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Autore: fiore di pesco    23/12/2023    3 recensioni
Erika è una donna di trent'anni che nella sua vita ha messo la carriera davanti a qualsiasi altra cosa.
Resta coinvolta in un incidente d'auto e si risveglia su un treno dall'aspetto insolito: è composto da un unico vagone che non ha né un inizio né una fine, ogni cabina ha un aspetto diverso dalle altre, alcune sono illuminate, altre sono spente e dai finestrini non si scorge il paesaggio esterno, bensì un cielo stellato.
I passeggeri le riveleranno chi sono e il triste motivo per il quale si trovano lì... la priorità è fuggire e trarre in salvo i suoi amici, ma come?
Una storia che unisce scenari reali a soprannaturali, onirici, viaggi e fatti storici. Adatto a chi apprezza la lore pagana, il mistero e l'investigazione.
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cari lettori, in questo capitolo ci sono delle descrizioni che potrebbero dare fastidio ad un pubblico sensibile. Per cortesia, se volete proseguire nella lettura, fatelo con coscienza che non è nelle mie intenzioni turbare nessuno.

Capitolo 27, Fiamme

Un ragazzino, scolorito, dalle labbra e gli occhi anneriti è di fianco a me e mi fissa con la testa lievemente inclinata. Cerco di mantenermi calma di fronte a lui.

“Finalmente!” Esordisce Van Meyer, come colto da nuova speranza.

La testa del ragazzino scatta nella direzione di Abel, assumendo una angolazione del tutto innaturale. È come il rumore del vento, un bisbiglio che non trova un’origine precisa e si ode tutto intorno a noi. Parole che non riesco a comprendere.

“Non lo è?!” sbraita il pittore diretto al ragazzo, che giurerei non abbia detto ancora nulla.

Una figura più alta mi supera da destra. È un uomo, anche lui è grigio e ha le stesse fattezze del ragazzo al mio fianco. Si avvicina al mio viso, come se cercasse di studiarmi. Resto immobile, facendo piccoli respiri per mantenere la calma mentre i sussurri si fanno più numerosi e si sovrastano l’uno all’altro.

“Se non è lei, chi è?!” latra Abel agitando le braccia.

Lo Sluagh si allontana dalla mia faccia, pur sempre senza staccarmi gli occhi spalancati e vitrei di dosso, lucidi come onice nero. Un altro è comparso al fianco di Van Meyer… sono tre, quattro… oddio, sono tanti.

Mi sono già trovata in questa situazione. Posso farcela, basterebbe allargare le braccia e chiudere le porte di questa casa per intrappolarlo al suo interno… giusto qualche giorno, il tempo necessario a far venire a galla la verità. Potremmo fare degli appostamenti qui sotto per impedire che chiunque entri e… cosa stavo pensando? Dio, me la sto facendo sotto, i miei nervi si sono incredibilmente logorati negli ultimi mesi.

C’è qualcosa di diverso in loro. Non sono ancora riusciti a riconoscermi ma a turno si avvicinano per osservarmi e non ho idea di come uscire da questa situazione. Lukas starà bene?

La mandibola si stringe al pensiero che anche lui sia sotto e che gli stiano riservando lo stesso trattamento. Se gli si fossero mostrati e avesse reagito? Avrei dovuto sentire dei rumori… devo portarlo fuori di qui.

“Scusate se vi ho interrotti, tolgo il disturbo.” Pronuncio con parole più frettolose di quanto volessi.

Cerco di allontanarmi cautamente, senza toccare nessuno dei demoni che mi circondano. L’idea che sia successo qualcosa a Lukas non mi dà pace. Sapevo che avrei potuto scontrarmi con loro, ma non immaginavo che avrei perso di vista Lukas né che fossero organizzati a questo livello. Speravo di fare incursione nel formicaio con un lanciafiamme e invece sono finita nella tana dei lupi affamati armata di una fionda.

“Zingara, perché non rispondi?!” urla Van Meyer, facendomi sobbalzare per la tensione che sto provando.

“Ho risposto.” Replico mentre striscio i piedi in direzione della porta da cui continuano ad affiorare gli Sluagh e i sussurri nell’aria si fanno sempre più pressanti.

“Non li senti, donna?! Stanno parlando con te!” continua il padrone di casa, alterandosi ancora di più.

Boccheggio guardandomi intorno in preda al panico. Stanno cercando di comunicare con me? Perché non riesco a sentire la loro voce?

Tutto si congela. Gli Sluagh si paralizzano e l’espressione di Van Meyer è l’unica cosa che muta, quando si trasforma in una smorfia di odio.

Stanno per attaccare.

“Luce!” urlo appena in tempo prima di avvertire un dolore alla guancia laddove qualcosa si stava per avventare. Il lampo di luce che investe la stanza la libera immediatamente dai demoni al loro interno, ma non dallo spirito di Van Meyer, che si scaglia contro di me.

Non resto ad attenderlo, fuggo attraversando la porta chiusa, scontrandomi con un altro Sluagh appena comparso. Quest’ultimo mi afferra con forza per la gola, nel tentativo di impedirmi di urlare. Istintivamente, una mia mano è corsa a sovrastare le sue, con l’altra tento disperatamente di cavargli gli occhi. Qualsiasi cosa gli abbia fatto al volto, deve avergli fatto male. Basta un momento di esitazione da parte sua per riuscire a liberarmi e a invocare di nuovo la Luce.

Purtroppo Van Meyer mi è già addosso e cado in avanti. Non riesco a capire la reale dinamica di questa lotta, il mio obiettivo è liberarmi, scalciando e menando le mani quanto più mi è possibile. In qualche modo, riesco a rimettermi in piedi e mi precipito sulle scale. Quando raggiungo il piano di sotto, ho Van Meyer alle spalle e uno stuolo di demoni di fronte a me, che mi separano da Lukas e dal mio corpo.

Mi fermo, totalmente nel panico.

Gli occhi di Van Meyer mi inchiodano sul posto e credo di trovarmi nella stessa posizione di quando mi sono scontrata con Camille, ma è una frazione di secondi prima che mi aggredisca furioso, con le mani alla mia gola.

Il dolore è immediato e il respiro mi si smorza proprio mentre stavo inspirando e non riesco più a espirare. Indietreggio e scivoliamo a terra mentre le mie mani tentano di fargli allentare la presa, graffiandomi il collo da sola. Nella lotta provo a razionalizzare e tento di cavare gli occhi anche a lui, ma il suo viso torna sempre identico a prima, qualsiasi cosa gli strappi. Non riesco a respirare, altri demoni stanno arrivando da tutte le parti ma non intervengono nel nostro scontro, osservandoci a distanza di qualche metro.

Non credo di aver mai avuto tanta paura in tutta la mia vita, i pensieri si accavallano, un senso di disperazione atroce nel mio stomaco. Non riesco a vedere il mio compagno oltre tutti quei demoni e la vista mi si annebbia mentre l’unica cosa che riesco tristemente a mettere a fuoco è solo il viso di questo spirito orribile. Realizzo in un momento di forte depersonalizzazione, che adesso sono in grado di vedere il foro d’uscita del proiettile sull’apice del suo cranio.

“Erika?!” riesco a sentire a malapena. È la voce di Lukas… “Erika!”

Torno al mio corpo con uno scatto dolorosissimo, stordita e con una fame di aria mai avvertita prima. Una fitta di dolore mi colpisce impietosa quando tossisco.

“Erika! Respira!” Lukas mi tiene per le spalle… è uscito dalla protezione di sale e ha calpestato il cerchio… quando lo realizzo è troppo tardi. Emette un lamento acuto quando cade vicino a me, tenendosi il fianco con una mano, lanciando un fiume di imprecazioni.

“Porte chiuse…!” riesco ad ansimare. “Luce!”

Non riesco a mettere bene a fuoco ciò che accade intorno a me. Dopo il lampo, solo quello che credo sia Van Meyer è ancora in piedi nella stanza. Vedo che si sta avvicinando pericolosamente quando avverto che qualcuno mi ha preso per un braccio e mi sta trascinando fuori di peso. Quando sono finalmente fuori la mia mente si snebbia leggermente.

Lukas tiene ancora il mio avanbraccio stretto in mano e rantola, al mio fianco. Dentro, a pochi metri di distanza, dove ci trovavamo prima, non riesco più a vedere nessuno.

Abel Van Meyer è confinato. Mi guardo intorno, in cerca di Sluagh, ma non ne vedo alcuno.

I bastardi sono scappati… penso prendendo fiato toccandomi la gola dolorante. Mi fa male tutto e non so quanto tempo passiamo in quelle condizioni prima che Lukas parli.

“Stai bene?”

“Sì… sì, tu? Cosa ti hanno fatto?” chiedo senza voce guardandolo con apprensione. Una fitta di dolore mi attraversa la faringe.

Sbuffa con un lamento aprendo il cappotto che vedo essere tagliato sul fianco destro. Solleva il maglione, anch’esso strappato, mostrando quattro tagli profondi qualche millimetro che partono dal costato e raggiungono il fianco, per oltre quindici centimetri di lunghezza.

“Cristo Santo…” sibila guardandosi.

“Vuoi andare all’ospedale?” chiedo preoccupata.

“Non lo so… voglio solo andare via di qui.” Dice rimettendosi a posto il maglione senza toccare le ferite e sollevandosi. Mi dà una mano a rialzarmi e barcollo via da quel portico.

Credevo che una volta uscita da lì avrei avuto la forza di parlare e raccontargli cosa ho visto, ma è come se le parole mi si fossero bloccate in gola, laddove Van Meyer ha stretto per soffocarmi e quando Lukas mi chiede cos’è successo, scuoto la testa senza riuscire a dire nulla.

Al ritorno, in auto, avevo dei forti giramenti. Anche Lukas ha avuto qualche problema a guidare e abbiamo sfiorato un paio di incidenti. Ci siamo fermati a prendere delle bende, del disinfettante e degli antidolorifici in una farmacia e poi siamo tornati in hotel, taciturni. La farmacista ci ha guardati attonita per tutto il tempo e solo dopo abbiamo realizzato che avevamo ancora la faccia pasticciata e ci siamo ripuliti con delle salviette struccanti.

Solo qualche ora più tardi, in hotel, dopo aver medicato le ferite di Lukas e il taglio che ho sulla guancia ed aver passato del tempo in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto, ho compreso che fossimo entrambi sotto shock.

Ho deciso che sarebbe stato meglio farmi una doccia per togliermi la sensazione di quelle mani cadaveriche di dosso, così ho potuto constatare anche la gravità dei danni che io avevo subito e che non avevo voluto pronunciare ad alta voce. I segni delle dita sulla mia gola sono ben visibili e arrossati, laddove dovevano esserci le falangi hanno già assunto un colorito violaceo.

Mentre mi sto cambiando, buttando i vestiti malamente al lato della doccia, sento il rumore di qualcosa che cade per terra. Mi volto e vedo sul pavimento bianco del bagno l’accendino verde che ho usato per accendere le candele durante il rito poche ore fa.

Lo fisso per un tempo indefinito.

Prendo una decisione.

 

Ho fatto molta fatica a non addormentarmi dopo quello che abbiamo vissuto. Lo so, so che non dovrei farlo, ma non posso perdonare chi fa del male al mio compagno.

Mi sono alzata in punta di piedi, al buio. Ho preso i vestiti che stavano nel bagno, preparati ieri sera. Ho sempre l’abitudine di preparare la sera prima gli indumenti per il giorno dopo, quindi la cosa non ha destato sospetto in Lukas.

Gli ho promesso la verità, questa volta non gli ho mentito, ma non gli ho mai fatto giuramento di obbedienza né posso accettare davvero che lui si metta a repentaglio per me. La ferita che gli è stata inferta ieri pomeriggio è la prova di come lui non abbia gli strumenti per potersi difendere da questi spiriti. A malapena ci riesco io, non intendo coinvolgerlo né intendo restarci secca a mia volta perché distratta dalla sua incolumità. Gli ho lasciato i bracciali protettivi, questo dovrebbe tenerli lontani da lui.

Apro il frigo bar dell’hotel con cautela, coprendo la luce interna dell’elettrodomestico con la giacca. Prelevo la confezione di carta con le tre bottiglie di birra che l’hotel ci ha fornito come benvenuto al check in.

Esco dalla stanza silenziosa come un ladro, in pigiama, con la borsa, i vestiti, le birre e il telefono in mano. Provvederò a darmi una sistemata in auto.

Constato che sono circa le 2 di notte. Non credo di metterci più di due ore in totale. Se sarò fortunata, sarò qui prima che Lukas si svegli, anche perché ha preso una forte dose di antidolorifici e difficilmente riprenderà conoscenza prima di otto ore di sonno. Il fianco gli doleva troppo e credo che dovrà recarsi per forza da un medico per una terapia antibiotica.

Mi sono vestita alla bene e meglio sui sedili posteriori dell’auto a noleggio, tossendo di tanto in tanto per le contusioni interne che mi ha causato lo strozzamento, che adesso si sono manifestano in un dolore sordo e continuo, poi sono partita diretta alla prima pompa di benzina che ho trovato.

Raggiunta la mia meta, ho frugato nel veicolo in cerca delle due bottiglie di acqua da due litri che abbiamo comprato all’aeroporto il giorno del nostro arrivo. Una è completamente vuota, l’altra contiene ancora un po’ di acqua. Bevo quel che resta dell’acqua, sperando mi dia un po’ di sollievo in gola, invano, poi stappo le bottiglie di birra dando un colpetto contro al bordo ad angolo della pompa di benzina e le svuoto sulla strada.

Vado alla colonnina e programmo la pompa per l’erogazione. Riempio di benzina le due bottiglie di plastica di benzina e anche le bottigliette di vetro che contenevano la birra. Faccio non poca fatica a non versare fuori dal collo delle bottiglie il carburante, inevitabilmente ne cade un bel po’ in giro. Richiudo le bottiglie di plastica con il tappo, poi prendo dei fazzoletti dall’auto, asciugo l’esterno delle bottiglie e le tappo alla bene e meglio arrotolandoci i fazzoletti nel foro. Le ripongo nuovamente nella loro confezione di carta che le tiene dritte e piazzo tutto sul sedile del passeggero, bloccandole in modo che non cadano e si rovescino, altrimenti non so quanto potrebbe reggere il tappo di emergenza che ho costruito.

“Adesso a noi, figlio di puttana.” Ringhio tornando in carreggiata, diretta alla casa infestata, fortemente infastidita dall’odore di benzina che sento provenire dalle mie mani.

Lascio l’auto nei pressi di dove l’abbiamo parcheggiata durante il giorno e scendo, tirando giù le bottiglie piene di benzina e il cellulare con cui faccio luce, assicurandomi che l’accendino sia ancora nella tasca dei pantaloni, dove l’ho riposto ieri sera.

Cammino spedita nonostante il mio cervello stia registrando dolori sparsi, soprattutto in gola quando respiro ansimando l’aria gelata dell’Olanda invernale. L’ira offusca la sensazione di dolore e annienta la paura. Mi infonde nuova adrenalina al punto che anche se ho il fiatone per la salita che sto percorrendo, la mandibola mi si serra e stringo con forza i denti.

Un rumore di legno spezzato alle mie spalle mi fa arrestare. Dirigo subito la luce del cellulare da dove ho sentito provenire il rumore. Non c’è nulla… con questo buio non potrei nemmeno dire se ci sono ombre intorno a me, ma non avverto la sensazione di terrore atavico che segnala la presenza di un demone.

“Io sono Atenoux. Fatti avanti, se hai coraggio!” strillo fuori di me, senza badare al dolore della mia voce ferita. Non si ode niente e mi stupisco della mia reazione. Solitamente sono molto più controllata.

Mi volto e riprendo il mio percorso. Forse era solo un animale selvatico…

Eccola, di fronte a me. La casa di quel maledetto, ancora identica a come era dieci ore fa, sibilante e scricchiolante nella sua agonia senza fine. No… non senza fine.

Poggio per terra tutte le bottiglie e la confezione delle birre, sentendo subito un forte dolore alla spalla sinistra, che ho sottoposto a sforzo per l’ultimo quarto d’ora senza pensare che è stata operata cinque mesi fa e che non sto seguendo nemmeno la fisioterapia.

“Ero venuta qui per cercare di farti andare in pace e risolvere diplomaticamente. Una parte di me ci ha provato davvero.” Dico ad alta voce, ignorando lo stridio che sento provenire dalle corde vocali. Mi chino per stappare le bottiglie di plastica da due litri piene di carburante. “All’inizio ci ho creduto, sai? Che fossi un vecchio impazzito, che non sapeva ancora che la guerra fosse finita e che era stato raggirato dai fetenti di turno. Ma non tu, no… tu hai le idee fin troppo chiare, Signor Van Meyer. Per tua sfortuna, le ho anche io.”

Comincio a versare la benzina sulle superfici del portico in legno, schizzando le pareti che riesco a raggiungere. I muri della casa fremono, come se il legno si stesse comprimendo sotto al liquido che gli butto contro.

“Credo di aver imparato a capire gli odori di ogni sentimento che provate. Ormai non siete più un grande mistero, voi spiriti dannati. L’egoismo puzza di pollo marcio.” Continuo a parlare da sola, ma sono certa che lui mi stia ascoltando. “La cupidigia e l’avarizia sembrano frutta andata a male. Ma tu… tu avevi un nauseante odore di muffa stantia, diverso da chiunque altro prima di te. L’invidia… decisamente il peccato più infimo di tutti.”

Lancio le bottiglie di plastica vuote all’interno della casa, sentendo come rimbalzano per terra rotolando via.

“Invidia perché sei consapevole. Tu sai che avresti potuto studiare ed esercitarti per tutta la tua misera esistenza, ma non avresti mai e poi mai acquisito il talento di tua sorella. Una donna. Più giovane di te, indifesa, malata, sola, muta… era comunque meglio di te!” rido senza gioia, infastidita dal colpo di tosse che mi prende poco dopo. “Mi spiace solo non aver potuto vedere qualche replica del tuo passato, giusto per godere davanti a quanto ti rodesse il culo, ogni volta che finiva un dipinto cento volte meglio di come tu avresti mai potuto fare.”

Illumino le bottiglie di vetro con la torcia del telefono e, aiutandomi con un legnetto trovato lì vicino, cerco di tirare fuori un pezzetto di fazzoletto inumidito, che lascio penzolare di fianco al collo di ognuna.

“Ormai è tardi, Signor Van Meyer. Riesci a sentire questo odore frizzante nell’aria? Non parlo di quello della benzina, mi riferisco a quello della verità. È fatta. Le opere di Gesabette saranno analizzate, troveranno le sue parole scritte sul retro. Ah già, forse non lo sapevi, altrimenti avresti di certo provveduto a cancellarle. Credo che si chiami… inchiostro simpatico. Invisibile all’occhio umano e, a quanto pare, anche ad occhio di spirito. Sei rovinato, vecchio bastardo. Sarai calunniato, disprezzato e diffamato. Andranno a spulciare ogni tuo singolo passo falso, solo per il gusto di vedere quanto marcio ci fosse in te: è qualcosa che di questi tempi va di moda. E adesso i tuoi amichetti se la sono squagliata. Sai, non brillano di coraggio, proprio come te.”

Prendo in mano una delle bottiglie di vetro, mentre con l’altra illumino con la torcia del telefono la casa di fronte a me. Non si riesce a vedere nemmeno con la Vista, ma non mi serve guardare con gli occhi, lo sento, che si sta contorcendo come una biscia ferita.

“Ci ho messo parecchio. Diversi giorni, per cercare di capire cosa intendesse dire Estela quando ha detto che avrei dovuto farti perdere. Tu, in fondo, non te ne sei mai andato da qui. Anche quando ti concedevi qualche scampagnata per oltraggiare le opere di tua sorella o costosi obbiettivi fotografici, poi tornavi sempre qui. La tua casa è perfetta, hai detto… perfetta… la vedi perfetta? Ci ho riflettuto solo qualche ora fa, ma in fondo avrebbe dovuto essermi chiaro fin dal principio. Gli spiriti hanno una vista alterata, vedono solo ciò che vogliono vedere. Nelle altre dimensioni, questo non rappresenta un problema, qui però siamo sul piano terreno…”

Cerco di ingegnarmi per reggere il cellulare e la bottiglia nella stessa mano, mentre con la destra frugo nella tasca della giacca, in cerca dell’accendino.

“Sarà dura guardare il mondo da una finestra che non esiste più, Signor Van Meyer. Non troverai mai più la via del ritorno. Goditi il tuo personale inferno. Questo, te lo manda Gesabette.”

Faccio scattare l’accendino e il fazzoletto si incendia istantaneamente. Senza esitare, afferro la bottiglia con la mano destra e la scaglio con violenza attraverso l’ingresso divelto. Il vetro va in frantumi contro il pavimento e le fiamme divampano tutto intorno, emettendo una forte luce arancione che illumina l’atrio e quello che riconosco essere il borsone che avevamo portato io e Lukas nel pomeriggio e che nella fuga abbiamo lasciato là.

Riesco a sentire le urla stridenti che si alzano dalle mura: finalmente qualcosa di divertente.

Do fuoco alla seconda bottiglia. “Questo è perché sei uno stronzo!”

La bottiglia entra dalla finestra senza vetri da cui pendeva quell’orrido lembo di tessuto che un secolo fa doveva essere una tenda, appiccando il fuoco anche a quella che era la sala da pranzo.

“E questo… questo è per Lukas.” Ringhio accendendo il fazzoletto della terza bottiglia, scagliandola contro al porticato, dove avevo già versato la benzina contenuta nelle bottiglie di plastica. Le fiamme che si alzano contro le pareti e raggiungono velocemente il piano superiore. Comincio ad avvertirne il calore da dieci metri di distanza, quindi faccio qualche passo indietro, guardando estasiata le fiamme che divorano le rovine che furono la prima prigione della mia amica.

Lancio un latrato di vittoria, ignorando le fitte alla gola, ammirando per minuti che mi paiono brevissimi secondi come le travi di legno consumato cominciano a scricchiolare e cedere e il fuoco divora la carcassa, scaturendo dal foro sul tetto dell’edificio giusto qualche secondo prima che una parte di esso crolli. La luce del falò è molto forte e non fa nemmeno tanto fumo, dato che il legno è estremamente secco.

My Gosh… you’re really… so fucking insane.”

Mi si gela il sangue sentendo quelle parole a cui stento a dare immediatamente un senso. L’euforia passa istantaneamente e mi volto di scatto per vedere chi ha parlato.

Un uomo, con una giacca pesante e un berretto di lana calcato sulla testa sta osservando la casa in fiamme dietro di me. La sua faccia è leggermente coperta da una sciarpa e la luce dell’incendio gli illumina parzialmente il volto, da cui riesco a intravedere della barba scura.

“Chi sei?!” gli urlo in inglese.

“Seriamente? Non sai chi sono?” chiede nello stesso idioma, tirando fuori dalla tasca del giaccone un pacchetto di sigarette per accendersene una.

Impiego qualche secondo a realizzare che lo conosco veramente. È lo stesso uomo che stava appostato sotto casa mia… è lo stesso uomo che…

“Ryan?” esalo sconvolta, fissando l’investigatore che ho assunto per scovare la figlia di Frank, il medesimo uomo che ho salvato dagli Sluagh a Kansas City e che nell’ultimo mese mi ha pedinato per mezza Europa.

“Come immaginavo.” Accenna facendo un tiro di sigarette. “Adesso dimmi cosa sei tu. In fretta, non ho più tempo da perdere, il mio viaggio è quasi finito.”

“Cosa?” chiedo barcollando. “Eri tu che mi seguivi? Perché?”

“Riproviamo.” Regge la sigaretta con la mano destra e con la sinistra estrae qualcosa della grandezza di uno smartphone dalla tasca del giaccone, con la punta rotonda e cilindrica. Con la sola luce emessa dal falò faccio fatica a vedere nitidamente cosa è. “Per chi lavori?”

“Che? Io…”

“Rispondi!” urla senza preavviso e faccio un passo indietro, allarmata.

“Io non lavoro per nessuno… sono disoccupata.” Cerco di articolare una frase nonostante nel mio cervello si stiano ammassando un sacco di interrogativi.

“Hai un po’ troppi soldi, per essere una casalinga. Non mi interessa se lavori per i russi, per i cinesi, la mafia o qualsiasi altra cosa tu faccia, purché ti tenga lontana da me e dalla mia famiglia.” Continua aspirando il fumo dalla sigaretta, con un fare un po’ troppo scenico per i miei gusti.

Americani… mi ritrovo a pensare mentre il mio cervello è diviso tra ciò che sta succedendo all’edificio alle mie spalle, che tra poco crollerà definitivamente e sarebbe meglio levarsi di torno, la fuga dallo stalker che altro non era che l’investigatore che io stessa ho assunto e un sacco di battute sarcastiche che mi stanno affollando la mente.

Sto impazzendo, è assodato, perché anche se razionalmente sento che dovrei avere paura, non ne ho veramente. Dentro di me è come se sentissi una corda tesa, sfilacciata e consunta, che regge la mia sanità mentale solo per un filo sottilissimo che è prossimo a spezzarsi.

“Io… sono una giornalista.” Provo ad inventarmi su due piedi. “Sto cercando di trovare la verità dietro ad alcuni casi freddi. Quello a cui sto lavorando attualmente riguarda un caso di opere d’arte che un autore aveva rubato ad un altro… potrai leggere la cronaca sui giornali lunedì prossimo.”

“Una giornalista fin troppo coinvolta… Cosa c’entra la mia famiglia con tutto questo?” domanda aggressivo.

“Non so di cosa tu stia parlando…” rispondo ancora più confusa.

“Da quando ho accettato il tuo caso, la mia famiglia è stata messa a repentaglio innumerevoli volte.” Prende l’ultimo tiro dalla sigaretta, poi dà un colpo secco con le dita al mozzicone e la parte in combustione cade a terra. La cicca spenta viene riposta nella tasca della giacca. “Tutti incidenti casuali, molti dei quali assurdi e potenzialmente letali, sempre quando ero nei paraggi. L’unica cosa che ho potuto fare per tenerli al sicuro è stato allontanarmi da loro. Non immaginavo chi potesse esserci dietro a questi attentati, poi mia moglie ha ricevuto la tua chiamata… numero privato? Con chi pensavi di avere a che fare?”

Chiudo gli occhi, sospirando sconfitta. “Ho dei nemici.” Tento di spiegargli. “Anche adesso sono qui per ostacolarli… non mi aspetto che tu mi capisca, anche perché non mi crederesti se te lo raccontassi. A quanto pare ti ho affidato un compito che non ti avrebbe dovuto competere. Hanno pensato che fossimo complici e hanno provato a farti fuori. Quando ho saputo che erano sulle tue tracce, ho cercato di avvisare tua moglie e poi ho fermato le indagini… credevo che saresti stato al sicuro.”

“Prima parlavi ad alta voce. Ci stanno ascoltando in questo momento?” chiede incolore.

Mi guardo intorno senza aspettarmi di vedere davvero qualcosa. “È probabile che siano in ascolto, sì… preferirei parlarne da un’altra parte. Possiamo andare via?”

Annuisce guardingo, improvvisamente taciturno.

“Bene…” sposto il peso da un piede all’altro, a disagio. “Puoi abbassare quella cosa?” accenno all’oggetto che regge in mano.

In tutta risposta, lui preme l’oggetto. Al click, ammetto di aver sentito un brivido freddo dal basso della schiena… che subito si è dissolto in un moto di sollievo quando la pila che stringe in mano è stata accesa.

Mi avvicino a lui scuotendo la testa e guardandolo con frustrazione. Dannati americani

“Cammina davanti a me. Ne avrei presa una vera, ma ti sposti così in fretta che è impossibile stare al passo con il crimine organizzato.” Borbotta illuminando la strada di fronte a noi.

Uno scroscio di legna spezzata mi fa voltare un’ultima volta verso quello che è rimasto della vecchia casa di campagna dei Van Meyer, ormai poco più che un cumulo di macerie e braci ardenti.

Addio, Abel.

 

Quando siamo tornati sulla carreggiata, ho visto come Ryan avesse parcheggiato poco lontano da me. Chissà da quanto mi stava seguendo e non me ne sono mai accorta… alla faccia del sesto senso. Bah…

Abbiamo ripreso le auto, dopo che l’ho convinto che mi sarei fatta seguire fino al mio hotel e sulla via del ritorno abbiamo visto i pompieri sfrecciare dal luogo dell’incendio con le sirene spiegate. Qualcuno deve aver notato le fiamme sulla collina, anche se quando siamo andati via si stavano quasi esaurendo e non avevano aggredito gli alberi circostanti. Probabilmente è una misura precauzionale. Non impiegheranno molto a capire che si è trattato di un incendio doloso, ma la storia finirà qui, scambiata forse con un caso di catapecchia andata a fuoco per colpa dei tossici che non sanno cucinare l’eroina in sicurezza.

Parcheggiamo all’esterno dell’albergo e gli faccio cenno di seguirmi. Sono appena le quattro e mezza, ci ho messo davvero due ore. Per una volta ce l’ho fatta! Sono riuscita a non far preoccupare Lukas e a sconfiggere il cattivo! Peccato che abbia dato il meglio di me durante un delirio da stress post traumatico mentre davo fuoco ad una casa con uno statunitense che mi puntava una finta pistola alla schiena.

Storco il naso sentendo la puzza di fumo che emana Ryan. “Puoi buttare quel mozzicone, per cortesia? Puzzi come un posacenere.”

“No, non lascio mai il mio DNA in giro.” Borbotta cupo.

Viva la paranoia… “E allora lascia la giacca in auto o attendi qui fuori, perché in camera non ci entri così.”

“Non sarei entrato comunque. Voglio vedervi in un luogo pubblico.” Dice fermandosi fuori dalle porte dell’hotel.

“In un luogo pubblico a quest’ora?” faccio una smorfia di derisione. “Non so che ore siano in Kansas, ma qui la gente a quest’ora dorme e il ristorante dell’albergo prima delle 7 non apre. Se vuoi parlare con me, lo faremo dove nessuno potrà disturbarci.”

“Due contro uno? Ti aspetterò fuori.” Mi sfida incrociando le braccia sul petto.

“Lukas non ti farebbe nulla…” inconsciamente abbasso lo sguardo verso il basso, sintomo di menzogna che tento di correggere in extremis. “Basta che prima mi lasci dieci minuti per spiegargli la situazione.”

“Lo stesso Lukas Keller arrestato a sedici anni per furto di veicolo e a diciassette per aggressione?” mi sbeffeggia piantandosi bene davanti a me a braccia conserte.

Stringo lo sguardo, punta sul vivo. “Non è più un ragazzino, saranno passati quindici anni dall’ultima volta che ha commesso un errore del genere, adesso è cresciuto.”

“Avranno torto le mie fonti, sul tuo collega pestato nel sotterraneo del tuo posto di lavoro appena due anni fa…”

Taccio qualche secondo fissandolo in cagnesco. “Se fossi stato presente glielo avresti tenuto fermo, credimi. Resta pure qui, al freddo. Ci si vede tra qualche ora.”

Nonostante ciò, restiamo ancora fermi per un minuto davanti all’ingresso prima che Ryan borbotti qualcosa, togliendosi la giacca e buttandola malamente dentro al proprio veicolo. Nessuno dei due aveva davvero intenzione di separarsi senza essersi chiariti, ma ho capito che è una di quelle persone a cui non puoi dare troppa corda, a meno che non vuoi che ti ci incapretti.

Gli tengo la porta aperta mentre entriamo e saliamo le scale interne dell’hotel diretti alla mia stanza.

Gli faccio cenno di attendere fuori in corridoio, intanto entro nella camera buia e mi chiudo la porta alle spalle. Appoggio la nuca allo stipite, facendo un sospiro profondo.

“Erika?” sento il biascichio di Lukas.

“Sono io, amore.” Rispondo accendendo la luce e causandogli un lamento per essere rimasto accecato. Mi tolgo la giacca, sciarpa e scarpe e poi mi siedo sul letto dove vedo sta cercando di mettersi seduto senza piegare bruscamente il busto.

Mi guarda confuso. “Perché sei vestita?” annusa l’aria, cercando di tornare lucido. “C’è odore di benzina.”

“Già…” sospiro, dolorante. “Sono io.”

Mi fulmina stringendo le labbra.

“Non pensare male, dovevo risolvere la questione una volta per tutte. Adesso possiamo pure tornare a casa, prima però…”

“Sei andata lì da sola?!” sbraita, incredibilmente sveglio.

Faccio qualche gesto per calmarlo intimandogli di fare silenzio. “È ancora notte… non ho fatto niente di pericoloso, non sono entrata. Ho dato fuoco a quella casa.”

“Che cazzo hai fatto?!” spalanca gli occhi e la bocca sconvolto. “Ma ti rendi conto che potevi prendere fuoco anche tu? Ti ha dato di volta il cervello? Cristo… ti si deve legare per essere certi che tu stia buona!”

“Non sei il mio carceriere, Lukas. Non puoi dirmi cosa posso o non posso fare.” Mi difendo con durezza. “Altrimenti non saresti diverso da Van Meyer.”

Il suo sguardo accusatorio mi fa tentennare dentro, ma la mia espressione rimane ferma ed è lui che alla fine abbassa gli occhi lucidi per i farmaci e il sonno, oltraggiato. “Discutere con te non porta a niente. Sei sicura di non esserti fatta niente?”

“Sì, ho risolto. Però è sorto un intoppo.”

Alza lo sguardo al cielo, buttandosi all’indietro temporaneamente dimentico della ferita sul fianco, che si fa sentire immediatamente, causandogli un singulto di dolore che tenta di sedare massaggiandosi il fianco sopra alla maglietta.

“Ho scoperto chi era l’uomo che ci pedinava.”

Mi guarda attento, tentando di tornare alla posizione precedente. “Te l’hanno detto le tue amiche morte?”

Quanto tatto… chiudo gli occhi e prendo fiato mentre cerco di non dare a vedere quanto mi abbia urtato il modo in cui ha chiamato Clara ed Estela. “No, l’ho beccato per strada. Mi ha seguito quando sono uscita per sistemare Van Meyer. È qui fuori, deve parlarci.”

Resta un secondo immobile per metabolizzare ciò che gli sto dicendo poco prima di alzarsi come una furia e cercare di infilarsi i pantaloni.

“No, no, ora ti calmi.” Mi paro di fronte a lui a mani aperte. “Gli ho detto che può parlarci liberamente e che non gli farai nulla.”

“Sì, il cazzo non gli farò nulla.” Ringhia allacciandosi i pantaloni.

“Lukas, è Ryan!” cerco di fermargli le mani mentre sta per prendere la cintura, senza la reale intenzione di indossarla, temo.

“L’investigatore?” chiede rallentando i movimenti, come se stesse facendo uno sforzo mentale assurdo.

“Sì… ma non ci seguiva per farci del male. Da quando ha cominciato ad investigare su Frank, i demoni hanno perseguitato lui e la sua famiglia.” Dico velocemente e sembra calmarsi un po’. “È riuscito a rintracciare la telefonata che feci a sua moglie quella notte e ha creduto che fossimo noi, a volergli fare del male.”

Lukas barcolla un secondo e mi accorgo che è molto meno performante di quanto volesse dare a vedere. “Quindi era per questo che aveva smesso di rispondere.”

“Sì.” Gli confermo provando a farlo sedere sul letto. Per fortuna mi asseconda tenendo lo sguardo basso. “I nostri spostamenti in giro per l’Europa lo hanno insospettito e ha indagato su di noi… senza capire che cosa stessimo facendo per davvero. Stasera mi si è avvicinato di sua spontanea volontà, per chiedermi chi fossi.”

“Ha aspettato che restassi sola, non capisci? Nessun uomo con buone intenzioni cercherebbe di avvicinare una donna quando è indifesa.” Borbotta stizzito.

“Io sarei indifesa? Avevo appena dato fuoco a una casa con delle molotov. Ma poi, non sei tu quello che fino a un minuto fa voleva prenderlo a cinghiate?” replico tra l’offeso e il risentito.

“Con cosa hai fatto delle molotov…?” si guarda intorno stupito prima di tornare sul pezzo. “Non ha importanza. Allora perché non gli regaliamo un mazzo di fiori? È stato bellissimo farci stalkerare da lei, signor investigatore, ci può fare un autografo?!” dice con una smorfia di derisione.

Lo osservo per qualche secondo con espressione corrucciata prima di premergli un dito sul fianco, senza forza in realtà, ma reagisce come se lo avessi accoltellato. “Ah! Che stronza!” sibila tenendosi la ferita.

“Così impari. Allora, posso farlo entrare senza che tu ti metta a fare come Laika?”

“Non ti prometto nulla, ti lascio sulle spine, come piace fare a te.” Risponde offeso rialzandosi per infilarsi il maglione e le scarpe.

Tanto mi basta, quindi mi sollevo dal letto anche io, do una sistemata alla camera e mi lavo le mani. Poi chiamo Ryan, che ha atteso in fondo al corridoio, ad una decina di metri di distanza dalla porta della nostra camera.

Quando entra, mi ricorda uno di quegli attori che impugna il mitra sotto al braccio mentre sfora di soppiatto in una trincea nemica. Lukas lo accoglie in piedi, poggiato con la schiena contro alla parete opposta alla porta, in fondo alla stanza, guardandolo con un’aria che definire aggressiva sarebbe un eufemismo.

Si guardano con ferocia per qualche secondo. Ryan è qualche centimetro più basso di Lukas, ma sembra più piazzato. Devo cercare di calmare subito le acque.

“Ryan, lui è Lukas, il mio fidanzato. Negli ultimi quattro mesi, io e Lukas abbiamo svolto delle indagini molto sensibili per… per conto di qualcuno che non possiamo rivelarti. Siamo dispiaciuti che la tua famiglia sia rimasta coinvolta, non era nostra intenzione.” Comincio dolcemente in inglese, cercando lo sguardo dell’interlocutore a meno di un metro da me.

La gara di occhiatacce viene interrotta quando Ryan dirige gli occhi su di me e vedo che si sofferma un po’ più in basso del mio viso. Corrugo la fronte, chiedendomi confusa se mi stia guardando il seno, quando ricordo che ho tolto la sciarpa e adesso sarà possibile vedere i lividi che ho sul collo. Torna a fissare Lukas, stavolta con un’espressione più disgustata.

Questo non avrebbe dovuto farlo. Con un colpo di spalle il mio compagno si stacca dal muro. “Per chi mi hai preso? Pensi che sia stato io?!”

“Non è stato lui!” mi metto di fronte a Ryan, cercando di attirare di nuovo la sua attenzione. “Oggi… ieri pomeriggio abbiamo avuto una colluttazione con uno dei nemici di cui ti ho parlato prima. Siamo entrambi feriti.”

“Sta zitta, Erika.” Ringhia Lukas in tedesco, facendosi più vicino.

Basta, questi due mi hanno rotto le palle. “Ma che cazzo! Siete uomini o ragazzini?! Siete capaci di comportarvi da adulti e comunicare a parole?! E tu allontanati, non mi fare girare i coglioni.” Lukas non indietreggia ma lo conosco abbastanza da poter dire che è meno aggressivo rispetto a prima. “Per favore. Ora io te andiamo a sederci e sentiamo cosa ha da dirci quest’uomo.”

Cerco di spingere via con fatica Lukas, tentando di non toccargli il fianco che sta fingendo non gli dia alcun fastidio. Ryan resta teso ancora per qualche secondo attendendo che ci sediamo sul letto per primi, poi si rassegna e si poggia cauto sulla panca all’ingresso.

Passa qualche minuto prima che Ryan cominci a parlare. “Ho dovuto prendere le distanze dalla mia famiglia quando cose strane hanno cominciato a capitare intorno a me. Sono stato sospeso da lavoro per un mese, dato che certe… circostanze hanno rischiato di rovinare anche la mia reputazione professionale.” 

Attendiamo in silenzio il seguito del discorso, mentre Ryan mette l’unghia del pollice in bocca, sugli incisivi, in un gesto di nervosismo che dimostra quanto sia dipendente dalla nicotina e abbia una fissazione orale, direbbe Freud. “In casa… la situazione era invivibile. Ho capito che era qualcosa che riguardava la ricerca che mi avevi commissionato. Parte dei documenti presero fuoco spontaneamente, un pezzo interno del circuito di alimentazione dell’auto che guidavo era completamente sparito nel nulla, rischiando di farmi saltare per aria con tutta una pompa di benzina… correnti fredde, impianti elettrici fulminati, un consumo energetico ingiustificato, chiamate da numeri inesistenti senza che nessuno parlasse dall’altro lato e la notte…” si strofina la bocca, con lo sguardo che trasmette una forte ansia. “Di notte succedevano le cose peggiori. Probabilmente qualcuno ha provato ad avvelenarci, anche se dalle analisi all’impianto idrico e dai tossicologici che abbiamo fatto, non è risultato nulla.”

Sento Lukas che espira profondamente di fianco a me, con lo sguardo basso ma ancora torvo. Credo di aver capito cosa sia successo a casa Williams. Gli Sluagh erano riusciti ad entrare in qualche modo e da allora li perseguitavano in ogni momento propizio, per farlo desistere dalla sua ricerca su Frank. La situazione era molto più grave di quanto immaginassi, ma nessuno ha ritenuto opportuno avvisarmi…

“Perché dici di essere stato avvelenato?” chiede il mio compagno.

Ryan stringe le labbra, come se non volesse parlare dell’argomento. “Siamo stati vittime di stati allucinatori potenti. Mia moglie, ma anche i bambini. Perfino io, abbiamo visto delle cose che nessuno dovrebbe vedere.”

“Cose di che tipo?” domanda ancora Lukas, questa volta con lo sguardo attento.

“Mia moglie di notte udiva sempre un bambino piangere, solo se io ero in casa.” Risponde l’investigatore, incrociando le braccia sul petto, senza ricambiare i nostri sguardi. “Non capiva da dove provenissero i lamenti… si alzava dal letto e il rumore svaniva. Tornava a letto e ricominciava. Finché non decise di guardarci sotto e… io non vidi nulla, lei invece urlava che sotto al letto c’era un neonato fatto a pezzi… ma la testa ancora si muoveva e piangeva senza sosta.”

“Sì… sono stati loro.” Dico a voce bassa, sentendo un brivido al suo racconto.

Lukas sembra voler chiedere altro, ma lo guardo perentoria facendogli intendere che basta così. “Quindi hai interrotto le tue ricerche e hanno smesso?” chiedo stringendomi nel mio cardigan.

“No, signora. Se qualcuno vuole ostacolare la verità, è perché essa è incredibilmente importante ed è una ragione in più per portare a termine il lavoro.” Afferma autoritario, sciogliendo le braccia. “Solo non comprendo come sia possibile che qualcuno voglia ostacolare la diffusione di informazioni che sono già state rese pubbliche.”

Aspetta, cosa?

Buongiorno ragazzi!
Ormai siamo quasi alla fine, lo so, è stata una storia molto lunga.  La parte iniziale di questo capitolo è abbastanza pesantuccia e dato che io non sono affatto in grado di descrivere le scene di azione, ammetto di averci messo molto più del dovuto per renderla passabile (e non sono certa di esserci riuscita).
Alcune scene sono state un po’ macabre, ma per i miei standard siamo ancora lontani dall’horror.
Per quanto riguarda le molotov… ci sono due o tre imprecisioni. La carta intorno alla bottiglia va grattata via, ad esempio, così come anche l’uso di un fazzoletto, sarebbe meglio il cotone perché dura di più, la fiamma di un fazzoletto di carta incendia con molta più velocità e rende difficile essere precisi senza i guanti ignifughi. Comunque non volevo rendere il capitolo una guida per armi d’assalto casalinghe. Viceversa, se vi serve qualche consiglio per fare una bomba al cloro in casa, possiamo sentirci in privato… ahaha scherzo! (come no…)
Mancano 3 capitoli, ci vediamo a Santo Stefano :) 
A prestoooo 

Fiore di Pesco

  
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