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Autore: Soul of Paper    23/12/2023    3 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 84 - Rinascita


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.



 

“E quindi che colore vorrebbe?”

 

La parrucchiera le stava indicando le ciocche multicolor, anche se slavate ormai.

 

“Rosso. Un rosso normale, facile da gestire e non tossico per l’allattamento..”

 

“Abbiamo diverse colorazioni senza ammoniaca, più o meno naturali.”


“Sì, basta non fare la stessa fine che con l’hennè.”

 

“Innanzitutto non tutti gli henné sono uguali, dipende dalla composizione. E poi chimico e naturale spesso non vanno d’accordo e i suoi capelli erano già trattati e molto stressati.”


“Fossero solo quelli!”

 

La parrucchiera sbuffò. Ecco perché le piaceva farsi il colore a casa. Ma mo sarebbe stato impossibile e poi non poteva sprecare il dono di Calogiuri.

 

“Almeno un’idea sulla tonalità di rosso?”

 

“Il più facile da mantenere e che non sembri troppo finto.”

 

Un altro sospiro ma la parrucchiera si mise al lavoro. Non aveva tempo né voglia di stare lì a scegliere tra tremila colori. Voleva raggiungere Calogiuri e poi tornare a casa. La pausa era bella, per carità, ma l’apprensione restava.

 

Eppure, tra il lavaggio, le applicazioni e tutto il procedimento cominciò, vuoi o non vuoi, a sbadigliare.

 

Si rese conto di essersi addormentata solo quando si svegliò di colpo per un getto d’acqua in testa.

 

Non solo tutte le ciocche erano state fatte, ma il tempo di posa era pure finito e manco se ne era resa conto.

 

Il collo un po’ dolorante, le toccò ammettere che avrebbe avuto bisogno di riposo e, forse forse, Calogiuri tutti i torti non ce li aveva a costringerla a prendersi una pausa.

 

Non che lo avrebbe mai ammesso con lui, ovviamente. Ma tanto lo sapeva il disgraziato, visto come la guardava dalla sala d’attesa, mannaggia a lui!

 

*********************************************************************************************************

 

MEOOOOOOOOOW

 

Neanche il tempo di aprire la porta che la palla di pelo ruffiana l’aveva scalata, manco fosse un tiragraffi, e le si stava strusciando vicino al collo. Poi la percepì annusare e due occhi felini azzurrissimi la guardarono incuriositi.

 

“Senti l’odore dei prodotti del parrucchiere?”

 

Un altro miagolio, l’aria di chi non sapeva se la novità fosse gradita o meno.

 

“Non ho profanato il tuo regno con la tinta e con altro…”

 

Un miagolio lunghissimo e qualche fusa che le vibrarono nel petto e poi Ottavia saltò a fare i saluti e i ringraziamenti anche a Calogiuri.

 

A volte le sembrava davvero che capisse tutto, più di tutti loro messi insieme.

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Eccallà!

 

Francesco, che gattonando a una velocità sempre maggiore li stava raggiungendo, a un ritmo che manco lo squalo.

 

Peggio di lei!

 

“Francesco, vieni qua, piano!”

 

“Bianca?”

 

E sì, era stata proprio la piccola principessa ad apparire dall’angolo con la zona salotto e a farle un sorrisone. Francesco si era fermato, guardando entrambe. Bianca lo aveva preso per una manina ed Imma stava per cedere e spupazzarseli entrambi, quando un “Tataaaaaaa!” e l’uragano Noemi la placcarono in un abbraccione dei suoi.

 

“Noè…” sospirò, accarezzandole i capelli e chiedendosi se la casa fosse sopravvissuta.

 

Ma poi notò qualcosa di strano: macchie rosse e gialle e verdi sul muro - non di pappa per fortuna!

 

Bianco. Irene regale quanto ansiosa.

 

E poi, passo dopo passo, Noemi attaccata come un koala, a cui si erano uniti anche Bianca e Francesco, tutti aggrappati alle sue gambe - Calogiuri che l’aiutava, tra le proteste di Vittoria che pure lei evidentemente voleva passare dal marsupio a in braccio - arrivò a vedere la fonte di tutto quel colore.

 

Rosa, Valentina, Penelope, Pietro e pure-

 

“Mariani, Conti?”

 

I due marescialli sorrisero, imbarazzati, Conti soprattutto, per ovvi motivi, e si alzarono da dov’erano seduti a terra.

 

Dietro a tutti loro l’albero di natale, il loro albero di natale, con su tutte quelle improbabili decorazioni, la cui caoticità era stata riprodotta con una precisione commovente.

 

“Visto che è pure il tuo onomastico…” esordì Pietro.

 

“E il tempo per decorare mo quando ce l’avete mà!”

 

“E poi è tradizione!”

 

Rosa.

 

“Sì ma possiamo mangiare??”

 

Noemi, ingorda più della cucinetta. In quel momento si avvide del ben di dio sulla penisola della cucina: dolci, una teglia di pasta al forno e quant’altro.

 

Le venne da ridere, da commuoversi e un principio di mal di testa, tutto insieme.

 

“Prima dobbiamo mettere il puntale sull’albero!”

 

Rosa, che cercava di contenere la figlia.

 

“Se, qua sono io l’albero…” sospirò, perché tra Noemi, Bianca e Francesco, tutti appesi c’aveva. Ci mancava solo Vittoria, che Calogiuri stava facendo rimbalzare nel marsupio per risparmiargliela e-

 

Un peso sulla testa: Ottavia. Addio messa in piega!

 

“Ecco e mo c’ho pure il puntale!”

 

Scoppiarono tutti a ridere, tutti tranne lei. Calogiuri cercò di riprendersi almeno Ottavia e Modesto e Melita accorsero per distrarre Francesco e Vittoria. In quello Bianca fu provvidenziale: il piccoletto da lei si lasciava prendere eccome per giocare.

 

“Sei meno variopinta del solito però…”

 

Irene. Ovviamente.

 

Ma non l’aveva detto con cattiveria, anzi, ormai quello era il loro modo di sfottersi.

 

“Ma la parrucchiera è la tua?”

 

Un dubbio improvviso, atroce.


“Ovviamente…”

 

Guardò Calogiuri, terrorizzata da quello che ciò avrebbe potuto significare per il loro portafogli.

 

“Tranquilla, non è cara. Brava e discreta, quindi non certo una parrucchiera da vip o da signore bene, che sono più pettegole delle comari di paese.”

 

“La tua idea di non caro mi spaventa, Irene…”

 

“No, davvero, dottoressa, non era fuori mercato. Promesso.”

 

“Ma che ne sai tu del mercato delle parrucchiere a Roma?”

 

“Di sicuro più di quanto ne sai tu…”

 

Touché! Era sempre più svergognato lo svergognato!

 

“Peccato! Erano belli i capelli punk!”

 

“Sì, Penelope, quando avrò i capelli bianchi e starò in pensione ci farò un pensiero.”

 

“Quindi mai.”

 

Sì, Calogiuri la conosceva troppo bene, pure mentre era impegnato a liberare la piccoletta dal marsupio.

 

“Stai benissimo, sei proprio bella!”

 

Bianca.

 

Se la abbracciò e le diede un bacino in fronte, chiedendosi perché non era toccata a lei una bimba così tranquilla e buona.

 

Ma la genetica era quello che era e lo stile educativo di Maria e di Irene era irraggiungibile.

 

“Sìììì, Tata sei bella bella!”

 

Noemi… altro abbraccio e bacino.

 

“Im-ma! Im-ma! Be-a!”

 

Per poco non le prese un colpo e trattenne un singhiozzo, gli occhi che pungevano.

 

“Poche parole ma buone,” le sussurrò Calogiuri, baciandole la guancia, mentre lei si riprendeva dallo shock, “e ha ragione, sei stupenda!”

 

“Sì, dopo facciamo i conti, in tutti i sensi,” rispose e fu allora che si beccò un bacio sulle labbra e, senza sapere bene come, si trovò sul divano, circondata da pupi, mentre il famoso puntale veniva piazzato e le vivande distribuite che manco a una mensa erano così efficienti.

 

Stava per ricevere l’agognatissima pasta al forno - avrebbe riconosciuto la ricetta di Pietro ovunque - quando sentì qualcosa sul petto, anzi qualcuno.

 

Vittò, che cercava la fonte.

 

“La prendo io. Biberon,” ordinò Calogiuri, che si era calato un po’ troppo nel ruolo da ufficiale.

 

“No faccio io, Ippà, tranquillo.”

 

Modesto che veramente, se avesse potuto, avrebbe portato loro l’acqua - o il latte in quel caso - con le orecchie. Era peggio di Calogiuri i primi tempi.

 

“Datela qua!”

 

Prima di poter dire altro, Vittoria le fu presa dal grembo. Non fu quello lo shock, quanto il non essersi sbagliata su voce e mani.


“Valentina?”

 

“Beh, che c’è? Ti ricordo che ho fatto il tirocinio da assistente sociale, quindi i biberon li so usare…”

 

Già… a volte si dimenticava quanto fosse grande.

 

A Melita alla parola assistente sociale quasi prese una sincope.

 

“E poi la pasta al forno di papà ormai mi esce dalle ‘recchie, che quando sale mi riempie sempre di provviste.”

 

“Ah, è così, eh?! Allora la prossima volta per vendetta manco i lampascioni ti porto!”

 

Pietro. Non cambiava mai.

 

Un bacio a papà suo e Valentina si ritirò con la sorellina oltre la cucina, mentre spiegava a Penelope come scaldare il latte.

 

Una stretta al cuore al vederle così: certo erano giovanissime ma… chissà se un giorno anche loro avrebbero avuto la stessa voglia di genitorialità di Modesto e cosa sarebbe accaduto.


Anche se per le donne, soldi permettendo, era meno impossibile, ma comunque complicatissimo, specie sul riconoscimento.

 

“Imma… che mi diventi come la signora Diana?”

 

“Eh?”

 

Calogiuri aveva uno sguardo intenerito, mentre le rimetteva in mano la pasta al forno, l’aria da mangia, è un ordine! che si univa a uno sguardo molto più consapevole.


“Preoccuparsi di cose che chissà tra quanti anni succedono, se succedono. Adesso ti devi rilassare.”

 

“Sì, e per questo mi hai riempito la casa peggio di piazza Vittorio Veneto alla festa della Bruna?”

 

“Prima il cibo e poi… penso che nessuno si offenderà se te ne vai a dormire. Tanto, come hai visto, qua è pieno di babysitter. E ci sono i tappi.”

 

Manco se le avesse regalato davvero il famoso bracciale a forma di leopardo che andava con la famigerata spilla - che stava in qualche cassetta di sicurezza, in attesa del dissequestro - le avrebbe potuto fare un dono più grande di quello.

 

Gli strappò un altro bacio e il morso di pasta al forno, unito ai capelli che sapevano di fresco, al corpo rigenerato e molle dopo tutte le immersioni, la riportarono definitivamente al mondo.

 

Altro che immacolata concezione!

 

*********************************************************************************************************

 

“Ma non so se Bianca-”

 

“Bianca è tranquillissima e poi va a dormire da Rosa e Pietro.”

 

“E ci prendiamo anche Francesco per stanotte, così riposi. Che con Bianca sta buono. Purtroppo Melita ha ancora il coprifuoco…”

 

Rosa sembrava quasi sincera nel dispiace, o forse lo era davvero. Per lei Melita era stata a lungo persona non grata, dopo quello che aveva fatto al fratello. Forse però, vedendola così impacciata e sofferente col figlio e con un corpo che ancora non funzionava al cento percento, si era intenerita. Se c’era una cosa che non mancava nella famiglia Calogiuri - a parte la matrona - era l’empatia.

 

“Ma tre bambini, non so se-”

 

“Tranquilla, mamma, puoi andare. Finalmente riusciamo a fare il pigiama party, che Noemi dice che i pigiama party quando c’è Pietro sono bellissimi.”

 

Per poco non si soffocava dalla tosse e non era sola: Pietro, Rosa e Calogiuri ancora un po’ ci restavano e Valentina aveva un’espressione inequivocabile.

 

Mariani li guardò interrogativa, tra una coccola a Francesco e l’altra - il piccoletto da lei non solo si faceva prendere in braccio, ma pure spupazzare, il traditore.

 

Ma mica scemo: c’aveva ottimi gusti fin da piccolo.

 

Noemi stava attaccata a cucinetta ma non troppo - altrimenti Ottavia soffiava - fissandola con un incanto che solo a quell’età si poteva avere.

 

Bianca invece, tra una coccola a Francesco e l’altra, aveva coinvolto Conti in un gioco - probabilmente aveva notato che se ne stava un po’ in disparte.

 

Solo che Conti, con la figlia di Irene, era ancora più imbarazzato che con Calogiuri e gli altri. Quindi Bianca con lui era ancora più gentile e lui ancora più in imbarazzo, in un circolo infinito.

 

“Mamma?”

 

Bianca, appunto, che non capiva il motivo di tutti quei soffocamenti, ma Irene scosse il capo, guardando un po’ dubitativamente sia la figlia che Conti.

 

“Forse è il caso che vada anche io…”

 

Il maresciallo si incolpava dell’esitazione di Irene, pensando che non fosse a suo agio a lasciarlo lì con la figlia.

 

Ma no, i motivi dell’esitazione erano tre e l’aspettavano a casa di Ranieri per cena. Nonostante l’avesse vista parlottare con Valentina e Penelope, sembrava ancora più incerta di quando era arrivata.

 

“Ma no Conti, se non ha da fare resti pure con Mariani. E-”

 

“E tu devi andare,” ribadì Calogiuri, in un modo che la rese orgogliosissima.

 

“Mi state cacciando?” ironizzò Irene, incrociando le braccia.

 

“Sì,” ribadì Imma, imitando il gesto, trattenendo un sorriso.

 

“Mamma, non ti devi preoccupare per me. Se ho bisogno ti chiamo. E poi me lo hai sempre detto anche tu che gli impegni presi si mantengono.”

 

Irene sospirò.

 

“Su cos’è il discorso che devi fare?”

 

Pietro. Del resto la scusa ufficiale era quella.

 

“Bari…” svicolò Irene, dopo un secondo di esitazione. Poi però diede un bacio a Bianca, recuperò il candidissimo cappotto e si avviò rapidamente verso la porta, richiudendola alle spalle.

 

Alla fine la quasi gaffe di Pietro era stata provvidenziale a darle la spinta, pure se mo lui aveva la faccia confusa da ma che ho detto di male?

 

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Forza, forza, ne hai passate di peggio, forza!

 

Per quanto cercasse di convincersi e di fare training autogeno come aveva imparato a yoga, il malessere tale restava.

 

Non essere un malessere!

 

Le parole della figlia di Imma, nel suo slang che faticava un po’ a comprendere - ma avrebbe dovuto imparare, visto che l’adolescenza si avvicinava anche per Bianca - la prendevano in giro.

 

Guardò ancora una volta la porta di quello che era a metà tra un fast food e un ristorante vero. C’era anche un’area giochi ma non era nemmeno troppo infantile, scelto su suggerimento di Valentina stessa e dopo consultazione con Ranieri.

 

Lorenzo non solo aveva una squadra di calcio, ma di tutte le età, e quindi era così difficile trovare un posto neutrale, dove possono andarsene per conto loro se non hanno voglia, ma senza sentirsi trattati da bambini, e poi niente di snob per carità, e cerca di vestirti come una persona normale!

 

Sempre Valentina, non ci era andata giù leggera, infatti era passata da casa a cambiarsi prima di andare al ristorante.

 

Il cappotto bianco restava - quello aveva - ma sotto aveva messo dei jeans neri - eleganti ma pur sempre jeans - e un maglione tra quelli più tranquilli. Sì, era bianco anche quello ma che ci doveva fare se il total white a Bianca piaceva e anche a lei?

 

“Tutto a posto? Cerca qualcosa?”

 

Il ragazzo che stava all’accoglienza aveva aperto la porta.

 

Che figura!

 

“Sì… sono con altre persone, un tavolo prenotato Ranieri, per cinque.”

 

“Ah, sì, sì, sono già arrivati, prego faccio strada.”

 

Il fatto che il ragazzo se li ricordasse così bene, nonostante il ristorante pieno per la festività, le fece temere il peggio.

 

Il tavolo era d’angolo e un po’ riparato, ma non troppo, come aveva chiesto nella prenotazione. Nemmeno si erano avvicinati del tutto che quattro paia di occhi furono su di lei.

 

Il mediano li aveva identici a Ranieri, gli altri due presumeva alla madre - quando aveva avuto il dispiacere di incontrarla li aveva o a fessura o fuori dalle orbite, quindi difficile fare paragoni. Per il resto però, il grande era uguale a Ranieri, il mediano si presumeva alla madre e il piccolo era uno strano mix di entrambi.

 

Ranieri la guardava come per farle forza, gli altri la studiavano incuriosita, a parte il piccoletto, che sembrava effettivamente un po’ spaventato.

 

Sorridi!

 

Valentina e Imma, all’unisono. Provò a tirar fuori il suo sorriso migliore, quello dei grandi eventi.

 

Troppo finto, mica so’ scemi!

 

Imma. Ridusse il sorriso e si avvicinò, cercando di essere neutra ma non truce come il piccolino la riteneva.

 

“Irene!”

 

Ranieri con un sorriso vero, verissimo, nonostante l’apprensione. Si vedeva che ci teneva tantissimo a farglieli conoscere. Il che le faceva piacere ma aumentava anche la pressione.

 

“Ragazzi, questa è Irene, loro sono-”

 

“Angelo.”

 

Asciutto, neutro, peggio di lei sul lavoro. Però aveva fegato il ragazzo, voleva presentarsi da solo, del resto era quasi maggiorenne.

 

Allungò la mano, sperando non fosse sudata e Angelo quasi la stritolò. Si vedeva che sentiva il suo ruolo di fratello maggiore e di guardia del corpo coi più piccoli.

 

“Giovanni…”

 

Il mediano era incerto e rispose alla stretta di mano in modo un po’ tremolante, ma le mani erano asciutte. La studiava più di tutti, come se le leggesse dentro con quegli occhi uguali a quelli del padre.

 

Il piccolo pareva ammutolito e allora, cercando di essere il più gentile possibile gli chiese, “e tu sei Nicola, vero?”

 

Il bimbo annuì e lei sorrise, evitando però di toccarlo. Su quello il training con Bianca da piccola era stato fondamentale.

 

Si sedettero, ancora un po’ in imbarazzo, e ordinarono dei piatti improbabili. Si sforzò di non prendere l’insalata ma un panino, come raccomandato sempre da Valentina.

 

A volte si chiedeva se non ci avesse preso gusto a buttarla totalmente fuori dalla sua comfort zone.

 

Il silenzio paradossalmente si percepiva di più in mezzo al fortissimo brusio di sottofondo.

 

“Allora ragazzi? Eravate così curiosi di conoscerla e ora non dite niente?”

 

“Potrebbe dire qualcosa pure lei.”

 

Per poco non si strozzava con la birra. Angelo aveva proprio un caratterino.

 

“Potrei, ma magari poi vi annoiate. Avrete domande, immagino?”

 

“Ha voglia!” esclamò Angelo, facendo roteare le mani, “ti ricordi di me?”

 

“Solo da alcune foto che aveva Ran- Lorenzo in ufficio. Ma tanti anni fa.”

 

“Ora non ha più nostre foto?”

 

Giovanni con una delusione che le mise addosso tenerezza e panico insieme.

 

“Immagino le abbia ma non lavoriamo insieme. Io sono in procura lui è in un’altra caserma.”


“E a casa niente.”

 

“Volevo la scegliessimo insieme una bella foto da mettere. E poi non ne abbiamo di recenti tutti insieme, Angelo.”

 

“E chissà perché!” ribatté il ragazzo, senza perdere un colpo, “e quindi nient’altro?”

 

“Se intendi quando vostra madre mi ha fatto le poste sotto casa, no, non ti avevo notato, ero nel panico e… mi spiace per quello e per tutto il resto. Capisco che ce l’abbiate con me, soprattutto tu.”

 

Era stata diretta, come le aveva consigliato Valentina, ma sperava di non esserlo stata troppo. Angelo era in contropiede, lo vedeva, ma chissà se era un buon segno.

 

“Almeno non neghi di aver parlato con papà.”

 

“No, noi ci parliamo, ovviamente. Cioè, non è che mi dice tutto di voi - anche se è molto orgoglioso quindi mi parla spesso di voi tre - però… se è qualcosa che riguarda anche me, cerchiamo di non nasconderci le cose.”

 

“Almeno voi!”

 

L’amarezza di Angelo era comprensibile ma per nulla semplice da affrontare.

 

“Ma quindi… ma quindi è vero che avete fatto le corna a mamma? Non ho ancora capito!”

 

Per fortuna non stava bevendo di nuovo. Il piccolino era la bocca della verità, le ricordava un po’ la nipote di Imma.

 

“Io al limite ho fatto le corna, non Irene e-”

 

“A Milano, quando tu non eri nato, lavoravamo tanto insieme e… eravamo amici all’inizio, ma poi ci siamo innamorati. E sì, non abbiamo avuto subito il coraggio di dirlo a tua mamma, ma poi si sono lasciati. Dopo però si sono rimessi insieme e ci siamo allontanati. Anche perché, se vostro padre non fosse stato divorziato, non mi sarei mai infilata di nuovo in una situazione così: una volta mi è bastato e avanzato per tutta la vita. Abbiamo sbagliato ma vostro padre ha sofferto molto e… mi spiace ci siate andati di mezzo anche voi che non avete colpa di niente.”

 

“Sei brava con le parole…”

 

“Ci lavoro con le parole. Ma, come ho detto a vostro padre quando si è rifatto avanti, quello che conta sono i fatti. Non vi chiedo di credermi, o di darmi fiducia, ma di lasciarmi dimostrare con i fatti che magari sono meno peggio di come pensate.”

 

Angelo e Giovanni incrociarono le braccia senza dire altro. Nicolino pareva confusissimo e perso nei suoi pensieri.

 

In quel momento arrivarono i panini e le venne un colpo solo a guardarli: erano enormi. E come si mangiava una cosa così grossa?

 

I ragazzi, persino il piccoletto con il menù bambini, addentarono i loro hamburger prendendoli con le mani, come non avessero fatto altro nella vita. Idem Ranieri. Lei ci provò ma, dopo pochi morsi, un pomodoro si schiantò sul piatto, schizzandole sul maglione non più bianco. Ne seguì uno smottamento dal panino al piatto che non sapeva come ricomporre.

 

I ragazzi risero.

 

“Mi pareva strano che una come te mangiava in un posto così.”

 

“Guarda che ho fatto l’accademia da carabinieri e lì altro che panini! Ma non erano così pieni di tutto, anzi, magari.”

 

Non sapeva come le fosse uscito ma Angelo spalancò gli occhi.

 

“Hai fatto l’accademia?”

 

“Sì, mio padre è un colonnello in pensione. Voleva facessi il carabiniere. Ma quando ho finito giurisprudenza ho deciso di mollare e fare il magistrato.”

 

“Mica scema! Papà dice sempre che non si guadagna niente a fare il carabiniere!”

 

“Si guadagna troppo poco per il valore del lavoro che si fa. Ma anche noi magistrati non è che navighiamo nell’oro. Ma non è questo… è che appunto… sono brava con le parole. E l’ambiente da caserma non mi faceva impazzire, poi erano i primi tempi delle donne carabiniere… e non volevo essere solo la figlia di. Però l’addestramento l’avevo fatto quasi tutto.”

 

“Irene è modesta, ma è più abile in azione di molti carabinieri.”

 

“Ma quindi sai sparare?”

 

“Cerco di evitare di farlo ma sì, ho il porto d’armi.”

 

“E il corpo a corpo?”

 

“Ho fatto arti marziali.”

 

“Allora forse sopravvive a mamma!”

 

Giovanni. Le venne di nuovo da ridere. Angelo scrollò le spalle ma poi annuì. Guardò verso Nicolino, che le stava facendo i raggi x peggio di Imma, quando l’aveva vista per la prima volta.

 

“Ma allora ridi.”

 

“Certo! In tribunale c’è poco da ridere ma… per fortuna nella vita a volte sì.”

 

“Mi… mi fai ancora un po’ paura però… però non mi sembri cattiva.”

 

Le strappò un altro sorriso: Bianca era innocente ma non più così. Come le mancava quella fase in cui si diceva tutto quello che passava per la testa, senza preoccuparsi delle conseguenze!

 

“Ti svelo un segreto: di solito i cattivi veri non sembrano mai cattivi. Se no, se fosse così facile, io e tuo papà saremmo senza lavoro.”

 

“Ma quindi tu sei buona o cattiva?”

 

“Buona con chi se lo merita. Con gli altri… faccio quel che posso.”

 

“E noi ce lo meritiamo?”

 

“Se non mi prendete troppo in giro, se non riesco a mangiare il panino, sì,” le uscì, con tanto di occhiolino, sarà che le sembrava di parlare con Bianca.

 

Il piccoletto finalmente sorrise e gli altri due fecero un mezzo cenno d’assenso tra un morso e l’altro.

 

Non era molto ma era un inizio. Il sorriso di Ranieri e la stretta che le diede al ginocchio sotto al tavolo la rassicurarono che almeno il primo round non era stato un totale disastro.

 

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“Ultimamente sogno spesso di cadere e, quando mi sveglio, mi sento ancora come stessi cadendo, di colpo.”

 

La psicologa aveva messo giù la penna e l’aveva guardata con stupore. Se perché era una delle prime ammissioni che le faceva spontaneamente, o se per il contenuto, difficile dirlo. Ma si era fatta convincere ad andare alla seduta senza Calogiuri - rimasto a casa coi bimbi, sarebbe andato all’orario successivo - e la sua assenza le rendeva più difficile deflettere.

 

O forse le serviva meno?

 

“Ultimamente da quando?”

 

“Da… da dopo l’aggressione.”

 

“Di più o di meno dopo il parto?”

 

“Non lo so… mi sembra di più in generale, più vado in là con i mesi.”

 

“Sognare di cadere significa temere di perdere il controllo. Più che comprensibile, dopo quello che è successo e i mesi ferma a letto. E ora ha molte componenti nella sua vita che non può controllare. Probabilmente col tempo che passa e, a maggior ragione, ora che è uscita dalla modalità di emergenza in cui era entrata durante la gravidanza, l’inconscio si sta facendo sentire di più.”

 

“E che mi vuole dire?”

 

“Che quello che le è successo va affrontato e non ignorato.”

 

“E come dovrei affrontarlo, scusi? In che modo si affronta una cosa così?”

 

“Parlandone, ad esempio, o anche solo permettendosi di pensarci, di capire come ci ha fatto sentire.”

 

“E come vuole che mi abbia fatto sentire, eh?”

 

“Me lo dica lei…”

 

“E che le devo dire? Com’erano le mani di quel maiale? O il coltello? O la paura di… la paura di…”

 

Balzò in piedi, perché il lettino le sembrò scottare, il panico in gola, il battito a mille, le mani sudate. La dottoressa la raggiunse, dandole alcune indicazioni pratiche, secche, su come affrontare quello che era un attacco a tutti gli effetti. Finché il mondo ritornò con i suoni, i colori e gli odori e riuscì di nuovo a respirare.

 

“Devo andare e-”

 

“Aspetti!”

 

La dottoressa l’aveva appena sfiorata ma Imma aveva fatto un salto: si sentiva sensibilissima, nuda.

 

“Il panico è un modo che abbiamo di esprimere un qualcosa che ci teniamo dentro nel profondo, che ci fa star male e che non ci permettiamo di fare uscire. Come i sogni. Che le sia venuto parlandone è normale-”

 

“Ah, che consolazione!”

 

“Non è una consolazione. Ma è un segnale che non va sottovalutato. Di cosa aveva paura?”

 

“Di cosa avevo paura?!” alzò la voce, perché era una domanda talmente e maledettamente idiota, “di cosa avevo paura?! Di tutto!”

 

“Ma in quel tutto qualcosa di sicuro la spaventava più di tutto il resto.”

 

Un’immagine mentale orribile e si sentì ondeggiare, questa volta la dottoressa la prese per le spalle, rimettendola sul lettino ed aiutandola a stendersi, prima di cadere.

 

“Deve dirlo, solo parlandone può liberarsene. Le cose diventano infinitamente più grandi se ce le teniamo dentro. Magari per… per non ferire gli altri.”

 

“Di… di perdere… di perdere…”

 

Non riusciva a dirlo ma sapeva che la dottoressa aveva capito.


“E che lui… che lui vedesse…”

 

“Calogiuri?”

 

“Sì. Che… che lui vedesse me e lei e… e che… che quella fosse l’ultima cosa che… io non…”

 

Si accorse di stare piangendo solo quando la dottoressa le piazzò in mano i fazzoletti, peggio di Calogiuri quando ci si metteva.

 

“E questo era fuori dal suo controllo.”


“E direi! Però… però ho deciso io di andare in bagno da sola, se non l’avessi fatto… non sa quante volte mi sono detta: se non l’avessi fatto! E menomale che non ho… che Vittoria non è… perché se no…”

 

Soffiò il naso, cercando di ritrovare la voce.

 

“Ci sono delle cose che… la morte è meglio.”

 

“Ma non sono successe. E la colpa è solo di chi l’ha aggredita, non di essere andata in bagno, come qualunque donna incinta e-”

 

“E lo so! Ma non è razionale!”

 

La psicologa sorrise.

 

“Appunto. E per questo deve poterne parlare, sfogarsi, senza sensi di colpa verso il capitano.”


“Maggiore.”

 

“Come?”

 

“Sarà maggiore. Tra poco ci sarà la cerimonia in procura.”

 

“E lei pensa di andarci?”

 

Ci ragionò un attimo, poi annuì.

 

“Sì. Non ho paura della procura. Ho paura di… dovrei avere paura di ogni posto allora, anche di casa.”

 

“Ma non ce l’ha.”

 

“No. Sono le persone che mi fanno paura.”

 

“E se rivedesse Romaniello?”

 

Voleva dire una frase d’effetto, di quelle solite, un “sarà peggio per lui!” o un “lo ammazzerei con le mie mani!” ma la verità era un altra.

 

“Non… non lo so. Spero di non doverlo mai rivedere.”

 

“Ma sa che è improbabile, no?”

 

Annuì. E stava proprio lì il problema. Sicuramente ci sarebbe stato un processo e prima o poi…

 

Le veniva da vomitare al solo pensarci.

 

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“Non riesci proprio a stare ferma, eh, dottoressa?”

 

“Ma che non mi conosci?”

 

“Troppo ma mai abbastanza!”

 

“Ottima risposta, maggiore!”

 

Si godette l’esclamazione di sorpresa al pizzicotto sul posteriore - controllo qualità, signor giudice! - e afferrò uno dei vassoi per portarlo a tavola, incurante delle proteste.

 

Già avevano cucinato praticamente tutti tranne lei, figuriamoci se almeno quello non lo poteva fare. E poi aveva messo giusto giusto qualche centimetro di tacco, un inizio, largo per carità e basso, ma un primo ritorno alla normalità.

 

Guardò la tavola, anzi i tavoli, che quello normale non bastava e ne avevano dovuto aggiungere uno da campeggio.

 

Pietro, Rosa, Noemi, Valentina, Penelope. Irene, Bianca e Ranieri. Diana, salita apposta per passare il natale con loro, visto che Cleo sarebbe rimasta a Londra e Capozza era dalla madre di Assuntina. Francesco e Vittoria, in braccio rispettivamente a Melita e a Modesto. E poi, soprattutto, Michele Calogiuri. Il suocero.

 

La signora Maria Carmela, secondo fonti accreditate, si stava passando il natale da sola, a casa, per sua scelta. La parola separazione era stata pronunciata ma solo all’interrogativo. Non era detto avvenisse, anzi, ne dubitava, ma almeno su alcune cose il padre di Calogiuri stava tenendo il punto.

 

La tavola era talmente piena che non ci stava più neanche un cucchiaino da tè, altro che pigiata!

 

Ognuno aveva fatto qualcosa e tra tradizione campana, materana, barese, romana e milanese ci sarebbe stato l’imbarazzo della scelta.

 

Nonostante il casino di Francesco che spesso le voleva stare in braccio, di Vittoria che reclamava il biberon e di Noemi che reclamava tutto il resto del cibo, per una volta si prospettava un natale normale, tranquillo, senza suocere scassambrella, senza drammi, senza ann-

 

“Ehm ehm!”

 

Un tintinnio su un bicchiere. Pietro, le guance paonazze e Imma temeva non fosse solo per il vino.

 

Rosa gli stava dando una gomitata.

 

Andiamo bene…

 

“Ho… ho un annuncio da fare, anzi abbiamo un annuncio da fare!”

 

Eccallà!

 

Ma che problema avevano tutti col natale? Che erano tutti eredi di De FIlippo, che dovevano farci su un melodramma ogni volta?

 

Valentina era sbiancata, peggio del vestito di Irene.

 

“Sei incinta pure tu?”

 

Calogiuri. Che aveva espresso il pensiero di tutti.

 

Pietro per poco non si soffocò dalla tosse, Rosa divenne fucsia.

 

“Ma quindi anche mamma ha cucinetta???”

 

Nonostante tutto, scoppiarono a ridere. Tutti tranne Valentina e i diretti interessati.

 

“Ma no che non sono incinta! E poi sarebbe un fratellino o una sorellina al massimo, Noé. Poi ti spiego a casa, va bene?”

 

Noemi sembrava sull’orlo di protestare ma Valentina fu più veloce, “ma allora cos’è sto annuncio?”

 

“No, è che… visto che tu, Valentì, e pure voi, mo ve ne andate al nord e qua a Roma non ci resta nessuno di famiglia… e io tengo il mio posto in regione - che un altro lavoro così quando mi ricapita! - insomma… ho chiesto a Rosa se vuole venire a vivere con me a Matera. E con Noemi ovviamente. Anzi, Noemi, ti va di tornare a Matera?”

 

Noemi strabuzzò gli occhioni, in modo degno del resto della famiglia.

 

“Al presepe? Bello bello ma…. ma e Giulia e Ludovica e Pamela e?”

 

“Eh sì, dovrai cambiare asilo ma… ma conoscerai tante altre amichette nuove. E poi c’è Assuntina, no?”

 

Diana sorrise.

 

“E io?”

 

Bianca.

 

Se avesse potuto, l’avrebbe strozzato a Pietro.

 

Anche Irene era nera. L’avrebbe dovuta preparare prima, almeno.

 

“Ma puoi venire a trovarci quando vuoi. Casa nostra è sempre aperta.”

 

“E poi ti farai altre amicizie qua, adesso che andrai a scuola,” provò ad abbozzare Irene, mentre Ranieri toccava una spalla alla piccoletta.

 

“E anche a Milano un posto c’è sempre, che ti credi? Che come curi tu Francesco, nessuna!”

 

Il suo intervento era servito, perché Bianca sorrise, per poi aggiungere, non perdendo un colpo, “e magari ora che ci saranno meno bambini a cui fare da babysitter… potete pensarci per il fratellino?”

 

Se Irene e Ranieri non finirono sui necrologi fu solo per il pronto intervento di Modesto e di Calogiuri. Pure se si erano scambiati uno strano cenno d’intesa.

 

Rispetto agli altri natali, tutto sommato, quello era stata una pasqua, proprio.

 

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“Spero non lo consideri corruzione!”

 

E che le doveva dire? Accettò il pacchettino dalle mani di Chiara e salutò anche Andrea e una Barbara molto incinta.

 

“Non dovevate!”


“Giusto un saluto, ma qualcosa ve la dovevamo portare.”

 

Fu lì che l’occhio le cadde sulla mano sinistra di Barbara e su un anello enorme.


“Ma è quello che penso?”

 

“Sì!”


Andrea era orgogliosissimo, quasi ai livelli di Calogiuri con lei.

 

“Congratulazioni!”

 

Altro giro di baci e abbracci e poi si unirono tutti alla combriccola nella zona giorno. I bambini stavano giocando con i regali appena ricevuti.

 

“Ma anche lei ha cucinetta?”

 

Noemi come aveva visto il pancione si era illuminata.

 

“In un certo senso… sarà o cuginetto o cuginetta di Valentì e di Vittò, pure se di grado un poco più distante,” provò a spiegare, ma mica era facile.

 

“Ah… ma allora non è mia cucinetta?”

 

“Può essere quello che vuoi, tanto qua siamo tutti imparentati ormai!”


Andrea e sì, coi bambini era proprio bravo e si vedeva da come Noemi gli sorrideva, nonostante lo avesse conosciuto durante alcuni dei momenti più traumatici della sua breve esistenza.

 

Approfittò della tornata di congratulazioni e saluti per ritirarsi un attimo verso la cucina. Passi inconfondibili.

 

Calogiuri.

 

“Sono stupito della tua resistenza dottoressa. Non fisica per carità, ma che non stai già cacciando via tutti.”

 

Sì, la conosceva alla perfezione.

 

“Presto saremo a Milano e dubito ci sarà così tanta gente alle prossime ricorrenze. E poi è il primo natale di Vittoria e direi che se lo sta proprio godendo.”

 

Vittoria adorava le attenzioni, tranne quando voleva solo lei e il latte, e poi i bambini le piacevano, si vedeva.


Lato Calogiuri quello.

 

“Però a pasqua stiamo tranquilli e soprattutto… e soprattutto abbiamo capodanno, signor maggiore.”

 

La tosse compulsiva di Calogiuri attirò l’attenzione di Noemi. che corse a riprenderselo, per coinvolgerlo in uno dei loro mille giochi.

 

Ma il maggiore aveva capito eccome e continuò a lanciarle sguardi che promettevano non bene ma benissimo.

 

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“Imma, che fai?”

 

“Shhhh, che se si svegliano le creature stiamo freschi!”

 

Erano le 21.30 del 31 dicembre. Vittoria e Francesco avevano ceduto al sonno dopo poppate, coccole e quant’altro e si era ritrovato trascinato in camera.

 

Una parte di lui non voleva fare altro che prendere Imma e buttarla sul letto. Un’altra si vergognava di Modesto che stava a pochi passi da loro, seppure oltre una porta e un corridoio.

 

Ma altro che buttarsi: sul letto c’era steso un completo giacca, pantaloni e camicia che non aveva mai visto prima.

 

“Ma?”

 

“Spero di averci azzeccato con le misure… che, con il periodo di carestia, ti ho visto fin troppo vestito e non va bene.”

 

“Ma?”

 

Imma, per tutta risposta, iniziò a levarsi la tutona a forma di orsacchiotto che aveva messo per la serata - era stato convinto l’avesse fatto per aiutarlo a resistere fino a mezzanotte.

 

Ma sotto… sotto…

 

Deglutì così forte che gli sembrò rimbombare nella stanza.

 

La camicia da notte fucsia, quella cortissima e con quegli spacchi… che il minimo di pancia residua rendeva ancora più corta e il seno gonfio di latte ancora più scollata.

 

Le guance si scaldarono subito - e non solo quelle - ma la vide aprire l’armadio ed iniziare ad infilarsi dei vestiti.

 

Quando li riconobbe, non riuscì a trattenere un sussulto.

 

“Ma… ma…”

 

“Francesco sa pronunciare più sillabe di te, Calogiuri…”

 

E sì, mo era arrossito del tutto, la saliva che gli era andata di traverso e non solo per il paragone ma perché…

 

“Ma è… è come eri vestita…”

 

“La sera della nostra prima cena a Roma, sì.”

 

Quel maglione rosso, quella gonna, li avrebbe riconosciuti ovunque. Il cappotto stava all’ingresso.

 

Fece per avvicinarsi ma la mano di Imma allo sterno lo bloccò.


“Ti devi vestire, Calogiù, dobbiamo andare o facciamo tardi.”

 

“Tardi per cosa?”

 

“Lo vedrai. Ma è capodanno… un poco di immaginazione, maggiore, eh su! Se no mi tocca chiamarti ancora capitano.”

 

“Cioè tu… tu vuoi che ora usciamo?”

 

“Sì, Calogiuri, sì. Va bene che le criature strillano, ma i timpani una controllatina…”

 

“Cioè tu vuoi che usciamo mo che so che sotto…”

 

Si bloccò, perché un pensiero assurdo si fece strada e il calore divenne il Sahara.

 

“Ma… ma sotto… sotto eri così pure quella sera?”

 

“E chi lo sa, Calogiù? Se fossi stato meno imbranato, forse l’avresti scoperto, in tutti i sensi, ma ormai-”

 

Non le fece finire la frase, intrappolandola tra il suo corpo e l’armadio, sussurrando, “mi sembra che non ero l’unico imbranato. Eri così imbarazzata, eravamo così imbarazzati… Quanti litri di vino hai bevuto quella sera?”


“Non abbastanza. Ma mo l’imbarazzo è passato quindi…”

 

Imma gli svicolò letteralmente tra le mani, avvicinandosi alla porta, per poi ordinare, con tono marziale, “vestiti, Calogiuri, è un ordine!”


Sospirò: sapeva di non avere alternative e poi, nonostante l’istinto gli urlasse di non uscire da quella stanza, anzi, era curioso di sapere dove voleva andare a parare.

 

E allora si spogliò, lentamente, cercando di tentarla, ma Imma col cavolo che cedeva, testarda come al suo solito, o forse pure di più.

 

Fece appena in tempo ad allacciare l’ultimo bottone della camicia e a sistemare meglio il colletto della giacca, quando venne trascinato fuori a forza.

 

Chissà se ci sarebbe arrivato all’anno nuovo.

 

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La fuga d’amore ai tempi della scorta era una fuga sì, ma pur sempre prudente.

 

Il toscano ed altri due agenti li avevano accompagnati. Lo imbarazzava quello a cui stavano probabilmente pensando - oltre al fatto che dovevano lavorare anche all’ultimo dell’anno.

 

Ma Imma, che il cuore l’aveva grande quanto proletario, nonostante fossero in un hotel che per i loro standard era di lusso, aveva preso una junior suite - che di junior aveva solo il nome - anche per gli agenti, promettendo che avrebbero avuto il cenone in stanza.

 

Poi l’aveva trascinato nella loro di suite con un “non ti ci abituare, Calogiù, che Chiara qua mi ci ha messo una buona parola e spero non c’avremo sempre la processione appresso!”

 

Fosse stato per lui, sarebbe anche bastata una stanzetta - e nemmeno necessariamente un letto, se non per il fatto che l’equilibrio di Imma non era ancora tornato al cento percento.

 

Ma c’era un salone bellissimo con un tavolo apparecchiato. E, dopo poco, arrivarono dei camerieri con un carrello pieno di vivande, coperte da quelle specie di campane di metallo.

 

Era dai tempi del disastro a Milano con Irene che non vedeva niente di simile.

 

Imma buttò il cappotto su una delle poltrone e prese posto al tavolo, facendogli segno di fare lo stesso.

 

“Vuoi davvero mangiare?”

 

“Se voglio mangiare, Calogiù? Senza bimbi e animali che mi si arrampicano ovunque? Ma secondo te? E poi vorrò anche dormire, ma otto ore tutte filate, guarda!”

 

La capiva eccome, perché anche lui era stanco e non era a un decimo del carico che aveva lei. E pure lui c’aveva fame, che per la maggioranza del tempo dovevano trangugiare qualcosa di corsa.

 

Però… una parte di lui… una cosa aveva in mente e non se ne voleva andare via.

 

Che fai il maniaco?

 

La voce di Irene che lo sfotteva. Ma cambiava poco.

 

Il cenone non fece altro che peggiorare la situazione. Frutti di mare, crudi e cotti, che Imma ripuliva con le mani in un modo che… doveva essere fatto apposta: non poteva credere non lo stesse facendo apposta.

 

“E dai, Calogiù, mangia! Per una volta che ho tirato il latte e posso mangiare quasi tutto quello che voglio, mica mi vorrai lasciar fare tutto da sola, no?”

 

Era un doppio senso? Doveva essere un doppio senso!

 

O era lui che era veramente diventato peggio di Carminati?

 

Ma quella camicia da notte… quella benedetta e maledetta camicia da notte!

 

E poi quei vestiti: quante volte aveva sognato, soprattutto prima della loro storia - ma a volte anche durante - di aver preso coraggio davanti a quell’hotel, averla raggiunta e aver fatto l’amore con lei, fino a scordarsi di tutto.

 

Rivederla così, come quella prima cena, ma senza alcun imbarazzo, anzi, sicura come era e sarebbe sempre stata, che lo guardava in quel modo, come se si volesse mangiare pure lui, era un regalo e una tortura.

 

“Imma…”

 

“Imma che? Ci hanno dato pure il caviale. Vuoi buttare il caviale? E apriamo sto champagne, che almeno un paio di bicchieri stasera me li bevo, tanto la piccoletta domani c’ha la fonte alternativa. E con le ostriche e il caviale ci va a nozze. Non ti ci abituare, eh, mi raccomando, che dall’anno prossimo al massimo uova di lompo e cozze gratinate! Anzi, devo chiedere la ricetta a Chiara.”

 

Gli venne da ridere, nonostante tutto, ed aprì la bottiglia e ne bevvero. Era buonissimo davvero, nulla che si sarebbero mai permessi normalmente, ma ad ogni sorso i freni inibitori calavano ed Imma non faceva nulla per aiutarlo, anzi. Il maglione, di solito abbondante, a causa dell’allattamento era attillato ed Imma continuava ad aggiustarlo. Per il caldo, diceva lei, ma il caldo ce l’aveva lui mo.

 

La cena finì con uno zabaione - caldissimo pure quello - che i camerieri portarono dopo aver rimosso il carrello e i piatti del pesce.

 

“Imma!”

 

Più che un urlo un ruggito, quando vide il dessert, e lei rise, mangiandoselo in un modo che era da istigazione a delinquere, come avrebbe detto lei.

 

“Imma…”


“E che non lo mangi lo zabaione? Dai che ti fa bene, tutta salute!”

 

“Te la do io la salute!”

 

Si alzò e provò a baciarla, da oltre al tavolo, ma si trovò spinto all’indietro e, tra il vino e qualsiasi alcolico ci fosse nello zabaione, ricascò sulla sedia come un cretino.

 

“Calogiuri… i quaranta giorni non sono ancora finiti. Che vuoi farmi correre rischi anzitempo? Anzi, forse è meglio essere prudenti e abbondare anche dopo la mezzanotte. Almeno fino ai minuti precisi del parto, ma pure dopo!”

 

Sapeva che lo stava sfottendo, che gliela stava facendo pagare per tutte le sue paranoie durante e dopo la gravidanza, per i suoi due di picche, sofferti ma volontari.

 

“Imma…”

 

“Beh, che c’è? Mica vorrai mettermi in pericolo! La salute prima di tutto, Calogiuri!”

 

“E la mia è molto, ma molto a rischio, dottoressa. Vuoi farmi pigliare un colpo?”

 

“Sempre!” proclamò, pulendosi le labbra con una cura che era come gettare benzina sul fuoco, per poi balzare in piedi e proclamare, “che possiamo fare mo fino a mezzanotte?”

 

“Io un’idea ce l’avrei, dottoressa…”

 

Ma Imma lo ignorò, si avvicinò a un impianto stereo e video - che costava probabilmente come casa loro - e lo collegò al cellulare.

 

Fece partire la musica e le note di L’emozione non ha voce riempirono la stanza.

 

E la voce era andata, sparita, muta. Non sapeva se fosse più la voglia di abbracciarla, la commozione, o altro. Quando si trovò in un lento, le braccia di Imma intorno al collo come da troppo non succedeva, se la strinse più forte che poteva senza farle male.

 

Continuarono a ballare, Imma sulle punte per compensare le scarpe più basse, aggrappata al suo petto in un modo che non faceva altro che sottolineare le curve molto pericolose che aveva acquisito.

 

Il cuore in gola, partì la seconda canzone e riconobbe anche quella. Si bloccò per un attimo, staccandosi leggermente per incrociare gli occhi di Imma, che brillavano tra il commosso e il soddisfatto.

 

“Ma è… ma è la playlist che…”

 

“Che mi preparasti per il mio primo viaggio senza di te, dopo il trasferimento a Roma. Ogni tanto la ascolto, quando tu sei impegnato… la piccoletta se n’è fatta una scorpacciata quando stava nella pancia e tu eri al corso, o in giro, e dovevo stare rilassata.”

 

Le guance gli pizzicarono e pure gli occhi, almeno finché due labbra salate sulle sue non gli levarono fiato e pensieri.

 

Un bacio dolcissimo, come i loro primi baci - tranne il primissimo - quando rubavano qualche minuto in più alla pausa pranzo, per stare insieme in qualche angolo sperduto tra la murgia e le campagne lucane.

 

E non serviva loro altro, anche se non bastava mai.

 

La sensazione era esattamente quella, mentre continuavano a ballare e a baciarsi, ridendo come ragazzini e fermandosi ogni tanto solo per recuperare ancora un po’ di champagne, rigorosamente a canna, alla faccia di chi se lo beveva di solito.

 

Loro non erano nati per quello. Nel loro mondo lo champagne, il caviale, le ostriche e tutto quello che avevano mangiato quella sera manco li potevano cominciare a concepire.

 

Forse per quello avevano la stessa fame, la stessa voglia di prendere a morsi la vita e, nonostante a loro nessuno regalasse mai niente, avevano imparato insieme a godersela ogni tanto.

 

Luci colorate negli occhi, dietro le palpebre mezze chiuse, e gli ci volle un po’ per rendersi conto che non era un’allucinazione - per il pochissimo sangue in circolo - ma che, insieme ai botti, era arrivata la mezzanotte, l’anno nuovo.

 

“Auguri, Calogiuri!”

 

Un soffio che suonava più che altro come una minaccia. Alla sua incolumità.

 

“Imma…”


“C’hai proprio poche sillabe stasera, Calogiù!”

 

Gli uscì un ruggito ma la risata di lei lo coprì e si sentì spingere indietro, sempre più indietro, sempre più indietro. Imma avanzava implacabile e lui non ci capiva più niente, finché si trovò a cascare sul morbido, Imma spalmata addosso, ovunque.

 

Il divano.

 

Altro che tenerezza! Mo i baci lo mandavano a fuoco e le mani di Imma sulla pelle, come era da una vita che non succedeva, e le sue che cercavano disperatamente di levarle il maglione troppo stretto. E quella morbidezza che gli era mancata più dell’aria, e la pelle d’oca sotto i polpastrelli, e poi la sua, il mondo che si ribaltava e finalmente gli riusciva di intrappolarla tra sé ed i cuscini, e tutto a fuoco e sfocato, i polmoni che bruciavano ed un urlo che non era il suo, ma poi lo era, o forse no.

 

Silenzio.

 

Respiri affannosi, la testa che girava, la vista a macchie, caldo, freddo, un bacio umido.

 

Le orecchie gli si stapparono di colpo, il volto di Imma che ondeggiava ancora, gli occhi chiusi, le labbra serrate tra i denti.

 

“Im- Imma!”

 

Gli si gelò il sangue, un brivido lungo la schiena, rendendosi conto solo in quel momento di tutto quello che aveva combinato, di-

 

“Ti ho fatto male?!”

 

Un rombo e poi una risata, fortissima, il petto che continuava a vibrare, mentre Imma si contorceva sotto di lui ma dalle risate, coprendosi gli occhi ed asciugandosi le lacrime che infine gli riusciva di vedere.


“Imma?”

 

“È proprio come la prima volta, Calogiù!”

 

Al gelo subentrò il caldo, l’imbarazzo, sia per il ricordo, sia per la figura appena fatta e-

 

Un bacio, poi un altro e due dita a zittirlo, pure quando le labbra furono libere.

 

“Sta zitto, Calogiuri, zitto. E non t’azzardare mai a cambiare, capito?”

 

Riuscì appena a sussurrare un rochissimo “agli ordini, dottoressa!”, che un’altra ondata di freddo e… bagnato? gli investì il petto.

 

Si sollevò leggermente ed abbassò lo sguardo, notando che la fonte del problema era proprio… la fonte.

 

Avevano tutti e due il petto allagato di latte.

 

La pelle gli diventò rossa come quella di un peperone, mentre si guardava intorno, cercando qualcosa per rimediare, ma la risata di Imma, di nuovo, lo bloccò.

 

“Se Vittò sapesse di tutto questo spreco, t’ucciderebbe, Calogiù. Ma noi non glielo diciamo, anche perché, se no, altro che traumi e servizi sociali!”

 

Gli andò di traverso la saliva, Imma che si divertiva un mondo, imperturbabile come solo lei sapeva essere, “per non parlare di Ottavia, se vedesse tutto sto casino. A casa dobbiamo stare attenti! Anzi, visto che qua il bagno lo possiamo… profanare… risparmio energetico? Che dobbiamo recuperare gli arretrati con molta, ma molta più calma. E qua ci sta pure la vasca…”

 

Sospirò: sì, voleva proprio fargli scoppiare le coronarie.


“Non cambi mai nemmeno tu, dottoressa!” proclamò, prima di alzarsi e prenderla in braccio, godendosi il suo urlo di sorpresa.

 

“Almeno stavolta i pantaloni li hai levati!”

 

Risero, ricordando quando per poco ci era inciampato con lei in braccio, tra la prima e la seconda volta. Cercò insieme a lei il bagno, non riuscendo a smettere di ridere, tentando di capire come funzionava quella vasca, che in confronto i comandi di un caccia militare probabilmente erano più semplici.

 

La vita con Imma non lo era mai stata.

 

Ma era proprio per quello bellissima. Anzi, bellissime.

 

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“Mmmmm…”

 

Si sentiva molle, sciolta nell’acqua e tra le braccia di Calogiuri, che la stringeva con quella dolcezza solo sua, mentre le solleticava la fronte, gli occhi e il viso di baci.

 

Ne era valsa proprio la pena di aspettare e di prendersi la rivincita sulle paranoie di Calogiuri!

 

Ecchecavolo!

 

Solo che mo la stanchezza ed il sonno arretrato cominciavano a farsi sentire. Sbadigliò, contagiando anche lui.

 

Il suo micino sonnacchioso. L’originale.

 

“Andiamo a letto, dottoressa? Prima che ci prendiamo un accidenti…”

 

“Mmmm…”

 

Non ne aveva voglia, per niente: avrebbe voluto fare il tris e pure il quater, fino alle postille più minime, ma le forze non c’erano.

 

“E va bene! Ma solo perché siamo fuori allenamento. Non ti ci abituare, signor maggiore, che non solo dovrai tenere alto il titolo, ma chi fa l’amore a capodanno…”

 

“Avrà bisogno dei ricostituenti?”


“Anche!”

 

Uscirono insieme dalla vasca, si infilarono in due accappatoi morbidissimi e si lasciò sollevare, fluttuando in una nuvola soffice, atterrando su un letto che lo era ancora di più.

 

Tra uno sbadiglio e l’altro, gli occhi che le si chiudevano, si abbracciò a lui sotto le coperte e gli piantò un bacio sul cuore, prima di dover cedere le armi.

 

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WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

MEEEEEOOOOOOOOOWWWWWWWWWWW

 

WEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE

 

Due piccoli umani e una gatta che superavano ogni decibel proponibile.

 

I vicini sicuramente sarebbero stati ben felici del loro trasloco.

 

Mollò il cappotto all’ingresso, facendo segno a Modesto che era tutto ok e di non preoccuparsi, godendosi l’abbraccio di Calogiuri da dietro, per non parlare del rapido bacio sul collo che le diede quando il fratello si girò.

 

Melita, che stava intrattenendo Francesco, mentre Modesto tornava da Ottavia e Vittoria, aveva due occhiaie da far spavento. Modesto di più.

 

Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, lo sapeva, ma dopo otto ore di sonno, il profumo del costosissimo bagnoschiuma dell’hotel ancora nelle narici e i muscoli piacevolmente indolenziti, sarebbe potuto crollarle in testa il soffitto e non le sarebbe importato.


Con un sorriso che non voleva saperne di levarsi dal viso - e che si guadagnò l’imbarazzo di Modesto e un’occhiata da ah però! di Melita - si avvicinò ai pargoli, non protestando nemmeno quando cominciarono la loro scalata, chi verso il suo collo, chi verso la fonte. Ottavia li separava per proteggere la sorellina e il suo pasto.

 

Ormai il latte doveva essere senza alcol - ci mancava solo il cocktail alla piccoletta e poi chi la fermava più?

 

Nel frattempo che si stendeva e la attaccava, lanciò un’altra occhiata di intesa a Calogiuri, anche lui con quel sorriso bellissimo che Diana definiva ebete ma che la rimetteva sempre in pace col mondo.

 

Era una promessa: certo le serate sarebbero state piene e non potevano allontanarsi troppo spesso. Ma rimanevano le giornate e mentre Vittoria dormiva, Francesco recuperava con Melita e Ottavia… faceva Ottavia, magari qualche altra libera uscita ce la potevano avere. O fare più… pisolini… sempre se non traumatizzavano Modesto.

 

Si fece una nota mentale di comprargli delle cuffie con cancellazione del rumore, con la scusa che fossero per i pargoli, poi le usasse come e quando voleva.

 

Lei e il maggiore dovevano fare lavoro di squadra, rimettersi in forma adeguatamente e niente e nessuno glielo avrebbe impedito.

 

Ecchecavolo!

 

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“Calogiuri, Ippazio.”

 

Per quanto fosse assurdo chiamarlo sul palco, visto che la premiazione era solo sua, fu lo stesso una grandissima emozione vedere Calogiuri in uniforme raggiungere i due generali - quello già conosciuto in precedenza e la generalessa che gli aveva annunciato la promozione - e assistere mentre consegnavano a Calogiuri le mostrine da maggiore.

 

“Per l’eccellente lavoro investigativo ed il contributo dato ai recenti maxiprocessi a Milano e a Roma. Per la brillante gestione del sequestro del sostituto procuratore Immacolata Tataranni. Per le doti di leadership, anche in situazioni di crisi, mostrate non solo durante il corso, ma sul campo, la nomino maggiore, con incarichi di comando.”

 

Calogiuri si mise ancora di più sugli attenti e al “riposo” ordinato dalla generalessa strinse la mano ad entrambi. Poi si voltò, tra gli applausi dei presenti - praticamente tutta la procura tranne Carminati - Mariani che era commossa e Conti ammirato, Irene quasi più emozionata di lei e Mancini sorridente.

 

Proprio in quel momento, quando gli occhi di Calogiuri incontrarono i suoi, si sentì un grido, uno solo, acuto ma gioioso, come un festeggiamento.

 

Vittoria, dal suo marsupio leopardato, che agitava braccina e gambine e gorgogliava felice, mentre la sala scoppiava a ridere, nonostante la solennità del momento.

 

“Credo voglia farle le congratulazioni, maggiore!” esclamò il generale e Calogiuri aveva gli occhi più lucidi che mai, mentre guardava entrambe con un amore che a volte le sembrava ancora impossibile, “vada pure a raggiungere le sue donne.”

 

“In realtà sono io che sono di loro proprietà, signor generale,” ribatté in un modo che sì, al ritorno a casa avrebbe mandato Modesto a farsi una passeggiatina con pargoli e scorta e lo avrebbe sistemato per bene.

 

“La fama della sua intelligenza è proprio ben meritata!” commentò la generalessa.

 

Calogiuri si congedò e le si avvicinò, con una sicurezza che una volta non avrebbe mai avuto, ma quel residuo di timidezza negli occhi che la fregava sempre.

 

Se lo abbracciò, incurante delle proteste della piccoletta, e gli piantò un bacio. Calogiuri ricambiò e poi prese Vittoria, facendola saltellare in braccio, bellissima e felicissima nel completo blu e rosso che le aveva preso per l’occasione e che ricordava un po’ una tuta dell’Arma.

 

Per un giorno, in fondo, poteva accantonare l’animalier. Lei no, ovviamente, al leopardato non ci avrebbe mai rinunciato.

 

Gli prese le mostrine, mentre lui si godeva loro figlia e la presentava a tutti quelli che ancora non l’avevano vista, con un orgoglio infinito.

 

Ad un certo punto fu il turno di Mancini e ci fu uno sguardo imbarazzato, ma poi Calogiuri disse alla bimba, “e questo è il dottor Mancini. Uno di quelli che ha aiutato papà ad avere la promozione. Però se si avvicina troppo a mamma puoi strillare.”

 

Mancini si toccò la nuca, a lei venne da ridere, Vittoria gorgogliò ma si guardò Mancini con un sorrisone e agitò braccina e gambette verso di lui.

 

“Mi sa che Vittoria vuole andare in braccio al dottore…” commentò, perché era vero e poi non poteva resistere.

 

Calogiuri le guardò con un tu quoque?

 

“Ne sarei onorato ma… non so se il padre è d’accordo e… non è che ha preso dalla vostra micia, vero?”

 

“Chissà… per scoprirlo deve rischiare, dottore.”

 

Un ultimo sguardo tra Calogiuri e Mancini che era un attento a te! e un non mi uccida! e Calogiuri gli porse Vittoria. La piccoletta, che scema non era per niente, gli si aggrappò al costosissimo completo e lanciò altri urletti, mentre si faceva cullare e coccolare.

 

“Le piace proprio, dottore.”

 

Calogiuri non sembrava per niente entusiasta all’idea, almeno finché non intervenne Irene con un “non sarai geloso pure di lei adesso!” e gli fece l’occhiolino.

 

Fu il turno di Mariani e Conti. Mariani e Mancini si scambiarono un’occhiata che… non ci covava solo una gatta ma un’intera colonia felina. Ma Calogiuri non parve accorgersene, né dell’imbarazzo di Mancini, né del sorriso sognante di Mariani, mentre Irene, ovviamente…

 

Si erano capite. Del resto alla ex gattamorta nulla sfuggiva, da sempre.

 

“Avremmo… avremmo pensato a una piccola festa per te con i colleghi… una di queste sere, quando puoi, finiamo presto…” esordì Conti, che con Calogiuri ancora andava coi piedi di piombo.

 

“Ma avete visto anche voi com’è la situazione a casa e-”

 

“E a casa ce la caviamo benissimo per stasera. Andate pure a festeggiare, che te lo meriti e, pure se mo sei padre, mica c’hai ottant’anni. Vittò, vero che gliela diamo la libera uscita a papà?”

 

Vittoria, felice come una pasqua nell’incavo del braccio di Mancini, si esibì in un gridolino di approvazione.

 

Calogiuri esitò, ma Imma gli sussurrò un, “dai, che rimani sempre il suo preferito e pure il mio. Ma mo vai a festeggiare o a casa non ci torni!” che lo fece sorridere e sospirare un “agli ordini, dottoressa!” affettuoso quanto rassegnato.

 

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“Che c’è?”

 

Irene l’aveva accompagnata fino all’ingresso della procura, seguite dalla scorta che le sorvegliava a distanza di sicurezza. Ma aveva una faccia che non prometteva niente di buono.

 

“Senti… forse sarebbe stato meglio dirtelo con anche Calogiuri presente ma… ma forse no. Hanno fissato la prima udienza per il nuovo processo a Romaniello.”

 

Un macigno nello stomaco e nel cuore. Vittoria, sensibilissima come sempre ai suoi sbalzi d’umore, aveva iniziato a piangere.

 

“Shhh… shhhh…” provò a consolarla, mentre in realtà cercava di far forza a se stessa, ma non era facile.

 

“Niente rito abbreviato?”


“No… Romaniello vuole tutto il processo…”


“Sì, così ha la scusa delle udienze per uscire dal carcere almeno qualche ora e divertirsi un po’, secondo la sua idea di divertimento.”

 

“Ovviamente sarà sorvegliato a vista, blindato, e anche tu se…”

 

“Figurati se non mi chiameranno a testimoniare!”

 

“Se l’avvocato non è scemo non lo farà ma-”

 

“Ma il pubblico ministero potrebbe volerlo fare. E, in ogni caso, Romaniello di ciò che gli conviene se n’è sempre fregato, da un certo punto in poi. Ormai non pensa di avere nulla da perdere.”

 

“Comunque faremo di tutto per evitarlo, Imma. Il PM… il PM sono io e non ti chiamerò al banco, se tu non lo vuoi.”

 

Sapeva che era sincera. Ma sapeva anche che non era così facile.


“Hai fatto bene a parlarmene senza Calogiuri, ci devo riflettere…”

 

“So che vai in terapia e… insomma… l’udienza è a marzo, sarete già a Milano. Conoscendoti, magari sarai pure già rientrata al lavoro ma… volevo darti il tempo di metabolizzare.”

 

Non era da Irene essere così incerta e incespicante, proprio per niente.

 

La sola idea di rivedere quel maiale… Vittoria strillò ancora più forte, esprimendo tutto quello che non le sarebbe forse mai riuscito di far uscire.

 

Altro che terapia!

 

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“Cominciate ad andare in macchina? Modesto, la prendi tu?”

 

“C-certo!”

 

Modesto si mise il marsupio leopardato con una velocità da primato, ci infilò Vittoria e seguì Melita, Francesco e la scorta oltre la porta di ingresso. Ottavia, nella sua gabbietta, soffiava in lontananza.

 

Silenzio.

 

Quell’appartamento non era mai stato silenzioso, ma proprio mai e, soprattutto dopo gli ultimi mesi, le sembrava così surreale.

 

Le suppellettili quasi tutte inscatolate, buchi qua e là per le cose che si sarebbero portati a Milano, tra quelle che invece non si adattavano alla casa nuova e avrebbero quindi lasciato ai padroni di casa, in cambio di una riduzione sui mesi di uscita.

 

“Imma…”

 

Si sentì abbracciare, forte forte, il mento di Calogiuri sulla spalla, il respiro sulla nuca, mentre si concedeva un attimo di commozione.

 

“Sembra ieri… che abbiamo scelto insieme questi mobili, che li abbiamo montati, che… eravamo così… folli… così felici, così spensierati… non ci posso credere che non ci torneremo mai più qui.”

 

“Dai, che la statua del leopardo viene con noi,” ironizzò, facendole solletico all’orecchio, e le venne da ridere e da piangere insieme.

 

“Almeno quella! Ma… ma sono successe così tante cose in queste stanze e… ce le avrò sempre nel cuore.”

 

“Anche io, ma tutte quelle cose sono successe con te e mo con Vittoria e… e so che sarete sempre con me, dovunque andremo a finire.”

 

Eccallà! Le dichiarazioni di Calogiuri non si erano esaurite mo che era padre, anzi.

 

Si voltò nell’abbraccio e poggiò la fronte su quella di lui, perché sì, era uno di quei momenti in cui ce n’era bisogno.

 

“Vedremo… se ti comporti bene, maggiore, mannaggia a te!”

 

Un bacio e poi un altro, si avviarono insieme verso la porta.

 

Un ultimo sguardo a tutta quella felicità che lasciavano indietro, per costruirne una si sperava ancora più grande.


“Ciao Roma, sei proprio la città più bella del mondo, mannaggia pure a te!”

 

E la Città Eterna rispose, come nel suo stile, con una strombazzata di clacson da manuale e qualcuno che ce se mannava per strada.

 

Pure quello le sarebbe mancato!


Nota dell’autrice: Ed eccoci qua alla fine di questo ottantaquattresimo capitolo e della vita romana di Imma, Calogiuri e della loro famiglia. Un capitolo in parte natalizio ma che getta le basi per quello che succederà nei prossimi, tra una nuova vita, traumi da risolvere, un bel po’ di giallo e alcuni accadimenti che ci porteranno verso la fine di questa storia. Ormai mancano pochi capitoli e spero continuino a mantenersi interessanti, nonostante tutte le cose che ci sono da chiudere. Ma ci saranno anche diverse novità, tra una battuta finale e l’altra.

Ringrazio tutti voi che mi avete letta fin qui: grazie per le vostre recensioni, i vostri commenti e messaggi che mi danno sempre lo stimolo a proseguire e cercare di fare il massimo. Sia i vecchi lettori che ormai da anni mi accompagnano, sia quelli nuovi che si sono fatti una scorpacciata per recuperare tutto. Grazie di cuore!

Grazie anche a chi ha messo questa storia nei preferiti o nei seguiti.

Approfitto della data per augurarvi un buon natale e di passare buone feste con le persone che amate.

Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare domenica 14, in caso di ritardi vi avviserò come sempre sulla pagina autrice.

Grazie ancora!

 
   
 
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