Cari
lettori, in questo capitolo ci sono delle descrizioni che potrebbero
dare
fastidio ad un pubblico sensibile. Per cortesia, se volete proseguire
nella
lettura, fatelo con coscienza che non è nelle mie intenzioni
turbare nessuno.
Capitolo 27, Fiamme
Un
ragazzino, scolorito, dalle labbra e gli
occhi anneriti è di fianco a me e mi fissa con la testa
lievemente inclinata.
Cerco di mantenermi calma di fronte a lui.
“Finalmente!”
Esordisce Van Meyer, come colto
da nuova speranza.
La testa
del ragazzino scatta nella direzione
di Abel, assumendo una angolazione del tutto innaturale. È
come il rumore del
vento, un bisbiglio che non trova un’origine precisa e si ode
tutto intorno a
noi. Parole che non riesco a comprendere.
“Non
lo è?!” sbraita il pittore diretto al
ragazzo, che giurerei non abbia detto ancora nulla.
Una
figura più alta mi supera da destra. È un
uomo, anche lui è grigio e ha le stesse fattezze del ragazzo
al mio fianco. Si
avvicina al mio viso, come se cercasse di studiarmi. Resto immobile,
facendo
piccoli respiri per mantenere la calma mentre i sussurri si fanno
più numerosi
e si sovrastano l’uno all’altro.
“Se
non è lei, chi è?!” latra Abel agitando
le
braccia.
Lo
Sluagh si allontana dalla mia faccia, pur
sempre senza staccarmi gli occhi spalancati e vitrei di dosso, lucidi
come
onice nero. Un altro è comparso al fianco di Van
Meyer… sono tre, quattro…
oddio, sono tanti.
Mi sono
già trovata in questa situazione.
Posso farcela, basterebbe allargare le braccia e chiudere le porte di
questa
casa per intrappolarlo al suo interno… giusto qualche
giorno, il tempo
necessario a far venire a galla la verità. Potremmo fare
degli appostamenti qui
sotto per impedire che chiunque entri e… cosa stavo
pensando? Dio, me la sto
facendo sotto, i miei nervi si sono incredibilmente logorati negli
ultimi mesi.
C’è
qualcosa di diverso in loro. Non sono
ancora riusciti a riconoscermi ma a turno si avvicinano per osservarmi
e non ho
idea di come uscire da questa situazione. Lukas starà bene?
La
mandibola si stringe al pensiero che anche
lui sia sotto e che gli stiano riservando lo stesso trattamento. Se gli
si
fossero mostrati e avesse reagito? Avrei dovuto sentire dei
rumori… devo
portarlo fuori di qui.
“Scusate
se vi ho interrotti, tolgo il
disturbo.” Pronuncio con parole più frettolose di
quanto volessi.
Cerco di
allontanarmi cautamente, senza
toccare nessuno dei demoni che mi circondano. L’idea che sia
successo qualcosa
a Lukas non mi dà pace. Sapevo che avrei potuto scontrarmi
con loro, ma non
immaginavo che avrei perso di vista Lukas né che fossero
organizzati a questo
livello. Speravo di fare incursione nel formicaio con un lanciafiamme e
invece
sono finita nella tana dei lupi affamati armata di una fionda.
“Zingara,
perché non rispondi?!” urla Van
Meyer, facendomi sobbalzare per la tensione che sto provando.
“Ho
risposto.” Replico mentre striscio i piedi
in direzione della porta da cui continuano ad affiorare gli Sluagh e i
sussurri
nell’aria si fanno sempre più pressanti.
“Non
li senti, donna?! Stanno parlando con
te!” continua il padrone di casa, alterandosi ancora di
più.
Boccheggio
guardandomi intorno in preda al
panico. Stanno cercando di comunicare con me? Perché non
riesco a sentire la
loro voce?
Tutto si
congela. Gli Sluagh si paralizzano e
l’espressione di Van Meyer è l’unica
cosa che muta, quando si trasforma in una
smorfia di odio.
Stanno
per attaccare.
“Luce!”
urlo appena in tempo prima di
avvertire un dolore alla guancia laddove qualcosa si stava per
avventare. Il
lampo di luce che investe la stanza la libera immediatamente dai demoni
al loro
interno, ma non dallo spirito di Van Meyer, che si scaglia contro di me.
Non
resto ad attenderlo, fuggo attraversando
la porta chiusa, scontrandomi con un altro Sluagh appena comparso.
Quest’ultimo
mi afferra con forza per la gola, nel tentativo di impedirmi di urlare.
Istintivamente, una mia mano è corsa a sovrastare le sue,
con l’altra tento
disperatamente di cavargli gli occhi. Qualsiasi cosa gli abbia fatto al
volto,
deve avergli fatto male. Basta un momento di esitazione da parte sua
per
riuscire a liberarmi e a invocare di nuovo la Luce.
Purtroppo
Van Meyer mi è già addosso e cado in
avanti. Non riesco a capire la reale dinamica di questa lotta, il mio
obiettivo
è liberarmi, scalciando e menando le mani quanto
più mi è possibile. In qualche
modo, riesco a rimettermi in piedi e mi precipito sulle scale. Quando
raggiungo
il piano di sotto, ho Van Meyer alle spalle e uno stuolo di demoni di
fronte a
me, che mi separano da Lukas e dal mio corpo.
Mi
fermo, totalmente nel panico.
Gli
occhi di Van Meyer mi inchiodano sul posto
e credo di trovarmi nella stessa posizione di quando mi sono scontrata
con
Camille, ma è una frazione di secondi prima che mi
aggredisca furioso, con le
mani alla mia gola.
Il
dolore è immediato e il respiro mi si
smorza proprio mentre stavo inspirando e non riesco più a
espirare.
Indietreggio e scivoliamo a terra mentre le mie mani tentano di fargli
allentare la presa, graffiandomi il collo da sola. Nella lotta provo a
razionalizzare
e tento di cavare gli occhi anche a lui, ma il suo viso torna sempre
identico a
prima, qualsiasi cosa gli strappi. Non riesco a respirare, altri demoni
stanno
arrivando da tutte le parti ma non intervengono nel nostro scontro,
osservandoci a distanza di qualche metro.
Non
credo di aver mai avuto tanta paura in
tutta la mia vita, i pensieri si accavallano, un senso di disperazione
atroce
nel mio stomaco. Non riesco a vedere il mio compagno oltre tutti quei
demoni e
la vista mi si annebbia mentre l’unica cosa che riesco
tristemente a mettere a
fuoco è solo il viso di questo spirito orribile. Realizzo in
un momento di
forte depersonalizzazione, che adesso sono in grado di vedere il foro
d’uscita
del proiettile sull’apice del suo cranio.
“Erika?!”
riesco a sentire a malapena. È la
voce di Lukas… “Erika!”
Torno al
mio corpo con uno scatto
dolorosissimo, stordita e con una fame di aria mai avvertita prima. Una
fitta
di dolore mi colpisce impietosa quando tossisco.
“Erika!
Respira!” Lukas mi tiene per le
spalle… è uscito dalla protezione di sale e ha
calpestato il cerchio… quando lo
realizzo è troppo tardi. Emette un lamento acuto quando cade
vicino a me,
tenendosi il fianco con una mano, lanciando un fiume di imprecazioni.
“Porte
chiuse…!” riesco ad ansimare.
“Luce!”
Non
riesco a mettere bene a fuoco ciò che
accade intorno a me. Dopo il lampo, solo quello che credo sia Van Meyer
è
ancora in piedi nella stanza. Vedo che si sta avvicinando
pericolosamente
quando avverto che qualcuno mi ha preso per un braccio e mi sta
trascinando
fuori di peso. Quando sono finalmente fuori la mia mente si snebbia
leggermente.
Lukas
tiene ancora il mio avanbraccio stretto
in mano e rantola, al mio fianco. Dentro, a pochi metri di distanza,
dove ci
trovavamo prima, non riesco più a vedere nessuno.
Abel Van
Meyer è confinato. Mi guardo intorno,
in cerca di Sluagh, ma non ne vedo alcuno.
I
bastardi sono scappati…
penso prendendo fiato
toccandomi la gola dolorante. Mi fa male tutto e non so quanto tempo
passiamo
in quelle condizioni prima che Lukas parli.
“Stai
bene?”
“Sì…
sì, tu? Cosa ti hanno fatto?” chiedo
senza voce guardandolo con apprensione. Una fitta di dolore mi
attraversa la
faringe.
Sbuffa
con un lamento aprendo il cappotto che
vedo essere tagliato sul fianco destro. Solleva il maglione,
anch’esso
strappato, mostrando quattro tagli profondi qualche millimetro che
partono dal
costato e raggiungono il fianco, per oltre quindici centimetri di
lunghezza.
“Cristo
Santo…” sibila guardandosi.
“Vuoi
andare all’ospedale?” chiedo
preoccupata.
“Non
lo so… voglio solo andare via di qui.”
Dice rimettendosi a posto il maglione senza toccare le ferite e
sollevandosi.
Mi dà una mano a rialzarmi e barcollo via da quel portico.
Credevo
che una volta uscita da lì avrei avuto
la forza di parlare e raccontargli cosa ho visto, ma è come
se le parole mi si
fossero bloccate in gola, laddove Van Meyer ha stretto per soffocarmi e
quando
Lukas mi chiede cos’è successo, scuoto la testa
senza riuscire a dire nulla.
Al
ritorno, in auto, avevo dei forti giramenti.
Anche Lukas ha avuto qualche problema a guidare e abbiamo sfiorato un
paio di
incidenti. Ci siamo fermati a prendere delle bende, del disinfettante e
degli
antidolorifici in una farmacia e poi siamo tornati in hotel, taciturni.
La
farmacista ci ha guardati attonita per tutto il tempo e solo dopo
abbiamo
realizzato che avevamo ancora la faccia pasticciata e ci siamo ripuliti
con
delle salviette struccanti.
Solo
qualche ora più tardi, in hotel, dopo
aver medicato le ferite di Lukas e il taglio che ho sulla guancia ed
aver
passato del tempo in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto, ho
compreso che
fossimo entrambi sotto shock.
Ho
deciso che sarebbe stato meglio farmi una
doccia per togliermi la sensazione di quelle mani cadaveriche di dosso,
così ho
potuto constatare anche la gravità dei danni che io avevo
subito e che non
avevo voluto pronunciare ad alta voce. I segni delle dita sulla mia
gola sono
ben visibili e arrossati, laddove dovevano esserci le falangi hanno
già assunto
un colorito violaceo.
Mentre
mi sto cambiando, buttando i vestiti
malamente al lato della doccia, sento il rumore di qualcosa che cade
per terra.
Mi volto e vedo sul pavimento bianco del bagno l’accendino
verde che ho usato
per accendere le candele durante il rito poche ore fa.
Lo fisso
per un tempo indefinito.
Prendo
una decisione.
Ho fatto
molta fatica a non addormentarmi dopo
quello che abbiamo vissuto. Lo so, so che non dovrei farlo, ma non
posso
perdonare chi fa del male al mio compagno.
Mi sono
alzata in punta di piedi, al buio. Ho
preso i vestiti che stavano nel bagno, preparati ieri sera. Ho sempre
l’abitudine di preparare la sera prima gli indumenti per il
giorno dopo, quindi
la cosa non ha destato sospetto in Lukas.
Gli ho
promesso la verità, questa volta non
gli ho mentito, ma non gli ho mai fatto giuramento di obbedienza
né posso
accettare davvero che lui si metta a repentaglio per me. La ferita che
gli è
stata inferta ieri pomeriggio è la prova di come lui non
abbia gli strumenti
per potersi difendere da questi spiriti. A malapena ci riesco io, non
intendo
coinvolgerlo né intendo restarci secca a mia volta
perché distratta dalla sua
incolumità. Gli ho lasciato i bracciali protettivi, questo
dovrebbe tenerli
lontani da lui.
Apro il
frigo bar dell’hotel con cautela,
coprendo la luce interna dell’elettrodomestico con la giacca.
Prelevo la
confezione di carta con le tre bottiglie di birra che l’hotel
ci ha fornito
come benvenuto al check in.
Esco
dalla stanza silenziosa come un ladro, in
pigiama, con la borsa, i vestiti, le birre e il telefono in mano.
Provvederò a
darmi una sistemata in auto.
Constato
che sono circa le 2 di notte. Non
credo di metterci più di due ore in totale. Se
sarò fortunata, sarò qui prima
che Lukas si svegli, anche perché ha preso una forte dose di
antidolorifici e
difficilmente riprenderà conoscenza prima di otto ore di
sonno. Il fianco gli
doleva troppo e credo che dovrà recarsi per forza da un
medico per una terapia
antibiotica.
Mi sono
vestita alla bene e meglio sui sedili
posteriori dell’auto a noleggio, tossendo di tanto in tanto
per le contusioni
interne che mi ha causato lo strozzamento, che adesso si sono
manifestano in un
dolore sordo e continuo, poi sono partita diretta alla prima pompa di
benzina
che ho trovato.
Raggiunta
la mia meta, ho frugato nel veicolo
in cerca delle due bottiglie di acqua da due litri che abbiamo comprato
all’aeroporto il giorno del nostro arrivo. Una è
completamente vuota, l’altra
contiene ancora un po’ di acqua. Bevo quel che resta
dell’acqua, sperando mi
dia un po’ di sollievo in gola, invano, poi stappo le
bottiglie di birra dando
un colpetto contro al bordo ad angolo della pompa di benzina e le
svuoto sulla
strada.
Vado
alla colonnina e programmo la pompa per
l’erogazione. Riempio di benzina le due bottiglie di plastica
di benzina e
anche le bottigliette di vetro che contenevano la birra. Faccio non
poca fatica
a non versare fuori dal collo delle bottiglie il carburante,
inevitabilmente ne
cade un bel po’ in giro. Richiudo le bottiglie di plastica
con il tappo, poi
prendo dei fazzoletti dall’auto, asciugo l’esterno
delle bottiglie e le tappo
alla bene e meglio arrotolandoci i fazzoletti nel foro. Le ripongo
nuovamente
nella loro confezione di carta che le tiene dritte e piazzo tutto sul
sedile
del passeggero, bloccandole in modo che non cadano e si rovescino,
altrimenti
non so quanto potrebbe reggere il tappo di emergenza che ho costruito.
“Adesso
a noi, figlio di puttana.” Ringhio
tornando in carreggiata, diretta alla casa infestata, fortemente
infastidita
dall’odore di benzina che sento provenire dalle mie mani.
Lascio
l’auto nei pressi di dove l’abbiamo
parcheggiata durante il giorno e scendo, tirando giù le
bottiglie piene di
benzina e il cellulare con cui faccio luce, assicurandomi che
l’accendino sia ancora
nella tasca dei pantaloni, dove l’ho riposto ieri sera.
Cammino
spedita nonostante il mio cervello
stia registrando dolori sparsi, soprattutto in gola quando respiro
ansimando
l’aria gelata dell’Olanda invernale.
L’ira offusca la sensazione di dolore e
annienta la paura. Mi infonde nuova adrenalina al punto che anche se ho
il
fiatone per la salita che sto percorrendo, la mandibola mi si serra e
stringo
con forza i denti.
Un
rumore di legno spezzato alle mie spalle mi
fa arrestare. Dirigo subito la luce del cellulare da dove ho sentito
provenire
il rumore. Non c’è nulla… con questo
buio non potrei nemmeno dire se ci sono
ombre intorno a me, ma non avverto la sensazione di terrore atavico che
segnala
la presenza di un demone.
“Io
sono Atenoux. Fatti avanti, se hai
coraggio!” strillo fuori di me, senza badare al dolore della
mia voce ferita.
Non si ode niente e mi stupisco della mia reazione. Solitamente sono
molto più
controllata.
Mi volto
e riprendo il mio percorso. Forse era
solo un animale selvatico…
Eccola,
di fronte a me. La casa di quel
maledetto, ancora identica a come era dieci ore fa, sibilante e
scricchiolante
nella sua agonia senza fine. No… non senza fine.
Poggio
per terra tutte le bottiglie e la
confezione delle birre, sentendo subito un forte dolore alla spalla
sinistra,
che ho sottoposto a sforzo per l’ultimo quarto
d’ora senza pensare che è stata
operata cinque mesi fa e che non sto seguendo nemmeno la fisioterapia.
“Ero
venuta qui per cercare di farti andare in
pace e risolvere diplomaticamente. Una parte di me ci ha provato
davvero.” Dico
ad alta voce, ignorando lo stridio che sento provenire dalle corde
vocali. Mi
chino per stappare le bottiglie di plastica da due litri piene di
carburante.
“All’inizio ci ho creduto, sai? Che fossi un
vecchio impazzito, che non sapeva
ancora che la guerra fosse finita e che era stato raggirato dai fetenti
di
turno. Ma non tu, no… tu hai le idee fin troppo chiare,
Signor Van Meyer. Per
tua sfortuna, le ho anche io.”
Comincio
a versare la benzina sulle superfici
del portico in legno, schizzando le pareti che riesco a raggiungere. I
muri
della casa fremono, come se il legno si stesse comprimendo sotto al
liquido che
gli butto contro.
“Credo
di aver imparato a capire gli odori di
ogni sentimento che provate. Ormai non siete più un grande
mistero, voi spiriti
dannati. L’egoismo puzza di pollo marcio.” Continuo
a parlare da sola, ma sono
certa che lui mi stia ascoltando. “La cupidigia e
l’avarizia sembrano frutta
andata a male. Ma tu… tu avevi un nauseante odore di muffa
stantia, diverso da
chiunque altro prima di te. L’invidia… decisamente
il peccato più infimo di
tutti.”
Lancio
le bottiglie di plastica vuote
all’interno della casa, sentendo come rimbalzano per terra
rotolando via.
“Invidia
perché sei consapevole. Tu sai che
avresti potuto studiare ed esercitarti per tutta la tua misera
esistenza, ma
non avresti mai e poi mai acquisito il talento di tua sorella. Una
donna. Più
giovane di te, indifesa, malata, sola, muta… era comunque
meglio di te!” rido
senza gioia, infastidita dal colpo di tosse che mi prende poco dopo.
“Mi spiace
solo non aver potuto vedere qualche replica del tuo passato, giusto per
godere
davanti a quanto ti rodesse il culo, ogni volta che finiva un dipinto
cento volte
meglio di come tu avresti mai potuto fare.”
Illumino
le bottiglie di vetro con la torcia
del telefono e, aiutandomi con un legnetto trovato lì
vicino, cerco di tirare
fuori un pezzetto di fazzoletto inumidito, che lascio penzolare di
fianco al
collo di ognuna.
“Ormai
è tardi, Signor Van Meyer. Riesci a
sentire questo odore frizzante nell’aria? Non parlo di quello
della benzina, mi
riferisco a quello della verità. È fatta. Le
opere di Gesabette saranno
analizzate, troveranno le sue parole scritte sul retro. Ah
già, forse non lo
sapevi, altrimenti avresti di certo provveduto a cancellarle. Credo che
si
chiami… inchiostro simpatico.
Invisibile all’occhio umano e, a quanto pare, anche ad occhio
di spirito. Sei
rovinato, vecchio bastardo. Sarai calunniato, disprezzato e diffamato.
Andranno
a spulciare ogni tuo singolo passo falso, solo per il gusto di vedere
quanto
marcio ci fosse in te: è qualcosa che di questi tempi va di
moda. E adesso i
tuoi amichetti se la sono squagliata. Sai, non brillano di coraggio,
proprio come
te.”
Prendo
in mano una delle bottiglie di vetro,
mentre con l’altra illumino con la torcia del telefono la
casa di fronte a me.
Non si riesce a vedere nemmeno con la Vista, ma non mi serve guardare
con gli
occhi, lo sento, che si sta contorcendo come una biscia ferita.
“Ci
ho messo parecchio. Diversi giorni, per
cercare di capire cosa intendesse dire Estela quando ha detto che avrei
dovuto
farti perdere. Tu, in fondo, non te ne sei mai andato da qui. Anche
quando ti
concedevi qualche scampagnata per oltraggiare le opere di tua sorella o
costosi
obbiettivi fotografici, poi tornavi sempre qui. La tua casa
è perfetta, hai detto… perfetta…
la vedi perfetta? Ci ho riflettuto solo qualche ora fa, ma in fondo
avrebbe
dovuto essermi chiaro fin dal principio. Gli spiriti hanno una vista
alterata,
vedono solo ciò che vogliono vedere. Nelle altre dimensioni,
questo non
rappresenta un problema, qui però siamo sul piano
terreno…”
Cerco di
ingegnarmi per reggere il cellulare e
la bottiglia nella stessa mano, mentre con la destra frugo nella tasca
della
giacca, in cerca dell’accendino.
“Sarà
dura guardare il mondo da una finestra
che non esiste più, Signor Van Meyer. Non troverai mai
più la via del ritorno.
Goditi il tuo personale inferno. Questo, te lo manda
Gesabette.”
Faccio
scattare l’accendino e il fazzoletto si
incendia istantaneamente. Senza esitare, afferro la bottiglia con la
mano
destra e la scaglio con violenza attraverso l’ingresso
divelto. Il vetro va in
frantumi contro il pavimento e le fiamme divampano tutto intorno,
emettendo una
forte luce arancione che illumina l’atrio e quello che
riconosco essere il
borsone che avevamo portato io e Lukas nel pomeriggio e che nella fuga
abbiamo
lasciato là.
Riesco a
sentire le urla stridenti che si
alzano dalle mura: finalmente qualcosa di divertente.
Do fuoco
alla seconda bottiglia. “Questo è
perché sei uno stronzo!”
La
bottiglia entra dalla finestra senza vetri
da cui pendeva quell’orrido lembo di tessuto che un secolo fa
doveva essere una
tenda, appiccando il fuoco anche a quella che era la sala da pranzo.
“E
questo… questo è per Lukas.” Ringhio
accendendo il fazzoletto della terza bottiglia, scagliandola contro al
porticato, dove avevo già versato la benzina contenuta nelle
bottiglie di
plastica. Le fiamme che si alzano contro le pareti e raggiungono
velocemente il
piano superiore. Comincio ad avvertirne il calore da dieci metri di
distanza,
quindi faccio qualche passo indietro, guardando estasiata le fiamme che
divorano le rovine che furono la prima prigione della mia amica.
Lancio
un latrato di vittoria, ignorando le
fitte alla gola, ammirando per minuti che mi paiono brevissimi secondi
come le
travi di legno consumato cominciano a scricchiolare e cedere e il fuoco
divora
la carcassa, scaturendo dal foro sul tetto dell’edificio
giusto qualche secondo
prima che una parte di esso crolli. La luce del falò
è molto forte e non fa
nemmeno tanto fumo, dato che il legno è estremamente secco.
“My
Gosh… you’re really… so fucking insane.”
Mi si
gela il sangue sentendo quelle parole a
cui stento a dare immediatamente un senso. L’euforia passa
istantaneamente e mi
volto di scatto per vedere chi ha parlato.
Un uomo,
con una giacca pesante e un berretto
di lana calcato sulla testa sta osservando la casa in fiamme dietro di
me. La
sua faccia è leggermente coperta da una sciarpa e la luce
dell’incendio gli
illumina parzialmente il volto, da cui riesco a intravedere della barba
scura.
“Chi
sei?!” gli urlo in inglese.
“Seriamente?
Non sai chi sono?” chiede nello
stesso idioma, tirando fuori dalla tasca del giaccone un pacchetto di
sigarette
per accendersene una.
Impiego
qualche secondo a realizzare che lo
conosco veramente. È lo stesso uomo che stava appostato
sotto casa mia… è lo
stesso uomo che…
“Ryan?”
esalo sconvolta, fissando l’investigatore
che ho assunto per scovare la figlia di Frank, il medesimo uomo che ho
salvato
dagli Sluagh a Kansas City e che nell’ultimo mese mi ha
pedinato per mezza
Europa.
“Come
immaginavo.” Accenna facendo un tiro di
sigarette. “Adesso dimmi cosa
sei tu.
In fretta, non ho più tempo da perdere, il mio viaggio
è quasi finito.”
“Cosa?”
chiedo barcollando. “Eri tu che mi
seguivi? Perché?”
“Riproviamo.”
Regge la sigaretta con la mano
destra e con la sinistra estrae qualcosa della grandezza di uno
smartphone
dalla tasca del giaccone, con la punta rotonda e cilindrica. Con la
sola luce
emessa dal falò faccio fatica a vedere nitidamente cosa
è. “Per chi lavori?”
“Che?
Io…”
“Rispondi!”
urla senza preavviso e faccio un
passo indietro, allarmata.
“Io
non lavoro per nessuno… sono disoccupata.”
Cerco di articolare una frase nonostante nel mio cervello si stiano
ammassando
un sacco di interrogativi.
“Hai
un po’ troppi soldi, per essere una
casalinga. Non mi interessa se lavori per i russi, per i cinesi, la
mafia o
qualsiasi altra cosa tu faccia, purché ti tenga lontana da
me e dalla mia
famiglia.” Continua aspirando il fumo dalla sigaretta, con un
fare un po’
troppo scenico per i miei gusti.
Americani…
mi ritrovo a pensare mentre il mio cervello è diviso tra
ciò che sta
succedendo all’edificio alle mie spalle, che tra poco
crollerà definitivamente
e sarebbe meglio levarsi di torno, la fuga dallo stalker che altro non
era che
l’investigatore che io stessa ho assunto e un sacco di
battute sarcastiche che
mi stanno affollando la mente.
Sto
impazzendo, è assodato, perché anche se
razionalmente sento che dovrei avere paura, non ne ho veramente. Dentro
di me è
come se sentissi una corda tesa, sfilacciata e consunta, che regge la
mia
sanità mentale solo per un filo sottilissimo che
è prossimo a spezzarsi.
“Io…
sono una giornalista.” Provo ad
inventarmi su due piedi. “Sto cercando di trovare la
verità dietro ad alcuni
casi freddi. Quello a cui sto lavorando attualmente riguarda un caso di
opere
d’arte che un autore aveva rubato ad un altro…
potrai leggere la cronaca sui
giornali lunedì prossimo.”
“Una
giornalista fin troppo coinvolta… Cosa
c’entra la mia famiglia con tutto questo?” domanda
aggressivo.
“Non
so di cosa tu stia parlando…” rispondo
ancora più confusa.
“Da
quando ho accettato il tuo caso, la mia
famiglia è stata messa a repentaglio innumerevoli
volte.” Prende l’ultimo tiro
dalla sigaretta, poi dà un colpo secco con le dita al
mozzicone e la parte in
combustione cade a terra. La cicca spenta viene riposta nella tasca
della
giacca. “Tutti incidenti casuali, molti dei quali assurdi e
potenzialmente
letali, sempre quando ero nei paraggi. L’unica cosa che ho
potuto fare per
tenerli al sicuro è stato allontanarmi da loro. Non
immaginavo chi potesse
esserci dietro a questi attentati, poi mia moglie ha ricevuto la tua
chiamata…
numero privato? Con chi pensavi di avere a che fare?”
Chiudo
gli occhi, sospirando sconfitta. “Ho
dei nemici.” Tento di spiegargli. “Anche adesso
sono qui per ostacolarli… non
mi aspetto che tu mi capisca, anche perché non mi crederesti
se te lo
raccontassi. A quanto pare ti ho affidato un compito che non ti avrebbe
dovuto
competere. Hanno pensato che fossimo complici e hanno provato a farti
fuori.
Quando ho saputo che erano sulle tue tracce, ho cercato di avvisare tua
moglie
e poi ho fermato le indagini… credevo che saresti stato al
sicuro.”
“Prima
parlavi ad alta voce. Ci stanno
ascoltando in questo momento?” chiede incolore.
Mi
guardo intorno senza aspettarmi di vedere
davvero qualcosa. “È probabile che siano in
ascolto, sì… preferirei parlarne da
un’altra parte. Possiamo andare via?”
Annuisce
guardingo, improvvisamente taciturno.
“Bene…”
sposto il peso da un piede all’altro,
a disagio. “Puoi abbassare quella cosa?” accenno
all’oggetto che regge in mano.
In tutta
risposta, lui preme l’oggetto. Al
click, ammetto di aver sentito un brivido freddo dal basso della
schiena… che
subito si è dissolto in un moto di sollievo quando la pila
che stringe in mano
è stata accesa.
Mi
avvicino a lui scuotendo la testa e
guardandolo con frustrazione. Dannati
americani…
“Cammina
davanti a me. Ne avrei presa una
vera, ma ti sposti così in fretta che è
impossibile stare al passo con il
crimine organizzato.” Borbotta illuminando la strada di
fronte a noi.
Uno
scroscio di legna spezzata mi fa voltare
un’ultima volta verso quello che è rimasto della
vecchia casa di campagna dei
Van Meyer, ormai poco più che un cumulo di macerie e braci
ardenti.
Addio,
Abel.
Quando
siamo tornati sulla carreggiata, ho
visto come Ryan avesse parcheggiato poco lontano da me.
Chissà da quanto mi
stava seguendo e non me ne sono mai accorta… alla faccia del
sesto senso. Bah…
Abbiamo
ripreso le auto, dopo che l’ho
convinto che mi sarei fatta seguire fino al mio hotel e sulla via del
ritorno
abbiamo visto i pompieri sfrecciare dal luogo dell’incendio
con le sirene
spiegate. Qualcuno deve aver notato le fiamme sulla collina, anche se
quando
siamo andati via si stavano quasi esaurendo e non avevano aggredito gli
alberi
circostanti. Probabilmente è una misura precauzionale. Non
impiegheranno molto
a capire che si è trattato di un incendio doloso, ma la
storia finirà qui,
scambiata forse con un caso di catapecchia andata a fuoco per colpa dei
tossici
che non sanno cucinare l’eroina in sicurezza.
Parcheggiamo
all’esterno dell’albergo e gli
faccio cenno di seguirmi. Sono appena le quattro e mezza, ci ho messo
davvero
due ore. Per una volta ce l’ho fatta! Sono riuscita a non far
preoccupare Lukas
e a sconfiggere il cattivo! Peccato che abbia dato il meglio di me
durante un
delirio da stress post traumatico mentre davo fuoco ad una casa con uno
statunitense che mi puntava una finta pistola alla schiena.
Storco
il naso sentendo la puzza di fumo che
emana Ryan. “Puoi buttare quel mozzicone, per cortesia? Puzzi
come un
posacenere.”
“No,
non lascio mai il mio DNA in giro.”
Borbotta cupo.
Viva la
paranoia…
“E allora lascia la giacca in auto o attendi
qui fuori, perché in camera non ci entri
così.”
“Non
sarei entrato comunque. Voglio vedervi in
un luogo pubblico.” Dice fermandosi fuori dalle porte
dell’hotel.
“In
un luogo pubblico a quest’ora?” faccio una
smorfia di derisione. “Non so che ore siano in Kansas, ma qui
la gente a
quest’ora dorme e il ristorante dell’albergo prima
delle 7 non apre. Se vuoi
parlare con me, lo faremo dove nessuno potrà
disturbarci.”
“Due
contro uno? Ti aspetterò fuori.” Mi sfida
incrociando le braccia sul petto.
“Lukas
non ti farebbe nulla…” inconsciamente
abbasso lo sguardo verso il basso, sintomo di menzogna che tento di
correggere
in extremis. “Basta che prima mi lasci dieci minuti per
spiegargli la
situazione.”
“Lo
stesso Lukas Keller arrestato a sedici
anni per furto di veicolo e a diciassette per aggressione?”
mi sbeffeggia
piantandosi bene davanti a me a braccia conserte.
Stringo
lo sguardo, punta sul vivo. “Non è più
un ragazzino, saranno passati quindici anni dall’ultima volta
che ha commesso
un errore del genere, adesso è cresciuto.”
“Avranno
torto le mie fonti, sul tuo collega
pestato nel sotterraneo del tuo posto di lavoro appena due anni
fa…”
Taccio
qualche secondo fissandolo in cagnesco.
“Se fossi stato presente glielo avresti tenuto fermo,
credimi. Resta pure qui,
al freddo. Ci si vede tra qualche ora.”
Nonostante
ciò, restiamo ancora fermi per un
minuto davanti all’ingresso prima che Ryan borbotti qualcosa,
togliendosi la
giacca e buttandola malamente dentro al proprio veicolo. Nessuno dei
due aveva
davvero intenzione di separarsi senza essersi chiariti, ma ho capito
che è una
di quelle persone a cui non puoi dare troppa corda, a meno che non vuoi
che ti
ci incapretti.
Gli
tengo la porta aperta mentre entriamo e
saliamo le scale interne dell’hotel diretti alla mia stanza.
Gli
faccio cenno di attendere fuori in
corridoio, intanto entro nella camera buia e mi chiudo la porta alle
spalle.
Appoggio la nuca allo stipite, facendo un sospiro profondo.
“Erika?”
sento il biascichio di Lukas.
“Sono
io, amore.” Rispondo accendendo la luce
e causandogli un lamento per essere rimasto accecato. Mi tolgo la
giacca,
sciarpa e scarpe e poi mi siedo sul letto dove vedo sta cercando di
mettersi
seduto senza piegare bruscamente il busto.
Mi
guarda confuso. “Perché sei vestita?”
annusa l’aria, cercando di tornare lucido.
“C’è odore di benzina.”
“Già…”
sospiro, dolorante. “Sono io.”
Mi
fulmina stringendo le labbra.
“Non
pensare male, dovevo risolvere la
questione una volta per tutte. Adesso possiamo pure tornare a casa,
prima
però…”
“Sei
andata lì da sola?!” sbraita,
incredibilmente sveglio.
Faccio
qualche gesto per calmarlo intimandogli
di fare silenzio. “È ancora notte… non
ho fatto niente di pericoloso, non sono
entrata. Ho dato fuoco a quella casa.”
“Che
cazzo hai fatto?!” spalanca gli occhi e
la bocca sconvolto. “Ma ti rendi conto che potevi prendere
fuoco anche tu? Ti
ha dato di volta il cervello? Cristo… ti si deve legare per
essere certi che tu
stia buona!”
“Non
sei il mio carceriere, Lukas. Non puoi
dirmi cosa posso o non posso fare.” Mi difendo con durezza.
“Altrimenti non
saresti diverso da Van Meyer.”
Il suo
sguardo accusatorio mi fa tentennare
dentro, ma la mia espressione rimane ferma ed è lui che alla
fine abbassa gli
occhi lucidi per i farmaci e il sonno, oltraggiato.
“Discutere con te non porta
a niente. Sei sicura di non esserti fatta niente?”
“Sì,
ho risolto. Però è sorto un intoppo.”
Alza lo
sguardo al cielo, buttandosi
all’indietro temporaneamente dimentico della ferita sul
fianco, che si fa
sentire immediatamente, causandogli un singulto di dolore che tenta di
sedare
massaggiandosi il fianco sopra alla maglietta.
“Ho
scoperto chi era l’uomo che ci pedinava.”
Mi
guarda attento, tentando di tornare alla
posizione precedente. “Te l’hanno detto le tue
amiche morte?”
Quanto
tatto…
chiudo gli occhi e prendo fiato mentre cerco di
non dare a vedere quanto mi abbia urtato il modo in cui ha chiamato
Clara ed
Estela. “No, l’ho beccato per strada. Mi ha seguito
quando sono uscita per
sistemare Van Meyer. È qui fuori, deve parlarci.”
Resta un
secondo immobile per metabolizzare
ciò che gli sto dicendo poco prima di alzarsi come una furia
e cercare di
infilarsi i pantaloni.
“No,
no, ora ti calmi.” Mi paro di fronte a
lui a mani aperte. “Gli ho detto che può parlarci
liberamente e che non gli
farai nulla.”
“Sì,
il cazzo non gli farò nulla.” Ringhia
allacciandosi i pantaloni.
“Lukas,
è Ryan!” cerco di fermargli le mani
mentre sta per prendere la cintura, senza la reale intenzione di
indossarla,
temo.
“L’investigatore?”
chiede rallentando i
movimenti, come se stesse facendo uno sforzo mentale assurdo.
“Sì…
ma non ci seguiva per farci del male. Da
quando ha cominciato ad investigare su Frank, i demoni hanno
perseguitato lui e
la sua famiglia.” Dico velocemente e sembra calmarsi un
po’. “È riuscito a
rintracciare la telefonata che feci a sua moglie quella notte e ha
creduto che
fossimo noi, a volergli fare del male.”
Lukas
barcolla un secondo e mi accorgo che è
molto meno performante di quanto volesse dare a vedere.
“Quindi era per questo
che aveva smesso di rispondere.”
“Sì.”
Gli confermo provando a farlo sedere sul
letto. Per fortuna mi asseconda tenendo lo sguardo basso. “I
nostri spostamenti
in giro per l’Europa lo hanno insospettito e ha indagato su
di noi… senza
capire che cosa stessimo facendo per davvero. Stasera mi si
è avvicinato di sua
spontanea volontà, per chiedermi chi fossi.”
“Ha
aspettato che restassi sola, non capisci?
Nessun uomo con buone intenzioni cercherebbe di avvicinare una donna
quando è
indifesa.” Borbotta stizzito.
“Io
sarei indifesa? Avevo appena dato fuoco a
una casa con delle molotov. Ma poi, non sei tu quello che fino a un
minuto fa
voleva prenderlo a cinghiate?” replico tra l’offeso
e il risentito.
“Con
cosa hai fatto delle molotov…?” si guarda
intorno stupito prima di tornare sul pezzo. “Non ha
importanza. Allora perché
non gli regaliamo un mazzo di fiori? È
stato bellissimo farci stalkerare da lei, signor investigatore, ci
può fare un
autografo?!” dice con una smorfia di derisione.
Lo
osservo per qualche secondo con espressione
corrucciata prima di premergli un dito sul fianco, senza forza in
realtà, ma
reagisce come se lo avessi accoltellato. “Ah! Che
stronza!” sibila tenendosi la
ferita.
“Così
impari. Allora, posso farlo entrare
senza che tu ti metta a fare come Laika?”
“Non
ti prometto nulla, ti lascio sulle spine,
come piace fare a te.” Risponde offeso rialzandosi per
infilarsi il maglione e
le scarpe.
Tanto mi
basta, quindi mi sollevo dal letto
anche io, do una sistemata alla camera e mi lavo le mani. Poi chiamo
Ryan, che
ha atteso in fondo al corridoio, ad una decina di metri di distanza
dalla porta
della nostra camera.
Quando
entra, mi ricorda uno di quegli attori
che impugna il mitra sotto al braccio mentre sfora di soppiatto in una
trincea
nemica. Lukas lo accoglie in piedi, poggiato con la schiena contro alla
parete
opposta alla porta, in fondo alla stanza, guardandolo con
un’aria che definire
aggressiva sarebbe un eufemismo.
Si
guardano con ferocia per qualche secondo.
Ryan è qualche centimetro più basso di Lukas, ma
sembra più piazzato. Devo
cercare di calmare subito le acque.
“Ryan,
lui è Lukas, il mio fidanzato. Negli
ultimi quattro mesi, io e Lukas abbiamo svolto delle indagini molto
sensibili
per… per conto di qualcuno che non possiamo rivelarti. Siamo
dispiaciuti che la
tua famiglia sia rimasta coinvolta, non era nostra
intenzione.” Comincio
dolcemente in inglese, cercando lo sguardo dell’interlocutore
a meno di un
metro da me.
La gara
di occhiatacce viene interrotta quando
Ryan dirige gli occhi su di me e vedo che si sofferma un po’
più in basso del
mio viso. Corrugo la fronte, chiedendomi confusa se mi stia guardando
il seno,
quando ricordo che ho tolto la sciarpa e adesso sarà
possibile vedere i lividi
che ho sul collo. Torna a fissare Lukas, stavolta con
un’espressione più
disgustata.
Questo
non avrebbe dovuto farlo. Con un colpo
di spalle il mio compagno si stacca dal muro. “Per chi mi hai
preso? Pensi che
sia stato io?!”
“Non
è stato lui!” mi metto di fronte a Ryan,
cercando di attirare di nuovo la sua attenzione.
“Oggi… ieri pomeriggio abbiamo
avuto una colluttazione con uno dei nemici di cui ti ho parlato prima.
Siamo
entrambi feriti.”
“Sta
zitta, Erika.” Ringhia Lukas in tedesco,
facendosi più vicino.
Basta,
questi due mi hanno rotto le palle. “Ma
che cazzo! Siete uomini o ragazzini?! Siete capaci di comportarvi da
adulti e
comunicare a parole?! E tu allontanati, non mi fare girare i
coglioni.” Lukas
non indietreggia ma lo conosco abbastanza da poter dire che
è meno aggressivo
rispetto a prima. “Per favore. Ora io te andiamo a sederci e
sentiamo cosa ha
da dirci quest’uomo.”
Cerco di
spingere via con fatica Lukas,
tentando di non toccargli il fianco che sta fingendo non gli dia alcun
fastidio. Ryan resta teso ancora per qualche secondo attendendo che ci
sediamo
sul letto per primi, poi si rassegna e si poggia cauto sulla panca
all’ingresso.
Passa
qualche minuto prima che Ryan cominci a
parlare. “Ho dovuto prendere le distanze dalla mia famiglia
quando cose strane
hanno cominciato a capitare intorno a me. Sono stato sospeso da lavoro
per un
mese, dato che certe… circostanze hanno rischiato di
rovinare anche la mia
reputazione professionale.”
Attendiamo
in silenzio il seguito del
discorso, mentre Ryan mette l’unghia del pollice in bocca,
sugli incisivi, in
un gesto di nervosismo che dimostra quanto sia dipendente dalla
nicotina e
abbia una fissazione orale, direbbe Freud. “In
casa… la situazione era
invivibile. Ho capito che era qualcosa che riguardava la ricerca che mi
avevi
commissionato. Parte dei documenti presero fuoco spontaneamente, un
pezzo interno del circuito di
alimentazione
dell’auto che guidavo era completamente sparito nel nulla,
rischiando di farmi
saltare per aria con tutta una pompa di benzina… correnti
fredde, impianti
elettrici fulminati, un consumo energetico ingiustificato, chiamate da
numeri
inesistenti senza che nessuno parlasse dall’altro lato e la
notte…” si strofina
la bocca, con lo sguardo che trasmette una forte ansia. “Di
notte succedevano
le cose peggiori. Probabilmente qualcuno ha provato ad avvelenarci,
anche se
dalle analisi all’impianto idrico e dai tossicologici che
abbiamo fatto, non è
risultato nulla.”
Sento
Lukas che espira profondamente di fianco
a me, con lo sguardo basso ma ancora torvo. Credo di aver capito cosa
sia
successo a casa Williams. Gli Sluagh erano riusciti ad entrare in
qualche modo
e da allora li perseguitavano in ogni momento propizio, per farlo
desistere
dalla sua ricerca su Frank. La situazione era molto più
grave di quanto
immaginassi, ma nessuno ha ritenuto opportuno avvisarmi…
“Perché
dici di essere stato avvelenato?”
chiede il mio compagno.
Ryan
stringe le labbra, come se non volesse
parlare dell’argomento. “Siamo stati vittime di
stati allucinatori potenti. Mia
moglie, ma anche i bambini. Perfino io, abbiamo visto delle cose che
nessuno
dovrebbe vedere.”
“Cose
di che tipo?” domanda ancora Lukas,
questa volta con lo sguardo attento.
“Mia
moglie di notte udiva sempre un bambino
piangere, solo se io ero in casa.” Risponde
l’investigatore, incrociando le
braccia sul petto, senza ricambiare i nostri sguardi. “Non
capiva da dove
provenissero i lamenti… si alzava dal letto e il rumore
svaniva. Tornava a
letto e ricominciava. Finché non decise di guardarci sotto
e… io non vidi
nulla, lei invece urlava che sotto al letto c’era un neonato
fatto a pezzi… ma
la testa ancora si muoveva e piangeva senza sosta.”
“Sì…
sono stati loro.” Dico a voce bassa,
sentendo un brivido al suo racconto.
Lukas
sembra voler chiedere altro, ma lo
guardo perentoria facendogli intendere che basta così.
“Quindi hai interrotto
le tue ricerche e hanno smesso?” chiedo stringendomi nel mio
cardigan.
“No,
signora. Se qualcuno vuole ostacolare la
verità, è perché essa è
incredibilmente importante ed è una ragione in
più per
portare a termine il lavoro.” Afferma autoritario,
sciogliendo le braccia.
“Solo non comprendo come sia possibile che qualcuno voglia
ostacolare la
diffusione di informazioni che sono già state rese
pubbliche.”
Aspetta, cosa?
Buongiorno
ragazzi!
Ormai siamo quasi alla
fine, lo so, è stata una storia molto lunga.
La parte iniziale di questo capitolo è
abbastanza pesantuccia e dato che
io non sono affatto in grado di descrivere le scene di azione, ammetto
di
averci messo molto più del dovuto per renderla passabile (e
non sono certa di
esserci riuscita).
Alcune scene sono
state un po’ macabre, ma per i miei standard siamo ancora
lontani dall’horror.
Per quanto riguarda le
molotov… ci sono due o tre imprecisioni. La carta intorno
alla bottiglia va
grattata via, ad esempio, così come anche l’uso di
un fazzoletto, sarebbe
meglio il cotone perché dura di più, la fiamma di
un fazzoletto di carta
incendia con molta più velocità e rende difficile
essere precisi senza i guanti
ignifughi. Comunque non volevo rendere il capitolo una guida per armi
d’assalto
casalinghe. Viceversa, se vi serve qualche consiglio per fare una bomba
al
cloro in casa, possiamo sentirci in privato… ahaha scherzo!
(come no…)
Mancano 3 capitoli, ci vediamo a Santo Stefano :)
A prestoooo
Fiore di Pesco