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Autore: ThatXX    22/12/2023    3 recensioni
– Cosa dovrei fare adesso? – chiese lei con un filo di voce. Assurdo. Aveva appena domandato a un folle assassino, all’uomo la cui spada aveva trafitto il ragazzo col quale aveva fatto l’amore, a colui che l’aveva salvata sparandole un colpo in testa, ‘dio che razza di follia, che cosa avrebbe dovuto fare da quel momento in avanti. Si chiese se non potesse andare peggio di così.
– Cambia cognome, allontanati da qui e non ti avvicinare mai più all’Istituto né a quei ragazzi. Se ho fatto credere loro di averti uccisa è stato solo perché tuo padre desiderava questo –.
[Continuo di Crisantemo]
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Yaga lo sentì arrivare dal corridoio: ampie falcate, di gambe sorprendentemente lunghe, rimbombavano nella solitaria quiete dell’Istituto come pallonate ritmiche alle pareti. Satoru si presentò nel suo ufficio con espressione seria, la faccia di chi non ha niente di buono da comunicare, e che, come un temporale improvviso, si rabbuiò quando gli fu davanti. Batté le mani sulla scrivania e vi si appoggiò sporgendosi verso la figura impassibile del preside.
 
- Dobbiamo parlare -.
 
- Buongiorno a te – replicò monotono l’altro, intimamente seccato al pensiero che un tempo sarebbe bastata una salutare sberla educativa delle sue per rimettere quel disgraziato in riga, mentre ora era impossibile persino sfiorarlo. Bei tempi, quelli.
 
Satoru schivò il sarcasmo e sollevò le sopracciglia innevate. – Kasumi Yoshimura… il suo è un cognome fittizio, dico bene? -.
 
Yaga impallidì. Nel riflesso dei suoi occhiali Satoru rimase immobile, in attesa di una risposta che, a giudicare dalla faccia sconvolta del preside, capì di conoscere già. Era un plateale “sì” quello che traspariva dall’espressione attonita di Yaga.
 
Il giovane stregone annuì come se la replica nella sua testa si fosse trasferita sulle labbra del preside e questo le avesse dato voce confermando in definitiva le sue ipotesi. – È una Kamo – asserì e storse le labbra in un sorriso di autentica soddisfazione ma anche di aperta ostilità.
 
Quella notte si era promesso di non raccontare mai ad Ayame del suo, anzi del loro legame con quel tempio e di farsi carico tutto da solo di almeno una delle numerose sfortune di Ayame. Il frastuono del tempio che andava in pezzi aveva svegliato e spaventato Hanae ed era toccato a lui calmarla e farla riaddormentare, con sincera invidia di Ayame per la facilità con cui la piccola crollava tra le sue braccia in confronto agli isterici piagnistei quando invece era lei a metterla a letto.
 
- Sì – rispose Yaga lapidario. – Ma adesso non appartiene più a quel clan – aggiunse.
 
- Forse non per lei, ma per mio padre sì. Sapeva che ha venduto sua figlia al mio clan? Dovrebbe, visto quanto tempo avete passato a lavorare insieme -. La scelta lessicale gli fu dettata dal buonsenso, laddove l’istinto non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a usare parole come “scopare”, tanto sprezzanti quanto veritiere.
 
Yaga negò fermamente. Gli crebbe una tale angoscia dentro che il corpo si mosse in automatico e si lasciò andare contro lo schienale della sedia. – Non è vero – mormorò in rinforzo al precedente diniego.
 
- Invece è andata proprio così. Il sangue dei Kamo ha sempre fatto gola agli altri due grandi clan ed è per questo che è il clan più conservativo. Così conservativo che ci si accoppia solo tra parenti -.
 
- Minazuki Kamo – Yaga cedette e lo interruppe dopo un breve sospiro. – Era il cugino che Kasumi avrebbe dovuto sposare - ammise.
 
Fissava la superficie lucida della scrivania come se d’un tratto avesse cominciato a proiettare immagini del passato e lui le stesse passando in rassegna una alla volta. – Un vile bastardo. Iniziò ad abusare di lei quando Kasumi aveva soltanto quattordici anni. Lui ne aveva diciotto. Ovviamente nessuno sospettava di un ragazzo tutto d’un pezzo come Minazuki e quando Kasumi tentò di raccontare la verità al suo clan nessuno volle crederle. L’accusarono di essere invidiosa del figlio del capoclan e di essere una bugiarda. A quel punto, per riparare al disonore che Kasumi causò alla sua famiglia con quella “menzogna”, suo padre e suo zio decisero di dare Kasumi in moglie a Minazuki -. La voce di Yaga si sospese per qualche secondo.
 
- Perciò decise di fuggire -. Satoru lo anticipò e il preside annuì fiaccamente.
 
- A diciassette anni. Cambiò cognome e scappò verso Otsu, nelle periferie di Kyoto. Non aveva abbastanza soldi per allontanarsi troppo dalla città. Finì in un villaggio di pescatori che sorgeva su una delle rive del lago Biwa e… -.
 
- E lì incontrò Izashi Ishikawa, il padre di Ayame -. Satoru lo anticipò di nuovo.
 
- Se ne innamorò all’istante e l’anno dopo rimase incinta di Shoto, il primogenito, ma non si sposarono mai. Cinque anni dopo diede alla luce la secondogenita e abbandonò improvvisamente la sua famiglia quando Ayame aveva appena sei mesi di vita. Non so perché lo ha fatto, non ha mai voluto dirmelo, ma non credo che dietro al suo gesto ci sia un sacrificio a fin di bene per la propria famiglia. Tutt’altro. Kasumi è sempre stata una donna profondamente egoista e gelosa della propria libertà, ma credo che abbia cominciato a rendersene conto quando ormai era troppo tardi -.
 
- E qui entra in gioco il clan Gojo – questa volta fu Satoru a condurre la conversazione, intromettendosi. – Per scappare dalla sua famiglia e da Otsu, Kasumi pensò di recarsi da mio padre e di vendere sua figlia in cambio di una somma ingente di denaro. Il primogenito era un senza poteri ma Ayame era ancora troppo piccola per determinare se avesse o meno ereditato il sangue dei Kamo e, come ho detto prima, il sangue dei Kamo ha sempre fatto gola agli altri due grandi clan. Le potenzialità di quel sangue erano già venute alla luce un centinaio di anni prima, quando Noritoshi Kamo, l’allora capoclan, fu incriminato per degli esperimenti genetici abominevoli. Quel sangue avrebbe permesso a mio padre di mettere mano ai limiti naturali del nostro clan e di sorpassarli. Tutte le tecniche innate dei tre grandi clan ne posseggono alcuni ma questo lei lo sa già, preside. Ci sono almeno due limiti che riguardano le tecniche del clan Gojo, uno dei quali l’ho infranto io stesso -.
 
Satoru sollevò l’indice. – Il primo: non possono esistere contemporaneamente due possessori dei Sei Occhi. Questo è un limite che ancora oggi è rimasto inviolabile – spiegò, quindi sollevò il dito medio. – Il secondo: la possibilità di ereditare entrambe le tecniche del clan è una su un milione. Adesso, provi ad immaginare cosa sarebbe successo se mio padre avesse avuto tra le mani un sangue capace di violare questi limiti. Provi ad immaginare cosa sarebbe successo se io, il prodigio del clan Gojo nato con entrambe le tecniche, e Ayame, una discendente diretta del clan Kamo sfuggita al loro controllo, avessimo avuto dei figli. Era questo il progetto futuro di mio padre: creare una discendenza libera dai vincoli della natura. I nostri figli, e i figli dei nostri figli, avrebbero ereditato entrambe le tecniche proprio come me o, nel peggiore dei casi, più di uno di loro avrebbe posseduto contemporaneamente i Sei Occhi: la tecnica innata più potente del clan Gojo. Tuttavia, sfortunatamente per i piani di mio padre, Ayame si rivelò una senza poteri -.
 
Yaga negò ancora una volta. – Tutto questo è assurdo. È vero, Kasumi ha abbandonato la sua famiglia ma non può aver fatto una cosa del genere. Ne sono sicuro – replicò con un tono di indignazione e di offesa.
 
Di riflesso all’ostinato rifiuto di Yaga di credere alle sue parole, Satoru sbatté furiosamente le mani sulla scrivania. Il rumore fu attutito dalle spesse fibre del legno ma il portapenne tremò e le penne al suo interno si agitarono tintinnando. – È la verità, dannazione! – sbottò.
 
– Quando Ayame aveva sette anni è stata portata nella villa di famiglia. La sua energia malefica era ancora latente, ma è piuttosto comune che l’energia malefica si manifesti in età differenti; ha tempo fino ai dieci anni di vita per insorgere. E invece quello stronzo di mio padre ha voluto forzare i suoi canali energetici per scatenare prematuramente il flusso di energia malefica. Non aveva alcuna voglia di aspettare che si manifestasse spontaneamente. Per lui era più importante scoprire il prima possibile la natura dell’energia malefica di Ayame e tenerla al sicuro sotto la custodia del clan Gojo, sicuramente prima che tra i Kamo nascesse il sospetto di un potenziale discendente del loro clan alla mercé di chiunque -. Il tono si smorzò.
 
- E quando ieri mi sono reso conto che la ragazzina incontrata vent’anni fa era in realtà Ayame, mi sono chiesto perché mio padre si fosse interessato al suo sangue fino a questo punto e da lì è stato facile rimettere insieme i pezzi. Mi mancava soltanto scoprire qualcuno dell’Istituto che avesse avuto dei legami con Kasumi nel periodo in cui lei ha collaborato con la scuola e, mio dio che colpo quando sono venuto a saperlo, è venuto fuori il suo nome, preside Yaga -. C’era del sarcasmo nella sua voce piana; un sarcasmo perfido, di sottintesa accusa. Era complice degli errori di Kasumi: questo diceva la voce di Satoru.
 
Yaga si tolse gli occhiali e si massaggiò il viso con aria stremata. L’ultima verità di Kasumi gli era piombata addosso come una doccia gelata e non era sicuro di provare ancora quello stesso coraggio di amarla a prescindere dai suoi sbagli. D’altronde, nemmeno lui aveva più ventiquattro anni.
Non aveva più l’età per perdonarla.




 


- Come va lì? Tutto bene? -.
 
- Alla grande -. Satoru teneva il cellulare in equilibrio tra l’orecchio e la spalla mentre passava il bavaglino sulla bocca impiastricciata di Hanae, alle prese con le sue prime pappe in autonomia. Riusciva a centrare la bocca dopo una serie di tentativi; mediamente, mandava il boccone a segno ogni due o tre cucchiaiate. Era passato un mese dalla notte in cui Satoru aveva distrutto il tempio. – Ce la stiamo cavando anche senza di te, mamma – scherzò lui e la bambina rise.
 
- Mam… ma – fece eco la piccola Hanae, quindi posò il cucchiaino e puntò il dito su Satoru. – To… ru – e poi ancora verso una fotografia incorniciata alla parete tra l’ingresso e la cucina. – Pa… pà -.
 
Il secondo traguardo di Ayame era stato quello di tirare fuori dalla valigia la foto di Suguru, all’incirca dieci giorni dopo la sera del bagno. Aveva singhiozzato per un’ora intera, fissandola senza mai distogliere gli occhi da lui, e poi aveva mostrato la fotografia alla piccola Hanae che dalla curiosità si era arrampicata sulle gambe della madre. Era stato Satoru ad appendere la fotografia alla parete in un secondo momento. Rincasando una sera se l’era ritrovata lì, in bella vista, e quella era stata l’ultima volta in cui Ayame l’aveva guardata con le lacrime agli occhi. Quel giorno era stato anche l’ultimo in cui aveva trascorso del tempo con Satoru e per le successive due settimane c’era stato un continuo alternarsi di telefonate e messaggi.
 
- Sei sicuro di farcela? Lo sai quanto può essere sfiancante Hanae alle volte. Senza contare che sei appena tornato da una missione di due settimane, immagino tu voglia riposarti. Avresti potuto lasciare Hanae al nido e venire a trovarci più tardi -.
 
Satoru grugnì debolmente. – Volevo stare con questa peste, sono due settimane che non la vedo -. Gli costava ancora molto essere sincero fino a quel punto e c’era sempre una nota di orgoglio nel tono della sua voce. – E lo stesso vale per te. Quando torni? Voglio vederti -. Lui non poté vederla ma la sentì arrossire. Arrossiva quando le scappava quello strano verso dalla bocca di stupore misto a irritazione, e lui si beò silenziosamente di quel suono.
 
- Fra un paio d’ore dovrei essere a casa -.
 
- Va bene. Ti aspetto – disse, quindi si salutarono e Satoru attaccò il telefono.
 
Hanae finì le ultime cucchiaiate di yogurt e tese le braccia verso Satoru, aprendo e chiudendo le manine per richiedere di essere presa in braccio. Lui le tolse il bavaglino e la issò su dal seggiolone mentre la piccola scalciava dalla contentezza. I loro sguardi si incrociarono.
 
- To… ru – sillabò, poi gli premette piano il dito sulla punta del naso.
 
Satoru abbozzò un tenero sorriso. – Ti sono mancato, vero? -. Lei parve cogliere le sue parole e sorrise di rimando. – Di’ un po’… alla mamma sono mancato? -.
 
- Mam… ma – pronunciò e poi: - Ya… me -.
 
Satoru la mise giù e giocò un po’ con lei. Intuì che presto avrebbe preso a camminare dal modo in cui cercava continuamente di mettersi in piedi. Talvolta si issava tenendosi aggrappata a lui, altre si arrampicava temerariamente sulle prime superfici rialzate che incontrava.
 
Si esercitarono con i primi passi: Satoru era così alto e Hanae così piccola che immaginò gli sarebbe venuto il mal di schiena: tutto sommato, un’ottima scusa per trascorrere la serata a farsi riempire di attenzioni da Ayame.
 
Con lei aveva fatto ben pochi progressi. Alcuni momenti la sentiva lontana, altri aveva l’impressione di averla a un soffio dalle labbra. La presenza di Suguru era ancora tra loro, a tratti quasi limitante come all’inizio, ma ora, anziché chiudersi in sé stessa nei momenti in cui le mancava, si rifugiava in lui: incrociava più spesso il suo sguardo, strisciava accanto a lui quando restava fino a tardi a farle compagnia sul divano, davanti a un buon film, o lo tempestava di messaggi se non era lì con lei. E Satoru si limitava ad accontentare passivamente quelle sue piccole necessità, senza mai imporsi. Era maturato, se non altro per lei e per Hanae. Eppure, proprio adesso che l’avrebbe rivista a distanza di due interminabili settimane, sentiva che non gli sarebbe più bastato restare in disparte ad aspettare ed era stufo di farsi soffiare la donna dal suo migliore amico. Non aveva alcuna intenzione di commettere lo stesso errore del passato.
 
 


Ayame rincasò con un’ora di ritardo e Satoru le andò incontro sulla porta con la piccola Hanae in braccio, sveglia per miracolo. La bambina gettò le braccia al collo di sua madre con degli acuti versetti di gioia e Ayame se la strinse al petto, poi la baciò sulla fronte.
 
Guardò Satoru, i suoi ardenti occhi azzurri, e segretamente, senza la minima esitazione, pensò: “mi sei mancato”. Hanae aveva il suo profumo addosso. Era un bene che le sue braccia fossero occupate a sorreggere la bambina o le avrebbe chiuse di getto attorno al collo di Satoru per poi pentirsene immediatamente.
 
Avvertì il brivido di un bacio nell’attimo in cui i loro occhi si incrociarono e Ayame si sganciò preventivamente da quello sguardo. Passò accanto a Satoru e si diresse nella camera di Hanae per deporre la figlia sul letto; la sua testa ciondolava dal sonno ed era lì lì per addormentarsi. Satoru la seguì e rimase sulla porta mentre Ayame rimboccava le coperte alla figlia. Parlò sottovoce.
 
- Qualcuno qui mi sta evitando – commentò. Il tono non era stato eccessivamente duro ma lasciava intendere una velata pretesa di ricevere spiegazioni.

- Non ti sto evitando – rispose lei con tono difensivo continuando a trafficare con le coperte per guadagnare tempo. Aleggiava ancora quel bacio tra loro. Non aveva alcuna importanza quanto lontano andasse e con quanta forza cercasse di opporsi; stava lì, sospeso nello spazio che li separava, a terrorizzare lei e infondere coraggio a lui.
 
E se non le fosse piaciuto? Se le avesse ricordato del suo amore per Suguru? E se invece le avesse fatto provare il desiderio di volerne ancora facendola sentire in colpa?
 
- Satoru… non possiamo – esordì improvvisamente con un filo di voce. Anche lui aveva percepito il brivido di quel bacio.
 
Satoru la osservò chiudersi nelle spalle e rinunciò. – Va bene – mormorò di rimando.
 
Di questo passo sarebbe sempre stato troppo presto per lei lasciarsi andare. Ayame avrebbe continuato a trovare delle scuse nella fotografia appesa alla parete tra la cucina e l’ingresso, nel viso di Hanae dalla somiglianza disarmante a quello di suo padre, nell’elastico per capelli conservato al polso o nel suo passato turbolento con Satoru. L’animava la convinzione che un giorno, ma chissà quando si domandava Satoru, ogni giustificazione sarebbe scomparsa da sé come una ferita che torna ad essere pelle.
 
- Preferisci che me ne vada? -.
 
- No – Ayame negò energicamente. – Ma vorrei che la smettessi di essere così -.
 
- Così come? -.
 
La ragazza sospirò come a volerlo pregare di passare alla prossima domanda. Si morse l’interno della guancia prima di parlare. – Così… perfetto – ammise; si percepiva la frustrazione vibrare nella frequenza opaca della voce. Le tremava il respiro. – Sei paziente e accondiscendente. Mi aiuti con Hanae, con la spesa e con la casa. Non ti arrabbi mai. Non ti imponi. Ti prendi cura di me. Mi sopporti. Non mi giudichi. Certe volte vorrei che fossi ancora il ragazzo di un tempo: egocentrico, testardo, orgoglioso, capriccioso e bambinone. Almeno così avrei ancora un mucchio di ragioni per avercela con te. Invece sei cambiato e io non lo sopporto -.
 
- Me lo hai chiesto tu, no? In quella lettera – intervenne lui veloce.
 
Ayame lo guardò spaesata e insieme sorpresa. – La mia lettera? -. La sua faccia diceva molto delle aspettative che si era fatta a proposito di quella lettera. Aveva creduto che Mito avesse mancato alla sua promessa o che Kaori si fosse dimenticata di fare quella telefonata, o addirittura che Satoru avesse cambiato numero di cellulare.
 
- Sì, la tua lettera. Potrei recitartela a memoria -.
 
- Be’ – esordì lei un po’ impacciata, arrossendo. – Questo non fa che peggiorare le cose. Perché mai dovresti cambiare solo perché te l’ho chiesto io? – e tornò sulla difensiva.
 
- Perché mi piaci, Ayame -. La voce era la stessa, serafica e piana, ma il contenuto di quella frase ebbe lo stesso effetto di una scatola a sorpresa quando il pupazzo a molla salta fuori all’improvviso. – È lo stesso motivo per cui sono entrato nel negozio di fiori di Kaori, se vuoi saperlo -.
 
Lei scosse ripetutamente la testa in un atteggiamento che sembrava opporsi con tutte le forze alla confessione di Satoru. Non ci credo, si diceva con assoluto rifiuto. Non ci credo. – Ti prego, non aggiungere altro – fece supplichevole, poi sgusciò via e uscì dalla cameretta di Hanae nell’istante in cui Satoru si avvicinò a lei lasciando libera la porta.
 
Lui le andò dietro ma senza fretta. La trovò fuori, seduta sul patio che dava sull’ingresso della villa, a pizzicare debolmente l’elastico al polso. Satoru la raggiunse e si sedette accanto a lei. Gettò la testa all’indietro e guardò verso l’alto, il giorno che sfumava in un limpido blu notte.
 
– Sotto questo cielo mi viene ancora più voglia di baciarti – confessò e gli sfuggì un verso divertito. Quindi, per rompere il silenzio, chiese: - Ti va un po’ di musica? – ma la sua era una domanda retorica. Prese il cellulare dalla tasca e andò a colpo sicuro su una canzone che entrambi conoscevano, perché proprio sullo sfondo di quella canzone, in una notte stellata come quella, era sbocciato il loro amore. Rimasero in silenzio, gomito a gomito, ad ascoltare la canzone del loro primo ballo.



 
Sono tornata! Spero...
Non vi prometto la stessa costanza di prima ma cercherò di non far passare tanto tempo com'è successo per questo capitolo. Sapete, satavo per mollare. Ma penso sia dipeso molto dal fatto che stavo avendo sempre meno tempo (a cui poi si è aggiunta anche meno voglia) di scrivere. 
Questa volta non voglio dilungarmi con le note d'autrice perché non sento di dover dire nulla riguardo al capitolo. Forse che è stato tra i più sofferti perché tornare dopo tanto tempo a scrivere è stata dura. Avevo perso un po' il filo del discorso (e forse si nota pure) e ho cercato di rileggere gli ultimi capitoli per riallacciarmi meglio possibile. 
Comunque, se doveste essere curiosi della canzone del primo ballo di Ayame e Satoru, vi lascio il link. 
Un grazie a chi continua ad interessarsi a questa storia!
Alla prossima ^^

Naoko Gushima (具島直子) - 12月の街 (youtube.com)
 
   
 
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