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Autore: Adeia Di Elferas    19/12/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Le misteriose febbri del papa avevano precipitato il Vaticano nella confusione. Anche se Pio III a tratti riprendeva conoscenza, e, malgrado fosse molto debilitato, prendeva la parola per comunicare alcune decisioni irrevocabili, per la maggior parte del tempo era il caos a dettare tempi e modi nell'Urbe.

I grandi movimenti politici che ruotavano attorno alla cattedra di Pietro avevano subito un'accelerazione formidabile, forse anche per la paura di un possibile nuovo Conclave a breve che avrebbe potuto stravolgere di nuovo le carte in tavola.

Innanzitutto, con il benestare del pontefice, il Valentino era ancora nascosto in Roma, con grande indignazione dei suoi più strenui oppositori – in primis gli Orsini – e in secondo luogo Spagna, Francia e la Repubblica Fiorentina stavano giocando al rialzo con i condottieri di mezza Italia, molti dei quali, ciascuno per i suoi motivi, erano in quei giorni a Roma.

Gli Orsini, che stavano cercando di sfruttare il più possibile la marea per tornare a galla in modo stabile, avevano scelto la fazione spagnola e Bartolomeo d'Alviano, pur dopo lunghi incontri con l'Oratore veneziano Giustinian, aveva preferito seguire quella che ancora considerava in parte come la propria famiglia e aveva firmato per militare al sud, sotto bandiera spagnola. Era stato in particolare Giulio Orsini a fargli presente che la fazione spagnola era molto più conveniente di quella francese, ma non tanto per un ingaggio più remunerato, quanto perché, malgrado le parole spese contro il Valentino, i francesi ancora difendevano Cesare Borja e lo avrebbero fatto sempre, dunque un uomo come Bartolomeo che aveva da anni giurato odio al Valentino, non poteva che scegliere come propri alleati i suoi nemici.

Giampaolo Baglioni aveva seguito l'esempio del cognato, anche se con un certo sospetto. Si era fatto consegnare i quattordicimila ducati dell'ingaggio da parte dei messi del re di Spagna, ma poi non era partito come promesso per Napoli, fingendo di voler tergiversare assieme al cognato e agli Orsini, finché il papa non si fosse rimesso. In aggiunta, diceva a chiunque gli prestasse orecchio, che in quei giorni aveva l'incarico esatto di difendere il Cardinale di Rouen, e dunque non avrebbe potuto, nemmeno volendo, partire per Napoli.

In realtà il Baglioni aveva preso di nuovo contatti con i fiorentini, pronto a prendere per loro la spada, benché alleati dei francesi. Quando c'entravano i soldi e la guerra, secondo lui, era necessario mettere da parte antipatie personali e vecchi rancori.

A coronamento di quel ribollire incessante di menti e spiriti, quel 15 ottobre su Roma scese una specie di foschia molto simile alla nebbia, ma in qualche modo più rarefatta e sinistra.

Gli Orsini, eccezion fatta per Fabio Orsini, che aveva dovuto rendersi disponibile per partecipare al progetto in prima persona, avevano fatto in modo di recarsi in massa dai loro amici spagnoli alloggiati in città, in modo che nessuno potesse incolparli di nulla.

I francesi che ancora si trovavano nell'Urbe erano perlopiù mezzi morti di fame e prossimi alla diserzione, e offrivano con il loro girovagare per la città il contorno perfetto per passare inosservati, così come gli spagnoli, che, invece, si aggiravano tronfi e gonfi di vino, già convinti di avere in mano non solo Napoli e la guerra, ma anche il futuro Conclave e chissà che altri privilegi.

Le informazioni che Bartolomeo d'Alviano, Fabio Orsini, Renzo di Ceri e Giampaolo Baglioni avevano avuto erano abbastanza chiare: il Valentino avrebbe lasciato Roma di nascosto proprio quella mattina, facendo una strada ben precisa, passando non lontano dal Tevere.

I quattro uomini non se ne sarebbero occupati in prima persona, benché almeno Bartolomeo e Fabio l'avrebbero tanto voluto, ma avrebbero orchestrato la parte più complessa del piano, ossia vigilare sulle eventuali reazioni dei partigiani del Borja e, soprattutto, prendere in mano la situazione se qualcosa fosse andato storto e il Valentino non fosse morto.

Così, nella strana bruma, gli uomini stipendiati dagli Orsini attendevano il momento giusto in cui dare l'assalto alla piccola carovana che avrebbe scortato il Valentino fuori da Roma.

A un certo punto, accompagnato dal passo cadenzato di un grosso cavallo da guerra, un uomo, che da lontano non poteva sembrare altri che il Duca, comparve all'orizzonte. Portava il suo cappello e il colore del suo mantello era inconfondibile. Sembrava essere da solo, ma la cosa non impensierì troppo gli assalitori, dato che il Borja poteva essere imprevedibile.

Aveva la spada al fianco e alla sella erano assicurate altre armi: era necessario agire in fretta, prima che si accorgesse di essere in pericolo.

Svelti e silenziosi come gatti a caccia di topi, gli uomini degli Orsini uscirono dall'oscurità, circondarono la loro preda e attaccarono.

L'uomo a cavallo non ebbe tempo e modo di ribellarsi e nel giro di pochi secondi era in terra, disarmato e tremante di paura. Non appena tutti poterono vederlo meglio, però, tra gli aggressori si diffuse una delusione palpabile.

“Dov'è? Dov'è il Duca?” chiese uno dei partigiani degli Orsini.

Raffaellino Pazzi, che era comunque un uomo di fiducia del Valentino e che di norma si muoveva con il suo seguito, scosse il capo, ma qualcosa nel suo sguardo lo tradì. Seguendo il suo sguardo, che si perdeva in lontananza, tutti si resero conto che il Pazzi non era da solo e che qualcun altro, che lo stava seguendo a una debita distanza, probabilmente in quel momento stava correndo ad avvisare Cesare dell'accaduto.

“Corri ad avvisare i nostri!” sbottò il capo dell'operazione, prendendo per la collottola un suo compare: “E noi dedichiamo a questo pusillanime il trattamento che sarebbe spettato al Duca!”

Con una fretta molto diversa da quella che avrebbero avuto nel colpire il Borja, gli aggressori legarono Raffaellino al cavallo – forse con meno attenzione del dovuto – e poi, spingendo la bestia a forza di braccia verso il Tevere, lanciarono destriero e cavaliere tra i flutti impetuosi delle gelide correnti ottobrine.

Mettendosi a correre come forsennati per andare a dare manforte ai loro, gli uomini degli Orsini non attesero di controllare se il Pazzi fosse davvero annegato o meno e non lo videro quindi divincolarsi con le corde, mentre il cavallo si dimenava più di lui per tornare verso riva. Tanto meno lo videro aggrapparsi all'argine, lottare per la vita e riuscire a issarsi fuori dall'acqua, stremato, ansante, ma miracolosamente e straordinariamente vivo.

 

Cesare era sempre più impaziente e si stava pentendo di non essere andato subito via assieme a Raffaellino Pazzi. Aspettare lì, nel palazzo di San Clemente, che tutto fosse pronto per la partenza si stava rivelando un errore madornale.

Non si sapeva bene come, ma qualcuno doveva aver fatto circolare tra i soldati la notizia che lui stava per lasciare Roma, perché fin da prima dell'alba quasi duemila fanti si erano asserragliati in piazza San Pietro reclamando le loro paghe arretrate e non sembravano inclini a lasciarlo scappare senza prima ricevere quanto dovuto.

Giovanni da Sassatello, che era il prezzolato condottiero incaricato dal Valentino di scortarlo sano e salvo a Forlì, era ancor più impaziente e nervoso del suo ingaggiatore. Valutava a voce alta le loro possibilità, ma, più lo faceva, più lui per primo malediceva il giorno in cui aveva accettato quell'incarico.

Il Duca stava per perdere definitivamente la pazienza e dare ordine che si partisse, forzando il blocco dei soldati, quando uno dei suoi uomini, che aveva seguito in avanscoperta il Pazzi, arrivò al palazzo di San Clemente con una notizia agghiacciante: “Hanno preso il Raffaellino! L'hanno buttato giù da cavallo! Aspettavano voi, mio signore!” concluse, indicando proprio Cesare.

Mentre il Valentino restava immobile, senza parole, Sassatello prese in mano la situazione ed esclamò: “Metterò ottocento uomini di guardia alla piazza e porterò con me i miei trecento fanti tedeschi. Dobbiamo marciare su di loro prima che loro marcino su di noi!”

“E... E dove? Dove... Dove andrete?” chiese Cesare, annebbiato, come se le febbri che l'avevano tormentato per settimane stessero per tornare.

“Di certo cercheranno di occupare Porta Torrione e noi saremo lì a impedirglielo!” sbottò il condottiero, allibito davanti alla mancanza di prontezza di colui che, fino a pochi mesi prima, era stato visto da molti come un novello Giulio Cesare.

 

Bartolomeo d'Alviano, Renzo da Ceri, Fabio Orsini e Giampaolo Baglioni, saputo del fallimento del loro progetto, si erano subito dati da fare per mettere in atto il piano di riserva. Organizzando in fretta le truppe, arrivarono a Borgo Leonino proprio mentre anche le truppe di Sassatello prendevano posizione.

Anche Silvio Savelli era accorso a difendere uno degli ultimi avamposti Vaticani, ma l'Alviano, che tra tutti sembrava il più motivato, si mise in testa ai suoi e, senza bisogno di dire una sola parola, si fece seguire da tutti quanti, aggirando anche troppo facilmente la difesa nemica.

Bartolomeo era ormai in prossimità di Porta Torrione, che era stata serrata. Se fosse riuscito a farla aprire o, comunque, a oltrepassarla in qualche modo, sarebbe stato nel cuore del Vaticano e da lì avrebbe potuto portare i suoi uomini fino al nascondiglio del Borja, quale che fosse, e reclamarne la testa. Il papa, in fondo, era immobilizzato a letto e si diceva che riuscisse a mala pena a parlare... Di certo non si sarebbe opposto. Anzi, paradossalmente, per evitare una vera e propria guerra in casa propria, gli sarebbe convenuto far finta di nulla e basta.

Dato ordine di accendere le torce, Bartolomeo se ne fece dare una e, dopo aver superato un paio di soldati nemici che volevano disarcionarlo, riuscì ad appiccare le fiamme alla porta. Il legno, debitamente ricoperto di grasso, non prese subito fuoco, e questo portò il condottiero a rischiare più del voluto, restando immobile in attesa. I suoi soldati facevano quadrato attorno a lui e qualcuno lo imitava, cercando di infiammare lo spesso legno della porta.

Finalmente, mentre l'Alviano sorrideva, le fiamme presero vigore e in pochi istanti l'ultima difesa del Vaticano iniziò a bruciare come un falò gigantesco.

 

“Hanno ferito anche il Balivo di Caen!” stava gridando qualcuno.

“Il Cardinale di Rouen è quasi morto!” esclamava un altro.

“Ci ammazzeranno tutti!” faceva eco qualcun altro.

“Questa volta è la fine! Una guerra! Nella casa di Dio!” piangeva una delle serve.

Il Valentino cercava febbrilmente di allacciarsi le ultime fibbie della piastra pettorale, ignorando le incitazioni dei suoi, che lo invitavano a sbrigarsi. Più veniva incitato, però, più Cesare faticava a non tremare e questo lo rallentava ancora di più.

Alla fine, spazientito più dai suoi alleati che dalla situazione pericolosa in cui si trovava, il Borja decise di uscire dal palazzo di San Clemente con metà dei legacci ancora slacciati e prese in mano una spada, pregando che non ci fosse bisogno di usarla, dato che non praticava la scherma ormai da mesi e sarebbe stato in grande difficoltà nel dover lottare per la sua vita contro uomini che combattevano per lavoro da anni.

Attorniato dalla manciata di soldati che Sassatello gli aveva lasciato come scorta personale, Cesare indirizzò tutti verso il Palazzo Apostolico. Non era sicuro che questa fosse la scelta migliore, ma non vedeva dove altro rifugiarsi. Castel Sant'Angelo sarebbe stata la scelta più sicura in assoluto, ma c'era il rischio concreto che il suo castellano non gli aprisse nemmeno il portone d'ingresso...

“E che faremo al Palazzo Apostolico?” gli chiese il soldato che gli stava accanto: “Vi nasconderete sotto le gonne di qualche Cardinale?”

Il Valentino deglutì, capendo solo in quel momento l'assurdità della sua idea. Si mise a ragionare, mentre i piedi, di quando in quando, inciampavano, rendendo la sua fuga ancora più rocambolesca di quanto non fosse.

Alla fine capì cosa fare e chiese: “I miei ori... I miei ori li abbiamo presi, giusto?”

Uno dei suoi uomini di fiducia disse di sì e confermò: “Li abbiamo tutti con noi, fino all'ultimo anello e all'ultima collana...”

“Allora con quelli ci compreremo la salvezza.” concluse il Duca, sentendosi di nuovo astuto come una volpe e forte come un leone.

 

Giovanni da Sassatello non voleva ordinare la ritirata, ma sapeva che presto sarebbe arrivato per il suoi soldati un punto di non ritorno. Troppi erano morti, troppi erano stati feriti... E gli Orsini sembravano avere un esercito infinito.

Quando vide una staffetta correre verso di lui schivando i pericoli della battaglia, sentì il cuore allargarsi, pensando che il papa fosse rinsavito e, saputo di quell'incresciosa situazione, avesse ordinato di cessare le ostilità.

Invece il messaggero, arrivatogli accanto, gli disse solo: “Il Duca ha trovato salvezza a Castel Sant'Angelo! Alcuni Cardinali l'hanno aiutato e ora è al sicuro! Dice di raggiungerlo là, per combattere per lui nel caso in cui ve ne fosse ancora bisogno.”

“Va bene...” disse il Sassatello, congedando la staffetta, ma, non appena l'uomo fu lontano, cercò nella ressa il suo luogotenente e gli gridò: “Chiama la ritirata, ma aspetta che io me ne sia andato!”

Un po' confuso da quell'ordine, il soldato annuì comunque e si ributtò nella mischia. Giovanni, invece, trapassò un ultimo nemico, e, ansante, si infilò in una stradina laterale che, sapeva, lo avrebbe portato grossomodo dove voleva lui.

Appena raggiunto un punto tranquillo, si tolse i guanti di ferro e si passò una mano sul volto, per togliere un po' di sangue. Camminando, si tolse un pezzo di armatura per volta e poi, trovato per strada un uomo del popolo che stava cercando di nascondersi da qualche parte, gli puntò la spada alla gola e gli ordinò: “Spogliati: mi servono i tuoi abiti.”

Terrorizzato, il romano eseguì, restando nudo in mezzo alla via, nel freddo umidiccio di quel 15 ottobre. Guardò attonito il condottiero infilarsi i suoi abiti da poveraccio e poi lo fissò, incapace di muoversi, finché non lo vide correre lontano.

Sassatello aveva quasi la nausea per colpa dell'odore degli abiti che aveva requisito, ma sapeva che non doveva per nessun motivo sembrare un soldato, se voleva arrivare indenne a destinazione. In quel momento di confusione, chiunque impugnasse un arma o indossasse un'armatura rischiava di essere coinvolto in qualche scontro collaterale... Così, alla prima occasione, lanciò anche la spada in un vicolo buio, sperando di poter avere presto il denaro necessario a comprarne una nuova.

Finalmente, come in un sogno, vide il profilo altero, ma rassicurante, del palazzo abitato dal Cardinale Raffaele Sansoni Riario. Aveva sentito dire che quella dimora meravigliosa fosse stata costruita da un certo Melozzo da Forlì. Era un dettaglio stupido, ma in quel momento gli sembrava fondamentale, perché era là che voleva tornare, in qualche modo: a Forlì. Lui era di Imola, era stato noto per anni come Il Cagnaccio... Se c'era un modo per tornare a esserlo, anche se il guinzaglio fosse stato in mano dei Riario, lui era pronto a qualsiasi cosa.

Arrivò al portone e si annunciò, raddrizzando la schiena il più possibile, sperando di essere creduto.

Confidava di trovare nel palazzo anche il Cardinale Ascanio Sforza, che, in quei giorni, stava spesso in compagnia del savonese.

Riuscì a farsi aprire quasi subito e, una volta nell'ingresso, dovette aspettare solo pochi istanti, prima di vedersi arrivare dinnanzi i due porporati.

“Che ci fate qui?” chiese Ascanio, tagliente.

“Che sta succedendo a Borgo Leonino?” domandò Raffaele.

Giovanni si inginocchiò e, tenendo lo sguardo basso, raccontò in breve i fatti e concluse dicendo, accorato: “Io mi son trovato a combattere per il Duca sotto costrizione. Voglio cambiar animo e combattere per quel che è giusto. Vi prego, prendetemi come umile servo: vi giuro che rimetterò il legittimo Conte, Ottaviano Riario, a Forlì e a Imola. Ho ancora delle conoscenze, in Romagna, e posso aiutarvi a trovare un esercito. Chiedo solo di poter rivedere l'ordine e la giustizia nella terra in cui sono nato.”

Il Sansoni Riario e lo Sforza si guardarono per un lungo istante e poi il primo fece un passo avanti e allungò una mano verso Sassatello: “Ci servono uomini come voi. Alzatevi. Vi farò preparare un bagno caldo e del cibo. E più tardi parleremo con calma...”

 

Quella notte tutti gli Oratori stranieri vennero convocati dal papa per discutere di quanto accaduto durante il giorno, ma, quando questi arrivarono in Vaticano, non furono accolti dal pontefice, ma dai suoi fratelli. Parlando in vece di Pio III questi spiegarono a tutti – faticando un po' solo a tenere calmo il portavoce spagnolo – che quanto era successo era stato tremendo, agli occhi del papa, sia per il tentativo di fuga del Borja sia per gli atti di violenza degli Orsini e dei loro alleati.

Senza ammettere repliche, i rappresentanti del papa dissero che il Valentino aveva, per il momento, il permesso del papa stesso di restare a Castel Sant'Angelo, ma che sarebbe stato sotto la strettissima sorveglianza del nuovo castellano, il Vescovo di Bisignan, ossia Francesco Piccolomini, figlio del Duca di Amalfi.

Per il momento, si era concluso, le cose sarebbero rimaste così, in attesa di un miglioramento della salute del pontefice. Chiunque avesse osato continuare le ostilità in Borgo Leonino o altrove sarebbe stato dichiarato ufficialmente un ricercato e, se catturato, sarebbe stato processato come nemico della Chiesa.

Di fatto, la riunione si sciolse e le talpe presenti in Vaticano andarono leste a riferire ai rispettivi padroni quanto riferito.

La mattina seguente, il 16 ottobre, il papa era di nuovo privo di conoscenza, benché avesse bevuto diligentemente i suoi decotti per buona parte della notte, e gli Orsini ancora circondavano Castel Sant'Angelo, permettendosi, addirittura, di fare pressioni agli spagnoli affinché li aiutassero nel controllare che il Valentino non potesse scappare restando impunito per tutte le sue colpe.

In quel clima di profondissima confusione, il Cardinale Raffaele Sansoni Riario, che dal giorno prima ospitava in segreto in casa il condottiero Giovanni da Sassatello, non riusciva a non sentirsi euforico. Non aveva mai avuto la smania di partecipare alla grande storia né si riteneva un uomo capace di gestire chissà quali intrighi, ma quella mattina aveva la sensazione di essere più intelligente di tutti quelli che conosceva, suo cugino Giuliano Della Rovere compreso.

Attraversando parte della città con una discreta scorta e con il passo veloce e sicuro, reso solo un po' mesto dalle spalle tenute come sempre un po' curve, il Cardinale di San Giorgio raggiunse il posto pattuito con un fedele amico di Guidobaldo Maria da Montefeltro.

Il vecchio signore di Urbino da giorni imperversava in Romagna creando scompiglio e ingrossando le sue fila, e sembrava si fosse appattato con Venezia, con il Pandolfaccio e chissà con chi altri, pur di riavere le sue terre. La sua azione, Raffaele ne era certo, poteva giovare alla causa della Tigre di Forlì.

Quella mattina, quindi, al Sansoni Riario non importava più nulla della salute del papa, dei disordini a Borgo Leonino e, tanto meno, della ritirata del Borja a Castel Sant'Angelo: l'unico pensiero che occupava la sua mente era come esporre la sua proposta in modo che Guidobaldo non potesse per nessun motivo dirgli di no.

 

“Sono le solite febbri malariche?” chiese Scipione, una volta uscito dalla stanza di Caterina che, in parzialmente incosciente, restava vegliata dalla balia di Pier Maria.

Fortunati, che da quando la Tigre era stata male non mangiava quasi più e sembrava un fantasma, più che un uomo, scosse il capo e sussurrò: “A detta del medico sono febbri nervose, ma in realtà non lo sa nemmeno lui...”

“Capisco.” sussurrò Scipione, che, però, ricordava la Sforza preda delle sue febbri quando ancora vivevano a Forlì, e non ravvisava grandi differenze: “Comunque potevate avvisarmi prima... Avrei potuto darvi un aiuto, specie coi miei fratelli... Forse potrei portare Bernardino un po' in città, per distrarlo... L'ho visto molto agitato...”

Il piovano si morse le labbra, come indeciso. In effetti il piccolo Feo non faceva altro che scappare a destra e a sinistra, trascinando in giochi maneschi Giovannino – che da quando la madre stava male si era fatto schivo e scontroso, quasi fosse più arrabbiato che non preoccupato – e un paio di volte aveva anche litigato con alcuni servi della villa, arrivando quasi alle mani anche con loro.

“Non credo che sarebbe una buona idea.” concluse Fortunati: “Potrebbe mettersi in qualche guaio o mettere voi in imbarazzo. E poi credo che voglia essere qui, quando la madre si riprenderà.”

“Scipione...” la voce di Galeazzo arrivò sottile come se giungesse da molto lontano e non dalle scale.

“Fratello.” ricambiò il saluto l'altro: “Sarei venuto prima, se me l'aveste fatto sapere...”

Francesco, a quel punto, si allontanò con una scusa, sia per lasciare soli i due fratellastri, sia per non sentirsi ripetere una volta di più di quanto fosse stato scorretto non scrivere prima al Riario, dato che si era trattata di una sua precisa decisione, volta a non sollevare troppa ansia attorno al malessere della Leonessa, come se questo potesse bastare a farla guarire prima.

“Credi che sia il caso di scrivere a Bianca?” il tono di Galeazzo era così mesto da rendere la sua voce quasi irriconoscibile.

Quella domanda gli rimbalzava per la mente da almeno un paio di giorni. Benché avesse scartato subito l'ipotesi di avvisare Ottaviano – che avrebbe colto l'occasione per dimostrarsi sgradevole come sempre – e Cesare, si chiedeva se non fosse giunto il momento di contattare Bianca. Era molto legata alla loro madre e se quella malattia improvvisa si fosse dimostrata mortale, di certo avrebbe voluto essere presente per...

“Ma è davvero tanto grave?” chiese Scipione, accigliandosi: “In passato è già stata così e si è sempre ripresa...”

“Ma era più giovane e più... Sana.” Galeazzo non sapeva come altro spiegarlo, ma il malessere costante della Tigre, insorto subito dopo la sconfitta a Ravaldino, di certo stava influendo negativamente sulla sua notoria capacità di ripresa.

“Aspettiamo ancora un giorno o due.” consigliò Scipione: “Bianca ha partorito da poco... Farle fare un viaggio del genere sarebbe pericoloso...”

I due restarono ancora qualche minuto a confrontarsi sul da farsi, ma, alla fine, si trovarono concordi sul fatto che avere ancora un attimo di pazienza fosse la scelta più saggia. Così Galeazzo accompagnò per un tratto il fratellastro, fino alla stanza che già altre volte gli era stata riservata durante le sue visite alla villa e gli assicurò che avrebbe potuto fermarsi per tutto il tempo necessario.

Per il resto della giornata, a turno i figli di Caterina la vegliarono e verso sera fu di nuovo il momento di Galeazzo di stare al capezzale della madre. Quando Fortunati arrivò a dargli il cambio, l'uomo gli parve ancor più tirato e patito che non al mattino.

“Erano giorni che era strana...” sussurrò il fiorentino, sistemandosi accanto al Riario, lo sguardo fisso al profilo sofferente della Tigre: “Non faceva altro che parlare di guerre e soldati... E da un po' non voleva nemmeno più che io...”

“Che voi?” lo incalzò Galeazzo, dato che Fortunati aveva interrotto bruscamente la frase.

Il piovano, tradito dalla stanchezza, stava per confessare che, prima di stare male, la Tigre non l'aveva voluto nella sua stanza per parecchie notti. Per fortuna era riuscito a frenare la lingua...

Mentre la Sforza scuoteva appena la testa, probabilmente agitata da qualche incubo dovuto alla febbre, Francesco sollevò le spalle: “Che io la consigliassi...” raddrizzò il tiro.

Il Riario finse di credere a quel finale di pensiero, ma in cuor suo aveva da tempo il sospetto, abbastanza concreto, che tra il piovano e la madre ci fosse qualcosa che andasse oltre l'amicizia o l'affetto. Aveva vissuto per troppo tempo a stretto contatto con la Leonessa di Romagna per poter credere che, benché ridimensionata, rispetto ai suoi anni ruggenti, avesse rinunciato a uno dei suoi passatempi preferiti, ossia gli uomini. E dato che alla villa non c'erano molte alternative valide a Francesco, che, comunque, non era vecchio ed era anche di bell'aspetto, le conclusioni erano facili da tirare.

“Se mia madre prima di stare male parlava solo di guerre ed eserciti è perché questa immobilità la sta facendo soffrire.” concluse Galeazzo, con tono comprensivo: “Se potesse tornare alla guida di un esercito, di certo tornerebbe la donna che tutti noi abbiamo conosciuto prima che il Duca Valentino la distruggesse.”

“Purtroppo siete troppo simile a lei, per poterla giudicare con lucidità.” ribatté il piovano, senza guardare il Riario.

Sorpreso da una simile affermazione, che era stata espressa come una critica, il ragazzo fu sul punto di ribattere con fermezza, ma poi si ricordò di quanto anche il fiorentino fosse provato e spaventato da quella situazione e così cercò di suonare morbido, nel dire: “Fatemi cercare, se succede qualcosa...” e lasciò la sua postazione per ritirarsi e provare a dormire qualche ora.

 

   
 
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