guerre americane. Esistono addirittura dei forum fatti appositamente per questo. Potrei chiedere a qualcuno di andarci al mio posto e verificare. Mi sono iscritta ad un forum e ho pubblicato un post a proposito, ma dopo tre giorni ancora nessuno aveva risposto, ad eccezione di un imbecille analfabeta funzionale che non ha nemmeno compreso il senso di ciò che chiedevo e mi ha detto di andare di persona all’archivio.

“Hai novità sul tipo che ti pedina?” chiede Mikaela, godendosi quello che suppongo essere un centrifugato di barbabietole che Carmen guarda con aria sospettosa.

“No, non l’ho più sognato e sinceramente…” rispondo meditabonda. “Non mi sono mai sentita minacciata quando andavo in giro. Lui era sicuramente lì intorno, ma non ho mai avuto paura, forse solo un po’ di stranezza in alcune circostanze, come se sapessi che qualcuno mi stava spiando.”

“Hai fatto delle ipotesi su chi potrebbe essere?” domanda Carmen, scrollando qualcosa sullo schermo del suo telefono.

“No…” dico stringendo lo sguardo. “Dapprima ho pensato che fosse qualcuno dalla SoverCarter, perché ho cominciato ad essere pedinata solo dopo aver dato le dimissioni, però è una cosa senza senso. È vero che alcune assicurazioni assumono investigatori per monitorare i dipendenti e scoprire cosa fanno durante gli infortuni e la malattia, per stabilire se davvero sono a casa o cose del genere, ma io ho sempre rispettato i termini dei contratti e poi, una volta date le dimissioni, non ci sarebbe più niente da controllare, ormai è finita.”

“Pensi che qualcuno… sì insomma, qualcuno di vivo ti voglia fare del male?” chiede Mikaela, preoccupata.

Carmen anticipa la mia risposta, sghignazzando. “È certo che qualcuno le voglia male, voglio dire, ti ricordi di chi stai parlando? Ora sembra essere tornata in sé, ma chissà quanti coglioni avrà fatto girare negli ultimi anni…”

“Grazie, Carmen.” Borbotto scocciata. “Sai sempre come tirarmi su il morale.”

“Non sono il tuo ragazzo, io non devo tenerti buona.” Dice Carmen sorridendo ironica. “Comunque, se non la SoverCarter, chi potrebbe essere?”

Taccio qualche secondo mentre provo a rifletterci nuovamente su, senza però che mi vengano nuove idee. Solo una persona mi torna in mente, ma è un pensiero assurdo: che senso avrebbe che lui sia qui?

 

I campi verdi di fronte a me sono sempre illuminati dal solito sole. Se dovessi ipotizzare un orario, direi che è la luce delle prime ore del mattino. Un sole dai raggi diagonali, caldi e allo stesso tempo tanto astratti, perché dovrebbero proiettare a terra delle ombre lunghissime che invece sono assenti in questa dimensione.

Ormai sono abituata a questa sensazione di coscienza alterata. Quando sono da questo lato tutto mi è più chiaro: mi pongo meno domande, sono conscia dei miei poteri, del mio passato e delle mie azioni, ma quando comincio a ricordare di essere Erika, perdo questa consapevolezza. Tante personalità mi si sovrappongono e alcune sono così lontane e sopite che Erika non riesce sempre a mantenersi integra. Il dono della conoscenza del serpente Nathair ti priva dell’individualità, perché la conoscenza non può essere riposta in un singolo soggetto. Purtroppo, quando torno al mio corpo, questa coscienza viene immancabilmente a perdersi. La sensazione residua è di stordimento e obnubilamento di ciò che ho visto e sentito mentre incarno Atenoux.

È diventato sempre più difficile trovare gli Sluagh sul treno e ho rallentato la mia caccia nelle ultime settimane. Evito di andare sul vagone in cui si trovano i passeggeri a cui è legata una parte di me, perché in questo stato non saprei gestire una conversazione utile con loro, e non è detto nemmeno che poi venga ricordata. Temo di incontrarlo di nuovo, anche se…

“Intendi passare tutto il tempo che ti è concesso qui a fissare i prati?”

Ricordo la voce di questa donna. È petulante e leggermente stridula. Ha una supponenza che mi ricorda Carmen ma, al contrario di lei, non riesco proprio a farmela stare simpatica.

“Dovrei passarlo a fissare te?”

“Ci sono anch’io.” Replica una seconda donna, decisamente più dolce.

“Clara…” mi volto verso le loro voci, alle mie spalle, mentre la mia personalità emerge più ponderante e sento immediatamente affievolirsi tutti i pensieri precedenti, al punto che non ricordo più a cosa stessi pensando.

Sono lì entrambe: Estela, leggermente imbronciata, e Clara Castelli, col suo sorriso gioioso. L’osteria dai muri rossastri e le petunie colorate alle finestre fa loro da sfondo.

Mi sento subito più cosciente e corro ad abbracciare la mia amica che ricambia con calore.

“Ho rimediato a quell’errore con Camille… ma non sono riuscita a salvarla. È stato un disastro. Non ho idea di come fare con Frank.” Sussurro tra i suoi capelli.

Sento che si ritrae delicatamente e sciolgo le mie braccia intorno a lei.

“Non era colpa tua, nessuno di noi riusciva a capire certe cose, prima. Camille… Prima o poi verrà il suo momento. Per Frank sei più vicina di quanto pensi.”

Estela si avvicina di qualche passo, con espressione contrita. “Essere traditi provoca sempre una ferita profonda nella fiducia che riponiamo nel prossimo. Cerca di non pensarci più.”

Annuisco in silenzio prima di domandare “Cosa ci faccio qui? Perché mi avete chiamata?”

Clara smorza la propria gioia. “Riguarda Gesabette. Non ha ancora lasciato il Treno.”

“Lo so…” sbuffo frustrata. “Stiamo attendendo che il museo faccia le analisi sulle tele, il fatto è che serve un macchinario apposito. Non ho capito se dovranno essere analizzate in un altro museo o cosa… ormai sono due settimane che l’associazione sta facendo pressione, dovrebbe mancare poco.”

“In realtà i dipinti sono già pronti per essere analizzati.” Spiega Estela, stringendo i pugni. Quindi è questione di poco prima che… “Purtroppo stanno interferendo, stanno facendo di tutto per non farti progredire. Ho provato a fermarli ma non siamo abbastanza forti per tenere testa a quella mole di negatività. Devi ricordarti di questo, quando ti sveglierai.”

“Aspetta, intendi dire…?” chiedo pensando agli Sluagh.

“Sì, quelle robe ributtate dall’inferno.” Continua sgraziata Estela. “Hanno causato allagamenti, problemi all’impianto elettrico, sta succedendo di tutto da quelle parti.”

Stringo gli occhi. “Finché sarò viva, l’unico modo che ho per andare nella dimensione terrena è col mio corpo fisico. Se però andassi di persona sul posto, forse…”

“Non ti farebbero mai entrare, e tanto non potresti fargli niente. Inoltre, il problema non nasce da lì. Va stroncato alla radice.” Sancisce causticamente Estela, mentre Clara annuisce alle sue parole.

“Guarda.” Riprende Clara, indicando un punto indefinito alle mie spalle. “Vedi? Si nascondono lì dentro.”

Mi volto seguendo la direzione della sua mano ed è come se riuscissi a vedere un puntino scuro tra i campi. Qualcosa che si fa sempre più vicina, come se la mia vista stesse ingrandendo una diapositiva dai contorni sfocati.

Finalmente la riconosco, la vecchia casa di campagna dei Van Meyer, ora mezza distrutta, ingrigita e diroccata come appariva nel disegno corrotto alla galleria del museo di Amsterdam. A differenza di quella volta però, ci sono grosse radici nere pulsanti che circondano le pareti di legno dell’immobile ed è circondata da alberi spogli e ritorti.

“Devi fermarlo.” Dice Estela con vigore.

Distolgo lo sguardo da quella macabra visione, per riportarli su di loro. Estela continua “Anche senza il loro aiuto, Van Meyer è forte. Non andrà mai via, non finché riconoscerà la strada. È in grado di fare avanti e indietro da quel dannato museo a casa propria.”

Clara fa scivolare la mano dal mio braccio fino a raggiungere la mia mano e stringerla tra le sue. “Se non riuscirai a bloccarlo, Gesabette non troverà pace.”

Scuoto la testa in diniego. “Io non sono in grado di esorcizzare gli spiriti! Brianna mi ha spiegato come si fa, ma non funzionerebbe. Non mi ascolterebbe mai e poi, se è legato alle opere, non potrei distruggerle.”

“Il suo attaccamento è alla casa.” Estela fa un sorriso vittorioso. “Se non riesci a distruggerlo, fa in modo che si perda. Devi…”

Il suono del cellulare mi fa balzare dal letto su cui mi ero addormentata. Mi guardo intorno, turbata. Sento di aver dimenticato qualcosa di cruciale riguardo all’ultima visione… Porco diavolo, proprio sul punto più importante!

Prendo il telefono che continua a suonare imperterrito. È Nores. Rispondo allarmata. “Pronto?”

“Ciao Erika, scusa se ti ho chiamato a quest’ora, immaginavo che volessi sapere che tre delle opere del periodo blu sono state portate al museo di Van Gogh e che hanno predisposto di analizzarle agli infrarossi nei prossimi giorni. Purtroppo ci sono stati dei problemi tecnici e quindi è tutto posticipato…”

“Cosa? Aspetta… scusa, mi sono appena svegliata, è posticipato a quando?” chiedo sfregandomi il viso per riprendermi dalla sonnolenza.

“Probabilmente per il 19 ottobre, ma i risultati non saranno pubblicati prima del 22 per via del fine settimana di mezzo. Purtroppo la macchina ha avuto un guasto e hanno detto che dovranno procedere alle riparazioni prima di fare un tentativo. Senza un mandato del Ministero della Cultura non sono nemmeno obbligati ad aprire un’indagine, quindi non ci conviene calcare la mano adesso: rischieremmo che vada tutto all’aria e per smuovere il Ministero ci potrebbero volere anni. Dobbiamo portare pazienza.”

Cazzo… “Addirittura fino al 22? È tantissimo…”

“Lo so, ma non ti preoccupare, dieci giorni passano in fretta.” Prova a consolarmi gentilmente.

“Sì… passano in fretta.” Lo so fin troppo bene. “Grazie per avermi avvisato… Ah, Nores, scusami. Volevo chiederti se sapessi dove si trova di preciso la casa di campagna dei Van Meyer, a Leida.”

“Ehm… sì, dovrei avere l’indirizzo, dammi qualche ora, te lo mando nel pomeriggio, perché adesso non ho i fascicoli sotto mano.”

“D’accordo, grazie. A presto.” la saluto, chiudendo la chiamata. Sono le 8:30 di giovedì 11 ottobre… ancora 21 giorni.

“Era Nores?” chiede sbadigliando Lukas, che mi rendo conto adesso essere sdraiato di fianco a me.

“Sì… ci sono stati dei problemi tecnici, prima del 22 non conosceremo i risultati delle analisi delle tele di Gesabette.” Mi interrompo per sentire la sua sfilza di improperi. “Ma non è questo il problema.”

Mi guarda con circospezione, pronto a formulare una nuova serie di turpiloqui. Sospiro e sgancio la bomba. “Conosco la ragione di questi intoppi. Dobbiamo tornare in Olanda.”

 

Questi giorni di ottobre sono straordinariamente freddi. Qui a Leida di notte gela tutto, ha già fatto una lieve nevicata e anche se sono partita con un adeguato ricambio di vestiti invernali, la punta dei piedi e delle dita non mi si scaldano mai.

Abbiamo noleggiato un veicolo, un piccolo suv, all’aeroporto e con quello siamo arrivati in hotel nel pomeriggio. Ci siamo fermati a prendere qualche cosa da bere e da mangiare, perché intendiamo trattenerci il meno possibile e risolvere la questione in fretta, quindi eviteremo ristoranti e uscite di piacere.

È fuori discussione andare oggi alle rovine dei Van Meyer, non quando tra meno di due ore calerà il buio. Andremo domani mattina, 16 ottobre, a sedici giorni dal mio termine.

Purtroppo non siamo riusciti a partire prima. Io non mi ritenevo preparata, dovevo ancora leggere due libri, mia nonna non poteva tenerci Laika prima del 14 e lasciarla in una pensione era fuori discussione. Inoltre Lukas stava aspettando la consegna di un nuovo macchinario e non gli andava di lasciar fare tutto a Steven.

Dobbiamo riuscire a sistemare la questione Abel Van Meyer entro il 19 ottobre, quando ritenteranno di effettuare il test con i macchinari. Angustiarci prima per andare a Leida non avrebbe avuto senso. Carmen lavora, Mikaela non può uscire di casa perché è in malattia e Lukas non mi avrebbe mai fatto andare da sola. Io stessa, sinceramente, non vorrei andare da sola.

Ogni volta che chiudo gli occhi e ripenso alla casa diroccata che ho visto in sogno, mi vengono i brividi. L’unica cosa che riesce a distogliere la mia attenzione è la ricerca su Frank e i libri che mi ha prestato Brianna. Ha detto che ora sono più utili a me e di non preoccuparmi per lei, che adesso Mikaela è al sicuro. Sappiamo però che non lo sarà per sempre, prima o poi dovrà tornare alla fiduciaria…

Ho dedicato gli ultimi dieci giorni a leggere libri sugli spiriti e a fare ricerche online sul Vietnam.

Approssimativamente, Frank deve essere morto nel Sud del Vietnam. Sono riuscita a capirlo dopo aver trascritto e soppesato tutto ciò che ricordo mi avesse detto, anche se purtroppo ho dimenticato il nome del villaggio in cui mi disse di essere caduto. Era morto durante un periodo di piogge intense, a marzo. Credo che fosse la stagione delle piogge che colpisce la parte meridionale della nazione nel periodo che coincide con la nostra primavera.

Successivamente ho fatto una ricerca su Patience Howard, la sorella di Frank. Tuttavia, se si è sposata, non troverò mai il suo secondo cognome. Stesso discorso vale per la figlia, Meredith. Quando è morto, lui aveva 28 anni e lei ne aveva 8. Sicuramente aveva il cognome del padre, ma se si è sposata, non lo porterà più…

Ho provato spesso ad invocare gli spiriti chiedendo aiuto ma tutti restano silenti, non so perché. Nemmeno per Camille ho avvertito questo silenzio, è come se non potessero dirmi nulla su di lui e non comprendo perché. Clara è stato il caso più semplice da risolvere e gli Sluagh hanno provato a fermarmi, senza però una reale convinzione. Per Camille ho fatto il diavolo a quattro, ma non ho avuto grande aiuto, questo però è stato dovuto al fatto che non potevano ancora parlare con me dato che finché gli Sluagh non hanno cominciato a giocare sporco, nemmeno Clara ed Estela potevano intervenire. Regole divine che chissà perché siamo obbligati a seguire. Per Gesabette è stato un continuo supporto, e ho apprezzato tantissimo l’aiuto che mi è stato dato. Invece per Frank… niente ad eccezione di quel commento che ha fatto Clara sei più vicina di quanto pensi… vicina a cosa? Gli Stati Uniti si sono staccati dal continente americano e ci stanno raggiungendo?

Escludo che sia una persona immeritevole di salvezza, anche perché gli Sluagh, per lui, si sono fatti sentire e anche in una maniera molto aggressiva. Non avevano mai preso una posizione tanto violenta, prima di allora.

Se non avessi avuto quella visione su Ryan, probabilmente sarebbe tornato all’auto e sarebbe saltato in aria alla prima scintilla. Quindi non vogliono che scopra nulla su di lui, non lo considerano un alleato come è stato per Camille e, conoscendolo, so che non accetterebbe mai di scendere a compromessi con loro… allora perché non provare ad aiutarlo? In fondo, per quanto burbero e scontroso, per quanto le sue idee possano essere considerate antiquate e il suo carattere indisponente, ha sempre cercato di aiutare tutti e forse è l’individuo che sul treno mi ha dato più sostegno di chiunque altro. È estremamente frustrante.

“Dio mio, sei ghiacciata, via!”* sibila Lukas provando ad allontanarsi da me strisciando nel letto, dopo che gli ho appoggiato i piedi freddi sulle gambe, per scaldarli.

“Torna qui! Dove vai? Hai detto che non mi avresti mai abbandonato!” frigno tragicamente, prendendolo in giro mentre lancia degli urletti molto poco virili al contatto con le mie estremità gelate.

“Ci ho ripensato! Ah!!”

“Signore e Signori, la caduta del Maggiore Keller!” sghignazzo mentre lo perseguito tra le coperte, peggiorando i suoi strilli quando gli poggio anche le mani ghiacciate sulla schiena e lui si divincola disperato. “Sulla sua lapide scriveranno Non lo scalfirono demoni e spiriti maligni, perì assiderato per i piedi congelati della sua donna.”

“Sulle palle no!” si lamenta dopo che ho provato a infilargli le punte dei piedi tra le ginocchia.

“Ricordavo che le palle le avessi da un’altra parte.”

“Me le hai fatte cascare, adesso mi arrivano alle caviglie.” Borbotta quando finalmente si arrende al supplizio.

Rido per la situazione anche se dentro di me non c’è pace, non voglio che riesca a percepire la desolazione del mio stato d’animo.

 

“Hi!” dico in inglese ai bambini che avranno dieci anni alla fermata del bus. “Capite l’inglese?”

“Buongiorno.” Replica oltraggiato nello stesso idioma un bambinetto che mi arriverà su per giù all’altezza della cintola. “Sì, certo.”

“Eh, certo, che domande…” borbotta sarcasticamente Lukas, di fianco a me con le mani nel cappotto, controllando la Kia a noleggio, parcheggiata in zona d’emergenza a lato della strada con le quattro frecce.

Pensavo che sarebbe stato più facile raggiungere la casa, ma il navigatore non ha alcuna intenzione di collaborare. Ad un certo punto il GPS si è scollegato e ci siamo ritrovati a percorrere la strada avanti e indietro per un’ora prima di trovare un’anima viva in giro a cui chiedere informazioni: dei ragazzini fermi ad aspettare l’autobus, meglio che nessuno…

“Bene… sapete dove si trova questa casa?” mostro loro la foto in A4 che mi ha girato Nores, insieme a tutte le informazioni e alla planimetria della vecchia villa, prese dall’archivio storico del catasto di Leida.

I bambini scuotono la testa in diniego, tutti ad eccezione di uno, smingherlino e dai capelli di un indefinito biondo castano, che guarda l’immagine con interesse.

“Sai dov’è?” provo ad avvicinargli la foto al viso e lui tentenna un po’ prima di rispondere.

“Sì… Ci sono andato con papà questa estate. È meglio non andare lì. Ci sono i fantasmi.”

“Chiedigli di dirci qualcosa che non sappiamo.” Continua a bassa voce in tedesco il mio compagno, con una smorfia di sofferenza. Lo guardo storto prima di tornare dal bambino.

“Ti ricordi la strada? Me la puoi mostrare?” gli chiedo con un sorriso incoraggiante.

Annuisce un po’ turbato prima di indicare la via che abbiamo appena percorso. “È molto lontano da qui… devi camminare finché non arrivi al bosco di alberi di Natale e poi salire e salire… poi la vedi. Non puoi, non vederla.”

“Grazie mille!” rispondo tentando di sembrare amichevole, sebbene in pratica non mi abbia detto tanto. “Ciao!”

Vado via tra le occhiate indagatorie dei bambini e torno in auto insieme a Lukas.

“Dunque…” comincio tirando fuori la cartina cartacea che ci ha fornito l’hotel. “Dobbiamo tornare indietro. Ha detto che è molto lontano, ma non possiamo dirlo con certezza, i bambini hanno un senso delle distanze differente da quello degli adulti. Procediamo lentamente, dobbiamo trovare degli abeti.”

“Come se non ce ne fossero ovunque…” esala girando l’auto e tornando sulla strada, procedendo un po’ sotto al limite.

Avremo fatto sì e no due chilometri, quando effettivamente mi accorgo che adesso la boscaglia è composta solo da abeti. “Prova a fermarti qui… ha indicato il lato destro, che però era il sinistro del bosco. Dovremo proseguire un pezzo a piedi.”

Lasciamo l’auto a bordo strada, con una gomma sulla striscia bianca asfaltata e tre quarti dell’auto sulla parte scoscesa di terra che circonda la carreggiata. Lukas prende il borsone dal sedile posteriore e io osservo l’ambiente circostante.

Gli arbusti delimitano il bosco di abeti e a fatica riusciamo ad oltrepassarli, rovinandoci i vestiti quando le spine dei rovi di more ci si impigliano addosso.

“Se ci fosse stata la neve seria, qui non saremmo potuti passare.” Sbuffa Lukas, aiutandosi con le scarpe a schiacciare alcuni dei rami spinati che gli arrivano al ginocchio.

Quando ci addentriamo nel fitto del boschetto di abeti, il silenzio rotto solo dal rumore dei nostri passi che schiacciano i rami secchi fa calare uno stato di ansia su di noi.

“Siamo vicini, lo senti? Fermiamoci.” Sussurro alzando un braccio di fronte a lui per arrestargli il passo.

“Sì… lo sento.” Poggia a terra il borsone e cominciando a sfilare alcune delle cose che mi sono portata da casa.

Brianna ha provato a spiegarmi velocemente cosa mi sarebbe servito. Quel giorno era molto tesa per via del malessere di Mikaela, per questo aveva deciso di darmi i libri, mentre di solito si prodiga a spiegarmi tutto a voce.

Nel mio sogno, Estela mi ha suggerito di far perdere Abel, il fatto è che sui libri non ho trovato riferimenti a questo particolare. C’era un paragrafo che citava gli spiriti perduti, che altro non sono che coloro che non riescono più a ritrovare la strada di casa… succedeva di solito a chi veniva scacciato da un edificio in seguito alla benedizione delle mura e non poteva più entrarci, oppure alle case che venivano rase al suolo e davano spazio a nuovi progetti edili, come un’autostrada o un parcheggio, che portavano lo spirito a smarrirsi perché sul piano terreno non esisteva più qualcosa che lo tenesse vincolato alla materia.

Uno dei dettagli più interessanti su cui tutti i libri concordavano era che i demoni non sono fisionomisti: non riescono a riconoscere bene il viso delle persone, ed è per questo che, per disorientarli, è utile travestirsi. Non possiedono il sesto senso, non sono umani. La loro vista è differente dalla nostra, anche se non è dato sapere a nessuno cosa vedano realmente. Quando si trovano nella dimensione terrena, se ci si trucca e traveste, non riescono a riconoscerti. Da qui la leggenda che per Halloween bisogna travestirsi da mostri, per mischiarsi tra di loro ed impedirgli di seguirti.

Quando Lukas prende i trucchi, so che dovrò fare il possibile per non ridergli in faccia mentre gli disegno le rune della forza e della protezione sulle guance e delle linee trasversali nere che sfumo con il dito.

“Ora sembri un vichingo per davvero!” sussurro con un ghigno beffardo.

“Spera per te che non ci stiamo conciando così senza una ragione valida…” ringhia scocciato.

“Non posso saperlo, sai…” sto per dire che è la prima volta che vado a combattere un poltergeist, ma il ricordo di Camille mi gela il sorriso sulle labbra. Quella era una situazione del tutto differente… “Me lo auguro anche io.” Sospiro e mi calco prepotentemente la matita nera sulla fronte, attraversando la palpebra in verticale fino alla guancia, dove traccio ghirigori casuali.

“Tieni a portata di mano i sacchetti con le pietre e le candele.” Gli dico mentre gli porgo i trucchi e alzo la sciarpa fino al naso, per nascondere la parte inferiore del viso.

Lui risponde affermativamente mentre nella borsa sento il picchiettio delle rocce che sbattono le une sulle altre. Sono pietre su cui ho tracciato dei disegni presi dal Libro delle Ombre* di Gardner, inserite in sacchetti con le erbe che mi ha fornito Brianna e un pugno di sale grosso in ognuno. Su ogni sacchetto sono disegnate due rune: Algiz, la protezione, per allontanare gli Sluagh e Isa, la runa del vincolo e della stasi, per impedire che Abel riesca a spostarla o ad allontanarsi.

Le candele sono sempre citate nel grimorio, simboleggiano l’elemento del fuoco, che è quello più affine agli esorcismi, insieme all’acqua. Non so se mi saranno utili in qualche modo, ma ho scelto di portarle comunque.

“Andiamo.” Dico prendendo l’ennesimo sospiro del giorno, incamminandomi verso quel punto in cui sento che non dovrei mai andare.

Gli alberi si fanno più sottili e storti man mano che ci avviciniamo. Lo scorcio di quel che resta di un pezzo di staccionata abbattuta tra i rovi mi fa comprendere che la natura si è scatenata su questa proprietà e che ci troviamo già entro i confini di quella che era la tenuta di campagna della famiglia Van Meyer.

Non faccio in tempo a dirlo a Lukas, che la vista di una grossa casa a due piani, in quello che sembra essere legno pietrificato, col il tetto sfondato ben visibile da questa prospettiva e le finestre completamente divelte, mi arresta il fiato.

“Siamo arrivati.” Sussurro guardando i resti putrefatti della casa rusticamente elegante che ho visto qualche settimana fa in una visione con Estela.

Il respiro affannato di Lukas e i nostri passi che arrancano sulle sterpaglie ingiallite sono gli unici rumori che riesco a sentire mentre procediamo sulla salita che ci porterà all’ingresso della casa. Tutto intorno a noi è incredibilmente silenzioso e l’aria stessa sembra essersi fatta pesante e priva di ossigeno.

Fermiamo il passo a una ventina di metri dal porticato d’ingresso. La casa è rialzata, come se il piano terra si trovasse sollevato di circa un metro. Cinque scalini in legno, di cui due mancanti e spezzati, conducono al punto in cui una volta doveva trovarsi una porta, ora assente.

Alzo lo sguardo sull’edificio, ancora più tetro sotto questo cielo luminoso ma annuvolato di sottili coltri bianche. I colori predominanti del rudere sono il grigio e il nero, che hanno sostituito completamente il marrone ciliegio che ricordavo. Un brandello di tessuto muffito pende pigramente appeso ad una finestra a qualche metro dall’entrata, quel che resta di una tenda, suppongo.

Non c’è vento, non una brezza nell’aria.

Tutto è immobile, eppure… se tengo fisso lo sguardo sulla casa riesco a vederla, la sua figura imponente che si gonfia e poi si abbassa lentamente, il suono sottilissimo di un respiro. Come se fosse viva, addormentata o forse in attesa. Attende il mio arrivo, pronta a balzarmi addosso con la sua mole marcia e un cumulo di vermi ripugnanti che sta brulicando sotto alle sue fondamenta. Lo sento, il rumore viscido che emettono i loro corpi invertebrati che si attorcigliano gli uni sugli altri, contorcendosi in un muto invito ad unirti alla danza macabra da cui non si può riemergere…

“Allora?!” l’esclamazione di Lukas mi fa uscire dal mio stato di trance.

“Cosa?” cerco di riprendermi distogliendo lo sguardo dalla casa.

“Ho detto: tutto bene? Se non te la senti non dobbiamo per forza entrare.” Risponde con un tono dapprima nervoso e poi sempre più remissivo.

“Sto bene… ce la faccio. Non separiamoci, per nessuna ragione.” Bisbiglio, prendendo coraggio e muovendo i primi passi che mi portano agli scalini. Come vi poggio sopra il piede, una potente forza di gravità mi colpisce, e d’istinto mi curvo sotto al peso di quella pressione. Diminuisce appena quando Lukas mi prende la mano.

Saliamo le ultime assi di legno che una volta componevano la scalinata d’accesso e osserviamo l’atrio della casa. Non è mai stata venduta o abitata in seguito al suicidio del proprietario, adesso è di proprietà demaniale. Non è minimamente simile a come la ricordavo. Non ci sono più divanetti, tavolini e vasi, quadri alle pareti e tappeti per terra.

Un materasso sporco si trova in fondo alla stanza, buttato per metà contro una parete, cumuli di sporcizia, foglie secche e spazzatura varia abbastanza recente, cartine di merendine, bottiglie di birra e superalcolici vuote stanno sparse ovunque.

Faccio cenno a Lukas di passarmi il primo sacchetto con dentro la pietra e la poggio in un angolo dello stipite davanti a noi prima di entrare definitivamente all’interno.

Vorrei poter dire che abbia un odore riconoscibile, ma è un miscuglio di muffa, rancido e stantio, come se non fossimo passati da una porta, bensì tra le fauci di una bestia sopita. Non sembra esserci nessuno da parecchio tempo, anche se la vista di qualche siringa sottile, di quelle che si usano per l’insulina, si trova a pochi metri dal materasso.

“Qualcuno doveva venire a bucarsi qui… è difficile scacciare quel tipo di persone. Qualcosa dovrà averli allontanati…” dice Lukas abbassandosi a prendere una cartaccia di patatine a pochi centimetri dal suo piede. Fa una smorfia divertita prima di parlare ancora. “Scadenza al 28 marzo 2003…”

“Dammi il gessetto e le candele. Butta il resto dei sacchetti verso tutti gli angoli che riesci a vedere da qui.” Sussurro spostando un po’ di spazzatura dalle assi scricchiolanti del pavimento sotto di noi, a circa due metri dall’ingresso. Sento il tonfo delle pietre contro il suolo quando vengono lanciate in giro.

Quando mi passa il gesso, comincio subito a tracciare il cerchio che era riportato sul libro. All’interno di esso, un disegno geometrico che mi sforzo di riprodurre il più precisamente possibile, con sei punte disposte a pari distanza le une dalle altre. Dispongo le candele nere su ognuna delle punte e proseguo con i disegni concentrici. Questo servirà a portarmi sullo stesso livello di Abel, qualsiasi cosa volesse dire il grimorio con queste parole.

Mi volto velocemente verso destra, dove mi sembra di aver visto con la coda dell’occhio un’ombra nera nascondersi dietro alla fessura di un mobile di legno rosicchiato dalle tarme. Non siamo soli… Qualcosa si sta nascondendo.

“Ora proverò a contattarlo. Tu non ti allontanare da qui. Traccia un cerchio di sale intorno a te e non uscire mai, qualsiasi cosa vedrai.” Gli bisbiglio mentre annuisce stringendo le labbra in un moto di preoccupazione.

Quando vedo che ha eseguito le mie disposizioni, prendo l’accendino dalla tasca dei pantaloni e accendo le candele intorno a me, poi lo ripongo nella tasca posteriore e mi siedo al centro del cerchio.

Concentrarsi in questa situazione è quanto di più difficile abbia mai fatto. Non so quanto tempo sia passato prima che perdessi il conto dei respiri profondi che sto facendo, ma è quando ho smesso di percepire le mie mani e gambe, che ho compreso di stare per separarmi dalla dimensione terrena.

Quando riapro gli occhi, tutto è come prima. Sono stranita, perché ero convinta di esserci riuscita. Lukas è sempre in piedi di fianco a me e si guarda intorno, sospettoso.

Niente, non funziona… provo ad alzarmi ma un capogiro mi coglie e quando cado all’indietro emetto un urletto nel realizzare che sto scivolando proprio su una delle candele. Incredibilmente, non provo alcun male quando colpisco il suolo, né sento Lukas emettere una parola. Mi volto e quello che vedo mi lascia senza parole.

Il mio corpo è ancora in mezzo al cerchio, con gli occhi chiusi e le mani poggiate sulle ginocchia incrociate. La mia mano passa attraverso la candela su cui sono caduta, che non viene minimamente spostata dal mio gesto, forse solo la fiamma ha baluginato appena, come se avesse sussultato. Osservo meglio la mia figura, rendendomi conto che non indosso più i miei abiti invernali, ma il lungo vestito nero di Atenoux, con i nastri sul petto.

Mi guardo intorno e capisco che se starò ferma qui, non combinerò nulla.

Sono stata la prima a dire di non separarci e poi guardami, pronta ad esplorare la magione infestata in autonomia… però non è del tutto vero. Tecnicamente, io sono ancora con Lukas… meglio non perdersi in questi pensieri adesso.

Mi alzo e comincio a camminare verso destra, dove ci sono le scalinate che portano al piano di sopra e una stanza che non ho mai visto, sempre su questo piano.

“Abel? Sto cercando Abel Van Meyer.” La mia voce sembra rimbombare tra le pareti scure della casa, ma i miei passi non fanno rumore. La stanza in cui sono entrata sembra essere stata una sala da pranzo. Il tavolo è stato rovesciato di lato, ne resta solo il telaio. Alcuni mobili sono ancora parzialmente riconoscibili, faccio qualche passo verso il centro della stanza prima di sentire qualcosa alle mie spalle. Mi volto appena in tempo per vedere l’ombra nera sgusciare in direzione delle scale su cui una volta rincorsi Estela.

Le corro dietro, sebbene quando arrivo alle scale, non veda niente sopra di esse. Le salgo comunque, arrivando al corridoio del piano superiore, su cui si dividono le varie camere. Ora che ho tempo per guardarmi in giro, riesco a contare cinque porte differenti.

Dire porte è abbastanza azzardato… tre su cinque mancano, lasciando la visuale di camere abbandonate, un paio di punti in cui il pavimento ha ceduto e una stanza in cui addirittura si riesce a intravedere il piano sottostante. Quella di Gesabette era la terza, a metà del corridoio. La sua porta è presente, sbarrata da assi di legno inchiodate.

Faccio qualche passo prima di ricominciare a chiamare il nome del padrone di casa.

“Abel Casimir Van Meyer?” provo col suo nome completo, poco prima di balzare di lato nello scorgere nuovamente un guizzo nero alla mia destra. Qualcosa si sta prendendo gioco di me…

Mi dirigo verso sinistra, all’unica porta ancora presente oltre quella di Gesabette. Provo ad aprirla toccando la maniglia, ma la mia mano la attraversa. Resto turbata per qualche secondo da quella visione, prima di realizzare che posso passare attraverso gli oggetti e che le porte chiuse non rappresentano un impedimento.

Scrollo le spalle come se dovessi darmi la carica di fronte ad un esercizio ginnico, poi mi butto verso la porta. È un momento di buio quello che coglie i miei occhi, subito dopo, la luce che filtra da una delle finestre della camera mi accoglie in quello che resta di un letto a baldacchino e dei mobili con cassettoni per la biancheria rovesciati al suolo.

La seconda finestra invece è parzialmente coperta dalla figura di un uomo voltato di spalle, vestito con un pantalone spesso e marrone, una camicia bianca che è visibile solo per le maniche e il colletto, e un gilet grigio chiaro, con le mani unite dietro alla schiena. I capelli gli arrivano alle spalle, sono lunghi quasi quanto i miei e sono scuri come quelli di Gesabette.

“Signor Van Meyer?” chiedo incerta.

“Non dovresti trovarti qui, zingara. Vattene se non vuoi che ti trovino i nazisti.” Risponde freddamente l’uomo. La sua voce è baritonale e profonda.

“Signor Van Meyer, devo parlare con lei.” Gli dico un po’ tranquillizzata dal suo atteggiamento tutto sommato pacato.

“Sei sorda? Stanno arrivando i nazisti!” ringhia voltandosi e ammetto che avrei fatto volentieri a meno della visione del suo viso. Il fronte del gilet è attraversato da una colata di sangue scuro, un grosso solco sotto al suo mento, nella piega della gola. L’occhio sinistro è rovesciato all’indietro e perde sangue anche dal naso. Il foro d’uscita non riesco a vederlo da questa prospettiva, per mia fortuna. Chiudo gli occhi qualche secondo per farmi forza, anche se non è conciato in una maniera cruenta come Camille, faccio ancora un po’ di fatica a tollerare la vista di queste cose, sebbene negli ultimi tempi ci abbia fatto un po’ più l’abitudine.

È più vecchio rispetto a quando lo vidi nel ricordo mostratomi da Estela, dimostra una sessantina d’anni nonostante i capelli siano ancora abbastanza scuri.

“No…” non ero preparata a questa sua presa di posizione. Sembra non sapere della fine della guerra e non ho idea di cosa dirgli per farlo tornare alla realtà. Non credo sia nemmeno possibile... “Sono venuta a dirle che se vuole può andare via anche lei.”

“Andare via?! Questa è casa mia!” urla furibondo, slacciando le mani dietro la schiena e facendo un gesto d’ira col braccio. “La casa dei miei padri! Non permetterò che vada in mano ai tedeschi!”

“Signor Van Meyer la prego di rifletterci… guardi in che condizioni è la sua casa, non sarebbe più contento di tornare a vederla al suo splendore?” insisto delicatamente.

Mi fissa iroso con l’occhio integro. “Che vai blaterando? La mia casa è perfetta, non ha nulla che non vada. No, non posso andarmene. Non adesso che i nazisti hanno rubato le mie opere. Mi stanno cercando, con i loro servizi segreti… me l’ha detto la Resistenza. Non glielo permetterò.”

“La Resistenza?”

Aggrotta la fronte, meditabondo. “Chi sei? Chi ti ha mandato?”

“Sono… Monika. Mi manda la Resistenza, Signor Van Meyer… sono riusciti a recuperare le sue opere e adesso la attendono oltre alla luce.” Improvviso, sperando di essere credibile.

“No… loro mi hanno detto di attendere qui, che sarebbe arrivata. Sto attendendo una spia nazista…” la mandibola gli si contrae e torna al davanzale della finestra rotta, con cipiglio pensieroso. “È una donna. Si chiama Erika, la accompagnano un cane e un soldato. Non ci si può fidare, delle donne. Le donne naziste poi, sono il peggio.”

“Certo...” replico turbata dal fatto che non mi abbia riconosciuto per via dell’assenza di Laika. “Ma hanno detto che posso attendere io, qui al suo posto. Lei ha aspettato davvero tanto, è meglio che vada.”

“Mia moglie se n’è andata con la servitù, ma io resterò qui. Hanno preso mia sorella. La avevo seppellita in profondità. Era morta, dico. Morta. Si è unita ai nazisti insieme a quella sua amichetta ebrea, quella traditrice. Lei mi ha sempre odiato.” brontola delirante.

Non so come uscire da questa situazione… sembra essere irremovibile, forse dovrei farlo ragionare. “Signor Van Meyer, se l’amica di sua sorella è ebrea, com’è possibile che stia collaborando con i nazisti?”

Corruga la fronte, pensieroso, prima di rispondere scocciato con un gesto infastidito della mano destra. “Cosa vuoi che ne capisca, di come funzionano gli intrighi politici, una donna?”

Chiudo gli occhi per un secondo di fronte alla sua ottusità, quando è chiaro che l’unico che non capisca nulla, qui, è lui. “Sua sorella non può parlare, è malata.”

“Non può parlare? Ah!” replica Abel in quella che sembra una risata strozzata. “Può parlare eccome, quella vipera… ci ha rovinati. Ha finto di essere morta solo perché attendeva il momento opportuno per pugnalarmi alle spalle. Avrei dovuto metterla sotto chiave fin da subito. Impietosito da quella giudaica e dai piagnistei di mia madre, le ho concesso di vivere una vita agiata e guarda, guarda come mi ha ripagato!”

Cerco di prendere un respiro profondo per mantenere la mia faccia di bronzo e non cominciare una lite accesa. Abbasso lo sguardo per cercare le parole per ribattere quando l’immagine raccapricciante di una mano cadaverica si profila da sotto al letto, per poi ritrarsi tra le coltri subito dopo. Deglutisco fingendo di non aver visto niente, ma ho perso il filo del discorso.

Non siamo soli. Già lo sapevo e adesso ne ho la conferma.

“Credo di sapere dove si trovi la donna che cerca, Erika. Si sta nascondendo nel luogo in cui lei non vuole assolutamente recarsi, nella luce. Se si recasse subito lì, potrebbe coglierla di sorpresa…” tento il tutto per tutto.

“Nella luce? La luce…” il suo sguardo si fa vacuo per qualche secondo mentre bofonchia qualcosa tra sé e sé. “La troverò nella luce?” si volta per osservarmi meglio.

“Di certo, me l’hanno detto loro.” Rispondo velocemente, cercando di apparire convinta e sicura di me.

Purtroppo la mia posa fiera viene subito meno quando noto qualcosa alla mia sinistra. Un ragazzino, scolorito, dalle labbra e gli occhi anneriti è di fianco a me e mi fissa con la testa lievemente inclinata.

Buongiorno cari fanciulli!

*ahimè, la conversazione sui piedi gelati è tratta da una storia fin troppo vera… quasi quotidiana.

Ma passiamo subito al Libro delle Ombre*…Abbiamo degli appassionati di magia tra di voi? Qualcuno ha mai visto il telefilm Streghe della fine degli anni 90? Se sì, sappiate che non sono state loro ad inventare il Libro delle Ombre, il famosissimo grimorio con tantissimi riti e incantesimi provenienti da tutte le epoche, bensì il Signor Gerald Gardner nel 1949. Si può acquistare tranquillamente anche su Amazon… solo per chi non ha paura di ciò che potrebbe leggerci dentro.

Ebbene, siamo allo scontro con Van Meyer. L’ultimo tassello alla liberazione di Gesabette.

Chi ancora mi segue, ormai alla fine di questo racconto, ha tutta la mia gratitudine. Grazie a chi è arrivato fino a qui, a chi ha recensito, inserito nelle seguite, preferite e chi ne ha più ne metta. Grazie anche ai futuri lettori che hanno intrapreso la lettura di questa storia. Spero di non aver deluso nessuno di voi.

Buona settimana <3

  
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